“I medici nazisti erano delle belve quando fecero ciò che fecero? O erano degli esseri umani?”: è questa la domanda a cui si propone di rispondere questo libro, un’inchiesta sconvolgente che ha aperto una prospettiva inedita sul Terzo Reich e le sue perverse atrocità. Basata su interviste a vittime e carnefici dei lager, la ricerca di Lifton penetra con rara incisività i meccanismi psicologici che hanno reso possibile nei medici nazisti la sostituzione del dovere di guarire con quello di uccidere. Dai ritratti di medici come “l’angelo della morte” Joseph Mengele alla descrizione dei macabri esperimenti compiuti nei campi di sterminio, l’autore ricostruisce con chiarezza il processo che ha portato uomini normali a compiere atti disumani e a legittimare il genocidio degli ebrei come mezzo di risanamento biologico e razziale.
Con la sua analisi, Lifton ci ricorda la dura necessità di affiancare alla condanna del male compiuto nei lager l’indagine delle spaventose ragioni che l’hanno reso possibile. Perché solo affrontando la cupa verità che quella nazista fu una crudeltà specificamente umana potremo evitare che essa si ripeta in futuro.
Robert Jay Lifton (1926), psichiatra e saggista, è stato docente alla Harvard University e al John Jay College of Criminal Justice della City University di New York. Autore di numerosi studi su Hiroshima, sul nazismo e sulla guerra del Vietnam, le sue ricerche riguardano soprattutto i rapporti tra psicologia individuale e storia.
Storia degli scienziati che divennero i torturatori di Hitler
Collana a cura di Paolo Mieli
Alle vittime dei nazisti.
A coloro che sopravvissero.
E a quanti continuano a lottare
contro le forze dell’eccidio
di massa e del genocidio.
Parla anche tu,
parla infine
fatti sentire...
Guàrdati attorno,
vedi come tutto balza su vivo
dove c’è la morte! Vivo!
Paul Celan
Giuro su Apollo medico e su Asclepio e su Igea e su Panacea e su gli dèi tutti e le dee, chiamandoli a testimoni, di tener fede secondo le mie forze e il mio giudizio a questo giuramento e a questo patto scritto... Mi varrò del regime per aiutare i malati secondo le mie forze e il mio giudizio, ma mi asterrò dal recar danno e ingiustizia... Preserverò pura e santa la mia vita e la mia arte... In quante case entrerò, andrò per aiutare i malati, astenendomi dal recar volontariamente ingiustizia e danno... Se dunque terrò fede a questo giuramento e non vi verrò meno, mi sia dato godere il meglio della vita e dell’arte, tenuto da tutti e per sempre in onore. Se invece sarò trasgressore e spergiuro, mi incolga il contrario di ciò.
Il Giuramento di Ippocrate1
Poco tempo dopo aver completato il mio studio precedente sui sopravvissuti della bomba atomica, ricevetti la visita di un rabbino amico mio il quale, nel corso della nostra conversazione, mi disse: «Hiroshima è la tua via, come ebreo, verso l’Olocausto». Questo commento mi fece sentire a disagio, e pensai che fosse un po’ troppo pontificale, persino per un rabbino.
Eppure, a cominciare da allora (eravamo verso la fine degli anni Sessanta), ebbi la forte sensazione che, abbastanza presto, avrei tentato di studiare in qualche modo il genocidio nazista. Tutte le ricerche che avevo compiuto su «situazioni estreme» – situazioni di grave violenza su corpi e anime – sembravano indirizzarmi, sul piano professionale come su quello personale, verso un tale studio. Amici e allievi mi pungolavano con affetto e, senza che io avessi in mente alcun piano chiaro, l’idea venne assumendo in me una certa inevitabilità.
In varie conferenze sull’Olocausto ebbi modo di tratteggiare la psicologia dei sopravvissuti, ma gradualmente finii col convincermi che ciò di cui c’era ora soprattutto bisogno era uno studio sui carnefici. Non deve quindi sorprendere il mio interesse quando un redattore (che aveva lavorato con me al mio libro su Hiroshima) mi chiese di dare un’occhiata ad alcuni documenti che gli erano stati mandati su Josef Mengele e sulle pratiche mediche di Auschwitz. Dalla lettura di quei documenti, e da un’immersione in scritti affini, cominciai a rendermi conto della straordinaria importanza dei medici in generale per il progetto nazista di sterminio. Anche se il lavoro era destinato a estendersi molto oltre quei materiali, esso era per me già avviato.
Benché non avessi alcuna incertezza sull’opportunità di procedere, alcune delle persone con cui ne parlai espressero qualche apprensione. «Spero che lei abbia uno stomaco abbastanza forte!» fu un commento che udii spesso. Alcuni cercarono addirittura di convincermi ad abbandonare l’impresa. La loro tesi era che il male del nazismo doveva essere semplicemente riconosciuto e isolato; anziché farne un oggetto di studio, lo si doveva solo condannare. Si temeva, in particolare, che uno studio psicologico rischiasse di sostituire alla condanna una qualche forma di «comprensione» del fenomeno. Quelle apprensioni mi indussero a riflettere e mi costrinsero a esaminare alcuni difficili problemi personali e filosofici.
Io non avevo alcun dubbio sulla realtà del male nazista. Ma ora potei chiarirmi che l’obiettivo del mio progetto psicologico era quello di apprendere qualcosa di più su quel male, e non di sostituire la condanna con la comprensione. Evitare il compito di scandagliare le fonti di quel male mi sembrava, in definitiva, un rifiuto di fare appello alla nostra capacità di impegnarci e di combatterlo. In una tale rinuncia è implicito non solo il timore del contagio, ma anche l’assunto che il male nazista, o qualsivoglia altro male, non abbia alcun rapporto con noi, con capacità umane più generali. Benché lo sterminio di massa e la brutalità di cui si macchiarono i nazisti possano tentarci di fare un tale assunto, esso è nondimeno sbagliato e addirittura pericoloso. Quanto allo stomaco forte, io non ero certamente senza timori circa il mondo in cui stavo per avventurarmi; ma decisioni di questo genere, secondo la mia esperienza, sono radicate in un’intuizione profonda di se stessi, di ciò che è appropriato e giusto fare. Quella inclinazione interiore a procedere non mi liberò però dalla dolorosa consapevolezza che, qualsiasi cosa avessi fatto, sarebbe rimasta ben lontana dal rendere una piena giustizia morale e intellettuale alla portata dell’argomento.
Nella prosecuzione del lavoro mi si chiarì che i nazisti non furono certamente gli unici a coinvolgere i medici nel male. È sufficiente, per rendersene conto, considerare il ruolo svolto dagli psichiatri sovietici nella diagnosi dei dissenzienti come malati di mente, e nel farli internare in ospedali psichiatrici; quello dei medici in Cile (documentato da Amnesty International) nel ruolo di torturatori; quello dei medici giapponesi che praticarono esperimenti medici e la vivisezione su prigionieri di guerra durante il secondo conflitto mondiale; quello dei medici sudafricani bianchi che falsificarono rapporti medici su neri torturati o uccisi in prigione; di medici e psicologi degli Stati Uniti usati nel recente passato dalla CIA per esperimenti medici e psicologici immorali implicanti farmaci e la manipolazione della mente; e il giovane medico «idealista» membro del culto del Tempio del Popolo in Guyana che preparò il veleno (un misto di cianuro e di Kool-Aid) per l’assassinio-suicidio combinato, nel 1978, di quasi un migliaio di persone. I medici, a quanto pare, possono partecipare anche troppo facilmente agli sforzi di gruppi fanatici, demagogici o clandestini per controllare questioni di pensiero e di sentimento, e di vita e di morte. Io mi ero interessato, a titolo professionale o personale, di tutti questi esempi, i quali presentano qualche rapporto con i tipi distruttivi di esercizio dell’attività medica di cui ci occuperemo.
Trovai però che i medici nazisti si differenziarono in modi significativi da questi altri gruppi, non tanto nella loro sperimentazione sull’uomo quanto nel ruolo centrale da loro svolto in progetti di genocidio: progetti fondati su visioni biologiche che giustificavano il genocidio come mezzo di risanamento nazionale e razziale. (Forse i medici turchi, nella loro partecipazione al genocidio a danno degli armeni, furono quelli che si avvicinarono di più all’esempio nazista, come vedremo in seguito.) Per questa, e per molte altre ragioni, i medici nazisti richiedono uno studio a sé, e anche se nell’ultima sezione mi occuperò più diffusamente dei tipi di genocidio, questo libro è dedicato principalmente allo studio della loro psicologia.
Non intendo però sostenere di aver compiuto uno studio storico generale di tutti i medici nazisti, o della professione medica in generale durante il Terzo Reich. Mi sarebbe anzi molto piaciuto potermi servire di uno studio del genere nella preparazione di questo libro, giacché esso avrebbe molto alleggerito il lavoro di scavo in archivi e nei documenti di tribunali di varie parti del mondo che i miei assistenti e io abbiamo dovuto compiere. Quel che sono riuscito a evidenziare è il rapporto di gruppi specifici di medici nazisti, e di particolari individui, allo sterminio, oltre che alla più ampia rivendicazione di «risanamento» della razza propugnata dal regime. Questo rovesciamento dei concetti di risanamento e di uccisione divenne un principio organizzatore della mia ricerca, e io pervenni a sospettare che esso avesse attinenza anche ad altri progetti di genocidio.
Molto è stato detto e scritto sui rapporti fra carnefici e vittime, rapporti che ebbero un’importanza considerevole ad Auschwitz e altrove. Ho trovato però che è essenziale differenziare nel modo più netto fra la situazione morale e psicologica dei membri dei due gruppi. Quale che sia stato il comportamento di singoli individui, i prigionieri erano nella situazione di detenuti minacciati, mentre i medici nazisti erano i persecutori che esercitavano la minaccia. Questa chiara distinzione va mantenuta alla base di qualsiasi valutazione del comportamento dei medici ad Auschwitz. Gli ebrei furono l’oggetto primario del genocidio nazista e furono perciò le vittime principali dei medici nazisti. In questo libro io mi occuperò però anche di internati non ebrei ad Auschwitz, come polacchi e prigionieri politici e prigionieri di guerra russi; e inoltre di pazienti psichiatrici in Germania e in aree occupate sacrificati ancor più direttamente da medici nazisti.
Quando giunsi alla fine di questo lavoro, molte persone mi chiesero che cosa mi avesse dato. Di solito rispondevo: «Molto», cambiando però subito argomento. La verità è che è ancora un po’ troppo presto per dirlo. Non ci si può attendere di emergere da uno studio di questo genere spiritualmente illesi, tanto più quando il proprio sé è lo strumento usato per assorbire forme di esperienza di cui si sarebbe preferito non venire neppure a conoscenza. Ma l’altra faccia di quest’impresa fu per me la tonificante rete di rapporti umani che essa mi permise di istituire, i rapporti con esseri umani di tutto il mondo che mi largirono la loro collaborazione. Al centro di tale rete furono i sopravvissuti, i quali mi fornirono un sostegno prezioso. Ma di tale rete fecero parte anche colleghi, studiosi del genocidio nazista, tedeschi impegnati a confrontarsi con l’era nazista, giovani assistenti, alcuni dei quali conoscevo da anni, mentre altri li conobbi in occasione delle mie ricerche: un numero tanto grande di persone in tutte queste categorie che mi sento in dovere di elencarle alla fine del volume. Il fatto di condividere un’impresa come questa vivifica vecchie amicizie e ne crea di nuove, nei modi più immediati ed efficaci. Il grande respiro di questa rete, ricca di contenuti di solidarietà, che prese forma fu forse la compensazione migliore alla mia conoscenza molto limitata delle lingue in gioco (tedesco, ebraico, yiddish, polacco e francese).
Da decenni sono a conoscenza dell’insistenza di Camus sulla tesi che noi non siamo né vittime né carnefici, e del suo consiglio di evitare le istituzioni e le azioni in cui queste due categorie si manifestano. Ma oggi ho una nuova comprensione di ciò che egli intendeva dire. Camus imparò in effetti la sua lezione originaria dalla partecipazione alla lotta clandestina contro i nazisti. Non è certo necessario sottolineare quanto spesso il suo consiglio sia ignorato. Ma io insisterei al tempo stesso sulla tesi che noi siamo in grado, per quanto imperfettamente, di agire sulla base di questa conoscenza, capaci di imparare qualcosa dal male del passato esaminato con cura. Io ho intrapreso questo studio, e ora lo offro, in questo spirito di speranza.
Per le persone da me intervistate e per alcune altre ho usato degli pseudonimi, formati da un nome e dall’iniziale del cognome. Ho inoltre modificato qualche altro particolare che avrebbe potuto condurre alla loro identificazione ma che non incide sulla sostanza delle interviste. In alcuni casi mi sono astenuto, per la stessa ragione, da citazioni specifiche.
«Questo mondo non è questo mondo»
Un punto di vista importante su Auschwitz mi fu fornito da un dentista israeliano che vi aveva trascorso tre anni. Eravamo alle ultime battute di una lunga intervista nel corso della quale egli mi aveva parlato di molte cose, narrandomi fra l’altro come i dentisti SS affidassero a prigionieri il compito di recuperare i denti d’oro di confratelli ebrei uccisi nelle camere a gas. Egli lasciò scorrere lo sguardo sulla stanza confortevole della sua casa in cui stavamo conversando, con la sua bella vista sulla città di Haifa, emise un sospiro profondo e disse: «Questo mondo non è questo mondo». Penso che egli intendesse dire che, dopo Auschwitz, i ritmi e le apparenze comuni della vita, per quanto innocui o gradevoli, erano ben lontani dall’essere la verità dell’esistenza umana. Sotto quei ritmi e quelle apparenze si celavano il buio e la minaccia.
Questo commento solleva anche il problema della nostra capacità di accostarci ad Auschwitz. Fin dal principio ci fu una resistenza enorme, da parte di quasi tutti, a conoscere ciò che i nazisti facevano e hanno fatto ad Auschwitz. Tale resistenza non è certo diminuita, quale che sia l’attuale interesse per il cosiddetto «Olocausto». Né episodi più recenti di eccidi di massa hanno contribuito a permettere di superarla. Consentire alla propria immaginazione di entrare nella macchina di sterminio nazista – di cominciare ad avere esperienza di tale macchina infernale – significa infatti modificare il proprio rapporto nei confronti dell’intero progetto umano. Nessuno vorrebbe mai venire a conoscenza di tali cose.
Psicologicamente parlando, non c’è nulla di più oscuro o di più minaccioso, o di più difficile da accettare, della partecipazione dei medici allo sterminio. Per quanto il medico moderno possa essersi tecnicizzato o commercializzato, dovrebbe essere pur sempre un terapeuta, e responsabile di fronte a una tradizione terapeutica che tutte le culture riveriscono e dalla quale dipendono. Il fatto di sapere che il medico ha fatto lega con gli assassini aggiunge una dimensione grottesca alla percezione che «Questo mondo non è questo mondo». Durante le mie ricerche mi formai l’impressione che, fra i tedeschi e non solo fra i tedeschi, questo coinvolgimento dei medici era considerato il più vergognoso di ogni comportamento nazista.
Quando pensiamo ai crimini dei medici nazisti, quel che ci viene in mente sono i loro esperimenti crudeli, e talvolta mortali, su esseri umani. Quegli esperimenti, nella loro precisa e assoluta violazione del giuramento ippocratico, scherniscono e sovvertono l’idea stessa dell’etica medica, del medico dedito al benessere dei suoi pazienti. Io esaminerò quegli esperimenti sull’uomo dal punto di vista dell’ideologia medica e politica del regime.
Eppure, quando veniamo a considerare il ruolo del medico nazista ad Auschwitz, la cosa più significativa non furono gli esperimenti. Fu piuttosto la sua partecipazione al massacro, e anzi la sua supervisione dell’eccidio di Auschwitz dall’inizio alla fine. Questo aspetto del comportamento dei medici nazisti si è finora sottratto a un pieno riconoscimento, anche se abbiamo familiarità con fotografie di medici nazisti intenti a compiere le loro famigerate «selezioni» degli ebrei in arrivo al lager, per stabilire quali dovessero essere avviati immediatamente alla camera a gas e quali dovessero sopravvivere, almeno temporaneamente, per lavorare nel campo. Eppure questo eccidio diretto da medici aveva una sua logica che non solo era profondamente significante per la teoria e il comportamento nazisti ma che vale anche per altre espressioni di genocidio.
In questo libro esaminerò tanto la generale «visione biomedica» del nazismo come principio psicostorico centrale del regime quanto il comportamento psicologico di singoli medici nazisti. Noi dobbiamo considerare entrambe le dimensioni se vogliamo capire di più su come i medici nazisti – e i nazisti in generale – fecero quel che fecero.
Il carattere estremo della situazione di Auschwitz e dei crimini nazisti connessi rende tutto questo quasi irreale. Un eminente medico europeo che aveva lottato per quarant’anni con la brutalità nazista – prima come internato ad Auschwitz e in altri lager e poi come autorità sulle conseguenze mediche di tale detenzione – mi disse in tono molto pacato al termine di una lunga intervista: «Sa, non riesco ancora veramente a credere che sia accaduto: che un gruppo di persone facesse retate di tutti gli ebrei in Europa e li inviasse in un posto speciale per ucciderli». Egli stava dicendo che l’«altro mondo» di Auschwitz è incredibile. La cosa sorprendente è che non ci sia una tendenza ancora maggiore di quella realmente esistente ad accettare l’affermazione totalmente falsa che l’eccidio di massa perpetrato dai nazisti non abbia avuto luogo.
Ci occuperemo qui anche del rapporto dei medici nazisti con la specie umana. Un altro sopravvissuto di Auschwitz che li conosceva bene mi chiese: «Erano delle belve quando fecero ciò che fecero? O erano degli esseri umani?». Egli non fu sorpreso dalla mia risposta: erano e sono uomini, e questa è anche la ragione che giustifica il mio studio; e il loro comportamento – e la stessa Auschwitz – fu un prodotto di un’ingegnosità e di una crudeltà specificamente umane.
Continuai a spiegare a questo sopravvissuto che la maggior parte dei medici da me intervistati erano individui normali. Né brillanti né stupidi, né intrinsecamente malvagi né dotati di una coscienza etica particolarmente sensibile, non erano affatto quelle figure demoniache – sadiche, fanatiche, bramose di uccidere – che la gente ha spesso immaginato che fossero. Il mio amico rispose: «Ma è demoniaco che essi non fossero demoniaci». Egli poté allora rivolgermi la sua seconda domanda, quella che in realtà aveva in mente sin dal principio: «Come divennero assassini?». Si può tentare di dare una risposta a questa domanda, e questo libro intende essere proprio una tale risposta.
Ciò con cui il mio amico sopravvissuto all’esperienza del lager stava lottando – che è anche ciò contro cui ho lottato anch’io in tutto questo studio – è l’inquietante verità psicologica che la partecipazione all’eccidio di massa non richiede necessariamente emozioni così estreme o demoniache quali sembrerebbero appropriate a un progetto così malvagio. O, per esprimerci in un altro modo, persone normali possono commettere atti demoniaci.
Ciò non significava però che i medici nazisti fossero solo automi burocratici senza volto, rotelle anonime di un ingranaggio che li trascendeva. In quanto esseri umani, essi furono protagonisti e comprimari che manifestarono certi tipi di comportamento di cui erano responsabili, e che noi possiamo cominciare a identificare.
Sono all’opera, quindi, varie dimensioni. Al centro c’è la trasformazione del medico – e della stessa attività medica – da terapeuta ad assassino. Questa trasformazione ci impone di esaminare l’interazione dell’ideologia politica nazista e dell’ideologia biomedica nei loro effetti sul comportamento individuale e collettivo. Questo argomento ci conduce a sua volta al significato della giustificazione medica dell’omicidio per l’eccidio di massa nazista in generale, e per l’eccidio su vasta scala e il genocidio in altre situazioni storiche. Infine la ricerca ha un’incidenza anche per questioni di portata maggiore sul controllo umano della vita e della morte – per i medici dappertutto, per la scienza e gli scienziati e per altre professioni in generale, per istituzioni di vario genere – e anche per i concetti della natura umana e dei valori umani supremi. Io non potrò far altro che sfiorare la maggior parte di questi problemi generali, avendo preso la decisione di concentrare la mia attenzione sui medici nazisti e sulle uccisioni per opera di medici, e quindi sui problemi dello sterminio di massa. Spero però che altri trovino in questo libro esperienze che possano aiutarli a esplorare fra i vari problemi morali scottanti impliciti in questo studio.
Questa speranza solleva l’importante questione della specificità e della generalità. Io credo che si debba sottolineare la specificità del progetto di genocidio nazista, specialmente per quel che concerne gli ebrei: i suoi caratteri unici e le forze particolari che lo plasmarono. Fatto questo, ci si deve però sforzare anche di individuare princìpi maggiori che possono essere suggeriti da un tale progetto particolare. Nessun altro evento o nessun’altra istituzione potrebbe o dovrebbe essere equiparato ad Auschwitz; ma noi non dovremmo perciò negarci l’opportunità di esplorarne la pertinenza generale per il genocidio e per situazioni di un ordine molto diverso, in cui questioni psicologiche e morali potrebbero essere considerevolmente più ambigue.
L’articolazione di questo libro sarà la seguente. Nella parte restante di questa sezione introduttiva dirò qualcosa sulla mia impostazione psicologica generale, sulle interviste, e sulle questioni morali connesse, dopo di che introdurrò la teoria e pratica nazista generale dello sterminio situato in una visione medica. Nella Parte Prima prenderemo in esame il passaggio dalla sterilizzazione coatta all’uccisione medica diretta – o «eutanasia», come fu chiamata ipocritamente –, reso possibile dalla nazificazione della professione medica tedesca e culminante in un’estensione dell’«eutanasia» ai campi di concentramento. La Parte Seconda – la sezione più lunga del libro – concerne Auschwitz: la sua evoluzione come istituzione; le grandi selezioni eseguite dai medici nazisti alla banchina della stazione ferroviaria e quelle minori all’interno del lager, specialmente nei «blocchi medici»; l’adattamento dei medici nazisti al progetto di sterminio; la lotta dei medici prigionieri per sopravvivere e per rimanere fedeli allo spirito della loro professione nonostante la dipendenza dai medici nazisti; l’uso di iniezioni di fenolo per uccidere; e gli esperimenti eseguiti su internati ad Auschwitz e il rapporto di questi esperimenti con princìpi biomedici nazisti. Questa sezione comprende, infine, tre studi di singoli medici nazisti: uno, quello di Ernst B., rivela l’ambiguità della rispettabilità nazista; e gli altri due descrivono, rispettivamente, il comportamento psicologico di Josef Mengele, un fanatico dell’ideologia nazista, e di Eduard Wirths che, pur essendo stato in precedenza «una brava persona», poté organizzare l’intera macchina dell’eccidio medico di Auschwitz.
Nella Parte Terza esplorerò princìpi psicologici tratti direttamente da medici nazisti, concentrandomi in particolare su quello dello «sdoppiamento»: la formazione di un secondo sé, relativamente autonomo, che consente all’individuo di partecipare al male. Poi mi dedicherò all’esame di princìpi più generali del genocidio nazista, quali possono applicarsi ad altre, e forse a tutte le altre forme di genocidio. Il libro si chiude con un poscritto in qualche misura personale.
Il mio assunto, fin dal principio, in accordo con i miei venticinque anni di ricerche, fu che il modo migliore per imparare qualcosa sui medici nazisti era quello di parlare con loro; le interviste divennero allora il nucleo pragmatico dello studio. Sapevo però che, ancor più che nelle mie ricerche precedenti, avrei dovuto integrare le interviste con estese letture e con l’esame di tutti i problemi connessi, dovendomi documentare non solo sulle osservazioni fatte da altri sul comportamento dei medici nazisti ma sull’epoca nazista in generale, oltre che sulla cultura e sulla storia tedesche e sui vari tipi di persecuzione in generale e sull’antisemitismo in particolare.
Fin dal principio cercai di consultarmi su ogni aspetto del periodo con studiosi autorevoli – storici, specialisti in scienze sociali, romanzieri e drammaturghi (alcuni dei quali avevano avuto esperienza diretta dei lager, da cui erano sopravvissuti) –, per rendermi conto di quali fossero i modi migliori per capire il regime e il suo comportamento; per farmi indicare letture, biblioteche, documenti dei processi e altre fonti; e per farmi suggerire altre persone con cui parlare. Con l’aiuto di borse di studio concessemi da varie fondazioni cominciai a viaggiare: feci viaggi preliminari in Germania nel gennaio 1978 e in Israele e in Polonia nel maggio e giugno di quello stesso anno. Vissi a Monaco di Baviera dal settembre 1978 all’aprile 1979 e durante quel periodo feci la maggior parte delle interviste, per lo più in Germania e in Austria ma anche, di nuovo, in Polonia e in Israele, oltre che in Francia, in Inghilterra, in Norvegia e in Danimarca. Nel gennaio 1980 feci altre ricerche in Israele e in Germania; e nel marzo dello stesso anno intervistai tre sopravvissuti di Auschwitz in Australia. Non mi era mai accaduto di viaggiare tanto in precedenza, né mi ero mai occupato di ricerche psicologiche così approfondite e minuziose.
Intervistai tre gruppi di persone. Il gruppo centrale si componeva di ventinove uomini che erano stati coinvolti significativamente a livelli elevati con la medicina nazista, ventotto dei quali erano medici e uno farmacista. Di quel gruppo di ventotto medici, cinque avevano lavorato in campi di concentramento (tre ad Auschwitz) o come medici delle SS ivi distaccati, o in connessione con esperimenti medici; sei avevano avuto qualche rapporto col programma di «eutanasia» (uccisione medica diretta); otto erano stati impegnati nell’elaborazione della politica medica e nello sviluppo e realizzazione della teoria medico-ideologica nazista; altri sei avevano occupato posizioni mediche importanti che li avevano coinvolti in un comportamento moralmente reprensibile e in conflitti ideologici; e tre erano stati impegnati principalmente nella medicina militare, cosa che li aveva portati in contatto con stragi di ebrei da parte dei nazisti dietro le linee nell’Europa orientale (o che li aveva indotti a cercare di prendere le distanze da tali stragi).
Intervistai anche un secondo gruppo, composto da dodici professionisti ex nazisti di un certo livello non appartenenti alla professione medica: avvocati, giudici, economisti, insegnanti, architetti, amministratori e funzionari di partito. Il mio intento, in questo caso, era quello di sondare le esperienze dei professionisti in generale nel periodo nazista e il loro rapporto con l’ideologia, oltre che ottenere informazioni di sfondo sulla politica medica e le politiche connesse.
Molto diverso era il terzo gruppo di persone da me intervistate: ottanta ex internati di Auschwitz che avevano lavorato nei blocchi medici, più di metà dei quali erano medici. La maggior parte erano ebrei (intervistati da me negli Stati Uniti, in Israele, nell’Europa occidentale e in Australia); ma fra loro c’erano anche due gruppi di non ebrei: polacchi (da me intervistati a Cracovia, a Varsavia e a Londra) ed ex prigionieri politici (intervistati per lo più in varie parti dell’Europa occidentale, in particolare a Vienna). Io mi concentrai sulle loro esperienze e osservazioni concernenti i contatti che avevano avuto con medici nazisti e con la politica medica ad Auschwitz in generale.
Quanto ai miei contatti con i due gruppi di ex nazisti, non fu mai facile avvicinarli. Parve chiaro sin dal principio che avrei potuto prendere contatto con loro solo facendomi presentare da persone di un certo livello nella loro società, che nello stesso tempo guardassero con simpatia alle mie ricerche. Questo compito mi fu facilitato dalla nomina formale che mi fu concessa a membro dell’Istituto Max Planck per Ricerche in Psicopatologia e Psicoterapia, diretto dal dottor Paul Matussek. La prima cosa da farsi era quella di individuare medici ex nazisti che avessero goduto di una certa posizione nel regime, cosa che feci con l’aiuto di assistenti, di libri, di studiosi informati, di voci e di ricerche intensive di indirizzi. Una volta scoperti un nome e un indirizzo, il professor Matussek spediva alla persona una lettera formale, da noi costruita con grande cura. La lettera mi presentava come un eminente ricercatore psichiatrico americano che stava conducendo uno studio sulle «sollecitazioni e i conflitti» cui erano stati sottoposti i medici tedeschi sotto il nazionalsocialismo; menzionava le mie ricerche precedenti su Hiroshima e sul Vietnam; sottolineava il mio impegno al più assoluto riserbo; e raccomandava alla persona in questione di collaborare pienamente con me. Nel caso di una risposta positiva, io scrivevo una breve lettera nella quale menzionavo il mio desiderio di capire gli eventi di quel tempo con la massima precisione possibile.
I destinatari di tali lettere capivano senza dubbio che le «sollecitazioni e i conflitti» erano eufemismi che stavano per cose ben più sinistre. Per una varietà di ragioni psicologiche proprie, il 70 per cento circa delle persone così avvicinate accettarono di vedermi. Alcuni pensavano di dover usare questa cortesia a un «collega» straniero presentato da una persona che godeva di una grande posizione medica nel loro paese. Il molto tempo passato dopo la fine del periodo nazista permise ad alcuni di loro di considerare questi argomenti come qualcosa di cui si potesse cominciare a parlare. L’incontro con me poteva dar loro in effetti l’opportunità di affermare un’identità postnazista. Io ebbi l’impressione che molti di questi medici ex nazisti conservassero sacche isolate di senso di colpa e vergogna cui non avevano accesso: ossia forme inconsce di autocondanna, smorzate o ridotte al silenzio. Tali sentimenti non riconosciuti propiziavano il loro bisogno di parlare.
Ma il loro modo di far fronte a quei sentimenti era spesso l’opposto del confronto con se stessi: la tendenza dominante in questi medici nazisti era piuttosto quella di presentarmisi come persone rispettabili che avevano tentato di correggere il più possibile una brutta situazione. Essi volevano da me una conferma di quest’opinione che avevano di se stessi. Inoltre, essendo persone anziane – i più giovani erano vicini ai sessant’anni, ma la maggior parte erano vicini ai settanta o erano ancora più vecchi e uno di loro aveva novantun anni – erano in una fase della vita in cui si cerca di «passare in rassegna» il proprio passato per asserirne il significato e affermarne l’eredità al di là della morte incombente.
Una parte di questi uomini avevano un forte desiderio di essere ascoltati: essi avevano da dire delle cose che la maggior parte di loro non avevano mai detto prima, e meno che mai alle persone che li circondavano. Eppure nessuno di loro – neppure uno dei medici ex nazisti con cui ebbi occasione di parlare – pervenne a una chiara valutazione etica di ciò che aveva fatto, e di ciò di cui era stato parte. Essi erano in grado di esaminare i fatti con una ricchezza considerevole di particolari, e persino di prendere in considerazione i sentimenti e di parlare in generale con una schiettezza considerevole, ma quasi sempre come in terza persona. Il narratore, moralmente parlando, non era del tutto presente.
Io dovetti considerare molti livelli di verità e di falsità. Cercavo di apprendere tutto ciò che si poteva sapere su ciascun medico nazista prima di incontrarlo, e dopo l’incontro mi sforzavo di confrontare e verificare i particolari e le interpretazioni forniti da lui con quelli accessibili da altre fonti: da interviste con altri medici ex nazisti e con professionisti non medici; da interviste con ex internati e con vittime, e specialmente con coloro che erano stati vittime ad Auschwitz; da relazioni scritte su ogni forma di comportamento medico dei nazisti, e specialmente da quegli scritti che erano apparsi relativamente presto dopo la guerra; e da una grande varietà di libri e documenti, fra cui verbali di processi, oltre a diari e lettere quando erano disponibili. Tutte queste informazioni aggiuntive erano necessarie per valutare non solo la falsità deliberata o (più spesso) la distorsione deliberata dei fatti, ma anche questioni di memoria. Stavamo discutendo di fatti che avevano avuto luogo trenta o quaranta o più anni prima; un oblio persistente e manifestazioni di ottundimento psichico potevano mescolarsi a una distorsione opportunistica. Eppure mi imbattei anche in persone che conservavano un ricordo vivido e minuzioso dei fatti, unito a una sorprendente franchezza e introspezione. Io dovetti combinare tutte queste informazioni nel dare giudizi interpretativi; in definitiva, però, sentii di avere imparato molto sui medici nazisti da me intervistati, e sui medici nazisti in generale.
Trascorsi quattro ore o più con la maggior parte dei medici nazisti, di solito nel corso di due o più interviste, ma con differenze considerevoli di caso in caso a seconda della loro disponibilità e della loro importanza per la mia ricerca. Alcuni li vidi una volta sola, e uno di loro mise fine all’intervista dopo solo mezz’ora. Con altri parlai molto più a lungo, in qualche caso per un totale di venti-trenta ore in una serie di incontri che duravano un’intera giornata. Nella grande maggioranza delle interviste ebbi bisogno di un interprete. Come nel caso di altre ricerche svolte in passato, riuscii ad addestrare alcuni assistenti a tradurre i colloqui in un modo che permettesse uno scambio rapido e abbastanza diretto. La presenza di un interprete, pur potendo essere in un certo senso limitante, fornì in vari casi un certo vantaggio: essa consentiva infatti ai medici nazisti, quando si sentivano a disagio e travagliati da conflitti, di trattare argomenti dotati di una forte carica emotiva con maggiore libertà di quanta avrebbero potuto usarne in uno scambio diretto, e perciò più minaccioso. L’intensità che si sviluppò in queste interviste non fu minore di quella che sperimentai nel numero, relativamente piccolo, di interviste che potei condurre in inglese (grazie alla padronanza che di questa lingua aveva l’intervistato). In entrambe queste situazioni, senza alcuna eccezione, questi medici tedeschi accettarono che io registrassi su nastro le interviste, cosicché potei disporre anche di un’esatta registrazione di ciò che fu detto e in seguito potei quindi lavorare sulla base dell’originale tedesco.
Un elemento ironico in questa impostazione fu la richiesta (fattami dallo Yale University Committee on Research with Human Subjects, e da me seguita in generale nella ricerca in America) di procurarmi il consenso dei medici nazisti alla mia ricerca. Questa richiesta derivava dal Processo ai medici tenuto a Norimberga ed era perciò, in ultima analisi, una conseguenza del cattivo comportamento di quegli stessi medici che stavo intervistando o dei loro associati. Quel tocco di umanità sembrava perfettamente giustificato. Perciò nella mia corrispondenza con questi medici prima del nostro incontro io riaffermai i princìpi della riservatezza e del loro diritto a sollevare tutti i problemi e le eccezioni che volevano, oltre che a interrompere in qualsiasi momento la loro partecipazione all’intervista o alla ricerca in generale. Questi princìpi furono espressi in formule scritte che io chiesi a ogni medico di firmare, a volte all’inizio o alla fine della prima intervista e altre volte durante il secondo incontro o per posta (sceglievo ogni volta il momento più opportuno avendo cura di evitare che quest’operazione cadesse in momenti tali da intensificare una situazione già stressante, e che potesse quindi interferire con la ricerca).
Fra i medici da me intervistati, due erano ancora implicati in processi conseguenti alle loro attività naziste. Un altro aveva scontato un lungo periodo di detenzione. Molti di loro erano rimasti in carcere dopo la guerra per periodi variabili sino a sette anni senza alcun processo formale. Nel complesso, però, non costituivano fra i medici ex nazisti il gruppo criminale più facilmente identificabile: vari membri di quel gruppo erano stati infatti condannati a morte a Norimberga e in successivi processi o erano morti anni prima per cause naturali, essendo già per la maggior parte relativamente anziani all’epoca dei loro crimini. Ma quelli che ebbi modo di incontrare, e di cui parlerò, non erano certo esenti da ogni macchia, e a volte si erano resi colpevoli anche di delitti.
Nella mia corrispondenza preliminare con questi medici decisi di non menzionare il fatto che sono ebreo. Alcuni senza dubbio lo sospettarono, anche se nessuno me lo chiese direttamente. In un’occasione, quando la cosa venne fuori in modo esplicito, il medico in questione (durante un’intervista verso la fine della mia ricerca) accennò a un articolo pubblicato sulla rivista «Time» in cui si parlava della mia ricerca e si menzionava il fatto che sono ebreo. Il suo untuoso riferimento alla «tragica storia» dei nostri due popoli apportò una conferma alla mia impressione che, se avessi palesato sin dal principio la mia appartenenza alla razza ebraica, questa informazione avrebbe colorato e limitato le risposte durante le interviste e avrebbe indotto una percentuale molto maggiore di medici ex nazisti a rifiutarsi di vedermi. Se ne parlasse o no, comunque, la mia appartenenza alla razza ebraica fu in qualche modo significativamente presente in ogni intervista, senza dubbio nel mio modo di impostare il discorso e probabilmente in percezioni a qualche livello di coscienza nei medici tedeschi.
Per quanto concerne l’andamento delle interviste, io cominciavo descrivendo brevemente l’obiettivo, il metodo e le regole di fondo della ricerca, compreso un riferimento casuale al mio uso di registrare le interviste. Dopo avere ottenuto il consenso a procedere, ponevo al medico qualche domanda sulla sua situazione attuale, ma essenzialmente cominciavo chiedendogli di ricostruire la sua formazione culturale, e specialmente medica. Poiché tali esperienze avevano una carica emotiva relativamente più debole rispetto a quelle successive, l’intervistato era messo in condizione di instaurare con me un tipo di discorso abbastanza libero, assieme a una sorta di dialogo medico. Di solito le domande sulla sua formazione implicavano anche una descrizione dell’impatto del periodo nazista sui suoi studi di medicina e sul suo lavoro, e sulla sua vita in generale. Gli ponevo poi domande sulla sua famiglia e sulla sua formazione culturale, prima di esaminare nei particolari ciò che aveva fatto e quali erano state le sue esperienze negli anni del nazismo. I medici sapevano che erano queste le informazioni che mi interessavano soprattutto e molti si tuffavano energicamente nella descrizione di tali esperienze. Essi tendevano ad avere risposte meno pronte quando si ponevano loro domande particolareggiate su sentimenti e conflitti, e su immagini e sogni, aspirazioni e giudizi su se stessi. Nel corso delle interviste i medici finivano per rivelare molto anche su questi argomenti. Con un po’ di incoraggiamento, questi medici – come altre persone da me intervistate nel corso di altre ricerche – entravano facilmente nel modello costruito deliberatamente dell’intervista di esplorazioni precise e minuziose da un lato e di associazioni spontanee dall’altro.
L’atmosfera tendeva a variare da imbarazzata a cordiale. Potevano esserci periodi di rapporto genuino, alternati di solito a tensioni, a varie forme di presa di distanza e di riaffermazione – da parte sia del medico nazista sia di me stesso – della nostra esistenza essenzialmente antitetica. In seguito avrò modo di dilungarmi più estesamente sulle concezioni del mondo espresse da questi medici, ma in generale i più adottarono un punto di vista politico e sociale prudente, tipico del secondo dopoguerra, comprendente una critica degli eccessi nazisti ma anche un’approvazione a elementi relativamente autoritari nella società tedesca e una certa insoddisfazione nei confronti delle capacità della nuova generazione. Ogni tanto emergeva un lampo di nostalgia per il periodo nazista, per un’epoca in cui la vita era stata intensa e piena di significato, nonostante i conflitti che poteva aver prodotto.
Non riuscii mai a superare del tutto il senso di estraneità che mi afferrava mentre ero seduto faccia a faccia di fronte a uomini che consideravo al di là della linea di demarcazione fra i carnefici e le vittime. Né smisi mai di provare un senso di imbarazzo e di vergogna per i miei sforzi per entrare nel loro mondo psicologico. Questi sentimenti potevano essere ancora più acuti quando, come avvenne in qualche caso, trovai in qualcuno di questi uomini dei tratti encomiabili e mi trovai quasi a essere partecipe della sua umanità. Il mio conflitto centrale scaturiva quindi dal contrasto fra il mio senso usuale dell’intervista come procedimento essenzialmente amichevole e i miei sentimenti considerevolmente men che amichevoli verso questi intervistati. Io lavorai sempre calato in tale conflitto. Spesso ebbi l’impulso di liberarmene per mezzo di un confronto morale aggressivo. Per lo più resistetti a questo impulso, anche se la mia esplorazione psicologica poteva assomigliare a un tale confronto e certamente lasciava pochi dubbi circa il mio punto di vista. Era però necessario mantenere tale distinzione; e l’esplorazione psicologica, piuttosto che il confronto morale, era necessaria per suscitare il tipo di informazione comportamentale e motivazionale che cercava. Tale distinzione era necessaria anche, come mi resi conto in seguito, per conservare qualcosa che era importante per me, ossia la mia propria identità professionale nel compiere il lavoro, tanto che sarebbe forse esatto dire che per me l’esplorazione psicologica era una forma di confronto morale. Devo però aggiungere che ci furono momenti in cui desiderai non solo confrontarmi con l’uomo seduto dinanzi a me, ma accusarlo e in qualche modo anche attaccarlo. Ciò nonostante, ho sperimentato, e ancora sperimento, un obbligo di essere giusto nei confronti di questi medici ex nazisti, ossia di fare una valutazione complessiva che sia la più accurata e profonda di cui io sia capace.
Nel caso dei sopravvissuti di Auschwitz l’atmosfera delle interviste era del tutto diversa. Quasi tutti (con l’eccezione di uno solo, che si sentiva ancora troppo sconvolto da queste cose per poterne parlare con me) si impegnarono immediatamente in uno sforzo comune per capire i medici nazisti e ciò che essi fecero nei lager e altrove. Gli ex internati si rivelarono osservatori inestimabili sotto entrambi i punti di vista. Non può sorprendere che io sia riuscito a identificarmi soprattutto con i medici ebrei sopravvissuti, che spesso provenivano da famiglie simili alla mia per condizioni sociali e carattere etnico, e da territori vicini ai paesi d’origine dei miei nonni. Io non potevo fare a meno di mettere a confronto la loro dura prova con la mia esistenza privilegiata, e uscivo da queste interviste letteralmente barcollante, e a volte vicino alle lacrime. Ebbi però interviste toccanti anche con medici non ebrei della Polonia e di varie altre parti d’Europa, molti dei quali erano stati deportati ad Auschwitz perché avevano tentato di aiutare degli ebrei. Un’eccezione a questa simpatia di fondo fu un’intervista dolorosa ma rivelatrice fatta a un medico polacco antisemita che aveva collaborato strettamente con i nazisti e di cui parlerò più avanti nel libro.
Le interviste da me fatte per questo libro furono diverse da quelle che avevo eseguito in precedenza. Nel loro corso sperimentai ogni sorta di emozione: dalla rabbia all’angoscia, al disgusto e (in quelle con sopravvissuti) all’ammirazione, a una sofferenza condivisa, a un senso di colpa e all’impotenza, e di quando in quando avrei voluto non essermi accinto mai a questa impresa. Ebbi incubi su Auschwitz, in alcuni dei quali furono coinvolti mia moglie e i miei figli. Quando li menzionai a un amico sopravvissuto subito dopo aver cominciato la ricerca – ossia nel periodo in cui essi erano più frequenti – egli mi guardò senza una particolare simpatia ma forse con un barlume di approvazione e disse con voce sommessa: «Bene. Ora puoi fare il lavoro». Questo commento mi fu di grande aiuto.
Eppure, nonostante la sofferenza che questo lavoro comportò per me, per la maggior parte del tempo non fui depresso o sconvolto, ma provai anzi una grande energia nel portare avanti lo studio. Ero immerso nelle attive richieste dell’impresa: il complesso lavoro connesso all’organizzazione e alla conduzione delle interviste e il senso generale di un compito che doveva essere portato avanti. Sentii maggiormente la sofferenza quando, tornato negli Stati Uniti nella primavera del 1979, mi sedetti da solo nel mio studio a contemplare e cominciare a ordinare ciò che avevo appreso. Ora non ero più in movimento, e il mio unico compito era quello di immaginarmi ad Auschwitz e in altri centri di sterminio, come avevo sempre tentato di fare in precedenza. Ovviamente, con la fantasia si entra e si esce senza impedimento da tali luoghi, nei quali non ci si può soffermare troppo a lungo. Nella parte recente, più del mio lavoro contribuì ad alleviare la sofferenza la lotta stessa per dare una forma al materiale. Nel corso di una tale impresa l’autodisciplina è resa possibile dalla consapevolezza di stare combattendo un male e coloro che ne sono responsabili, di poter far sentire finalmente la propria voce.
La ricerca psicologica è sempre un’impresa morale, così come i giudizi morali comprendono inevitabilmente assunti psicologici. Consideriamo, per esempio, il famoso giudizio dato da Hannah Arendt su Adolf Eichmann e la «banalità del male».1 Quest’operazione è emersa come una caratterizzazione generale dell’intero progetto nazista. La mia osservazione che i medici nazisti erano persone normali sembrerebbe un’ulteriore prova a sostegno della sua tesi. Ma non è del tutto così. I medici nazisti furono banali, ma non fu banale ciò che essi fecero. In questo studio io descriverò ripetutamente uomini banali che compiono azioni demoniache. Compiendo tali azioni – o per compierle – quegli uomini cambiarono; e nel compiere le loro azioni smisero di essere banali. Combinando considerazioni psicologiche e morali, si possono capire meglio la natura del male e le motivazioni degli uomini.
Il mio obiettivo in questo studio è quello di scoprire condizioni psicologiche che portano al male. Per potersi servire della psicologia in questo modo, occorre tentare di evitare trabocchetti specifici. Ogni disciplina nutre illusioni di capire ciò che non è mai stato compreso; la psicologia del profondo, col suo rapporto tenue e spesso difensivo con la scienza, potrebbe essere particolarmente soggetta a questa illusione. Qui vorrei ricordare l’invito alla prudenza di un medico dell’Europa orientale sopravvissuto. Questo medico, che parlava francese, disse: «Il professore vorrebbe comprendere ciò che non è comprensibile. Noi stessi che c’eravamo, e che ci siamo sempre posti questo problema e ce lo porremo sino alla fine dei nostri giorni, non lo capiremo mai, perché esso non può essere compreso».
Più che essere un semplice invito all’umiltà, queste frasi ci suggeriscono un principio importante: che certi eventi sfuggono a una comprensione completa, e che noi faremo bene a riconoscere che una comprensione parziale, un avvio alla comprensione, è il massimo che possiamo attenderci, qualunque impostazione possiamo dare alla nostra ricerca. Questo è un eloquente rifiuto del riduzionismo psicologico: la dissoluzione di eventi complessi in spiegazioni singole, onnicomprensive, in modi che spazzano via, piuttosto che illuminarle, le strutture e motivazioni interconnesse dietro quegli eventi. In tale tipo di riduzionismo si rischia di sacrificare non solo la sensibilità morale ma anche la precisione psicologica.
Un altro trabocchetto, persino in assenza del riduzionismo, riguarda la «comprensione» come surrogato del giudizio morale: il principio contenuto nell’aforisma francese spesso invocato Tout comprendre c’est tout pardonner. Qui vorrei dire però che se una comprensione piena dovesse intendere una comprensione dei problemi morali oltre che di quelli psicologici, la seconda parte dell’aforisma – il «perdonare tutto» – non sarebbe valida. Questo pericolo dev’essere riconosciuto, e può essere superato solo rimanendo consapevoli del contesto morale del lavoro psicologico.
Anche per affrontare alcuni di questi problemi morali in connessione con l’esperienza sociale e storica, lo psicoanalista Otto Rank intitolò l’ultima sua opera importante Beyond Psychology (1941).2 Rank si era occupato a lungo dei princìpi etici, che secondo lui Freud e altri avevano escluso dalla ricerca psicologica, in gran parte perché la psicologia stessa era intrappolata nella sua propria ideologia scientifica. Per implicazione, quel tipo di ideologia scientifico-psicologica poteva ridurre Auschwitz, o i medici SS ivi operanti, a un particolare meccanismo o insieme di meccanismi. Il problema del male non si sarebbe neppure posto. In tal senso possiamo dire che, per affrontare problemi morali, non c’è bisogno di rimanere del tutto al di là della psicologia, ma che si devono considerare costantemente problemi che la maggior parte della psicologia ha ignorato. Persino in questo caso facciamo bene a riconoscere, come ha fatto Rank, che la psicologia non può aiutarci a spiegare tutto. Per quanto concerne Auschwitz e il genocidio nazista, ci sono molte cose su cui resteremo all’oscuro, ma dobbiamo imparare ciò che possiamo.
Di importanza considerevole qui è il proprio modello o paradigma psicologico. Il mio si discosta dal modello freudiano della pulsione e della difesa e insiste sulla continuità della vita o sulla simbolizzazione della vita e della morte.3 Il paradigma comprende sia una dimensione immediata sia una dimensione ultima. La dimensione immediata – il nostro diretto coinvolgimento psicologico – comprende lotte con connessione e separazione, con integrità e disintegrazione, con movimento e stasi. Separazione, disintegrazione e stasi sono equivalenti della morte, immagini che si riferiscono a preoccupazioni concernenti la morte; mentre le esperienze della connessione, dell’integrità e del movimento sono associate a un senso di vitalità e alla simbolizzazione della vita. La dimensione ultima si rivolge a impegni umani maggiori, al senso di essere legati a coloro che sono venuti prima e a coloro che seguiranno al nostro periodo di vita limitato. Noi ricerchiamo quindi un senso di immortalità, la convinzione di continuare a vivere nei nostri figli, nel nostro lavoro, nelle influenze umane, in princìpi religiosi o in quella che consideriamo una natura eterna. Questo senso può essere conseguito anche per mezzo dell’esperienza della trascendenza: di uno speciale stato psichico così intenso che in esso il tempo e la morte scompaiano: la classica esperienza dei mistici.
Dobbiamo rivolgerci a questa dimensione ultima – che Otto Rank designò con l’espressione «sistemi di immortalità»4 – se vogliamo cominciare a capire la forza della proiezione nazista del «Reich millenario». Lo stesso vale per il concetto nazista del Volk, termine che non designa soltanto il «popolo» ma che per molti pensatori tedeschi abbraccia la nozione di «un insieme di individui legati da una “essenza” trascendente, volta a volta definita “natura” o “cosmo” o “mito”, ma in ogni caso tutt’uno con la più segreta natura dell’uomo e che costituiva la fonte della sua creatività, dei suoi sentimenti più profondi, della sua individualità, della sua comunione con gli altri membri del Volk».5 Qui possiamo dire che il Volk venne a incarnare una connessione immortalizzante con la sostanza razziale e culturale eterna. E tale connessione comincia a metterci in contatto con la versione nazista dell’«immortalità rivoluzionaria».6
Il paradigma delimita anche l’atteggiamento combinato di impegno e di distacco proprio del ricercatore, atteggiamento consistente nell’esprimere il proprio inevitabile impegno nella difesa di valori morali, piuttosto che contrabbandarli attraverso l’affermazione di una neutralità morale assoluta e, al tempo stesso, nel conservare un sufficiente distacco per applicare i princìpi tecnici e scientifici della propria disciplina. Il mio impegno comprende la difesa dei princìpi e valori connessi al fatto di essere un americano, di essere un medico, uno psichiatra, un ebreo e un essere umano che si interessa alle forze di distruzione presenti nel nostro mondo, e al mio atteggiamento generalmente critico su questioni etiche, sociali e politiche.
L’equilibrio, per quanto difficile da mantenere, che ho ricercato nel trattare queste tragiche esperienze è quello descritto da Martin Buber come un equilibrio di «distacco e relazione».
Nello sterminio nazista, possiamo dire che fu abbattuta una barriera, varcato un confine: il confine fra immagini di violenza e uccisioni periodiche di vittime (per esempio di ebrei nei pogrom) da un lato e il genocidio sistematico ad Auschwitz dall’altro. La mia tesi in questo studio è che la giustificazione medica dell’omicidio – la fantasia di uccidere per guarire – fu determinante in vista del compimento di quel terribile passo. Al cuore dell’impresa nazista, quindi, c’è la distruzione del confine fra guarigione e uccisione.
Le prime descrizioni di Auschwitz e di altri campi della morte si concentrarono sul sadismo e la malvagità del personale del lager: militari, ufficiali e medici nazisti. Ma gli studiosi successivi di questo processo si resero conto che il sadismo e la malvagità da soli non erano sufficienti per spiegare il massacro di milioni di persone. L’accento si spostò quindi sulla burocrazia dell’eccidio: la funzione burocratica distaccata, senza volto, descritta in origine da Max Weber e ora applicata all’omicidio di massa.7 Questo concentrarsi dell’interesse sulla cieca violenza è estremamente importante ed è in accordo con quella che ci apparirà come la routinizzazione dell’intero funzionamento del lager di Auschwitz.
Eppure questo concentrarsi dell’attenzione su taluni aspetti particolarmente significativi non è di per sé sufficiente. Questi aspetti devono essere visti in relazione alle motivazioni visionarie associate all’ideologia, e in connessione con gli specifici meccanismi psicologici individuali che permettevano a determinate persone di uccidere. Quello che io chiamo «omicidio situato in una visione medica» (medicalized killing) attinge a questi princìpi motivazionali e a questi meccanismi psicologici, e ci permette di capire i carnefici di Auschwitz – in particolare i medici nazisti – tanto come parte di una burocrazia dell’eccidio quanto come singoli partecipanti di cui si possono esaminare gli atteggiamenti e il comportamento.
L’omicidio situato in una visione medica può essere inteso da due punti di vista più ampi. Il primo è il metodo per così dire «chirurgico» per uccidere un gran numero di persone per mezzo di una tecnologia controllata, servendosi di gas altamente tossico; il metodo usato permise l’instaurarsi di un certo distacco fra uccisori e vittime. Il conseguimento di questo distacco ebbe un’importanza considerevole per i nazisti, in quanto permise di alleviare i problemi psicologici sperimentati (come attestano di continuo documenti nazisti) dalle truppe dei gruppi operativi (Einsatzgruppen) che dovevano eseguire fucilazioni faccia a faccia di ebrei nell’Europa orientale (vedi qui alle pp. 223-224): problemi che non impedirono peraltro a quelle truppe di massacrare 1.400.000 ebrei.8
Io potei procurarmi prove dirette su questo argomento durante un’intervista con un ex neuropsichiatra della Wehrmacht che aveva curato un gran numero di uomini delle Einsatzgruppen affetti da disturbi psicologici. Egli mi disse che tali disturbi assomigliavano alle reazioni che si riscontrano nelle truppe comuni impegnate in combattimento: una forte ansia, incubi, tremito e numerosi disturbi fisici. Ma in queste «truppe della morte», com’egli le definì, i sintomi tendevano a durare più a lungo e a essere più gravi. Egli stimò che il 20 per cento di coloro che venivano usati per le esecuzioni sperimentarono questi sintomi di scompenso psichico. Metà circa di quel 20 per cento associarono i loro sintomi principalmente al carattere «spiacevole» di quel che dovevano fare, mentre l’altra metà sembrava avere dei problemi morali a sparare in quel modo su delle persone. Quegli uomini provarono la massima difficoltà psicologica quando dovettero sparare a donne e bambini, specialmente bambini. Molti sperimentarono nei loro sogni un senso di colpa, che poté comprendere varie forme di punizione o di vendetta. Una tale difficoltà psicologica condusse i nazisti a cercare un metodo di uccisione più «chirurgico».
C’è però un’altra prospettiva sull’omicidio situato in una visione medica che è stata secondo me insufficientemente riconosciuta: l’omicidio come imperativo terapeutico. Questo tipo di motivazione emerse nelle parole di un medico nazista citato dalla famosa dottoressa sopravvissuta Ella Lingens-Reiner. Additando i camini lontani, essa chiese a un medico nazista, Fritz Klein: «Come può riconciliare ciò col suo giuramento [ippocratico] come medico?». Klein rispose: «Ovviamente sono un medico e desidero conservare la vita. E per rispetto verso la vita umana asporterei un’appendice incancrenita da un corpo malato. L’ebreo è l’appendice incancrenita nel corpo dell’umanità».9
Ma il repertorio di immagini mediche era ancora più ampio. Come nell’Ottocento la Turchia (a causa dell’estremo declino dell’Impero ottomano) era nota anche come «il malato d’Europa», così gli ideologi prima di Hitler e poi lo stesso Hitler interpretarono il caos e la demoralizzazione della Germania dopo la Prima guerra mondiale come una «malattia», specialmente della razza ariana. Hitler scrisse in Mein Kampf, alla metà degli anni Venti, che «Chi vuol salvare l’epoca nostra, malata e fradicia, deve in primo luogo avere il coraggio di identificare le cause di questa malattia».10 La diagnosi era razziale. L’unica razza genuinamente creatrice di cultura, la razza ariana, si era lasciata indebolire al punto che la sua stessa sopravvivenza era ora minacciata dai «distruttori della cultura», caratterizzati come «l’ebreo». Gli ebrei erano agenti di «inquinamento razziale» e di «tubercolosi razziale», oltre che parassiti e batteri che causavano malattia, degradazione e morte nei popoli ospiti che infestavano. Erano le «eterne sanguisughe», «vampiri», «veicoli di germi», «parassiti del popolo» e «larve in un cadavere in putrefazione».11 La cura doveva essere radicale: si doveva cioè (come si espresse uno studioso) «estirpare il “cancro della degenerazione”, favorendo la crescita degli elementi meritevoli e facendo avvizzire quelli meno degni... [e] “distruggere tutte le categorie di persone considerate indegne o pericolose”».12
La metafora medica si mescolava con la concreta ideologia biomedica nella sequenza nazista dalla sterilizzazione coatta alla diretta uccisione medica ai campi di sterminio. Il principio unificante dell’ideologia biomedica era quello di una malattia razziale mortale, la malattia della razza ariana; la cura era l’uccisione di tutti gli ebrei.
Così, per Hans Frank, giurista e governatore generale della Polonia durante l’occupazione nazista, «gli ebrei erano una specie di vita inferiore, una sorta di parassiti il cui contatto infettava con malattie mortali il popolo tedesco». Quando gli ebrei, nell’area da lui governata, fossero stati uccisi, «un’Europa malata ridiventerà sana».13 Era una religione della volontà: la volontà come «principio metafisico omnicomprensivo»,14 e ciò che i nazisti «volevano» non era nulla di meno che un controllo totale sulla vita e la morte. Benché questa concezione sia stata spesso presentata come un «darwinismo sociale», quest’espressione è suscettibile qui solo di un’applicazione molto vaga, limitata per lo più solo all’insistenza dei nazisti sulla «lotta» naturale e sulla «sopravvivenza dei più adatti». Il regime rifiutò in realtà gran parte del darwinismo; poiché la teoria evoluzionistica è più o meno democratica nel suo assunto di un’origine comune di tutte le razze, è in contrasto col principio nazista di una virtù razziale ariana intrinseca.15
Connesse ancor più specificatamente alla visione biomedica erano le rozze immagini genetiche, combinate con visioni eugeniche ancora più rozze (vedi pp. 43-45). Qui il sommo pontefice Heinrich Himmler parlò del compito dei dirigenti politici, assimilandolo a quello dello «specialista nella coltivazione di piante, che quando vuole selezionare un nuovo ceppo puro da una specie ben sperimentata che sia stata troppo esaurita da incroci, prima di tutto ispeziona il campo per eliminare le piante indesiderate».16
Il progetto nazista, quindi, non si ispirava tanto al darwinismo o al darwinismo sociale, quanto a una visione di controllo assoluto sul processo evolutivo, sul futuro umano biologico. Facendo ampio uso del termine darwiniano «selezione», i nazisti cercarono di arrogarsi le funzioni della natura (selezione naturale) e di Dio (il Signore ha dato, il Signore ha tolto) nell’orchestrare le loro proprie «selezioni», la loro versione dell’evoluzione umana.
In queste visioni i nazisti abbracciarono non solo versioni di un antisemitismo mistico medievale ma anche una rivendicazione più moderna (ottocentesca e novecentesca) di «razzismo scientifico». Caratteri ebrei pericolosi poterono essere connessi con presunti dati di discipline scientifiche, così che una «teoria razzista ortodossa» venne a formarsi dalla «fusione di antropologia, eugenica e pensiero sociale».17 La «biologia razziale e sociale» risultante poté far apparire rispettabili a uomini e donne colti forme immorali di antisemitismo.
Si può parlare dello Stato nazista come di una «biocrazia». Il modello cui ci si ispira in tal caso è quello di una teocrazia, un sistema di governo per opera di sacerdoti che si arrogano prerogative divine. Nel caso della biocrazia nazista, la prerogativa divina era quella della cura attraverso la purificazione e la rivitalizzazione della razza ariana: «Da un meccanismo morto, che può solo rivendicare l’esistenza per l’esistenza, deve formarsi un organismo vivo col fine esclusivo di servire un’idea superiore». Come in una teocrazia lo Stato stesso non è altro che un veicolo del disegno divino, così nella biocrazia nazista lo Stato non era altro che un mezzo per realizzare «una missione del popolo tedesco sulla terra»: quella di «raccogliere e conservare di questo popolo [del popolo ariano] i più preziosi fra gli elementi originarii di razza... [e]...di sollevarli... ad una posizione di predominio».18 La biocrazia nazista differiva da una teocrazia classica per il fatto che in essa i preti biologici non esercitavano effettivamente il governo. I chiari governanti erano Adolf Hitler e la sua cerchia, non i teorici della biologia e neppure i medici. (La differenza, però, è tutt’altro che assoluta: persino in una teocrazia governanti altamente politicizzati possono avanzare varie pretese a un’autorità sacerdotale.) In ogni caso, l’autorità nazista fu affermata nel nome del superiore principio biologico.
Fra le autorità biologiche cui si fece ricorso per esprimere e realizzare il «razzismo scientifico» – antropologi, genetisti e teorici razziali di ogni sorta –, i medici trovarono inevitabilmente un posto unico. Sono i medici a lavorare al confine fra la vita e la morte, a essere associati più strettamente all’aura paurosa dello sciamano e dello stregone primitivi, che sfidano la morte e a volte la danno. In quanto portatori di questo retaggio sciamanico e in quanto praticanti moderni delle arti misteriose della guarigione, erano i medici ad avere le maggiori probabilità di essere chiamati a diventare gli agenti di una selezione biologica.
Ho già detto che il mio interesse primario andava alla partecipazione dei medici nazisti all’omicidio collocato in una visione medica o biologica. Vedremo i loro esperimenti sull’uomo nella loro connessione col processo di sterminio e con la complessiva visione biomedica nazista. A Norimberga i medici furono processati solo limitatamente per la loro partecipazione all’eccidio, anche perché il pieno significato della loro partecipazione non era ancora compreso.19
Ad Auschwitz i medici nazisti presiedettero all’uccisione della maggior parte del milione di vittime di quel campo. Furono i medici a compiere le selezioni: sia alla banchina della stazione all’arrivo dei prigionieri ad Auschwitz sia in seguito nei lager e nei blocchi medici. I medici sovrintendevano all’uccisione nelle camere a gas e decidevano quando le vittime erano morte. I medici condussero un’epidemiologia omicida, mandando alle camere a gas gruppi di persone affette da malattie infettive, e a volte anche chiunque altro fosse ricoverato nello stesso blocco medico. I medici davano gli ordini e controllavano, e a volte eseguivano direttamente, l’uccisione di pazienti debilitati nei blocchi medici per mezzo di iniezioni di fenolo nel circolo sanguigno o nel cuore. In connessione con tutte queste uccisioni, i medici cercarono di salvare un’apparenza di legittimità medica: per la morte di internati ad Auschwitz e per altre persone portate nel lager per esservi uccise, firmarono falsi certificati di morte in cui il decesso veniva addebitato a malattie fittizie. I medici si consultavano attivamente sul modo migliore per far continuare le selezioni senza intoppi; sul numero di persone che si dovevano tenere in vita per soddisfare le richieste di mano d’opera servile della I.G. Farben ad Auschwitz; e su come bruciare il numero enorme di cadaveri, che metteva a dura prova la capacità degli impianti dei crematori.
In definitiva, possiamo dire che ai medici fu affidata gran parte della responsabilità dell’ecologia omicida di Auschwitz: la scelta delle vittime, il funzionamento dei meccanismi fisici e psicologici dell’eccidio e il bilanciamento dello sterminio con le esigenze del lavoro nel lager. Anche se non furono i medici a dirigere Auschwitz, furono loro a dare al lager una perversa aura medica. Come si espresse un sopravvissuto che era stato testimone attento di questo processo: «Auschwitz fu come un’operazione chirurgica» e «il programma di sterminio fu diretto da medici dal principio alla fine».
Possiamo dire che il medico che riceveva i deportati al loro arrivo alla banchina della stazione ferroviaria rappresentava una sorta di punto omega, un mitico guardiano fra il mondo dei morti e quello dei vivi, e che simboleggiava la visione nazista del risanamento attraverso l’eccidio di massa.
Parte Prima
Prima della creazione di Auschwitz e degli altri campi di sterminio, i nazisti istituirono una politica di uccisioni dirette per opera dei medici: ossia di uccisioni organizzate all’interno di canali medici, per mezzo di decisioni mediche ed eseguite da medici e da loro assistenti. I nazisti chiamarono questo programma «eutanasia». Poiché per loro questo termine camuffava lo sterminio, in questo libro l’ho usato fra virgolette ogni volta che si riferisce a tale programma.
I nazisti fondarono la loro giustificazione dell’uccisione medica diretta sul semplice concetto di lebensunwertes Leben (vita indegna di vita). Benché non siano stati i nazisti a introdurre questo concetto, furono loro a portarlo al suo estremo biologico, razziale e «terapeutico».
Dei cinque passi identificabili con cui i nazisti misero in atto l’eliminazione della «vita indegna di vita», o delle «vite senza valore», la sterilizzazione coatta fu il primo. Seguì l’uccisione di bambini «minorati» in ospedale; poi l’uccisione di adulti «minorati» – raccolti per lo più da ospedali psichiatrici – in centri appositamente equipaggiati con gas monossido di carbonio. Questo progetto fu esteso (negli stessi centri di eliminazione) a detenuti «minorati» dei campi di concentramento e di sterminio e, infine, agli eccidi di massa, per lo più di ebrei, nei campi di sterminio stessi. Nella Parte Prima esamineremo i primi quattro passi, in relazione alla visione biomedica complessiva dei nazisti e come preludio ad Auschwitz e ad altri campi di sterminio.
I
Il Führer ritiene la purificazione della professione medica molto più importante, per esempio, di quella della burocrazia, dal momento che, a suo avviso, il compito del medico è, o dovrebbe essere, un compito di direzione razziale.
Martin Bormann
Lo Stato völkisch deve vigilare affinché solo le persone sane abbiano figli... Qui lo Stato deve agire come il custode di un futuro millenario... Esso deve porre i mezzi medici più moderni al servizio di questa conoscenza. Deve dichiarare inadatti alla procreazione tutti coloro che sono visibilmente malati o che hanno ereditato una malattia e possono quindi trasmetterla a loro volta.
Adolf Hitler
Solo nella Germania nazista la sterilizzazione fu un’anticipazione dell’eccidio di massa. I programmi di sterilizzazione coatta non furono peculiari alla Germania nazista. Essi sono esistiti in gran parte del mondo occidentale compresi gli Stati Uniti, che hanno una storia di sterilizzazione coatta e a volte illegale, applicata per lo più allo strato inferiore della società. Fu negli Stati Uniti che una forma piuttosto semplice di vasectomia fu sviluppata in un istituto penale attorno alla svolta del secolo. Questo procedimento, assieme a un interesse crescente per l’eugenica, condusse, attorno al 1920, alla promulgazione, in venticinque Stati, di leggi che prevedevano la sterilizzazione obbligatoria dei pazzi criminali e di altre persone considerate geneticamente inferiori.
Non sorprende che Fritz Lenz, un medico genetista tedesco fautore della sterilizzazione (che sarebbe stato in seguito uno fra i principali ideologi nel programma nazista di «igiene razziale»), abbia potuto, nel 1923, accusare i suoi compatrioti di arretratezza nel campo della sterilizzazione rispetto agli Stati Uniti. Lenz deplorò che le disposizioni della Costituzione di Weimar (la quale proibiva di infliggere alterazioni corporee a esseri umani) impedissero un vasto uso delle tecniche della vasectomia; che in Germania non ci fosse nulla di paragonabile agli istituti di ricerca nel campo dell’eugenica dell’Inghilterra e degli Stati Uniti (per esempio quello di Cold Spring Harbor, nello Stato di New York, diretto da Charles B. Davenport e finanziato dalla Carnegie Institution di Washington e da Mary Harriman); e che la Germania non avesse alcun equivalente delle leggi americane che proibivano il matrimonio sia a persone affette da condizioni come l’epilessia o il ritardo mentale sia fra persone di razze diverse. Lenz criticò l’America solo per essersi concentrata in modo troppo generale sulla preservazione della «razza bianca» anziché, specificatamente, della «razza nordica»: egli era però convinto che «la prossima ripresa nella lotta millenaria per la vita della razza nordica sarà probabilmente combattuta in America».1a Questa singola riserva suggerisce che in Germania ci si stava già concentrando su un’entità razziale specifica, la «razza nordica» o «ariana», per quando essa non fosse confermata dalle conoscenze esistenti.
Negli Stati Uniti c’era stata una considerevole passione per l’eugenica razziale, e molti si erano adoperati a favore della sterilizzazione di un gran numero di criminali e di malati mentali per timore di una «degenerazione nazionale» e della minaccia alla sanità delle «razze civilizzate», che sembrava stessero «sprofondando biologicamente verso il basso». Al movimento americano di eugenica era associata una visione biomedica la cui estensione è suggerita dalla seguente citazione da un libro del 1923 di A.E. Wiggam: «Il primo monito che la biologia dà agli uomini di governo è che le razze avanzate dell’umanità stanno regredendo...; che la civiltà, qual è stata gestita finora, è autodistruttiva; che la civiltà distrugge sempre l’uomo che la costruisce; che i vostri grandi sforzi per migliorare la sorte dell’uomo, anziché migliorare l’uomo, stanno affrettando l’ora della sua distruzione».3b
(È opportuno fare una chiara distinzione fra genetica ed eugenica. La genetica era, ed è, una scienza legittima, anche se a quell’epoca aveva solo uno sviluppo limitato [i suoi inizi come scienza coincidono col riconoscimento delle leggi di Mendel nel 1900]; i suoi princìpi furono applicati in modo rozzo, spesso erroneo, dai nazisti. Il termine «eugenica» fu coniato da Francis Galton nel 1883 per indicare il principio del rafforzamento di un gruppo biologico sulla base di chiare qualità positive ereditarie; nonostante le sue tesi evoluzionistiche e il posteriore riferimento alle leggi della genetica, l’eugenica non ha alcuno status scientifico.)
La versione tedesca dell’eugenica ebbe però un tono caratteristico di eccesso romantico, come nella dichiarazione giovanile di Lenz (1917), in una tesi scritta per il suo professore Alfred Ploetz (darwinista sociale e fondatore, nel 1904, della Società Tedesca per l’Igiene Razziale), che «il criterio di valore è la razza» e che «lo Stato non esiste per assicurare che siano garantiti al cittadino i suoi diritti, bensì per servire la razza». Lenz intese il suo compito come una difesa di un «socialismo organico» e temette che, in assenza di un progetto radicale di eugenica, «la nostra razza [nordica] sia condannata all’estinzione».5
Per tedeschi come Lenz l’istituzione di una diffusa sterilizzazione obbligatoria divenne negli anni Venti una missione sacra: una missione che li condusse ad abbracciare il nazionalsocialismo, col suo impegno simile in difesa della razza. Benché i fautori americani e inglesi dell’eugenica si siano avvicinati talvolta a questo eccesso romantico tedesco, i sistemi politici nei due paesi permettevano una critica aperta e la possibilità di far ricorso alla legge. In Gran Bretagna ci fu una continua resistenza legale alla sterilizzazione coatta; e negli Stati Uniti fu possibile sollevare questioni legali concernenti i diritti individuali e la limitata conoscenza delle leggi dell’ereditarietà, situazione che condusse infine a far abrogare o a rendere inoperanti le leggi sulla sterilizzazione negli Stati in cui esse erano state approvate.c Nella Germania nazista, d’altra parte, il romanticismo genetico di una visione biomedica estrema si combinò con una struttura politica totalitaria per consentire alla nazione di portare avanti inflessibilmente, e senza interferenze legali, un programma di sterilizzazione obbligatoria più esteso di quanto non si fosse mai tentato in precedenza. Di fatto l’intero regime nazista fu costruito su una visione biomedica che richiedeva il tipo di purificazione razziale destinato infine a passare dalla sterilizzazione all’eccidio di massa.d
Già al tempo della pubblicazione di Mein Kampf, fra il 1924 e il 1926, Hitler aveva dichiarato che la sacra missione razziale del popolo tedesco era quella di «raccogliere e conservare... i più preziosi fra gli elementi originari di razza [e]... di sollevarli, con lentezza ma in modo sicuro, ad una posizione di predominio». Hitler fu chiarissimo sulla necessità della sterilizzazione («i mezzi medici più moderni») a sostegno di una visione immortalizzante della razza mediata dallo Stato («un futuro millenario»). E per lui il rischio era assoluto: «Se non è più presente la forza per lottare per la propria salute, cessa il diritto di vivere in questo mondo di lotta».9
Una volta giunto al potere – Hitler prestò il giuramento come cancelliere del Terzo Reich il 30 gennaio 1933 –, il regime nazista fece della sterilizzazione la prima applicazione dell’immaginazione biomedica a questo problema della vita o morte collettiva. Il 22 giugno il ministro degli Interni, Wilhelm Frick, introdusse una prima legge sulla sterilizzazione dichiarando che la Germania stava correndo un grave pericolo di Volkstod (morte del popolo [o anche della nazione o della razza]) e che erano perciò imperative misure forti e radicali. La legge entrò in vigore tre settimane dopo, meno di sei mesi dopo che Hitler era diventato cancelliere, e fu poi ampliata per mezzo di emendamenti nel corso di quello stesso anno. Essa divenne la dottrina di base per la sterilizzazione e fissò l’orientamento di fondo per l’approccio medico del regime al problema delle «vite senza valore». Fra i «malati ereditari» che dovevano essere sterilizzati chirurgicamente erano incluse le categorie della debolezza di mente congenita (oggi chiamata deficienza mentale), con una stima di 200.000 persone; della schizofrenia (80.000); della psicosi maniaco-depressiva (20.000); dell’epilessia (60.000); della corea di Huntington (una malattia cerebrale ereditaria, 600); della cecità ereditaria (4000); della sordità ereditaria (16.000); delle malformazioni gravi (20.000); e dell’alcolismo ereditario (10.000). Il totale previsto di 410.000 fu considerato solo provvisorio, e risultava dai dati forniti dagli istituti in cui queste persone erano degenti; ci si attendeva però che sarebbero state infine identificate e sterilizzate un numero molto maggiore di persone.
Furono fondati speciali «Tribunali per la Sanità Ereditaria» cui furono demandate le decisioni sulla sterilizzazione, e la loro composizione rifletté la combinazione desiderata di prospettiva medica e di influenza del Partito nazista. Dei tre membri, due erano medici – uno era un funzionario sanitario amministrativo che aveva probabilmente stretti legami col partito e l’altro era presumibilmente un esperto su problemi di sanità ereditaria –; il terzo era un giudice distrettuale, anche lui presumibilmente vicino al regime, che fungeva da presidente e da coordinatore. C’erano anche corti di appello, le quali prendevano le decisioni definitive in casi contestati; in esse prestavano servizio alcuni fra i direttori sanitari più autorevoli del regime. I medici avevano l’obbligo di riferire ai funzionari sanitari i nomi di tutti coloro che a loro conoscenza, per essersi imbattuti in loro nell’esercizio della loro professione o per averlo appreso in altro modo, rientravano nelle citate categorie per la sterilizzazione, e anche di fornire testimonianza in proposito, facendo in questo caso eccezione al principio del segreto professionale. I medici eseguivano inoltre gli interventi chirurgici. L’intero processo era sostenuto dalla legge e dal potere di polizia.10
Il 18 ottobre 1935, alle famigerate leggi di Norimberga (del 15 settembre) che proibivano il matrimonio o qualsiasi contatto sessuale fra ebrei e non ebrei seguì un’importante ordinanza che regolamentava la sterilizzazione e la concessione di licenze di matrimonio. I legislatori di Norimberga descrissero se stessi come «profondamente consapevoli che la purezza del sangue tedesco è una condizione perché il popolo tedesco possa continuare a esistere, e inflessibilmente determinati a rendere la nazione tedesca sicura per tutto il tempo futuro».11
Ci furono discussioni di metodo rivelatrici. I procedimenti chirurgici preferiti erano la legatura dei dotti deferenti nell’uomo e quella delle tube ovariche nella donna. Il professor G.A. Wagner, direttore della Clinica ginecologica dell’Università di Berlino, sostenne che la legge permetteva di decidere per l’ablazione dell’intero utero in donne mentalmente deficienti. La sua involuta argomentazione si fondava sul principio della «sanità ereditaria»: le donne mentalmente deficienti, dopo essere state sterilizzate, avrebbero esercitato con ogni probabilità una particolare attrazione sul sesso opposto (che non avrebbe avuto bisogno di preoccuparsi di possibili gravidanze) e sarebbero quindi state soggette a sviluppare la gonorrea, che quando attacca la cervice dell’utero è particolarmente resistente al trattamento; gli uomini che avessero quindi contratto la gonorrea da queste donne avrebbero contagiato a loro volta altre donne con tratti ereditari desiderabili e le avrebbero rese sterili. Altri commentatori medici, facendo un ragionamento meno genetico e più spiccatamente moralistico, erano favorevoli all’asportazione dell’utero in quelle candidate alla sterilizzazione che avessero presentato una tendenza alla promiscuità.e Ancor più presago di sventure fu un editto ufficiale che permetteva la sterilizzazione per mezzo di irradiazione (con raggi X o col radio) in certi casi specificati «sulla base di esperimenti scientifici».13 Questi esperimenti, intesi ufficialmente a migliorare le procedure mediche per casi specifici, furono un passo preliminare verso posteriori esperimenti di massa di sterilizzazione con raggi X, i quali avrebbero procurato gravi danni, e sarebbero stati talvolta fatali a uomini e donne ebrei, ad Auschwitz e altrove.
I direttori di istituti di cura di vario genere avevano una forte tendenza a sterilizzare, per eliminare la possibile influenza ereditaria di una grande varietà di condizioni: cecità, sordità, difetti congeniti e stati di «invalidità» come piede deformato da talismo, labbro leporino e palatoschisi.14 La visione del mondo dominata dalla genetica suggeriva ai medici di prendere in considerazione la possibilità di sterilizzare non solo gli individui deboli e menomati ma anche i loro parenti, tutti coloro che potessero essere «portatori» di tali difetti. Non sorprende che sia stato Fritz Lenz a portare il concetto più avanti di ogni altro, suggerendo l’opportunità di sterilizzare le persone che presentassero anche i minimi segni di malattia mentale, anche se riconobbe che un’applicazione radicale di questo principio avrebbe condotto alla sterilizzazione del 20 per cento della popolazione tedesca totale: qualcosa come venti milioni di persone!15
In una tale atmosfera, era probabile che gli sforzi umanitari assumessero la forma di interventi miranti a limitare l’applicazione della legge o ad ottenere eccezioni: per esempio, il famoso psichiatra antinazista di Berlino Karl Bonhoeffer raccomandò di non sterilizzare le persone che a difetti ereditari abbinavano qualità o talenti non comuni; e lo psichiatra di Monaco di Baviera Oswald Bumke raccomandò di non sterilizzare le persone non schizofreniche ma solo schizoidi, oltre a sostenere che la schizofrenia stessa non poteva essere eliminata per mezzo della sterilizzazione a causa della complessità delle influenze ereditarie.16 (I tribunali per l’eugenica fecero a volte delle eccezioni per persone dotate artisticamente.)
Il regime scoraggiò però le eccezioni e si servì di una retorica dell’emergenza medica: persone con tare ereditarie che si trovavano ancora nel fiore degli anni erano «pazienti pericolosi» e «casi urgenti». Fra i «casi urgenti» c’erano uomini e donne mentalmente deficienti ma fisicamente sani di età compresa fra sedici e quarant’anni, pazienti schizofrenici e maniaco-depressivi in una fase di remissione, epilettici e alcolisti di età inferiore a cinquant’anni eccetera.17 Una volta ottenuto lo scopo di far ascoltare una petizione dinanzi a un tribunale per la sterilizzazione, il dado era ormai tratto. Più del 90 per cento delle petizioni presentate ai tribunali speciali nel 1934 non riuscirono a impedire la sterilizzazione (anche se un processo di cernita ne eliminò alcune prima ancora che potessero essere ascoltate in tribunale); e meno del 5 per cento degli appelli contro la sterilizzazione presentati alle corti superiori furono accolti.18 Fu nondimeno estremamente importante avere affermato il principio di legalità, e il segreto rigoroso che circondava le deliberazioni del tribunale conferì potere e mistero a quest’espressione di un’autorità fondata su basi biomediche.
La struttura legale occultò una situazione di grande caos e arbitrio nei criteri per la sterilizzazione (specialmente per quanto concerneva le condizioni mentali, che furono la causa del massimo numero di sterilizzazioni), anche in relazione a presunti caratteri ereditari. Era inevitabile che sulle diagnosi e sulle decisioni incidessero pure considerazioni politiche, come fu chiarito da una direttiva di Martin Bormann, il segretario privato e stretto collaboratore di Hitler, il quale precisò che, nel formulare una diagnosi di debolezza mentale, si doveva tener conto del comportamento morale e politico di una persona. La chiara implicazione era che si poteva etichettare come «debole di mente» senza andare troppo per il sottile una persona ostile ai nazisti, mentre si doveva usare molta prudenza prima di applicare una tale etichetta a un membro del partito entusiasticamente fedele alla sua ideologia. Il progetto risentì in vario modo anche di correnti e vicende politiche; e, nonostante l’alta priorità attribuita alla sterilizzazione, ci furono senza dubbio periodi di calo dell’entusiasmo; stime attendibili parlano di un numero di interventi compreso fra 200.000 e 350.000.19
In associazione alle leggi sulla sterilizzazione, e come ulteriore espressione di politica razziale, furono intrapresi passi per creare un archivio nazionale di persone con tare ereditarie. Speciali istituti di ricerca per la biologia ereditaria e l’igiene razziale furono fondati nelle università: per esempio quello istituito da Otmar von Verschuer, professore a Francoforte. Questi istituti ricercavano informazioni genetiche su individui andando a ritroso per varie generazioni, e si servivano di ospedali, tribunali e istituzioni sanitarie locali e nazionali. Il medico, in quanto consulente genetico e funzionario di polizia, poteva essere considerato il vigile «protettore della famiglia che è priva di tare ereditarie».20 In altri termini, la sterilizzazione era il fulcro medico della biocrazia nazista.
La presenza medica dominante nel programma di sterilizzazione nazista fu il dottor Ernst Rüdin, uno psichiatra di fama internazionale nato in Svizzera. Allievo in origine del grande psichiatra classico Emil Kraepelin, Rüdin divenne uno stretto collaboratore di Alfred Ploetz nella fondazione della Società Tedesca per l’Igiene Razziale. Rüdin fu un ricercatore infaticabile e vide come sua missione l’applicazione di leggi mendeliane e di princìpi di eugenica alla psichiatria. Un suo ex studente e collaboratore mi disse che «lo scopo della sua vita» era quello di stabilire la base genetica delle condizioni psichiatriche, e che egli «non era tanto un fanatico nazista quanto un fanatico genetista».
Rüdin divenne però un nazista, iscrivendosi al partito nel 1937, all’età di sessant’anni. Dalla sua posizione prestigiosa di direttore dell’Istituto di Ricerca per la Psichiatria della Kaiser-WilhelmGesellschaft di Monaco di Baviera, Rüdin collaborò strettamente con un regime di cui approvava l’impegno verso princìpi di genetica, e fu uno fra i principali artefici delle leggi sulla sterilizzazione. Egli divenne una fonte importante di legittimazione scientifica per le misure di politica razziale del regime (fornendo fra l’altro una consulenza a Hans F.K. Günther, il principale pubblicista-antropologo nazista su questioni razziali, le cui qualità intellettuali erano ritenute di solito molto basse). Rüdin non fu coinvolto direttamente nelle uccisioni mediche dirette del programma di «eutanasia»; ma un suo collega più giovane, con cui ebbi occasione di parlare di lui, aveva l’impressione che Rüdin, anche se nutriva dei dubbi sul programma, poteva benissimo averne favorito una versione sottoposta a un accurato controllo medico.
In un numero speciale della sua rivista, «Archiv für Rassen- und Gesellschaftsbiologie», uscito nel 1943, che celebrava il primo decennale del governo nazionalsocialista, Rüdin esaltò Hitler e il movimento «per il passo avanti decisivo... e innovatore verso l’obiettivo di tradurre l’igiene razziale in realtà nel popolo tedesco... e di frenare la propagazione delle persone congenitamente malate e inferiori». Egli elogiò sia le leggi di Norimberga per aver «prevenuto l’ulteriore penetrazione di sangue ebraico nel pool genico tedesco» sia le SS per il loro «obiettivo ultimo, la creazione di un gruppo speciale di persone medicalmente superiori e sane del tipo nordico germanico».21
Un suo parente stretto, anche lui medico, mi disse che Rüdin ritenne «necessario» scrivere tali cose e, in risposta alla mia domanda se a quel tempo ne fosse veramente convinto, rispose: «Metà e metà». Benché a quanto pare Rüdin sia stato infine deluso del regime, non riuscì mai (secondo un suo ex collega) a indursi a rinunciare alle proprie posizioni, ma cercò sempre di fare qualcosa dall’interno.f
Nessuno di coloro con i quali io ebbi occasione di parlare pensava che Rüdin fosse una persona crudele; al contrario, egli era considerato una persona cortese e scrupolosa nel suo lavoro. Eppure non solo egli servì il regime ma, con la sua persona e la sua reputazione scientifica, contribuì a dare una base medica alle misure di politica razziale: non tanto a quelle del programma di «eutanasia» quanto piuttosto a quelle miranti a sopprimere la continuità della vita in gruppi specifici. Rüdin dimostra anche, in forma estrema, quale attrazione la visione biomedica nazista potesse esercitare su un certo tipo di scienziato a orientamento biologico e genetico.
Pare non ci sia stata molta opposizione alla sterilizzazione. La Chiesa cattolica la disapprovò, ma evitò di affrontare il problema e fece poco di più che esercitare pressioni perché giudici e medici cattolici fossero esentati dall’applicare la legge. Un giudice a una Corte di Appello per la Sanità Ereditaria sollevò il problema interessante dell’«onere di una responsabilità insolita» addossata ai medici cui veniva chiesto di eseguire operazioni che «non rispondono ad alcun fine terapeutico». Gerhard Wagner – che era allora la principale autorità medica nazista e uno zelante fautore della sterilizzazione – negò che nei medici ci fosse alcun conflitto morale del genere; e un quotidiano del partito pubblicò una colonna dal titolo significativo «Vita o morte» in cui si faceva la semplice considerazione che la vita della nazione aveva la precedenza su «dogmi e conflitti di coscienza», e in cui si avvertiva che l’opposizione al programma del governo si sarebbe imbattuta in una forte rappresaglia.23
La grande maggioranza dei medici da me intervistati mi dissero che a quell’epoca approvarono le leggi sulla sterilizzazione. Essi credevano che esse fossero in accordo con la conoscenza medica e genetica del tempo sulla prevenzione delle tare ereditarie, anche se alcuni di questi medici ebbero qualche esitazione nell’approvare il carattere coercitivo delle leggi. Tutti i medici insistettero nel modo più fermo sulla distinzione assoluta fra quelle misure di sterilizzazione e la posteriore «eutanasia».
Le decisioni sulla sterilizzazione furono accompagnate da lotte burocratiche sia fra medici e avvocati sia fra fautori estremamente ardenti e altri molto più tiepidi del procedimento. Un medico da me intervistato, Johann S., che era stato fra i principali organizzatori dei programmi medici nazisti fra cui quello della sterilizzazione, e che aveva dato un contributo importante alla loro stesura, pensava che «la legge fu del tutto sconvolta dagli uomini di legge». Se colleghi erano fortemente convinti che «sarebbe stato più appropriato lasciare questa decisione [su chi e quando sterilizzare] a un gruppo di medici». Benché in seguito vari psichiatri abbiano sostenuto di essere stati costretti a operare in un regime di costrizione, il dottor S. riferì di casi in cui si dovette impedire loro di praticare la sterilizzazione di persone sofferenti di difficoltà psicologiche relativamente lievi, come una depressione curabile. Egli disse che lo stesso Gerhard Wagner (che egli tendeva a glorificare) aveva esortato alla moderazione un medico-funzionario sanitario, ammonendolo: «Questa non è una caccia al coniglio». Il dottor S. riconobbe che era diffuso un eccesso di zelo, ma tendeva a scusarlo come un prodotto dell’idealismo di quel tempo: «Non si può negare il grande entusiasmo che sostenne gli sviluppi fra il 1933 e il 1939. Ognuno voleva dare il suo contributo. Una delle prime leggi nazionalsocialiste a essere promulgata fu quella sulla sanità [ereditaria]. Così i funzionari sanitari [dello Stato] dimostrarono la loro ambizione di fare sterilizzare il maggior numero possibile di persone».
La nazificazione della professione medica – un aspetto chiave nel passaggio dalla sterilizzazione all’uccisione medica diretta – fu conseguita per mezzo di una combinazione di entusiasmo ideologico e di terrore sistematico. In un manuale influente di Rudolf Ramm, della facoltà di medicina dell’Università di Berlino, si diceva che il medico non doveva più limitarsi semplicemente alla cura dei malati, ma doveva diventare un «coltivatore dei geni», un «medico del Volk» e un «soldato della biologia». Pur ricollegandosi a forme tradizionali di idealismo medico («vocazione interiore, alta etica, conoscenza profonda..., sacrificio e dedizione»), Ramm sostenne che si doveva abbandonare il vecchio «spirito liberal-materialistico» (associato specialmente alla nefasta influenza degli ebrei nella professione) e acquistare invece «la Weltanschauung idealistica del nazionalsocialismo». Così, il medico poteva mettere in pratica quello che Gerhard Wagner identificò come il compito del suo Ufficio di Sanità Pubblica: la «promozione e perfezione della sanità del popolo tedesco... Far sì che la gente si renda conto di tutto il potenziale del proprio patrimonio razziale e genetico».24 Ramm continuò parlando di «grandi passi avanti nel pensiero biologico» compiuti sotto il nazionalsocialismo, i quali consentivano ai dirigenti medici di assumere una parte importante in progetti per rovesciare il corso della degenerazione razziale, come le leggi di Norimberga e il programma di sterilizzazione. Per mettere in pratica in modo appropriato questi programmi, il singolo medico doveva diventare un «medico genetista» (Erbarzt). Solo così egli sarebbe potuto diventare un «custode della razza» e un «politico demografico». Svolgendo funzioni di «cura pubblica» consistenti nell’impedire la «bastardizzazione in conseguenza della propagazione di elementi indegni e razzialmente estranei... e nel conservare e accrescere quelli di sana eredità», egli poteva conseguire l’obiettivo nazionale di «mantenere puro il nostro sangue».25
Ramm analizzò anche le virtù della sterilizzazione ed etichettò come «erronea» la convinzione diffusa che in nessuna circostanza il medico dovesse togliere la vita al paziente, giacché per i malati affetti da malattie fisiche o mentali incurabili l’«eutanasia» era il trattamento più «pietoso» e «un dovere verso il Volk». Quel dovere era sempre centrale. Il medico doveva interessarsi alla sanità del Volk ancor più che alle malattie dell’individuo e doveva insegnare alla gente a superare il vecchio principio individualistico del «diritto al proprio corpo» e ad abbracciare invece il «dovere di essere sani».26 Così, Johann S. mi parlò con orgoglio del principio di essere «medico del Volkskörper [“corpo nazionale” o “corpo del popolo”]» e del «nostro dovere... verso la collettività».
Il manuale di Ramm specificava anche che un medico doveva essere un militante della biologia, «un soldato della biologia sempre sul chi vive» ispirato dalla «grande idea della struttura biologica di Stato del nazionalsocialismo» (vedi anche p. 184). Esso sosteneva infatti che «il nazionalsocialismo, a differenza di qualsiasi altra filosofia politica o di qualsiasi altro programma di partito, è in accordo con la storia naturale e con la biologia dell’uomo».27
I medici potevano vibrare nel ricevere quel messaggio. Il dottor S., per esempio, disse di essersi iscritto al Partito nazionalsocialista subito dopo avere udito il vice di Hitler nel partito, Rudolf Hess, dire, in un raduno di massa nel 1934, che «il nazionalsocialismo non è altro che biologia applicata». E nel suo lavoro di organizzazione medica nazista questo medico vide se stesso impegnato primariamente a diffondere un messaggio biologico: «Volevamo mettere in pratica le leggi della vita, che sono leggi biologiche». La sua fazione medica rifiutava qualsiasi politica che non seguisse quel principio: «Noi intendemmo il nazionalsocialismo dal versante biologico: introducemmo considerazioni biologiche nelle misure politiche [del partito]». Il dottor S. sottolineò la convinzione che solo i medici posseggono la combinazione di conoscenza teorica e di esperienza umana diretta necessaria per svolgere la funzione degli autentici evangelisti biologici: «Ogni medico che esercita la professione ha una conoscenza della biologia molto superiore a quella di un filosofo o di qualsivoglia altra persona, avendone un’esperienza diretta».
Nello stesso tempo si sosteneva che l’identità desiderata del medico nazista era un prodotto naturale della tradizione medica: una tradizione che ora richiedeva la «germanizzazione» e l’«eugenicizzazione». Un volume riccamente illustrato di due storici della medicina era intitolato Der Antlitz des germanischen Arztes in vier Jahrhunderten (Il volto del medico tedesco nel corso di quattro secoli). Esso presentava Paracelso, il grande medico-alchimista svizzero-tedesco del Cinquecento, elogiandolo sia per il suo empirismo scientifico sia per il suo nazionalismo. Il libro attribuiva a Paracelso la frase seguente: «Ogni paese ha sviluppato la sua malattia, la sua medicina e il suo medico». Scienziati tedeschi più recenti, fra cui specialmente Carl Correns, che eseguì ricerche di avanguardia nel campo della genetica vegetale, venivano lodati per avere «gettato le basi per le misure di eugenica e di biologia razziale dello Stato popolare nazionalsocialista». Nel libro veniva indicato il grado degli autori nel corpo delle SS;g e l’introduzione di Ernst Robert von Grawitz, medico capo delle SS, proponeva il concetto del medico tedesco, passato e presente, come il «protettore della vita» che «sa di avere profondi doveri nei confronti del futuro del nostro Volk».28h
Un’introduzione analoga a un volume di etica medica fu scritta da Joachim Mrugowsky, medico SS di grado elevato che divenne direttore dell’Istituto di Igiene, responsabile della conservazione e distribuzione del gas Zyklon-B usato ad Auschwitz. Mrugowsky fu condannato a morte a Norimberga nel 1948 per il suo esteso coinvolgimento in esperimenti medici mortali. Il libro per il quale Mrugowsky scrisse l’introduzione era stato composto un centinaio di anni prima da Christoph Wilhelm Hufeland, uno dei grandi medici umanisti tedeschi moderni. Nella sua introduzione, Mrugowsky si concentrò sulla funzione del medico come «sacerdote della sacra fiamma della vita» (per usare le parole di Hufeland) e sull’«arte della guarigione» come «missione divina» del medico. Anticipando in parte il proprio futuro, egli parlò dell’eliminazione nazionalsocialista della distinzione fra ricerca e guarigione, giacché i risultati del lavoro del ricercatore vanno a vantaggio del Volk.29
Inevitabilmente, l’ideale medico nazista risaliva a Ippocrate e si riferiva al giuramento ippocratico. La tesi era che la medicina fosse stata «despiritualizzata» principalmente da quello che Gerhard Wagner identificò come «lo spirito orientato in senso meccanicistico» degli insegnanti ebrei. Occorreva quindi «tornare all’etica e all’alto status morale di una generazione anteriore... che poggiava sul solido terreno filosofico» del giuramento ippocratico.30 Infine, lo stesso Reichsführer delle SS e capo supremo del sistema della polizia tedesca, Heinrich Himmler, additò in Ippocrate un modello per i medici SS. In una breve introduzione a una collana di libriccini per medici SS col titolo generale «Medici eterni», Himmler parlò del «grande medico greco Ippocrate», dell’«Unità del carattere e dell’opera» della sua vita, la quale «proclama una moralità la cui forza è ancor oggi intatta e continuerà a determinare l’azione e il pensiero della medicina anche in futuro». La collana era diretta da Grawitz e possedeva, come imprimatur supremo, l’«autorizzazione» niente di meno che dello stesso Himmler.31 Al processo dei medici a Norimberga, un testimone riferì che l’accettazione dei princìpi di Ippocrate da parte dei nazisti era «un’atroce ironia della storia universale».32 Ma questa assurdità estrema aveva una sua logica interna: il senso di riplasmare la professione medica – e l’intera nazione tedesca – al servizio di una nozione più vasta di risanamento.
Ci fu un’area in cui i tedeschi insistettero per una chiara rottura con la tradizione medica. Essi organizzarono un attacco concertato contro quella che considerarono una compassione cristiana esagerata per gli individui deboli a scapito della sanità del gruppo, del Volk. Questa posizione parzialmente nietzschiana, quale fu espressa da Ramm, comprendeva un rifiuto del principio cristiano della caritas e del comandamento della Chiesa di «prestare ogni cura alla persona affetta da una malattia incurabile e darle un aiuto medico fino alla morte».33 La stessa posizione fu espressa nel periodico medico «Ziel und Weg» sin dal tempo della sua fondazione nel 1931. Il problema fu formulato in termini molto decisi dal dottor Arthur Guett, un funzionario sanitario di rango elevato, il quale dichiarò che «l’amore mal concepito per il prossimo deve sparire... È dovere supremo dello Stato... garantire vita e mezzi di sussistenza solo alla parte in buona salute ed ereditariamente sana della popolazione, allo scopo di assicurare... un popolo (Volk) ereditariamente sano e razzialmente puro per tutta l’eternità». Egli aggiunse il principio visionario-idealistico che «la vita dell’individuo ha significato solo alla luce di un tale fine supremo».34 Ci si attendeva che il medico, come ogni altra persona nella Germania nazista, diventasse «indurito», per adottare quella che lo stesso Hitler chiamò la «logica glaciale» del necessario.
La nota dominante della politica nazista era la trasformazione, nelle parole di Ramm: «Un mutamento nell’atteggiamento di ogni e ciascun medico, e una rigenerazione spirituale e mentale dell’intera professione medica». Il vero medico, inoltre, «non deve solo essere esteriormente un membro del partito ma dev’essere convinto nel suo intimo più profondo delle leggi biologiche che formano il centro della sua vita». Egli doveva essere anche «un predicatore di queste leggi».35 Il dottor S. credeva che la medicina nazista avesse conseguito una parte di questa trasformazione: essa aveva cioè superato l’insistenza eccessiva su «cose tecniche», era tornata alla tendenza anteriore di «conoscere solo casi e non persone» e di «mettere in primo piano le questioni della psiche che erano state trascurate».
Ma i nazisti cercavano qualcosa di più della mera integrazione psicosomatica o della medicina «olistica»: la loro ricerca aveva la qualità del misticismo biologico e medico. Mrugowsky, per esempio, scrisse, nell’introduzione già citata, che «oggi il Volk [tedesco] è sacro per noi». Quanto al rapporto del medico al Volk, o alla «comunanza di destino», Mrugowsky aggiunse che «solo nell’arte di guarire egli trova il mito della vita».36 Altri autori avevano visto il Terzo Reich come «immanente nell’intera storia tedesca, la quale tende verso il momento in cui il Volk diventa il vaso di Dio».37 Ma nella visione che sto descrivendo, i medici-biologi videro in se stessi il nucleo centrale del corpo mistico del Volk.
Doveva svilupparsi, come si espresse un medico, «una totalità della comunità dei medici, con medici totalmente dediti al Volk». L’espressione usata da questo medico per designare il suo misticismo biologico era «socialismo biologico». I nazisti, egli insistette, erano riusciti a fondere insieme nazionalismo e socialismo perché avevano «riconosciuto i fenomeni naturali della vita». Così, «per la prima volta, la mente comincia a capire che ci sono, al di sopra di sé, forze potenti che essa deve riconoscere»; che «l’essere umano diventa... un membro attivo nel regno del vivente; e che i suoi poteri si compiranno quando egli opererà all’interno dell’interazione equilibrata delle forze naturali». Possiamo dire che il misticismo, e specialmente il misticismo comunitario, stava assumendo un volto biologico e medico. (Nel cap. V mi occuperò più diffusamente di questa sorta di romanticismo biologico.)
Questo ethos nazista, pur non essendo abbracciato integralmente dalla maggior parte dei medici, divenne la base per la riorganizzazione della professione. Il processo di riorganizzazione fu noto come Gleichschaltung, che significa «sincronizzazione» o «coordinamento» e che connota anche l’idea meccanica di ruote dentate che si ingranano. Hitler aveva anticipato il principio della Gleichschaltung quando aveva dichiarato in Mein Kampf che «tutte le future istituzioni di questo Stato dovranno svilupparsi dal movimento stesso».38 In altri termini, tutte le istituzioni politiche, sociali e culturali dovevano essere totalmente ideologicizzate e ricadere sotto il controllo di nazisti fidati. Gleichschaltung poteva essere un eufemismo per eliminare ogni possibile opposizione, mediante esclusione, minaccia o violenza. Senza dubbio, per coloro che erano guardati con sfavore dal regime, la Gleichschaltung veniva sentita come una persecuzione. Essa esprimeva però anche la visione di un’unità assoluta, della comunità (Gemeinschaft) totalizzata, del rendere uno tutte le cose e il popolo.
La Gleichschaltung, quindi, era la metafora che univa l’idealismo visionario e il terrore. E l’attesa della Gleichschaltung, una volta che il processo fu iniziato, creò dappertutto – nel governo, nelle università e in tutte le altre istituzioni e professioni – l’attesa di un’unificazione coercitiva secondo le richieste ideologiche naziste. In medicina come anche in altri campi ci fu una diffusa «Gleichschaltung volontaria» – si potrebbe dire addirittura una Gleichschaltung anticipatoria – per opera di persone che aderivano in vario grado all’ideologia nazista.
La Gleichschaltung della professione medica si compì attraverso la Reichsärztekammer (Camera dei Medici del Reich), dominata dai nazisti, e attraverso le sue varie branche locali, a cui tutti i medici che praticavano la professione dovevano appartenere. Le società mediche prenaziste furono o sciolte o «coordinate» nella Camera dei Medici del Reich, i cui dirigenti furono reclutati fra i «veterani medici» che avevano marciato e combattuto nelle strade ai primi tempi del nazionalsocialismo. Questi medici avevano formato, a un raduno del partito nel 1929, il Nationalsozialistischer Deutscher Ärztebund (Lega dei Medici Nazionalsocialisti Tedeschi) ed erano coinvolti anche in lotte corpo a corpo con gruppi rivali come la Lega dei Medici Socialisti.
In medicina, come in altre professioni, c’era un perpetuo conflitto fra i «veterani», che avevano aderito al movimento nazista fin dalla sua origine, e che tendevano a essere militanti e saldamente legati all’ideologia, e i nuovi burocrati, che tendevano a interessarsi a problemi di organizzazione e di integrazione della professione medica esistente.39 Questo conflitto, implicito nella doppia struttura dell’autorità del partito e della burocrazia governativa, afflisse il regime nazista per tutta la sua esistenza. Quest’avanguardia della direzione medica, più notevole per la militanza nazista che per meriti scientifici, fu nondimeno efficace nel premere sui medici perché si conformassero alla linea del partito. E tali pressioni non rimasero senza esito se è vero che i medici furono una delle professioni con la percentuale di iscrizione al partito più elevata: il 45 per cento. Inoltre la loro presenza percentuale nelle SA e nelle SS fu rispettivamente due e sette volte maggiore di quella degli insegnanti.40i Questa attrazione dei medici verso i nazisti e verso un’auto-Gleichschaltung era connessa sia alle tendenze fortemente autoritarie e nazionalistiche all’interno della professione medica, compresa la «sottovalutazione della politica e la sopravvalutazione dell’ordine»,42 sia alla loro propensione come gruppo ad accettare l’insistenza dei nazisti sulla biologia e su una visione biomedica del risanamento nazionale.
Gran parte dello spirito della medicina nazista emerse dai medici politicizzati della Lega dei Medici Nazionalsocialisti Tedeschi, di cui divenne la figura dominante Gerhard Wagner. Come medico capo del Reich, Wagner diresse sia la Camera dei Medici del Reich sia le strutture mediche del partito e favorì una medicina ideologica visionaria che era altamente razzista, socialmente e clinicamente orientata (la versione nazista di una «medicina del Volk») e diffidente verso la medicina accademica e la scienza pura. Wagner fu molto attivo nel formulare e spiegare il programma di sterilizzazione e fu a lui che Hitler parlò per la prima volta (nel 1935) dei suoi vasti piani per un esteso programma di «eutanasia»; Wagner fu considerato in effetti da alcuni tedeschi il «padrino del programma di eutanasia».43 Quando morì, nel 1939, fu sostituito da Leonardo Conti, una figura più burocratica che occupò un posto connesso alla sanità nel ministero dell’Interno, pur possedendo anche le credenziali di un «veterano medico». Infine emerse da una posizione universitaria migliore per diventare la figura medica dominante Karl Brandt, uomo più giovane e ardente nazista di seconda generazione.
La persecuzione sistematica dei medici ebrei fu connessa alla visione biomedica tedesca. Attraverso l’eliminazione dei loro colleghi ebrei, i medici tedeschi poterono combinare il loro «razzismo scientifico» e il loro antisemitismo con l’incentivo professionale ed economico di sbarazzarsi di rivali temibili. Nel contribuire in questo modo alla soluzione di quella che fu chiamata la «questione ebraica», quei medici tedeschi furono gli eredi di un antisemitismo intellettual-professionale di vecchia data che non andava disgiunto dalla grandissima preoccupazione tedesca dinanzi alla minaccia percepita della diversità ebraica alla società tedesca e alla razza e allo Stato tedeschi.
Un’immagine chiave in questo contesto è quella del grande storico tedesco del tardo Ottocento Heinrich von Treitschke: «Gli ebrei sono la nostra sventura». Espressa nel 1879, quest’immagine si riverberò su varie generazioni; alcuni decenni dopo un autore antisemita poté scrivere che essa «divenne parte del mio corpo e della mia anima quando avevo vent’anni».44j In effetti, vari fra i medici da me intervistati riferirono la famosa frase di Treitschke con un senso di disagio, e di solito senza condividerla del tutto. Quell’immagine di una «sventura» tedesca causata dagli ebrei aveva infatti incoraggiato ogni livello di antisemitismo, dal tipo mistico-medievale al moderno «razzismo scientifico», all’impostazione più mite, e persino «riflessiva», preferita dai tedeschi colti: ossia quella che esistesse effettivamente una grave «questione ebraica» che i tedeschi dovevano affrontare.
Treitschke insisteva sull’«intrusione» dell’ebraismo in quello che doveva essere uno «Stato cristiano-tedesco», e sul pericolo che i figli di questo popolo estraneo proveniente dall’Est (ossia dall’Europa orientale) «dominassero un giorno» le istituzioni tedesche, specialmente l’economia e la stampa.46 A molti medici tedeschi sembrava che il timore di una «dominazione ebraica» avesse trovato una conferma nella loro professione. In grandi città i medici ebraici potevano formare fino al 50 per cento del totale dei medici. E benché essi costituissero circa il 13 per cento di tutti i medici in Germania, questo valore era molto superiore alla loro percentuale generale nella popolazione.47 Al di là del loro numero, molti medici ebrei-tedeschi avevano conseguito una grande autorità e fama mondiale in conseguenza dei risultati scientifici ottenuti. Questa situazione era particolarmente intollerabile per i nazisti, che si fondavano sulla professione medica per formulare e realizzare la loro audace e perversa visione biomedica. Fu questa attesa di una «leadership razziale» a indurre Hitler a mettere un accento particolare sull’«epurazione della professione medica».48
La violenza essenziale negli atteggiamenti intransigenti dei medici nazisti verso i loro colleghi ebrei nel nuovo Terzo Reich trovò espressione due mesi dopo la designazione di Hitler a cancelliere, durante una campagna di boicottaggio antiebraica. A Berlino, il 1° aprile 1933, ci furono casi di medici ebrei che, dopo essere stati chiamati a consulto da loro colleghi tedeschi, furono fatti salire su macchine (fornite a volte da quegli stessi medici tedeschi) e condotti in luoghi appartati dove vennero percossi e lasciati sanguinanti, mentre altri furono minacciati e umiliati facendoli correre fra due file di uomini che li colpivano con bastoni, o spaventati con salve di fucili.49 Già molto presto, in congressi di medici, ci furono indicazioni di ciò che sarebbe accaduto, quando qualche oratore accennò a «un’invasione straniera... dall’Est [che] costituisce una minaccia per la razza tedesca» e alla «necessità imperativa che questa minaccia venga... soppressa ed eliminata».50
Anche le misure ufficiali contro gli ebrei cominciarono nei primi mesi del 1933: proibizione – dapprima con eccezioni, che furono gradualmente abolite – ai medici ebrei di entrare (e infine di continuare) a far parte dell’importante servizio sanitario nazionale; limitazioni graduali all’esercizio della professione medica da parte di ebrei – se si fosse proibito d’un tratto agli ebrei di esercitare la professione medica si sarebbe messo in grave crisi il servizio medico in Germania – finché, il 3 agosto 1939, con un «quarto emendamento» alle Leggi di Norimberga, furono abolite le licenze di tutti i medici ebrei. Ci furono definizioni tipicamente legalistiche di chi dovesse essere considerato un «non-ariano» o ebreo; e proibizioni – in periodi in cui ai medici ebrei venne consentito di esercitare la professione – di visitare pazienti non ebrei, e un parallelo scoraggiamento e successiva proibizione ai medici ariani di visitare pazienti ebrei. Infine ai medici ebrei non fu più permesso di presentarsi come medici, ma solo come «curatori di malati», e analogamente i chirurghi ebrei poterono presentarsi solo come «curatori specializzati in chirurgia». Prima di essere costretti a rifugiarsi all’estero, o di essere incarcerati o uccisi, gli ebrei dovevano essere privati della loro appartenenza alla consacrata confraternita dei medici-terapeuti.51
Inoltre i medici tedeschi furono scoraggiati dal fare riferimento nei loro articoli scientifici alle ricerche di medici ebrei. Quando era necessario riferirsi a tali ricerche, essi dovevano compilare un elenco bibliografico separato per le fonti ebraiche, come per «tenere separate le razze» e proteggere in tal modo la medicina ariana dalla contaminazione ebraica in questa forma ultima di segregazione scientifico-letteraria. In tutti questi modi, considerando la scarsità di medici per gran parte di questo periodo, la richiesta ideologica fu più forte del bisogno pragmatico. In effetti la direzione politica riuscì a convincere i medici che solo dopo questa purificazione della loro professione sarebbe stato possibile appellarsi alla professione stessa per la realizzazione della visione biomedica.
La medicina accademica, in quanto parte della struttura universitaria complessiva, fu un punto di riferimento importante per la terapia organizzativa nazista. La «malattia» che si doveva curare era quella che il ministro della Propaganda di Hitler, Joseph Goebbels, chiamò «moscio intellettualismo» e che il ministro dell’Istruzione e della cultura, Bernhard Rust, chiamò «concetti disastrosi di libertà e di uguaglianza», o ancora quella che un riformatore dell’istruzione identificò come «qualsiasi autonomia e libertà del docente». Ancor prima dell’avvento del nazionalsocialismo, le università tedesche erano state bastioni del pensiero politico conservatore o reazionario, che tendeva a divinizzare il concetto dello Stato. I nazisti chiarirono però che volevano qualcosa di più. Come disse ai professori bavaresi il loro nuovo ministro della cultura: «D’ora in poi non sarà vostro compito determinare se qualcosa è vero ma se è nello spirito della rivoluzione nazionalsocialista». Le università sarebbero dovute diventare (per usare le parole di uno storico) «fortezze della frontiera intellettuale» e «corpi di truppe»; i professori dovevano sviluppare una «cooperazione come fra commilitoni».52
Di nuovo, con la loro combinazione di idealismo visionario e di terrore, i nazisti riuscirono a procurarsi un sostegno considerevole da parte dei principali professori tedeschi: per esempio, 960 eminenti educatori tedeschi firmarono un giuramento pubblico a sostegno di Hitler e del regime nazista, che fu pubblicato nell’autunno del 1933. Fra le figure più notevoli nell’elenco dei firmatari c’erano il filosofo Martin Heidegger e il chirurgo di fama mondiale dell’Ospedale Charité dell’Università di Berlino Ferdinand Sauerbruch.k
L’aspetto coercitivo della Gleichschaltung dall’alto sottolineò quello che fu chiamato il «principio del Führer» (Führer significa «guida» o «capo» in generale), conducendo alla designazione a cariche di rettori e decani di nazisti fidati di dubbio livello professionale, i quali divennero in effetti estensioni del ministro dell’Istruzione, diretto in modo simile dal regime. Il ministero fissò gli orientamenti generali concernenti gli argomenti insegnati (per esempio una maggiore insistenza sulla biologia razziale e su una storia ideologizzata incentrata sulla Germania), regolamenti per il corpo docente (eliminazione degli ebrei e degli elementi ideologicamente recalcitranti e promozione dei membri del corpo docente che manifestassero entusiasmo per il nazismo), oltre a provvedimenti concernenti gli studenti e le condizioni di ammissione (provvedimenti che escludevano gli ebrei e i socialdemocratici, e favorivano i membri principali della Hitler Jugend [Gioventù Hitleriana], delle SA o delle SS).53
Altrettanto importante fu la Gleichschaltung dal basso: un comportamento militante da parte della Lega degli Studenti Nazionalsocialisti, la quale si organizzò molto presto, pervenendo in breve tempo a dominare o a sostituire gruppi di studenti tradizionali, e formò una sottocoltura arrogante, caratterizzata da un intenso cameratismo e con più di una sfumatura di violenza. I suoi membri interrompevano le lezioni che non erano di loro gradimento, e videro il loro compito nell’opporsi a ogni insegnamento che non fosse radicato nella dottrina nazionalsocialista. Quando il ministero dell’Istruzione ritenne necessario smorzare l’attivismo degli studenti, passò il mantello della Gleichschaltung dal basso alla Lega Nazista dei Docenti Universitari, il cui capo intese la sua organizzazione come «il membro del consiglio di amministrazione delle università designato dal Partito nazionalsocialista per assicurarsi che le università e gli studenti non fossero solo dipinti di bruno [il colore nazista] ma fossero realmente pronti per adeguarsi al modello del nazionalsocialismo».54
Agli studenti di medicina si disse che si chiedeva loro «la sintesi degli scarponi per la marcia e del libro»: ossia un impegno concreto nell’addestramento militare o paramilitare finché erano studenti, e un impegno in una «guerra» all’ultimo sangue contro i presunti nemici della Germania o nel Nazionalsocialismo una volta conseguita la laurea. Diventare un soldato della biologia significava, quindi, mettere il proprio corpo e la propria mente al servizio dell’autorità militarizzata e ideologicizzata dello Stato.
I nazisti cercarono di combinare i mutamenti radicali da loro introdotti nelle università con la tesi che tali mutamenti si inquadravano in una tradizione che li nobilitava. Uno sforzo vistoso in questo tentativo di legittimazione fu la celebrazione del cinquecentocinquantesimo anniversario dell’Università di Heidelberg, con un elaborato allestimento, nel giugno e luglio 1936. Il rettore dell’Università sottolineò «la devozione della nuova Germania al compito della civiltà universale e il suo patrocinio di alte conquiste intellettuali in tutti i campi del sapere». Vennero delegazioni da tutto il mondo, fra cui rappresentanti di otto università degli Stati Uniti. Fra gli americani che ricevettero lauree ad honorem vi furono Harry H. Laughlin, assistente di Davenport a Cold Spring Harbor e instancabile polemista contro gruppi di immigrati da lui considerati biologicamente inferiori, e Foster Kennedy, un medico che sosteneva l’opportunità di uccidere quelli fra i bambini ritardati che erano più difficilmente recuperabili.55l Entrambi gli uomini vedevano con simpatia le leggi naziste sulla sterilizzazione.
Oltre alle epurazioni di ebrei e di persone politicamente inaccettabili, le facoltà mediche tolsero importanza alla ricerca di base, abbreviarono il tempo dello studio della medicina per fornire più medici allo Stato e modificarono il curriculum classico per conferire maggior peso alla medicina militare, alla politica demografica e alla biologia razziale.57
La resistenza a questi mutamenti all’interno delle facoltà mediche fu estremamente limitata. Un esempio notevole di coraggiosa opposizione intellettuale fu quello di Karl Saller, un eminente antropologo che, ancor prima dell’avvento del regime nazista, aveva criticato il concetto di una razza nordica come entità biologica fissa. Nei suoi scritti egli ebbe la temerità di sottolineare che in tutte le razze c’era un pool di geni continuamente mutevoli, uno stato di flusso costante, e che la razza germanica presentava ormai molte altre commistioni e conteneva estese influenze slave. Questa tesi metteva in dubbio la base stessa della visione biomedica tedesca; e fu niente di meno che il capo della Gestapo, Reinhard Heydrich, a emanare un ordine che proibiva a Saller di insegnare, costringendolo a lasciare la sua cattedra all’Università di Monaco. Alla sua lezione di addio, egli ribadì le proprie convinzioni scientifiche e affermò che il suo amore per la verità e il suo senso dell’onore gli impedivano di rinunciare a esse. Un pugno di altri antropologi furono gradualmente costretti ad abbandonare posizioni universitarie, ma Saller si distinse per la franchezza con cui difese pubblicamente le sue tesi. Benché molti antropologi, oltre che biologi e medici, debbano aver concordato con le sue tesi, ritennero però più prudente rimanere in silenzio, cosicché egli si trovò in generale a essere rifiutato ed evitato da ex colleghi e amici.58
Di tanto in tanto, nel corso di lezioni, qualche medico riaffermò posizioni intellettuali ed etiche in disaccordo con le pratiche del regime. Un medico antinazista con cui ebbi occasione di parlare mi disse che uno dei suoi docenti, il professor Karl Kleist, si rifiutò di prestare servizio in una commissione per l’«eutanasia» e dichiarò ai suoi studenti: «Immaginate un po’, volevano che io, un vecchio medico, commettessi un crimine con le mie mani». Il medico mi disse che il professore fu immediatamente denunciato da alcuni studenti attivisti, ma che non fu sottoposto ad alcuna misura punitiva, forse in considerazione della sua anzianità. La maggior parte dei medici antinazisti tendevano a esprimersi con cautela nei loro corsi, per lo più limitandosi a qualche allusione. Può darsi che anche il professor Kleist si sia comportato con la stessa prudenza, ma che il suo ex studente, che vedeva in lui una sorta di eroe, lo ricordasse più coraggioso di quanto non fosse stato in realtà.
Fra tutte le espressioni di opposizione nella Germania nazista, quella forse più commovente coinvolse tre studenti di medicina e alcuni altri studenti di altre facoltà all’Università di Monaco di Baviera, appartenenti al leggendario gruppo di resistenza della Rosa Bianca (Weisse Rose). Nel corso di vari mesi, fra il 1942 e il 1943, il gruppo diffuse audaci volantini nei quali si denunciavano il regime nazista e il suo comportamento immorale («Per Hitler e i suoi seguaci non può esserci punizione su questa terra che ne espii i crimini») e si esortava il popolo tedesco a rovesciare il regime e ripristinare il suo buon nome. Nei volantini si diceva anche: «Non resteremo in silenzio. Noi siamo la vostra cattiva coscienza. La Rosa Bianca non vi darà tregua». Gli studenti furono infine scoperti e condannati da un «tribunale popolare» nazista: i più furono decapitati. Significativamente, una fra le figure principali del gruppo, Hans Scholl, era stato ispirato da un sermone del vescovo Clemens von Galen di Münster, che condannò il programma di «eutanasia» e che avrebbe commentato: «Finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di parlare chiaro».59
La Gleichschaltung medica tentò di combinare misure di nazificazione con la rivendicazione di una continuità con tradizioni anteriori di terapia medica. Così, pur investendo di un’autorità medica amministrativa uomini professionalmente mediocri, i nazisti corteggiarono, spesso con successo, medici che godevano di un’alta reputazione professionale. E mentre terrorizzavano potenziali oppositori nella professione medica, i nazisti manifestavano anche un certo slancio nell’estendere varie forme di cura medica all’intera popolazione tedesca. Nello stesso tempo in cui sviluppavano una politica di sterilizzazione o di uccisione di persone considerate inadatte per una società forte, si gloriavano di avere conseguito spettacolari risultati operativi e di aver reso possibile la spettacolare utilizzazione di uomini che avevano perduto mani o arti, specialmente in combattimento. In questi modi la maggior parte dei medici potevano continuare a vedere se stessi come medici autentici, quale che fosse il grado di nazificazione della loro professione.
In programmi di addestramento avanzati di sei settimane per futuri dirigenti medici, i medici venivano istruiti sia nei princìpi biomedici nazisti sia nei bisogni sanitari pubblici della Germania. E ai medici comuni si chiedeva di sottoporsi ogni cinque anni a corsi di aggiornamento di tre settimane. I veri credenti medici, come il professor Franz Hamburger di Vienna, ritenevano che il nazionalsocialismo significasse «una rivoluzione in ogni sfera della nostra civiltà e cultura», fra cui «un vero rinascimento della scienza medica su basi naziste».60 Il regime nazista ricercava il prestigio medico internazionale e patrocinava orgogliosamente conferenze internazionali, ma al tempo stesso si volgeva verso l’interno, occultava cose che non voleva fossero viste dai medici di altri paesi del mondo ed era contrario ai Premi Nobel per la medicina, nel timore che questi potessero essere assegnati a ebrei o a socialdemocratici, e anche perché qualsiasi cosa di «internazionale», di contro a völkisch, era sospetto.
Il conflitto più grave fra la visione biomedica nazista e la professione medica tradizionale era forse quello concernente i guaritori non medici, noti come Heilpraktiker e Heilkundige. Questi gruppi insistevano generalmente sulla vita all’aria aperta, su cibi naturali e sulla necessità di un nuovo orientamento nella vita; spesso schernivano la professione medica e a volte trattavano malattie gravi con terapie dubbie. Attivi da molto tempo in Germania, questi guaritori piacevano al romanticismo e misticismo biologici del regime e trovarono il loro massimo sostegno nel vicecapo del partito Rudolf Hess, il più intenso mistico biologico nella cerchia nazista. Gerhard Wagner elogiò le loro «intuizioni biologiche» e cercò ripetutamente una «sintesi fra l’unilaterale vecchia scuola di medicina e i metodi di cura naturali», vedendo in essi una conformità al concetto nazionalsocialista di «leggi naturali e biologiche che controllano tutti gli eventi».61 Con tale tipo di patrocinio si tennero conferenze congiunte di guaritori e di gruppi medici tradizionali e si progettarono varie forme di integrazione. Queste incontrarono però un’accanita resistenza in gruppi medico-accademici tradizionali; Wagner fu costretto a desistere dai suoi tentativi di integrazione, e il suo successore manifestò considerevolmente meno simpatia per i guaritori.
Non fu mai possibile risolvere il conflitto fondamentale del regime su questo punto: da un lato la sua attrazione per questi guaritori, apparentemente in accordo con la visionaria richiesta nazionalsocialista di un’armonia con la natura e la biologia; dall’altro la sua eguale rivendicazione di una continuità con la tradizione scientifica e medica e il suo impegno pragmatico a mobilitare i medici per fondare su una base biomedica la sua difesa della razza e della società. È chiaro che da questo conflitto uscì vincitrice la medicina tradizionale, ma il persistere del rapporto del regime con i guaritori e col loro grandissimo numero di clienti contribuì a conservargli un’aura di movimento di «risanamento».62m
Questa rivendicazione di uno speciale potere terapeutico da parte della «nuova medicina tedesca» dipese non solo dall’esclusione degli ebrei ma anche dall’aver fatto dei medici ebrei uno speciale anti-tipo medico. In una vignetta (pubblicata in origine nel famigerato periodico «Der Stürmer»), apparivano caricature di malvagi medici ebrei che eseguivano aborti su giovani donne ariane, e sovvertivano in tal modo la campagna nazista per creare bambini ariani puri. In un’altra sequenza di vignette, con la didascalia «Che cosa accadde a Inge quando andò da un medico ebreo», la piccola Inge viene ammonita dalla Lega delle Ragazze Naziste a non andarci, ma essa non si lascia convincere e si imbatte in una spaventosa creatura che minaccia di attaccarla. Pur presentandosi come un guaritore, il medico ebreo faceva incombere sulle ingenue ragazze ariane la minaccia di danni fisici, di violenza carnale o di aborto, minava la purezza delle donne tedesche ed era il nemico della rivitalizzazione razziale ariana.63
Ma queste immagini volgari erano legittimate anche in scritti di medici. Un articolo, che si presentava come una rassegna professionale della storia degli ebrei in medicina, risaliva sino al tempo di Mosè per poi concentrarsi sul Volk ebraico, sulla sua politica di «preservazione della purezza» e di rifiuto di «contaminazione» per opera di matrimoni misti. I tedeschi avevano perciò ragione di «obbligare gli ebrei al rispetto di questa legge» e nel «vigilare contro la mescolanza del nostro sangue con quello degli ebrei». L’autore medico associava quindi i medici ebrei al mercantilismo corrotto, al socialismo e al marxismo, alle reti di mutuo soccorso a fini egoistici, e all’atomizzazione della medicina in cui ci si concentra sulla chimica e sulla fisica e si «tratta la malattia e non le persone malate», «dimenticando il paziente». Inoltre, l’ossessione degli ebrei per la sessuologia e la loro difesa dell’omosessualità, assieme alla creazione della psicoanalisi freudiana, erano altrettanti aspetti di una «degenerazione sessuale, del crollo della famiglia e della perdita di tutto ciò che è rispettabile», e in definitiva della distruzione del Volk tedesco.64
Al di là della comune minaccia ebraica, il medico ebreo divenne una minaccia più temibile per il Volk tedesco, l’incarnazione dell’antiguaritore con cui si dovevano fare i conti se la medicina doveva partecipare alla grande missione di risanamento nazionale, e l’immagine anticipata di ciò che i medici nazisti stavano in realtà per diventare: i guaritori trasformati in uccisori.
Le misure di sterilizzazione furono sempre associate ai princìpi terapeutici e rigenerativi della visione biomedica: alla «purificazione del corpo nazionale» e allo «sradicamento delle disposizioni morbose ereditarie». La sterilizzazione fu considerata parte dell’«eugenica negativa»: successive ordinanze proibirono anche la concessione di licenze di matrimonio in situazioni in cui l’una o l’altra parte fosse affetta da una malattia contagiosa, fosse stata posta sotto una tutela legale, soffrisse di disturbi mentali gravi o rientrasse in una delle categorie di malattia ereditaria elencate nelle ordinanze di sterilizzazione. A queste restrizioni facevano riscontro programmi di «eugenica positiva» – che incoraggiavano grandi famiglie e pratiche sanitarie costruttive fra coppie ariane eccetera – perché «le generazioni possono andare e venire, ma il popolo tedesco vivrà per sempre».65
La professione medica era sempre impegnata nella protezione e rivitalizzazione della salute genetica del Volk. Ai medici veniva riconosciuto uno status speciale nelle commissioni per l’approvazione dei matrimoni sulla base delle disposizioni razziali di Norimberga, status che continuò a essere riconosciuto loro anche quando la professione estese il suo ruolo in programmi sociali e nell’opera di prevenzione, al tempo stesso i medici continuarono la pratica privata della professione, cosa che permetteva loro di mantenere alti redditi, aiutati in ciò dall’eliminazione della concorrenza dei medici ebrei. La legge del 1935 sui medici formalizzò la loro elevata posizione nella gerarchia civile e il loro status speciale nel regime, riaffermandone la «vocazione» di preservare e migliorare la «buona eredità», il «ceppo razziale» e la sanità generale del Volk tedesco. Le leggi successive, lungi dal lasciare intatto questo status, accrebbero le richieste che venivano poste ai medici come «pubblici dipendenti» e «funzionari biologici dello Stato», ponendo limiti a prerogative come il tradizionale segreto professionale nel caso che il regime avesse chiesto informazioni su pazienti.66
Questo impegno in un’«eugenica positiva» – o nella «lotta per le nascite», com’era chiamata talvolta – fu inscindibile dall’«eugenica negativa»: la sterilizzazione e, infine, l’«eutanasia». Gli aborti erano proibiti, ma i tribunali per la sterilizzazione potevano ordinare l’interruzione della gravidanza per ragioni eugeniche in situazioni di «emergenza razziale»: in altri termini, se c’era la probabilità che il futuro bambino ereditasse certi difetti o (con ogni probabilità) avesse un parentado misto (formato da ebrei e non ebrei).
La storia di Carl Clauberg rivela l’inscindibilità dei concetti nazisti di genetica positiva e negativa. Ginecologo divenuto professore, Clauberg aveva condotto, in collaborazione con la società farmaceutica Schering-Kahlbaum, ricerche sugli ormoni femminili che, verso la fine degli anni Venti e all’inizio degli anni Trenta, avevano condotto a preparati noti come Progynon e Proluton, per il trattamento della sterilità. Dopo essere stato presentato a Himmler nel 1940, Clauberg cominciò a concentrare le sue ricerche sullo sviluppo di metodi non chirurgici per la sterilizzazione di massa, pervenendo infine ai famigerati esperimenti di sterilizzazione di Auschwitz, di cui ci occuperemo nel capitolo XV. Ancora verso la fine del 1944 Clauberg tornò a far ricerche sulla sterilità e sulla riproduzione come direttore di un nuovo istituto chiamato la «Città delle Madri».67
In un’altra espressione di eugenica positiva, la professione medica era attivamente impegnata nella ricerca di persone considerate in possesso di doti ereditarie rimarchevoli, e nell’assolvimento del compito noto come «promozione del talento».
I medici furono attivi anche in un aspetto criminale dell’eugenica positiva noto come Lebensborn, o «Fonte della vita». Heinrich Himmler aveva creato questo istituto nell’ambito del suo piano «per creare nelle SS, attraverso l’accoppiamento di individui superiori, un’élite biologica... [un] nucleo razziale da cui la Germania potesse attingere per rinvigorire un’eredità ariana ora pericolosamente diluita attraverso generazioni di mescolanza razziale». Il programma Lebensborn forniva assistenza gratuita a famiglie di SS a beneficio di bambini «dai caratteri razziali eccellenti» (quelli che soddisfacevano i criteri per la razza nordica) ed estendeva l’assistenza alle madri e ai bambini tanto nel caso di madri sposate quanto in quello di madri nubili. Ma il Lebensbom si impegnava anche nel «rapimento» di bambini «biologicamente pregevoli» (quelli che soddisfacevano i criteri della razza nordica) in aree occupate, alcuni dei quali avevano avuto come padre un soldato delle truppe di occupazione tedesche. Questa linea fu spiegata in modo chiaro in un’occasione dallo stesso Himmler: «In effetti io intendo prendere il sangue tedesco dovunque si trovi nel mondo, rubarlo e carpirlo dovunque mi sia possibile».68
I medici avevano un’importanza centrale per il Lebensborn; il suo direttore medico, Gregor Ebner, era un «veterano medico» e si diceva che fosse stato personalmente vicino a Himmler. A Ebner stavano molto a cuore i suoi bambini nordici (una volta si vantò che «in capo a trent’anni avremo 600 reggimenti extra»); approvò i rapimenti di bambini, firmò ordini per sterilizzare bambini «non apprezzabili» (dai caratteri non sufficientemente nordici), e fece mandare a morte in campi di concentramento alcuni di questi bambini giudicati «non apprezzabili».69
Benché sia stato stimato che solo 350 medici circa «si macchiarono di crimini», questa cifra, come ha scritto Alexander Mitscherlich,70 rappresenta una vasta ondata di criminalità e fu forse solo «la punta dell’iceberg», come mi disse. Essa non comprende le schiere di medici tedeschi che calunniarono ed espulsero i loro colleghi ebrei; o che agirono sulla base di concetti razziali volgari e discriminatori.
Così, benché alcuni medici abbiano opposto resistenza, e molti abbiano avuto poca simpatia per i nazisti, come professione i medici tedeschi si offrirono al regime. Lo stesso comportamento si riscontra anche nella maggior parte delle altre professioni; ma nel caso dei medici quel dono comprese l’uso della loro autorità intellettuale per giustificare ed eseguire uccisioni, situate in una prospettiva medica. I medici promossero l’idea che l’esistenza tedesca collettiva fosse una questione medica, e molti cedettero alla tentazione espressa già nel 1922 dal popolare scrittore Ernst Mann.n Mann, nel difendere l’uccisione medica diretta, considerò la malattia «una disgrazia che doveva essere controllata dal medico». Egli espresse il principio che «l’infelicità può essere tolta dal mondo solo attraverso uno sterminio indolore degli infelici!». L’intero processo, inoltre, avrebbe dovuto essere affidato al medico: a questo punto «i medici potevano essere i veri salvatori dell’umanità».71
a. Dalla sua convinzione che esistessero differenze razziali Lenz non derivò però una posizione antisemita. George L. Mosse, citando fra gli altri proprio Lenz, ha sostenuto che «non c’è alcun fondamento alla tesi di coloro che vedono nella... dottrina della “biologia e igiene razziale” un precorrimento della politica nazista contro gli ebrei».2 Ma una volta pervenuti a vedere gli ebrei come una razza a sé, la connessione fu presto istituita. Sulla posizione di Lenz a proposito dell’antisemitismo dei nazionalsocialisti si può vedere Benno Müller-Hill, I filosofi e l’essere vivente, Garzanti, Milano 1984, pp. 231 ss. (N.d.T.).]
b. In uno studio del 1932 sul movimento per la sterilizzazione negli Stati Uniti, Landman parlò di «eugenica allarmistica» e di «eugenicisti eccessivamente zelanti ed eccessivamente ardenti», i quali «considerano le persone socialmente inadeguate, ossia i deboli di mente, gli epilettici, i malati mentali, i ciechi, le persone deformi e i criminali nemici della razza umana... [perché] queste persone perpetuano le loro deficienze e quindi minacciano la qualità delle generazioni seguenti. Essi affermano che il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di sterminare questi indesiderabili, perché una nazione deve difendersi contro la degenerazione nazionale, nello stesso modo che contro i nemici esterni».4
c. Nell’esaminare la politica di sterilizzazione in Germania, il «Journal of the American Medical Association» non espresse sentimenti di indignazione ma si limitò a contrapporle l’«evoluzione più graduale della pratica e dei princìpi» della sterilizzazione in America.6 Ardenti fautori americani della sterilizzazione, come il dottor Joseph S. De Jarnette, della Virginia, poterono addirittura deplorare che «I tedeschi ci stanno battendo al nostro stesso gioco».7
d. Daniel J. Kevles riferisce: «In capo a tre anni le autorità tedesche avevano sterilizzato circa duecentoventicinquemila persone, circa dieci volte di più delle persone sottoposte a questo trattamento nei precedenti trent’anni in America».8
e. Si temeva, in effetti, che donne degenerate potessero desiderare la sterilizzazione per poter perseguire «una gratificazione sessuale illimitata».12
f. I difensori di Rüdin sostennero in seguito che egli contestò il programma «eutanasia» operando dall’interno. Ciò è però improbabile, giacché nel 1940 due psichiatri tentarono invano di assicurarsi la sua adesione, e attraverso di lui quella della Società Psichiatrica Tedesca, per opporsi al programma (vedi p. 130). Rüdin ricevette due alti riconoscimenti da Hitler come «pioniere nel campo dell’igiene ereditaria».22
g. La SS (Schutzstaffel, «milizia di protezione») fu creata come unità per la protezione personale di Hitler. Specialmente dopo il 1929, sotto la direzione di Heinrich Himmler, questa unità si presentò come un corpo di élite i cui membri erano conformi al modello ariano ideale. In quanto tale, essa attrasse un reclutamento considerevole dall’aristocrazia e dalle classi professionali, fra cui i medici. La SS aumentò il suo potere e la sua influenza epurando, nel 1934, la SA (Sturmabteilung, «reparto d’assalto»), meno disciplinata e formata da uomini provenienti da strati sociali inferiori, e poi assumendo il controllo su tutte le forze di polizia verso la fine degli anni Trenta. A quanto si dice, Himmler avrebbe plasmato la SS sul modello dei gesuiti, con un giuramento di fedeltà assoluta a Hitler. La SS venne a essere divisa in varie unità, fra cui l’SD (Sicherheitsdienst, «servizio di sicurezza»), un Ufficio per la Razza e gli Insediamenti e il WVHA (Wirtschafts- und Verwaltungshauptamt, o Ufficio Centrale Economico e Amministrativo), che amministrava i campi di concentramento. La Waffen ss, o unità combattenti della SS, rappresentava una sorta di esercito separato, e in effetti esistette in antagonismo con le truppe regolari della Reichswehr. Le sue unità parteciparono massicciamente alle atrocità perpetrate dalle Einsatzgruppen durante la prima parte della guerra. Nel corso della guerra la Waffen ss finì col diventare sempre più indipendente e con l’agire come una forza militare regolare. Utilizzando sin dal principio un numero relativamente grande di tedeschi «etnici» reclutati in paesi esterni al Reich, dopo il 1942 la Waffen ss dipese dalla coscrizione obbligatoria per mantenere i suoi organici. [In Italia la sigla SS viene usata per lo più al plurale, con riferimento agli uomini appartenenti a questa unità. (N.d.T.)]
h. Il concetto di medico «tedesco» comprendeva austriaci, olandesi, belgi e scandinavi.
i. Secondo Michael Kater, però, il loro entusiasmo si sarebbe attenuato dopo il 1935 e di nuovo dopo l’inizio della guerra, e sarebbe in seguito declinato definitivamente.41
j. Benché Treitschke fosse in origine un liberale con simpatie per John Stuart Mill e per la Dichiarazione d’Indipendenza americana, il suo sfrenato nazionalismo andava ancor oltre quello abituale per i «nazional-liberali», cui appartenne inizialmente. Treitschke diede una legittimazione intellettuale al movimento antisemitico del suo tempo e sostenne (forse correttamente) che la sua convinzione che gli ebrei fossero la sventura della Germania era condivisa da coloro che «rifiuterebbero con sdegno ogni nozione di intolleranza clericale o di arroganza nazionale».45
k. L’ardore di Sauerbruch per il regime andò in seguito attenuandosi ed egli fu infine relativamente imparziale nel far uso del suo potere in ambienti medici. Infine, attraverso contatti con Karl Bonhoeffer e con Hans von Donhanyi, egli fu perifericamente implicato nella resistenza contro Hitler (vedi p. 134).
l. Nel corso della celebrazione, i rappresentanti dell’Università di Harvard invitarono le università tedesche a inviare rappresentanti alla celebrazione del proprio duecentesimo anniversario più avanti nel corso di quello stesso anno. Le università britanniche manifestarono una maggiore sensibilità etica rifiutandosi di inviare delegati a Heidelberg, dopo uno scambio epistolare sul «Times» di Londra in cui si diceva che «Heidelberg è in prima fila» nella persecuzione di professori e conferenzieri per ragioni razziali, religiose e politiche.56
m. Nel 1939, come durevole espressione del loro rapporto col «movimento della natura», i nazisti aprirono nei pressi di Monaco un nuovo ospedale che avrebbe compendiato molti dei princìpi della «nuova medicina germanica»: per esempio refettori comuni, piscine esterne, speciali centri interni di terapia fisica e centri ricreativi. Questi caratteri avrebbero contribuito alla riabilitazione fisica e mentale, avrebbero prevenuto le «malattie delle civiltà» e avrebbero rafforzato le «forze di resistenza naturali» a malattie che erano sia fisiche sia psicologiche. Questo non era un «ospedale», bensì una «casa di salute» (Gesundhaus).
n. Ernst Mann era uno pseudonimo per Gerhard Hoffmann, un critico della cultura di massa e interprete della scienza.
II
L’organismo dello Stato... [è] un tutto, con le sue leggi e i suoi diritti, come un organismo umano in sé autosufficiente... che, nell’interesse del benessere del tutto, può anche abbandonare e rifiutare – come noi medici ben sappiamo – parti o particelle che sono diventate inutili o pericolose.
Alfred Hoche
O si è medici o non lo si è.
Un ex medico nazista
Per un medico, c’è un passo molto grande dal legare dotti spermatici o tube ovariche, o persino asportare uteri, all’uccidere o scegliere per la morte propri pazienti. Fu la Gleichschaltung medica a rendere possibile questo passo. I nazisti poterono combinare una partecipazione attiva da parte di un vasto spettro di medici tedeschi, specialmente psichiatri, con un piano segreto emanante dalla suprema autorità del partito. La tipica combinazione di terrore e di idealismo poté ora concretizzare il principio dell’eliminazione delle «vite senza valore» e autorizzare l’uccisione tanto di bambini quanto di adulti.
Fuori della Germania la «morte pietosa» trovò sostenitori in molti paesi, fra cui, negli Stati Uniti, quello stesso Foster Kennedy che ricevette una laurea ad honorem alla celebrazione dell’anniversario di Heidelberg.1 E chiunque abbia fatto pratica di medicina in America ha un’esperienza personale di medici, infermieri e altro personale medico che collaborano tacitamente nel dare la morte a pazienti, di solito bambini piccoli, affetti da gravissime menomazioni fisiche e mentali. Queste pratiche sono state però frenate da limitazioni legali e da una forte reazione pubblica, e non si sono sviluppate in un programma sistematico di uccidere tutte le persone incapaci di condurre una vita degna di questo nome.
In Germania questo progetto era stato invece discusso a partire dal momento in cui il «razzismo scientifico» cominciò ad avere un impatto sulla cultura generale durante l’ultimo decennio dell’Ottocento. In questo sviluppo ebbe un’importanza centrale l’insistenza sull’integrità del corpo organico del Volk: la collettività, il popolo o la nazione, come incarnazione della sostanza razziale-culturale. Questo tipo di messa a fuoco, come nel caso di ogni intenso nazionalismo, assume un carattere biologico. Si considera il proprio gruppo come un «organismo» di cui si deve conservare la «vita», e di cui si deve combattere la «morte», in modi che trascendono la sorte dell’individuo.
Uno di tali teorici, Adolf Jost, invocò per la prima volta la morte medica diretta in un libro pubblicato nel 1895 e intitolato significativamente Das Recht auf den Tod (Il diritto alla morte). Jost sostenne che il controllo sulla morte dell’individuo deve spettare in definitiva all’organismo sociale, lo Stato. Questo concetto è in diretta opposizione alla tradizione angloamericana dell’eutanasia, la quale sottolinea il diritto dell’individuo «a morire» o «alla morte» o «alla propria morte» come rivendicazione umana suprema. Di contro, Jost si riferisce al diritto dello Stato a uccidere. Pur parlando di compassione e di alleviare le sofferenze dei malati incurabili, egli è interessato principalmente alla sanità del Volk e dello Stato. Jost sottolinea che lo Stato esercita già quei «diritti» in guerra, dove migliaia di individui sono sacrificati per il bene comune. In definitiva il ragionamento era biologico: «I diritti alla morte [sono] la chiave alla sanità della vita». Lo Stato dev’essere padrone della morte – deve uccidere – per mantenere vivo e sano l’organismo sociale.2a
L’opera cruciale sull’argomento – Die Freigabe der Vernichtung lebenunswerten Lebens (Il permesso di annientare vita indegna di vita) – fu pubblicata nel 1920 e scritta congiuntamente da due eminenti professori tedeschi: il giurista Karl Binding, in pensione dopo quaranta anni di insegnamento all’Università di Lipsia, e Alfred Hoche, professore di psichiatria all’Università di Friburgo. Argomentato con cura, nella suddivisione in paragrafi numerati propria del trattato filosofico tradizionale, il libro comprendeva come persone non meritevoli di vivere non solo i malati incurabili ma anche una grande varietà di malati di mente, i deficienti e i bambini ritardati e deformi. Inoltre gli autori collocarono l’intero concetto in una prospettiva medico-terapeutica: la distruzione di «vita indegna di vita» è «solo un trattamento terapeutico» e un «lavoro terapeutico».3
Nella sezione del volume scritta da Binding si esplora la responsabilità legale del medico nell’«aiuto alla morte» (Sterbehilfe) e nell’«uccisione col consenso dell’interessato», oltre che in quella di «idioti incurabili» incapaci di dare il proprio assenso. Binding sostiene l’opportunità di un processo di decisione legale sottoposto a controlli rigorosi, in cui le richieste di applicazione dell’«eutanasia» dovrebbero essere valutate da una commissione di tre persone (formata da un medico generico, uno psichiatra e un avvocato). Un paziente che avesse dato il proprio consenso a essere ucciso doveva avere la facoltà di ritirare tale consenso in qualsiasi momento, ma Binding insisteva molto anche sulla protezione legale dei medici implicati nel processo di uccisione.4
Hoche, nella sua sezione, insiste sulla tesi che tale politica di eutanasia è pietosa e in accordo con l’etica medica; egli si riferisce a situazioni in cui dei medici sono costretti a distruggere la vita (come uccidere un bambino al momento della nascita, o interrompere una gravidanza per salvare la madre). Prosegue poi invocando un concetto di «morte mentale» in varie forme di turbe psichiatriche, di lesioni cerebrali e di ritardo mentale. Egli caratterizza queste persone come «zavorra umana» (Ballastexistenzen) e «gusci vuoti di esseri umani», espressioni che avrebbero avuto vasta eco nella Germania nazista. L’uccisione di tali persone, scrisse Hoche, «non può essere messa sullo stesso piano con altri tipi di uccisione... ma [è] un atto lecito, utile». Egli stava dicendo che queste persone sono già morte.5
Hoche accennò al carico economico terribile che tali persone impongono alla società, cosa che valeva specialmente per i deficienti mentali giovani e altrimenti sani che richiedevano un’istituzionalizzazione destinata a durare per tutta la vita. Egli situò specificatamente il concetto organico dello Stato in una prospettiva medica insistendo sulla tesi che «i singoli membri meno validi devono essere abbandonati e respinti». Egli aggiunse una nota sorprendente di hybris medica insistendo che «il medico non ha alcun dubbio sulla totale certezza della selezione corretta» e che possiede «criteri scientifici provati» per stabilire l’«impossibilità di miglioramento di una persona mentalmente morta». Egli tradisce però infine la sua natura di visionario biologico: «Sorgerà un’epoca nuova, la quale, dal punto di vista di una moralità superiore, non presterà più attenzione alle richieste di un concetto gonfiato di umanità e di una sopravvalutazione del valore della vita in quanto tale».6
Lo studio di Binding e di Hoche riflette lo stato d’animo tedesco comune dopo la Prima guerra mondiale. Hoche era considerato uno fra i principali umanitaristi e in un articolo del 1917 aveva rifiutato l’uccisione medica. Poco tempo dopo suo figlio morì in guerra, e si dice che egli abbia vissuto un periodo di profonda prostrazione sia per la sua perdita personale sia per la sconfitta della Germania. Come molti altri tedeschi, si trovò in preda a una grande amarezza e il libro fu espressione di un senso di una missione personale e di una vocazione alla rigenerazione del suo paese. In effetti, dal tempo di Jost in poi, i fautori dell’uccisione medica diretta avevano sempre giustificato la loro posizione su questo argomento riferendosi alla guerra. Il ragionamento era che i giovani migliori morivano in guerra, causando una perdita per il Volk (o per qualsiasi società) dei migliori geni disponibili. I geni di coloro che non combattevano (che erano anche i geni peggiori) potevano quindi proliferare liberamente, accelerando la degenerazione biologica e culturale.
Binding e Hoche risultarono essere i profeti dell’uccisione medica diretta. Benché dopo la pubblicazione del libro ci siano stati numerosi articoli e discussioni da parte di psichiatri tedeschi, è probabilmente giusto dire che, prima dell’avvento al potere dei nazisti, la tesi di Hoche e Binding non era affatto un punto di vista maggioritario nella psichiatria e nella medicina tedesche.7 Sotto i nazisti si intensificò la discussione sulla possibilità di uccisioni pietose, sul concetto di Hoche di «mentalmente morto» e sull’enorme consumo di risorse economiche imposto alla società tedesca dal gran numero di questi minorati. Un testo matematico chiedeva allo studente di calcolare quanti prestiti governativi a giovani sposi potessero essere concessi con la quantità di denaro che lo Stato spendeva nella cura «dei minorati, dei criminali e dei malati di mente».8
Inoltre l’estesa discussione pubblica e medica del progetto di sterilizzazione tendeva sempre a suggerire che era necessario prendere misure più radicali. In un discorso dell’agosto 1933, alla cerimonia di inaugurazione di un’accademia militare statale a Monaco di Baviera, il commissario per la sanità del Land bavarese, Walter Schultze, dichiarò che la sterilizzazione era insufficiente: psicopatici, ritardati mentali e altre persone inferiori dovevano essere isolati e uccisi. Egli notò: «Questa politica è già stata iniziata nei nostri campi di concentramento».9 Cominciò allora a farsi strada nella gente il principio che la pratica dello sterminio facesse parte dell’attività legittima del governo.
Gli ospedali psichiatrici divennero un centro importante per lo sviluppo della coscienza dell’«eutanasia». Dal 1934 in poi, questi ospedali furono incoraggiati a trascurare i loro pazienti; ogni anno i finanziamenti venivano ridotti e le ispezioni statali vennero o rese sbrigative o abolite del tutto. Particolare rilievo fu conferito ai corsi sulle «vite senza valore» tenuti in istituzioni psichiatriche per i principali funzionari governativi, corsi che presentavano «dimostrazioni» grottesche appositamente concertate per mostrare il comportamento più repellente di pazienti regrediti. Dopo il 1938 questi corsi furono estesi sistematicamente ai membri delle SS, ai capi politici del partito, alla polizia, al personale degli istituti di detenzione e alla stampa. Nel corso di questo processo la professione medica stessa veniva preparata ai compiti straordinari cui doveva essere assegnata.10
I nazisti sfruttarono allo stesso scopo il cinema, e anche qui i medici ebbero una parte di grande rilievo. I primi film, come Das Erbe (L’eredità), erano principalmente didattici e dichiaratamente scientifici nel raffigurare conseguenze mediche e sociali di tare ereditarie. Un film successivo, Opfer der Vergangenheit (Vittima del passato, 1937), copriva lo stesso tema andando ancor oltre: esso non si limitava a mettere a confronto «cittadini tedeschi sani» (ragazze che facevano ginnastica eccetera) con i degenti regrediti delle corsie più trascurate, ma parlava anche di pazienti psichiatrici ebrei e della «spaventosa violazione» delle leggi della selezione naturale, che dovevano essere ripristinate «con metodi umani». La proiezione di Vittima del passato a Berlino fu preceduta da una presentazione di Gerhard Wagner; il film fu poi proiettato a lungo in 5300 cinematografi in tutta la Germania.
Il terzo film, Ich Klage an (Io accuso, 1941) fu unico per il fatto di trattare specificatamente dell’uccisione medica; esso derivava, in effetti, da un suggerimento di Karl Brandt – colui che aveva concepito il progetto medico – di fare un film per convincere l’opinione pubblica tedesca ad accettare l’idea dell’«eutanasia». Uno scopo affine era quello di saggiare l’opinione pubblica per verificare se ci fosse un sostegno sufficiente per legalizzare il programma e per pubblicizzarlo. Il film si fondava sul romanzo Sendung und Gewissen (Missione e coscienza) del medico-scrittore Helmut Hunger, un oftalmologo berlinese che aveva svolto anche la funzione di consulente per il programma di «eutanasia» infantile e che era stato addetto stampa per il dottor Wagner. Io accuso era chiaramente una presentazione falsa della politica nazista reale: mentre i nazisti uccidevano i malati di mente contro la loro volontà, nel film un medico somministra un’iniezione mortale a sua moglie che, afflitta da un male incurabile, lo prega di metter fine alle sue terribili sofferenze. In effetti un membro della giuria dinanzi alla quale il medico viene infine processato, e che guarda con simpatia alla sua causa, afferma categoricamente che «la condizione più importante è sempre che il paziente lo voglia». Il vero messaggio del film è più o meno subliminale: esso consiste nell’osservazione, che viene lasciata cadere in modo più o meno incidentale in una discussione ricca di riflessioni profonde, che si dovrebbe fare un’eccezione per i malati mentali, nel qual caso «deve essere lo Stato ad assumersi la responsabilità».11
Ma Io accuso è un film di qualità artistica rispettabile: e dopo averne visto una scelta ho potuto capire perché alcuni fra i medici da me intervistati continuassero a sentirne l’influenza e ricordassero le estese discussioni che esso stimolò fra i loro colleghi e altri studiosi sulla moralità dell’aiuto dato da un medico a pazienti incurabili per conseguire la morte da loro desiderata.
La risposta di questi medici fu confermata dalla relazione conclusiva di una ricerca condotta dal Servizio di Sicurezza (Sicherheitsdienst, o SD) delle SS, il quale affermò che il film aveva «suscitato grande interesse» nell’intero Reich ed era stato «favorevolmente accolto e discusso», e che la maggioranza della popolazione tedesca accettava in linea di principio il ragionamento, con qualche riserva concernente possibili abusi e questioni di consenso. Queste riserve potevano in generale essere superate per mezzo della «convocazione di una commissione medica in presenza del medico di famiglia» per dichiarare un paziente incurabile; ossia, affidando la decisione a medici. Anche i medici intervistati diedero «una risposta estremamente positiva». Furono sollevati dubbi, specialmente da parte di medici più anziani, circa l’esattezza delle diagnosi e altre questioni mediche; ma gli intervistatori ebbero l’impressione che la professione medica fosse già pronta ad accettare tale progetto o almeno a convivere con esso.12b Il progetto che i medici e altri pensarono di avere approvato, però, era essenzialmente quello della morte volontaria con accurata supervisione da parte del medico e con tutte le disposizioni necessarie per prevenire possibili abusi. È improbabile che molti di coloro che parteciparono al sondaggio di opinione si rendessero conto che un tipo di uccisione molto diverso veniva praticato da molto tempo ed era in effetti già terminato, almeno ufficialmente, quando fu presentato il film.
Hitler manifestò un intenso interesse per l’uccisione medica diretta. A quanto si sa, egli parlò per la prima volta dell’intenzione di eliminare i «malati incurabili» al dottor Wagner, al raduno del partito a Norimberga nel 1935. Karl Brandt, che udì di sfuggita tale osservazione, testimoniò in seguito che secondo Hitler le richieste e gli sconvolgimenti della guerra avrebbero ridotto al silenzio l’attesa opposizione religiosa e avrebbero permesso di mettere in pratica senza difficoltà un tale progetto. Hitler avrebbe detto anche che uno sforzo di guerra richiede un popolo molto sano, e che il senso del valore della vita umana generalmente attenuato durante la guerra rendeva la guerra «il tempo migliore per l’eliminazione dei malati incurabili». Si dice che Hitler fosse preoccupato anche per il carico gravoso imposto dai malati mentali non solo ai parenti e alla popolazione generale, ma anche alla professione medica. Nel 1936 Wagner discusse con «una piccola cerchia di amici» (specificatamente ufficiali di grado elevato, alcuni dei quali erano medici) il problema dell’uccisione di «bambini idioti» e di «malati di mente», e suggerì l’opportunità di girare film in «manicomi e ricoveri per idioti» per dimostrare l’infelicità della loro vita. Questa connessione teorica e tattica della guerra con l’uccisione medica diretta fu conservata sempre.13
Nel 1938 il processo si era spinto molto oltre. Le discussioni si erano estese anche fuori degli ambienti politici di alto livello; e a un convegno nazionale cui partecipavano alcuni fra i principali psichiatri e amministratori governativi un ufficiale delle SS fece un discorso in cui sostenne che «la soluzione del problema dei malati mentali diventa facile se si eliminano queste persone».14
Verso la fine del 1938 il regime nazista stava ricevendo richieste dai parenti di neonati o bambini molto piccoli nati con gravi deformità o danni cerebrali per la concessione di una morte pietosa.15 Queste richieste erano state ovviamente incoraggiate, e venivano convogliate direttamente alla Cancelleria, ossia all’ufficio personale di Hitler. Quali che fossero i piani per usare la guerra come una copertura, il programma per l’uccisione dei bambini minorati era già molto ben avviato all’inizio della guerra. E fin dal principio questo programma aggirò gli ordinari canali amministrativi e fu associato direttamente a Hitler.
L’occasione per dare inizio alla reale uccisione di bambini e all’intero progetto di «eutanasia» fu la richiesta per l’uccisione pietosa (Gnadentod, letteralmente la «morte ricevuta per grazia») di un bambino di nome Knauer, nato cieco e mancante di una gamba e di parte di un braccio, che era apparentemente anche «idiota». Le testimonianze rese successivamente su questo caso presentarono discordanze su chi avesse fatto la richiesta e sulla misura della deformità, poiché il caso fu rapidamente mitologizzato.c
Verso la fine del 1938 o all’inizio del 1939, Hitler ordinò a Karl Brandt, suo medico personale e stretto confidente, di recarsi alla clinica dell’Università di Lipsia dove il bambino era ricoverato per accertare se le informazioni fornite erano corrette e per consultarvisi con i medici locali: «Se i fatti riferiti dal padre erano esatti, io dovevo informare i medici nel nome di [Hitler] che potevano procedere all’eutanasia». Brandt fu autorizzato anche a dire a quei medici che qualsiasi procedimento legale contro di loro sarebbe stato annullato per ordine di Hitler.16
Brandt riferì l’opinione dei medici che «non ci fosse alcuna giustificazione per mantenere in vita [un tale bambino]»; e (nella sua deposizione al processo ai medici a Norimberga) aggiunse l’affermazione [fatta presumibilmente dai medici con cui aveva parlato del caso] che «nei reparti di maternità si presentano a volte circostanze in cui è del tutto naturale che i medici stessi procedano all’eutanasia, senza bisogno che si faccia parola di questo fatto». Il medico con cui egli si era consultato principalmente era il direttore della clinica pediatrica di Lipsia, professor Werner Catel, che avrebbe assunto ben presto un ruolo fondamentale nel progetto. Tutto doveva essere concepito come un processo medico responsabile, così che «i genitori non avessero l’impressione di essere loro stessi responsabili della morte del loro figlio»;17 era questa, secondo quanto riferì Brandt, la preoccupazione principale di Hitler. (Vedi le pp. 165-168 per la testimonianza su Brandt resa dal padre del bambino.) Tornato a Berlino, Brandt fu autorizzato da Hitler, che non voleva essere identificato pubblicamente col progetto, a procedere nello stesso modo in casi simili: in altri termini, a formalizzare un programma con l’aiuto dell’alto dirigente del Reich Philip Bouhler, che era capo della Cancelleria di Hitler. Questo «caso test» ebbe un’importanza centrale per i due programmi di uccisioni: quello dei bambini e quello di adulti.
I due programmi furono condotti separatamente, anche se presentarono sovrapposizioni considerevoli nel personale e sotto altri aspetti.
Parve più facile – forse più «naturale» e in ogni modo «meno innaturale» – cominciare con i bambini più piccoli: prima con i neonati, poi con bambini fino a tre o quattro anni; e poi con quelli di età maggiore. Similmente, l’autorizzazione – dapprima orale e segreta e da «mantenersi in un ambito molto ristretto, da concedersi solo per i casi più gravi» – sarebbe diventata in seguito sempre più facile, più estesa e sempre più di dominio pubblico. Un piccolo gruppo di medici e di funzionari della Cancelleria tenne discussioni in cui furono abbozzate alcune fra le regole fondamentali del progetto. Poi fu convocato un gruppo di consulenti medici noti per avere un atteggiamento «positivo» verso il progetto, fra cui amministratori, pediatri e psichiatri.18
La sequenza tipica: la decisione di attuare la visione biomedica venne dalla direzione politica (in questo caso dallo stesso Hitler); l’ordine fu poi trasmesso a un medico di grande autorità nel regime, che si avvalse della collaborazione di amministratori di livello elevato per organizzare una struttura per il progetto; e medici accademici eminenti che avevano simpatia per il regime furono chiamati a conservare e amministrare questa struttura fondata su basi mediche. Fu deciso che il programma fosse gestito segretamente dalla Cancelleria, anche se la Divisione della Sanità del ministero dell’Interno del Reich doveva aiutare a portarlo avanti. E a tal fine fu creata un’organizzazione: il Reichssauschuss zur wissenschaftlichen Erfassung von erb- und anlagebedingten schweren Leiden (Comitato del Reich per il Rilevamento scientifico di malattie ereditarie e congenite gravi). Il nome faceva pensare a un imponente comitato di rilevamento medico-scientifico, anche se in realtà il suo direttore, Hans Hefelmann, era laureato in economia agricola. Quell’impressione viene corroborata da una direttiva strettamente confidenziale (del 18 agosto 1939) del ministro dell’Interno ad autorità di governo non prussiane. La direttiva dice che «per la chiarificazione di questioni scientifiche nel campo delle malformazioni congenite e del ritardo mentale» si richiede «una registrazione il più possibile tempestiva» di tutti i bambini sotto i tre anni di età nei quali si sospetti la presenza di una delle seguenti «malattie ereditarie gravi»: idiozia e mongolismo (specialmente se associato a cecità e sordità); microcefalia; idrocefalia; malformazioni di ogni sorta, specialmente di arti, testa e colonna vertebrale; e paralisi, comprese condizioni spastiche.19
Le levatrici dovevano fare queste denunce al tempo della nascita (e una parte della denuncia doveva essere compilata da un medico, se presente); i medici stessi erano poi tenuti a riferire su tutti i bambini in tali condizioni sino all’età di tre anni. I funzionari medici di distretto avevano la responsabilità di controllare l’esattezza di queste denunce, e a tutti i primari di cliniche e reparti di maternità venne notificata l’obbligatorietà di tali denunce.20 Le denunce dovevano essere fatte rispondendo a questionari distribuiti dal ministero di Sanità del Reich. Dapprima semplici, nel giugno 1940 tali questionari furono ampliati considerevolmente per includere – oltre a informazioni su malattie o condizioni specifiche – particolari sulla nascita, elementi della storia familiare, specialmente per quanto concerneva malattie ereditarie e abuso di alcol, nicotina o farmaci, un’ulteriore valutazione della condizione (per opera del medico) con particolare riferimento a possibilità di miglioramento, speranza di vita, precedenti osservazioni e trattamenti istituzionali, particolari sullo sviluppo fisico e mentale e descrizioni di convulsioni e fenomeni connessi.21 La formulazione delle domande e l’essenziale assenza di una storia clinica e di una registrazione delle infermità in senso tradizionale indussero molti medici e funzionari medici di distretto a supporre, almeno in un primo tempo, che si trattasse semplicemente di una raccolta di dati a fini statistici. (Hefelman testimoniò in seguito che le malattie erano descritte in termini molto generici per occultare la ragione dell’obbligatorietà del rapporto.)22
A tre esperti medicid a livello centrale veniva poi chiesto di dare un giudizio sull’opportunità o meno dell’«eutanasia» senza esaminare i bambini e senza neppure leggere la loro documentazione medica, ma solo sulla base del questionario. Le decisioni venivano registrate su un piccolo modulo, sul lato sinistro del quale erano stampati i nomi dei tre esperti, mentre a destra, sotto la parola Behandlung (trattamento), c’erano tre colonne, che rendevano disponibile un piccolo spazio sulla stessa linea del nome di ciascun esperto. Se un esperto decideva a favore del «trattamento» – che significava l’uccisione del bambino – metteva un segno più (+) nella colonna di sinistra. Se decideva contro l’uccisione del bambino, metteva un segno meno (-) nella colonna di centro. Se pensava che non si dovesse ancora prendere una decisione definitiva, scriveva nella colonna di destra l’espressione «rinvio temporaneo» o la parola «osservazione» e poi siglava quest’opinione con le sue iniziali. Lo stesso modulo veniva passato in sequenza agli altri due esperti così che il secondo, quando lo riceveva, conosceva l’opinione del primo, e il terzo quella dei primi due. Perché un bambino venisse ucciso occorreva l’unanimità dei tre esperti: un esito che era favorito da questo modo di procedere.
Quando una decisione pro o contro l’uccisione non era unanime, si seguiva di solito il criterio di chiedere un supplemento di informazione al funzionario medico locale responsabile. Questa politica fu però ben presto abbandonata, probabilmente per il fatto che poneva un’ulteriore minaccia alla segretezza del programma (segretezza che andava in ogni caso gradualmente erodendosi, ma che le autorità tentavano nondimeno di mantenere) e forse anche a causa dei ritardi amministrativi che comportava. Si preferì invece inviare questi bambini, assieme a quelli per i quali era stato specificatamente raccomandato un periodo di osservazione o un rinvio della decisione, in quelle stesse unità pediatriche in cui si provvedeva alle uccisioni per sottoporli sul posto a ulteriori accertamenti. Dopo un periodo di tempo stabilito, gli esperti medici ricevevano altre informazioni sui bambini, assieme ai questionari originari, come base per la decisione finale. Anche questo modo di procedere favoriva decisamente la risoluzione di procedere all’«eutanasia». Questo processo veniva però presentato come un mezzo per ottenere un’«opinione specialistica». Le unità in cui si procedeva alle uccisioni facevano parte di istituti pediatrici i cui direttori e i cui medici più importanti erano noti per essere politicamente attendibili e favorevoli agli obiettivi del Comitato del Reich. Questi centri erano designati con una certa magniloquenza come «Istituzioni del Comitato del Reich», «Istituzioni specialistiche pediatriche» (o «Dipartimenti specialistici pediatrici») o addirittura come «Istituzioni terapeutiche di convalescenza». In realtà non esisteva alcuna istituzione del genere. I bambini prescelti per l’eliminazione venivano di solito dispersi fra molti pazienti pediatrici comuni; alcuni venivano tenuti in corsie apposite loro riservate.23e
Il primo Dipartimento Specialistico Pediatrico fu creato nell’Istituto statale a Görden e fu chiamato pubblicamente «Dipartimento Psichiatrico Speciale della Gioventù». Görden e alcuni altri centri furono eccezionali per il loro grado di specializzazione. Poiché il centro di Görden era considerato scientificamente avanzato, e il suo primario psichiatrico dottor Heinze aveva speciali credenziali in quest’area, una grottesca mezza verità rafforzò l’inganno nell’annuncio dato il 1° luglio 1940 dal ministro dell’Interno che a Görden, «sotto la direzione di specialisti, si metteranno in atto tutte le possibilità terapeutiche secondo le conoscenze scientifiche più recenti».25 Infine una rete di una trentina di aree di eliminazione all’interno di istituti esistenti fu costituita nell’intera Germania e anche in Austria e in Polonia. Fu così possibile far fronte al volume di uccisioni decise e nello stesso tempo fornire il servizio non lontano dal luogo di residenza delle famiglie interessate: un risparmio in denaro e spese per il trasporto e un modo per rendere i parenti più docili nell’accettare i necessari trasferimenti. I direttori di tutti questi istituti furono pienamente informati e collaborarono strettamente col Comitato del Reich. In varie corrispondenze concernenti i trasferimenti si annunciava che «i bambini riceveranno la migliore e più moderna terapia disponibile».26
Tutta questa falsificazione era quindi al servizio della medicina nazista. Tutti procedevano come se quei bambini fossero effettivamente destinati a ricevere i doni della scienza medica, come se dovessero essere guariti invece che uccisi. La falsificazione era chiaramente intesa a ingannare le famiglie dei bambini, i bambini stessi quando erano abbastanza grandi e il pubblico in generale. Ma serviva anche a soddisfare i bisogni psicologici degli assassini esprimendo letteralmente il rovesciamento nazista di terapia e uccisione. Per esempio, un medico poteva dire a un genitore che «potrebbe esserci la necessità di eseguire un intervento chirurgico rischioso» o spiegare che «la terapia ordinaria usata finora non può più essere di alcuna utilità per il suo bambino, cosicché si impone l’adozione di misure terapeutiche straordinarie». Il dottor Heinze, che usò frasi del genere con i genitori, spiegò in una deposizione in tribunale che in quel che diceva c’era della verità: «Un bambino molto eccitabile... completamente idiota... non poteva essere mantenuto tranquillo con la dose normale di sedativi», cosicché «si doveva... usarne una dose molto forte per... evitare che il bambino provocasse danni a se stesso attraverso la sua irrequietezza». Al tempo stesso, «noi medici sappiamo che una tale dose eccessiva di un sedativo, nel caso dei bambini, di solito luminal... potrebbe causare la polmonite... e che questa è virtualmente incurabile».27 È del tutto probabile che il dottor Heinze non solo mentisse coscientemente ma che la giustificazione medica degli omicidi gli permettesse in parte anche di ingannare se stesso: che, almeno in qualche momento, egli potesse credere veramente che i bambini ricevessero una qualche forma di terapia e che la loro morte fosse dovuta solo alla loro anormalità.
Nello stesso spirito, ci si doveva procurare il «consenso» dei genitori al trasferimento. I genitori riluttanti ricevevano lettere nelle quali si sottolineavano la gravità e il carattere permanente dell’infermità del loro figlio, e si diceva loro che «dovevano essere grati» che esistessero, per bambini colpiti in tal modo dalla sorte, istituzioni presso le quali «è disponibile il trattamento migliore e più efficace». La lettera proseguiva poi con l’affermazione che «non è possibile né un rinvio né una cancellazione del trasferimento». Se i genitori avessero continuato a opporsi, «saranno adottate altre misure, come il ritiro della vostra tutela».28 Questa minaccia di sottrarre ai genitori la tutela del figlio infermo era di solito sufficiente, ma nel caso che non lo fosse si poteva passare all’ulteriore minaccia di chiamare un genitore a uno speciale incarico di lavoro. Qui la coercizione era al servizio non solo della politica delle uccisioni stesse ma anche della conservazione della sua struttura medica.
Tale struttura serviva a distribuire la responsabilità individuale sul maggior numero possibile di persone. In nessun punto della lunga sequenza – dal riferimento di casi per opera di levatrici o di medici al controllo di tali denunce per opera dei direttori di istituti, a opinioni di esperti fornite da consulenti centrali, alla coordinazione dei moduli da parte di funzionari del ministero della Sanità, al trasferimento del bambino all’istituzione del Comitato del Reich per la sua uccisione – c’era un senso di responsabilità personale, o addirittura di coinvolgimento, nell’assassinio di un essere umano. Ogni partecipante poteva sentirsi ridotto al rango di non più di una piccola rotella in una grande macchina medica che aveva la sanzione ufficiale dello Stato.
Prima di essere uccisi, i bambini venivano tenuti di solito per qualche settimana nell’istituzione per dare l’impressione che fossero sottoposti a una qualche forma di terapia medica. L’uccisione veniva disposta di solito dal direttore dell’istituto o da un medico suo subordinato, spesso per mezzo di un semplice accenno piuttosto che con un ordine specifico. La decisione veniva attuata per mezzo di compresse di luminal sciolte in un liquido, di solito tè, che veniva fatto bere al bambino. Questo sedativo veniva somministrato ripetutamente – spesso alla mattina e alla sera – per due o tre giorni, finché il bambino cadeva in un sonno continuo. La dose di luminal poteva essere aumentata finché il bambino andava in coma e moriva. Ai bambini che avevano difficoltà a bere, il luminal veniva talvolta iniettato. Se il luminal non uccideva il bambino abbastanza in fretta – come accadeva nel caso di bambini eccitabili che sviluppavano una tolleranza considerevole al farmaco in conseguenza delle numerose somministrazioni precedenti –, si aggiungeva un’iniezione mortale di morfina e scopolamina. Come causa del decesso si indicava di solito una malattia più o meno comune come la polmonite, che poteva avere addirittura il nocciolo di verità cui abbiamo accennato.29
Il medico dell’istituzione, quindi, si trovava nel punto della struttura medica più vicino all’atto dell’uccisione, anche se il regime assicurava che era lo Stato ad assumersi l’intera responsabilità. Eppure questi medici svilupparono – e in effetti coltivarono espressamente – il senso della loro impotenza in quanto agenti dello Stato: dal loro punto di vista, infatti, come riferì uno di tali medici, «questi bambini erano già condannati a morte sui loro rapporti di trasferimento», cosicché «non mi curai neppure di esaminarli». In effetti, qualsiasi esame egli avesse eseguito non sarebbe stato altro che una formalità, non avendo egli l’autorità di mettere in discussione il giudizio definitivo del comitato formato da tre esperti.
In seguito, però, gli amministratori del programma ribatterono con insistenza che «il se, quando e come impartire una morte pietosa spetta al giudizio del medico, che volontariamente e per personale convincimento approva l’eutanasia e consente alla sua attuazione. È un ordine che “può” e non “deve” essere dato».30 Essi sostennero addirittura che, in qualche situazione, non c’erano affatto opinioni di esperti e che la decisione sull’opportunità di uccidere o no un bambino era lasciata al medico dell’istituzione. Senza dubbio questa sorta di posteriore testimonianza legale fu addotta in seguito dagli organizzatori del programma allo scopo di negare o minimizzare la loro responsabilità. Ma si può dire che quella fuga da ogni responsabilità a partire dai vertici fosse stata incorporata ad arte nel progetto: il ruolo del medico dell’istituzione come sicario era un modo per investire l’atto dell’uccisione di una «responsabilità medica» che fosse almeno in parte sua. E lo status legale contraddittorio del programma di «eutanasia» – una legge de facto che non era una legge – contribuì alla confusione e alla contraddizione che circondavano la questione della responsabilità di ciascuno.
Inevitabilmente si verificarono grandi mutamenti nella disciplina in principio dominante, cosa che condusse via via ad allargare la rete delle uccisioni e a facilitare la realizzazione degli obiettivi ultimi del Reich. Quando il limite di età dei bambini sottoposti al programma di «eutanasia» fu spostato verso l’alto, aumentò il numero dei condannati, e il programma, che incluse ora un gran numero di bambini più grandi e di adolescenti, finì col sovrapporsi talvolta al progetto di uccisione di adulti. Anche le condizioni prese in considerazione come motivi per l’uccisione si ampliarono a comprendere il mongolismo (non incluso in principio) e vari casi borderline o deficit limitati, fino all’uccisione di ragazzi designati come delinquenti giovanili. I bambini ebrei poterono essere inclusi primariamente per il fatto di essere ebrei; e in un istituto fu costituito un dipartimento speciale per «minorenni di sangue misto (Mischlinge) ebraico-ariani».
Dopo il 1941, l’anno in cui Hitler ordinò ufficialmente di metter fine al progetto generale di «eutanasia», l’uccisione di bambini continuò, e in effetti probabilmente aumentò, e fu condotta in modo ancor più disordinato. Si stima che siano stati uccisi cinquemila bambini, ma il totale fu probabilmente molto più elevato se teniamo conto del periodo dell’«eutanasia selvaggia» (vedi cap. IV).31
La resistenza all’«eutanasia» infantile venne per lo più dalle famiglie di bambini uccisi o minacciati di morte, in seguito dal clero cattolico e protestante e in misura minore dall’interno di certi ambienti medici, tutti argomenti di cui mi occuperò nel capitolo III. Vale però la pena di menzionare qui certe forme di resistenza dall’interno al progetto di «eutanasia» infantile, non foss’altro perché furono in numero molto limitato. Furono fatti molti tentativi – è difficile dire quanti – da parte di medici o di evitare di formulare diagnosi su bambini che sarebbero equivalse a una loro condanna a morte, o di far dimettere bambini da istituti prima che fossero inghiottiti dalla macchina dello sterminio. Ci viene riferito che un certo dottor Möckel a Wiesloch abbia rifiutato la designazione a direttore di una sezione pediatrica sostenendo di essere «troppo debole» per l’attuazione del programma del Comitato del Reich. Secondo altri rapporti, in certe aree ci furono medici di alto rango responsabili per le designazioni di medici in tali istituti che accettarono i rifiuti di candidati che adducevano la ragione di essere troppo giovani e inesperti. Un medico che era stato estremamente attivo come consulente esperto nel programma degli adulti si rifiutò di uccidere nove dei dodici bambini inviati all’unità pediatrica di cui era diventato primario perché, com’egli si espresse, «un’istituzione terapeutica e di cura non è il posto giusto per tali misure». C’è inoltre un rapporto di un’infermiera che si rifiutò di prendere parte a uccisioni di bambini perché sentiva che stava diventando «isterica» in conseguenza dello «sforzo mentale».32 In generale, ci fu probabilmente una resistenza medica molto minore all’uccisione di bambini che a quella di adulti.
Proprio quest’impressione mi fu trasmessa vividamente da un medico da me intervistato che era stato coinvolto direttamente nel progetto di uccisione: «Secondo il pensiero di quel tempo, nel caso dei bambini l’uccisione sembrava in qualche misura giustificabile... mentre nel caso dell’adulto malato di mente era decisamente un omicidio puro». Hans F. continuò dicendo quanto fosse grave l’infermità dei bambini quando arrivavano nell’istituzione («Mio Dio... degli imbecilli a un livello spaventoso!»), quanto fossero denutriti e «in condizioni terribili» e come gli eventi fossero organizzati in modo tale che l’uccisione non fosse del tutto un’uccisione. Il direttore dell’istituzione diceva a una delle due o tre infermiere, che partecipavano all’esecuzione del programma, di somministrare ai bambini designati il luminal mescolato al loro cibo: un ordine che, considerato superficialmente, poteva sembrare una normale routine per calmare bambini infermi irrequieti:
A coloro che venivano prescelti per essere uccisi venivano prescritte dosi di luminal molto più elevate... Erano bambini spastici..., avevano la polio cerebrale..., erano idioti..., erano incapaci di parlare o di camminare. Come si dice oggi, date loro un sedativo perché sono agitati. E con questi sedativi... il bambino dorme. Se non si sa che cosa sta accadendo, [il bambino] dorme. Si dev’essere ben introdotti per sapere che... in realtà lo stanno uccidendo e non solo calmando.
Pur ammettendo che, nel vedere un bambino dormire così a lungo, ci si potesse chiedere: «Perché dorme tanto?», il dottor F. insistette (erroneamente) che si poteva ignorare quel problema perché «il tasso di mortalità [dei bambini uccisi] non era molto superiore al tasso di mortalità normale per tali bambini». Egli sottolineò che non c’era né un comando diretto («Se avessi ricevuto l’ordine di uccidere... non so, ma [penso che] avrei rifiutato... ma certamente non ci davano ordini del genere») né un omicidio manifesto («Voglio dire che se avessimo mandato un’infermiera da un letto all’altro a sparare a questi bambini... la cosa non avrebbe funzionato»). Di conseguenza, «non c’era uccisione, parlando in senso rigoroso... Si pensava che questo non fosse “uccidere” [ma] “mettere a dormire”».
È ovvio che il dottor F. cercava in questo modo di giustificare e scagionare se stesso. In effetti l’esatta misura della sua colpevolezza non è chiara. Egli era stato in carcere per qualche anno in attesa di giudizio, era stato condannato in parte sulla base di una testimonianza secondo cui aveva ordinato di somministrare una dose fatale a un bambino, ma aveva interposto appello e infine era stato liberato, a quanto pare per ragioni politiche in un periodo di considerevole lassismo nei processi a ex nazisti. Avesse o no ordinato la somministrazione dei farmaci che avevano ucciso quel particolare neonato, era certamente implicato nel progetto di «eutanasia» infantile. Era responsabile della falsificazione di cartelle cliniche e ammise di aver compilato molti questionari che avevano condotto all’uccisione di bambini e di aver firmato un gran numero di falsi certificati di morte. Si sospetta che abbia fatto anche molto di più: per vari mesi durante il suo lavoro all’istituto, nel periodo in cui non fu primario, molti bambini morirono in modi ritenuti sospetti. Secondo me egli tentò chiaramente di spiegare il suo coinvolgimento in modo da minimizzare la sua responsabilità. Io credo però che egli sia riuscito anche a esprimere con precisione l’ambiguità deliberata che facilitò le sue azioni e limitò il suo senso di colpa circa tutto ciò che fece in connessione con le uccisioni di bambini. Questa situazione «come se» è tipica delle uccisioni mediche dirette e, in misura considerevole, anche delle uccisioni eseguite con la collaborazione indiretta della scienza medica.
Anche il fatto che F. avesse aderito molto giovane al movimento nazista in Baviera ebbe una grande influenza sulle sue percezioni e sulle sue azioni. Essendo stato un membro insolitamente entusiasta della Gioventù Hitleriana (Hitler Jugend) e iscritto al partito da quando aveva diciotto anni, fu profondamente turbato dalle voci che udì, lavorando in ospedali psichiatrici all’inizio degli anni Quaranta, sull’uccisione di malati di mente. Dapprima denunciò tali voci come «una turpe propaganda contro il regime»; e quando non fu più possibile negarne la fondatezza, «tentò ancora di vedere in qualche modo tutto questo in connessione con le idealità del nazionalsocialismo». Egli aveva cioè bisogno, da un lato, di cercare una qualche giustificazione alle uccisioni all’interno della visione biomedica, e dall’altro di continuare a far ricorso alle difese della negazione e dell’ottundimento psichico, aiutato dalla medicalizzazione burocratica del programma, per convincersi che «quei moduli [che egli riempiva) erano assolutamente innocui» e che persino la politica di uccidere i bambini deformi «non era un ordine ma una regolamentazione, la quale dava al medico l’autorità di poter decidere l’uccisione dei bambini».
Egli descrisse i rapporti fra il bambino-vittima privo di sentimenti umani comuni («colui al quale non si può parlare, che non ride, che è affettivamente inavvicinabile») e il medico-uccisore come dominati dalla stessa malattia («Chi esegue la decisione di procedere all’eutanasia non deve avere il cattivo sentimento [di stare uccidendo direttamente una persona]... Manca ogni tensione affettiva, ogni partecipazione emotiva... e questo fatto può trasformare ogni essere umano in un omicida»). F. parlò dello studio di Hoche e Binding dicendo che aveva fornito una «preparazione mentale» per quel tipo di atteggiamento, e poté dire, a proposito della posteriore uccisione di bambini: «Non si può chiamarlo un programma nazionalsocialista». Come molti medici e scienziati, F. combinò una difesa della professione entro la visione biomedica con l’adesione ideologica al nazionalsocialismo nel nome della più grande comunità razziale germanica: «Non si poteva attaccare alle spalle il proprio popolo (dem eigenen Volk nicht in den Rücken fallen)». Parlò anche dell’influenza della guerra: come «la gente temesse di essere uccisa essa stessa attraverso eventi bellici» e «non le rimanesse quindi molta sensibilità per le sofferenze di altri, diciamo di malati». Qui egli espresse sia la visione nazista dell’inaccettabilità in tempo di guerra dell’onere imposto dai pazienti mentali sia la reale paura della morte sperimentata a quel tempo da lui e da altri medici. La situazione era aggravata dal suo forte conflitto personale sul problema se lasciare il lavoro in un ospedale psichiatrico per andare a servire la patria in armi: un conflitto che poteva condurre a profondi timori e senso di colpa nell’un modo come nell’altro, per ciò che avrebbe fatto ed evitato se fosse rimasto nell’ospedale mentale e per ciò che avrebbe lasciato e ciò che avrebbe dovuto fronteggiare se si fosse arruolato, cosa che finì col fare. Per un certo tempo aveva potuto evitare il servizio militare grazie al fatto che il suo lavoro nel programma di «eutanasia» lo collocava nella categoria degli «indispensabili».
Pur potendo esercitare un certo controllo personale su questa decisione, egli si sentiva essenzialmente rinserrato in un sistema chiuso di autorità e di polizia: il suo primario riunì i medici e disse loro della decisione di Hitler sull’«eutanasia» e del lavoro della «commissione medica» nel prendere decisioni finali sui bambini: il tutto, come fu sottolineato, costituiva una «questione segreta del Reich (geheime Reichssache)». Entrambi i primari sotto i quali lavorò facevano parte di quel sistema chiuso ed «erano convinti che [il progetto delle uccisioni] era giusto»; e quello era un tempo in cui, a differenza di oggi, «si aveva timore a fare qualcosa che non fosse in accordo col capo». Non ci fu, inoltre, alcuna comunicazione fra colleghi sulla politica delle uccisioni, una volta che essa ebbe inizio: «C’era solo una catena di comandi dall’alto al basso, ma nessuna discussione» perché era «tabù» parlare del programma con chiunque. Come medico e giovane adulto privo di esperienze, F. si sentì solo e timoroso e provò moti di delusione («Non credevo possibile che un Reich che io avevo desiderato... fosse capace di ordinare qualcosa di simile»), assieme alla sensazione che non ci fosse «alcuna via d’uscita». Il suo modo di far fronte alla situazione fu quello di ubbidire, di fare quel che ci si attendeva da lui.
Uno dei modi da lui usati per adattarsi fu quello di immergersi nel suo lavoro medico. Trascorreva da dodici a quattordici ore in corsia «per cercare di capire a fondo la cosa, almeno scientificamente..., di esaminare... tutti i fattori che erano... importanti per lo sviluppo di tale condizione..., di esaminare i parenti, l’intera famiglia..., lavorando con i pazienti, esaminandoli con precisione». Ciò permise «al medico di venir fuori», ma al tempo stesso lo aiutò a consolidare la sua situazione medica «come se»: ossia lo aiutò a mantenere un’illusione parziale di autenticità medica.
Egli era però consapevole anche di essere immischiato in qualcosa di sporco, nell’uccisione di bambini – come quando chiese a se stesso perché un particolare bambino dormisse così tanto («Quello era effettivamente ciò che si pensava») – come pure del fatto che quello non era «il modo legale» per trasmettere ordini su ciò che i medici dovevano fare. Il dottor F. avrebbe in seguito ammesso pubblicamente che il primario gli aveva parlato dell’ordine di uccidere i bambini e che egli (F.) era consapevole che i moduli da lui compilati conducevano direttamente alla loro uccisione. Parlò spesso di quegli inganni definendoli «diabolici» e aggiunse, con un buon senso retrospettivo, ovviamente, ma anche con un preciso significato per i suoi sentimenti di quel tempo: «O si è medici o non lo si è». E: «Il medico, a prescindere dalla sua ideologia o dalla sua età, è stato educato per tutti quegli anni di studio ad aiutare il malato, a guarirlo, non a ucciderlo».
I medici che si trovarono nella condizione di Hans F. dovettero avere una qualche consapevolezza del rovesciamento delle nozioni di terapia e di uccisione, ma non sperimentarono necessariamente un senso di colpa sufficiente a impedire loro di partecipare al programma di «eutanasia». Nel caso di questo medico i sensi residui di vergogna e di colpa furono intensificati in seguito dal conoscere che, fra i medici con cui collaborò più strettamente, uno aveva scontato cinque anni in carcere, mentre l’altro, il suo ex primario, era stato condannato a morte in un processo tenutosi subito dopo la guerra. Anche le nostre interviste potrebbero avere acuito i suoi sensi di colpa: in seguito egli espresse pubblicamente un senso di maggiore colpevolezza e la convinzione che avrebbe dovuto dire ai capi nazisti a quel tempo che il programma era «folle» e che stava trasformando i medici in mostri. Molto rivelatrice fu la sua rabbia – forse l’unica rabbia da lui espressa durante le nostre interviste – verso coloro che impartivano gli ordini di uccidere dall’alto, a persone come lui:
C’è una differenza enorme fra il dire che i pazienti che ricadono sotto questi provvedimenti non meritano di vivere, che dovrebbero essere uccisi – questa è ancora una semplice disposizione – e la decisione di metterla in pratica. Il grande problema è: chi farà questa cosa? Io credo che quei signori che si sono impegnati in quelle riflessioni teoriche non ci abbiano mai pensato... Nessun giudice che pronunciò una condanna a morte ha mai impiccato nessuno, non è vero?... Io posso dire cento volte: «Il tale [un paziente] è un deficiente mentale tale che non potrà mai svilupparsi»... ecc. ecc., ma ciò non mi dà il diritto di ammazzarlo (umzubringen).
Egli identificò il suo ex primario come uno di quei «criminali a tavolino» (Schreibtischtäter) – termine molto usato a proposito dei nazisti durante il periodo postbellico – che costringevano altri, come infermieri e medici di basso rango, a fare il lavoro sporco e a fare da intermediari fra il criminale a tavolino e la vittima. Il dottor F. stava sostenendo implicitamente di aver fatto parte di quest’ultimo gruppo, costretto a compiere il lavoro più ingrato.
Egli espresse la sua confusione morale in un’altra forma significativa, attraverso il suo atteggiamento verso i campioni biologici tratti dai bambini morti. Al tempo delle uccisioni, nell’istituto del dottor F. venivano eseguite autopsie per opera di un patologo, e lo stesso F. esaminava talvolta il cervello di suoi ex pazienti. Lo faceva, spiegò:
non solo perché ciò permetteva, per così dire, di alleggerire la propria coscienza, ma anche perché si è interessati ad accertare che cosa c’era di sbagliato in una persona: Che cosa sta succedendo qui, perché questo bambino è malato? In che cosa consiste il problema?... Perché questo bambino è un imbecille? Perché è paralizzato? La cosa presentava un alto interesse scientifico, devo insistere su questo punto.
In altri termini, F. e gli altri medici potevano seguire un modello che ricorre in tutto questo studio: impegnarsi nella «scienza medica» come mezzo per evitare la consapevolezza della loro partecipazione a un progetto omicida, e il senso di colpa conseguente.
Inoltre, qualche anno dopo la guerra Hans F. tornò nello stesso istituto e cominciò a fare studi più sistematici di questo «materiale patologico». Com’egli mi spiegò, tutti i cervelli dei bambini sottoposti ad autopsia, fossero stati o no uccisi nell’ambito del progetto di «eutanasia», venivano conservati nell’istituto, e «alcuni fra di essi presentavano un certo interesse scientifico». Il dottor F. paragonò la sua decisione di studiare quei cervelli all’interesse scientifico che poteva avere qualsiasi altro medico contemporaneo: «Così, proprio come oggi, quando muore un paziente, mentre mi dico: “Sì, questa è una malattia interessante”..., mi piacerebbe sapere che cosa stava accadendo in lui e allora faccio conservare il cervello per esaminarlo. Era proprio così anche allora».
Quando gli chiesi se, facendo queste dissezioni dopo la guerra, pensasse mai a ciò che era accaduto a dei bambini in quel periodo precedente, mi diede una risposta equivoca. Ammise di «aver pensato... qualche volta... a singoli casi che venivano in mente, che questo era quel tale o talaltro bambino». Pur negando che si potesse dire se un particolare cervello provenisse da un bambino che era stato ucciso, riconobbe che «si poteva supporre che nei casi gravi che erano, diciamo, a livello diagnostico e prognostico nell’ambito del programma [di “eutanasia”]... che alcuni di questi casi avessero subito una morte provocata».
L’ideologia politica e biomedica del dottor F., unitamente al suo rapporto con una specifica autorità politica e medica, contribuì in modo cruciale alle sue risposte psicologiche e, in definitiva, alla sua partecipazione al programma di «eutanasia». Sul suo comportamento incise anche l’atteggiamento dominante della psichiatria tedesca – e non solo tedesca – del tempo verso i malati di mente in generale e in particolare verso i bambini con deficit gravi, un atteggiamento di grande distacco e una percezione limitata di questi pazienti come esseri umani. Più del distacco, le persone che durante la loro infanzia furono degenti in tali istituti descrissero in seguito un ambiente crudele, e addirittura sadico, in cui venivano inflitte punizioni corporali a chi si comportava male e scariche elettriche a chi bagnava il letto, un rigore che dev’essersi senza dubbio intensificato in concomitanza col progetto di «eutanasia». Il dottor F. dovette essere particolarmente soggetto a questo aspetto estremo di corruzione medica a causa dell’intensità del suo rapporto col regime, ma anche altri medici, meno coinvolti con l’ideologia nazista, fecero cose simili all’interno di una struttura che massimizzava il potenziale psicologico, quale che fosse, dell’individuo per partecipare al rovesciamento delle nozioni di terapia e uccisione.
Infine, nell’uccisione dei bambini ci furono estremi di crudeltà. Quella che segue è una descrizione di una visita fatta da un non medico, nell’autunno del 1939, a un’importante istituzione del Comitato del Reich a Eglfing-Haar, dove il direttore, dottor Hermann Pfannmüller, sviluppò la politica di far morire di fame i bambini designati per l’«eutanasia», anziché sprecare medicine per loro:
Ricordo il succo delle seguenti osservazioni generali di Pfannmüller: queste creature (intendeva i bambini) rappresentano naturalmente per me come nazionalsocialista solo un aggravio per il corpo sano del nostro Volk. Noi non uccidiamo (qui egli potrebbe avere usato un’espressione eufemistica in luogo della parola uccidere) con veleno, iniezioni ecc.; in tal caso la stampa straniera e certi signori in Svizzera avrebbero solo nuovo materiale per infiammare l’opinione pubblica. No, il nostro metodo è molto più semplice è più naturale, come vede. Dicendo queste parole egli trasse, con l’aiuto di una... infermiera, un bambino dal suo lettino. Mentre mostrava il bambino come un coniglio morto, affermò, con un’espressione d’intesa e un sogghigno cinico: Per questo ci vorranno altri due o tre giorni. L’immagine di quell’uomo grasso, ghignante, che teneva fra le mani carnose uno scheletrino gemente, circondato da altri bambini che stavano morendo di fame, è ancora scolpita nella mia memoria. L’assassino spiegò poi che non si toglieva bruscamente il cibo ai bambini, ma si riducevano gradualmente le razioni. Una signora che partecipava anche lei alla visita chiese – soffocando a stento la sua indignazione – se una morte rapida per mezzo di iniezioni ecc. non sarebbe stata almeno più pietosa. Pfannmüller allora elogiò di nuovo i suoi metodi dicendo che erano più pratici in vista di ciò che avrebbe potuto dire la stampa estera. La franchezza con cui Pfannmüller parlò del metodo di trattamento menzionato sopra è spiegabile secondo me solo come una conseguenza di cinismo o di ottusità (Tölpelhaftigkeit). Pfannmüller non nascose neppure il fatto che fra i bambini che dovevano essere uccisi... c’erano anche bambini che non erano malati di mente, ossia figli di genitori ebrei.33
L’estensione del progetto dai bambini agli adulti significò la trasformazione dell’uccisione medica in una politica generale ufficiale: una politica enunciata da Hitler nel suo «Decreto del Führer» dell’ottobre 1939. Alcuni mesi prima egli aveva convocato Leonardo Conti, segretario per la sanità nel ministero dell’Interno, e il capo della Cancelleria del Reich, Hans Lammers, e aveva detto loro (come ricordò quest’ultimo) che «riteneva appropriato che la “vita indegna di vita” di malati di mente gravi fosse eliminata per mezzo di interventi (Eingriffe) che provocassero la morte». Hitler continuò citando «come esempi... casi in cui il malato di mente poteva essere messo a giacere solo su sabbia o segatura perché si sporcava di continuo» e in cui «i pazienti si infilavano in bocca i loro stessi escrementi, mangiandoli e via dicendo». Hitler sottolineò che in questo modo «si poteva realizzare un certo risparmio in ospedali, medici e personale infermieristico».34 Il malato di mente così messo in caricatura sarebbe venuto a simboleggiare tutto ciò che minacciava la purezza del Volk.
Il decreto stesso era breve:
Al capo [della Cancelleria] del Reich Bouhler e al dottor Brandtf viene affidata la responsabilità di espandere l’autorità dei medici, i quali devono essere designati per nome, perché ai pazienti considerati incurabili secondo il miglior giudizio umano disponibile (menschlichem Ermessen) del loro stato di salute possa essere concessa una morte pietosa (Gnadentod).35g
Il decreto, emanato in ottobre, fu retrodatato al 1° settembre per connetterlo direttamente al giorno dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Benché la retrodatazione venga ricondotta di solito alla convinzione di Hitler che un’atmosfera da tempo di guerra avrebbe facilitato l’accettazione di tale progetto da parte della popolazione tedesca, fra l’«eutanasia» e la guerra c’era un rapporto più profondo. Come si espresse il fanatico dottor Pfannmüller nel programma nazista: «È per me intollerabile l’idea che i migliori, il fiore della nostra gioventù, debbano perdere la vita al fronte perché i deboli di mente ed elementi sociali irresponsabili possano avere un’esistenza sicura negli istituti psichiatrici».37
I nazisti attribuivano alla loro visione biomedica uno status eroico parallelo a quello della guerra. Il concetto di Hitler che lo Stato in sé non fosse nulla ed esistesse solo per servire il benessere del Volk e della razza si applicava anche alle imprese principali dello Stato, specialmente alla sua impresa trascendente della guerra. Piuttosto che sussumere la nozione dell’uccisione medica sotto quella della guerra, si sussumeva la guerra stessa sotto la vasta visione biomedica di cui l’«eutanasia» era una parte. O, per esprimere la cosa in termini diversi, gli impulsi più profondi dietro la guerra avevano una connessione con la sequenza della sterilizzazione, dell’uccisione medica diretta e del genocidio.
Eppure Hitler e altri capi nazisti si rendevano conto che stavano impegnandosi in una misura draconiana, anche se ai loro occhi necessaria, per la quale il pubblico tedesco e persino la burocrazia ufficiale di Stato non erano del tutto preparati. Perciò il decreto fu scritto nella cerchia privata dei collaboratori più stretti di Hitler, come se egli «considerasse la morte di molte migliaia di persone malate un suo problema privato, e non... una decisione di competenza del capo dello Stato».38 O, come possiamo forse dire, egli considerò se stesso un profeta la cui visione razziale andava molto oltre la struttura dello Stato, imponendogli di evitare l’apparato burocratico e di procedere direttamente ad affrontare il problema.
Il suo modo di procedere consistette nel rivolgersi direttamente ai medici. Egli finì inevitabilmente col creare una complessa nuova burocrazia, che era al tempo stesso medica e omicida. Nella sua decisione di affidare il programma a Karl Brandt anziché a Conti (che, in quanto ministro della Sanità e capo sanitario del Reich, era la persona logica per gestirlo), Hitler scelse il proprio «medico accompagnatore e stretto confidente». Furono probabilmente ragioni personali simili a fargli scegliere Philip Bouhler, capo della sua Cancelleria e considerato un suo fedelissimo, per dirigere il programma assieme a Brandt. Si disse che un’altra ragione per questa scelta fu il timore che capi di distretto (Gauleiter) estremisti potessero assumersi «spietatamente e senza consultare i medici» gran parte del controllo del progetto, come in effetti finì con l’accadere.39 Per Hitler questa fu una scelta cosciente di «disciplina di partito» a danno di un apparato statale che poneva ancora delle richieste di legalità e responsabilità nel modo di procedere; fu anche la scelta del procedimento che garantiva la protezione più rigorosa del segreto. Soprattutto, quest’organizzazione suggerisce in quale misura l’idea di uccidere i malati di mente avesse già preso piede presso i capi nazisti, e la loro determinazione a mantenere il progetto entro canali medici.
Non solo Brandt e Bouhler, ma anche il dottor Herbert Linden del ministero della Sanità e il dottor Grawitz, comandante medico delle SS, si diedero da fare nella scelta di medici per ruoli direttivi. Fra i criteri da loro usati c’erano il grado di fedeltà di questi medici al regime, il riconoscimento di cui godevano nella loro professione, la loro simpatia notoria per l’«eutanasia» o almeno per un approccio radicale all’eugenica, probabilmente grosso modo in quest’ordine. Furono prescelti vari medici che erano stati associati al programma di «eutanasia» infantile (Unger, Heinze e Pfannmüller), ma anche un gruppo di psichiatri stimati in ambienti accademici, in particolare il professor Werner Heyde di Würzburg, il professor Carl Schneider di Heidelberg, il professor Max de Crinis di Berlino e il professor Paul Nitsche dell’Istituzione statale di Sonnenstein. Altri, come Friedrich Mennecke, erano primariamente psichiatri nazificati. Heyde divenne il rappresentante di Brandt e diresse il programma, con Nitsche come suo assistente che infine lo sostituì.40
A queste prime riunioni Brandt venne presentato come il direttore medico del progetto, e si lesse il decreto di Hitler, che talvolta fu anche mostrato («Credo di aver visto la firma di Adolf Hitler su di esso», testimoniò in seguito Mennecke). Si ebbe cura di spiegare che non esisteva alcuna legge ufficiale perché secondo Hitler una tale legge avrebbe potuto dare alimento alla propaganda nemica; che l’autorizzazione a Bouhler e a Brandt nel decreto di Hitler era l’equivalente di una legge; e che i medici che avessero partecipato al programma sarebbero stati immuni da conseguenze legali.h Un partecipante insistette in seguito che il progetto riguardava solo pazienti psichiatrici per i quali non c’era speranza di guarigione: «Quei casi... che noi in psichiatria conosciamo come rovine consumate completamente dalle fiamme (ausgebrannte Ruinen)».42 Molti fra i presenti conoscevano però le opinioni di Hitler sull’opportunità di eliminare le persone geneticamente inferiori in generale. Benché si invocasse molto spesso l’espressione «vita indegna di vita», a un altro medico non era però «del tutto chiaro come si facesse a decidere».43 Si insistette sulla costruzione di una sequenza medica accurata di valutazione prima che un qualsiasi paziente venisse ucciso. L’intero progetto doveva inoltre essere mantenuto «assolutamente segreto». In quelle importanti prime riunioni solo un medico – Max de Crinis – si rifiutò (e solo per ragioni tattiche [vedi le pp. 172-174]) di partecipare appieno. La reazione generale fu che «nessuno espresse alcuna apprensione».44
Quel che era segreto era il progetto di uccisione reale, non l’idea. Qualche mese prima (aprile 1939) in una rivista nazista semiufficiale era apparso un articolo in cui si stimava che sarebbe stato desiderabile sterminare un milione di persone.45
A differenza del programma di «eutanasia» infantile, il programma T4, concentrato sui pazienti adulti cronici, coinvolse praticamente l’intera comunità psichiatrica tedesca e parti connesse della comunità medica generale. L’organizzazione di mimetismo creata per occultare l’eccidio medico erano le Reichsarbeitsgemeinschaft Heil- und Pflegeanstalten (Case di cura e di assistenza della Comunità di lavoro del Reich, o RAG), che operavano dalla Cancelleria a Berlino, al suo indirizzo di Tiergarten 4: di qui il nome in codice «T4» per il progetto concernente gli adulti. Questionari elaborati a cura del gruppo direttivo di psichiatri e amministratori furono distribuiti, con l’aiuto del ministero della Sanità, non solo a istituti psichiatrici ma a tutti gli ospedali e i cronicari. Lo spazio limitato concesso alle categorie biografiche e sintomatiche, così come la lettera di accompagnamento, davano l’impressione che si intraprendesse un rilevamento statistico a scopi amministrativi e forse scientifici. Quest’impressione era rafforzata ancor più dal fatto che il questionario per pazienti era accompagnato da un questionario sull’istituto che si concentrava su questioni come il bilancio annuale, il numero dei letti e il numero dei medici e degli infermieri. Ma la sinistra verità era suggerita dalla grande insistenza su una «descrizione precisa» della capacità di lavoro dei pazienti, oltre che dalla giustapposizione delle seguenti quattro categorie:
1. Pazienti sofferenti di malattie specifiche che non possono essere utilizzati per alcun lavoro, o solo per qualche lavoro meccanico semplice. Le malattie erano schizofrenia, epilessia, malattie senili, paralisi e altre conseguenze della sifilide resistenti alla terapia, debolezza di mente dipendente da qualsiasi causa, encefalite, corea di Huntington e altre condizioni neurologiche di natura terminale.
2. Pazienti che sono stati ricoverati in forma continua per almeno cinque anni.
3. Pazienti che sono in custodia come pazzi criminali.
4. Pazienti che non sono cittadini tedeschi, o non sono di sangue tedesco o affine, di cui si chiedeva di indicare razza e nazionalità.
Si fornivano istruzioni aggiuntive per compilare la sezione sul lavoro e si richiedeva fra l’altro di segnalare i «pazienti compresi nelle categorie dietetiche superiori [che] non compiono alcun lavoro anche se sarebbero in grado di farlo». (Il questionario originale è riprodotto qui, in traduzione, alle pp. 102-103.) Alla metà degli anni Quaranta si chiedeva di riempire questi questionari non solo per i pazienti che ricadevano nelle quattro categorie, ma anche per tutti i degenti di questi istituti.46
Il processo fu disordinato sin dal principio. Si chiedeva che i questionari venissero restituiti rapidamente, e un medico di un istituto dovette compilare millecinquecento questionari in due settimane. Una forma di confusione iniziale sullo scopo dei questionari indusse qualche medico a calcare la mano sulla gravità delle condizioni dei pazienti, che nelle intenzioni era un modo per proteggerli da quello che si pensava fosse un progetto di dimetterli dagli istituti per mandarli a lavorare. La misura in cui gli psichiatri poterono continuare a non credere a ciò che stava accadendo – specialmente quando non volevano crederlo – è suggerita dalla descrizione fornita molto tempo dopo da uno fra i principali professori di psichiatria della reazione da lui avuta alla voce, giunta alle sue orecchie, secondo cui i pazienti venivano sottoposti a «eutanasia»:
Considerai quella voce completamente incredibile... Pensando che il questionario non offrisse il minimo appiglio per supporre una tale azione..., immaginai che l’azione che le autorità si proponevano fosse quella di separare i pazienti curabili, o quelli abili al lavoro, da quelli incurabili, per fornire un cibo migliore al primo gruppo e fornire al secondo gruppo... solo la quantità di cibo necessaria alla sopravvivenza... [Il mio personale] fu convinto dal mio ragionamento, e noi tutti lavorammo con ingenuità al progetto del questionario.47i
La «valutazione degli esperti» differiva dal modo di procedere seguito nel programma infantile per il fatto che le tre autorità mediche (di solito psichiatri), appartenenti ai massimi dirigenti del progetto, eseguivano il loro lavoro indipendentemente. Di ogni questionario raccolto, quattro o cinque fotocopie venivano mandate al ministero dell’Interno del Reich, una per ognuno di questi tre esperti (Gutachter), più un’altra o altre due per la successiva procedura di morte, mentre l’originale veniva custodito di solito negli archivi centrali. Ciascun esperto scriveva la sua decisione in una speciale casella rettangolare delimitata da una riga nera spessa all’angolo a sinistra in alto del modulo: un «+» in matita rossa significava morte; un «-» in matita blu significava vita; una decisione interlocutoria era rappresentata da un «?», a volte seguito da un commento, che per lo più era «al lavoro». L’esperto siglava poi la decisione con le sue iniziali. Il lavoro di questi Gutachter era, se possibile, ancora più frettoloso e superficiale di quello dei medici che compilavano i questionari. Ogni medico riceveva almeno cento questionari fotocopiati per volta; in un periodo di diciassette giorni fu chiesto a Pfannmüller di compilare 2109 di tali valutazioni. Anche in questo caso gli esperti non procedevano ad alcun esame, non chiedevano di vedere cartelle cliniche e prendevano le loro decisioni unicamente sulla base del questionario. Il loro occasionale dissenso poteva concernere solo definizioni e questioni di principio, ed essi premevano sempre nel senso di forzare la decisione di uccidere. Un esperto ricordò il principio generale che «nel dubbio o in casi limite... si dovrebbe sempre richiedere l’azione» e ricordò che gli ordini di Brack «andavano oltre il... punto di vista difendibile sul piano medico». Un altro esperto ricordò il principio simile che «non si dovrebbe essere tirchi... ma piuttosto liberali nel senso di un giudizio positivo [di morte]».48 Questi stessi «esperti» prestarono talvolta servizio in speciali commissioni di medici, le quali avevano ufficialmente lo scopo di fornire un ulteriore controllo medico, ma in realtà tendevano a procurare una semplice copertura medica al fine di sveltire il meccanismo legale del progetto, specialmente quando c’era stata qualche opposizione o resistenza o persino lagnanze per l’insufficienza di tempo e di personale per svolgere il lavoro burocratico.
Per esempio, ci fu l’episodio delle case di cura di Neuendettelsauer in Baviera, un gruppo di istituti ai quali pervenne la richiesta di compilare millecinquecento questionari in quattro settimane. Dopo la vana richiesta di un rinvio in attesa che il primario dell’ospedale tornasse da un viaggio, si presentò agli istituti, con un preavviso di meno di un giorno, la commissione incaricata di vigilare sul regolare svolgimento del programma; era formata da un esperto e da sedici giovani, metà circa dei quali erano studenti di medicina e l’altra metà dattilografe. Gli studenti di medicina compilarono i questionari, servendosi di materiali tratti dagli archivi per ricavarne informazioni sfavorevoli, persino quando queste erano ormai superate, e lavorando senza alcuna collaborazione con i medici dell’istituto. Questi studenti rivolsero a volte domande a infermieri sui pazienti in modo superficiale, ignorando le risposte che contenevano informazioni favorevoli e stravolgendo a volte nel loro rapporto le risposte che avevano avuto. Quando fu fatto notare al «commissario» (l’esperto) che gli studenti avevano supposto che tutti i casi di deficit mentale fossero altrettanto gravi avendoli trovati elencati nello schedario sotto la voce generale «idiozia» (secondo una terminologia anteriore), egli promise che in futuro avrebbe tenuto conto di tale fatto: ma varie centinaia di questionari erano già stati compilati secondo questo fraintendimento degli studenti. Si stima che, durante la settimana trascorsa in ospedale dai membri della commissione, sia stata determinata in questo modo la morte di più di un migliaio di pazienti.49
Questionario 1
Caso N. .......................................................................................................................
Nome dell’Istituto: ...............................................................................................
a:...............................................................................................................................
Nome e cognome del paziente: ...............................................................................
Cognome di ragazza: ................................................................................................
Data di nascita: ................... Città: ................... Land: ............................................
Ultima residenza: .....................................................................................................
Land: ..........................................................................................................................
Celibe/nubile, coniug., ved., sacerd.: ................... Relig.: ....................................
Razzaj: ................... Nazionalità: .............................................................................
Indirizzo del parente più stretto: ...........................................................................
Visite regolari e di chi (indirizzo): .........................................................................
Tutore: .......................................................................................................................
Chi sopporta le spese: ............................................................................................
Da quanto tempo in questo istituto: ....................................................................
In altri istituti, quando e quanto a lungo: ...........................................................
Da quanto tempo è malato: ...................................................................................
Da dove e quando è stato trasferito: .....................................................................
Gemello? Sì/no: ....... Parenti consanguinei nei malati di mente: ......................
Diagnosi: ...................................................................................................................
Sintomi primari: .......................................................................................................
Per lo più costretto a letto? Sì/no: ...... Molto agitato? Sì/no: ..............................
Rinchiuso? Sì/no: ......................................................................................................
Malattia fisica incurabile? Sì/no: ............................................................................
Ferito di guerra? Sì/no: ............................................................................................
Per schizofrenia: Caso recente: ...... Stadio finale: ...........................................
Buona remissione: ...............................................................................................
Per ritardo: Debole di mente: ...... Imbecille: ..... Idiota: .................................
Per epilessia: Mutamenti psicologici: ...............................................................
Frequenza media attacchi: .................................................................................
Per disturbi senili: Molto confuso: ......... Si sporca: ........................................
Terapia (Insulina, Cardiazol, Malaria, Salvarsan ecc.): Effetto duraturo:
Sì/no: ...........................................................................................................................
Inviato sulla base del § 51, § 42 Codice penale ecc.: ............ Da: .........................
Crimine: ................... Precedenti penali: ..................................................................
Tipo di occupazione: (Descrizione il più possibile esatta di lavoro e produttività: per es. lavoro nei campi, non molto adatto. Officina di fabbro, lavoratore esperto. Niente risposte vaghe, come lavori di casa, piuttosto precisare: lavori
di pulizia ecc. Indicare sempre anche se occupato costantemente, spesso o
solo occasionalmente) ...............................................................................................
Dimissione prevista presto: .....................................................................................
Osservazioni: ..............................................................................................................
Non scrivere in questo spazio.
FOGLIO DI ISTRUZIONI
Da seguire nel compilare il questionario
Si deve riferire su tutti i pazienti che
1. Soffrono delle malattie enumerate sotto e che non possono essere adibiti ad alcun lavoro nell’istituto o solo ai lavori più meccanici (raccogliere ecc.):
Schizofrenia,
Epilessia (indicare se esogena, connessa alla guerra o dovuta ad altre cause),
Disturbi senili,
Paralisi resistente alla terapia e altre malattie luetiche (sifilitiche),
Ritardo mentale dovuto a qualsiasi causa,
Encefalite,
Corea di Huntington e altre condizioni neurologiche terminali; o
2. Sono stati ricoverati continuamente per almeno cinque anni; o
3. Sono in custodia come pazzi criminali; o
4. Non posseggono la cittadinanza tedesca o non sono di sangue tedesco o affine (indicare razzak e nazionalità).
I questionari, che devono essere compilati individualmente per ciascun paziente, devono essere numerati.
I moduli, se possibile, devono essere compilati a macchina.
Da consegnare entro il ............................................................................................................
Nel caso di pazienti inviati in questo istituto da zone non comprese nell’area di evacuazione, far seguire al nome una (V).
Nel caso che i moduli del Questionario 1 non fossero in quantità sufficiente, si prega di ordinarne il numero occorrente attraverso il mio ufficio.
I questionari esaminati dagli esperti venivano poi inviati per un esame finale a un «controperito» (Obergutachter), funzione questa svolta dapprima solo da Heyde, ma in seguito anche da Nitsche e forse anche da Linden. A questo livello non esisteva alcun «?»; questo esperto supremo non era inoltre vincolato in alcun modo dai giudizi precedenti. Benché la sua firma fosse puramente pro forma, essa recava in sé la piena autorità non solo del progetto ma di solito anche della psichiatria accademica tedesca, poiché il firmatario tendeva a essere un professore di grande autorità. A quanto si sa, non furono forniti orientamenti scritti formali per nessuno di questi livelli di «giudizio di esperti».50
L’organizzazione dei trasporti fu una caricatura del trasferimento psichiatrico. L’ente creato per assolvere questa funzione, il Gemeinnütziger Krankentransport (Servizio pubblico di trasporto dei malati, o Gekrat),l inviava «elenchi di trasporti» agli ospedali da cui doveva raccogliere pazienti; i pazienti dovevano essere accompagnati dalla loro cartella clinica e dagli oggetti di proprietà personale e da elenchi degli oggetti preziosi custoditi per loro; era inoltre specificato che non si dovevano trasferire quei pazienti per i quali un lungo trasferimento poteva comportare il pericolo di vita (una manifestazione di coscienza medica, ma soprattutto un modo per evitare l’incomoda situazione di un paziente che moriva in viaggio).
Il personale degli autobus era costituito da SS, che spesso indossavano uniformi bianche o camici bianchi per aver l’aria di medici, infermieri o personale paramedico. Alcuni testimoni parlarono di «uomini in camice bianco e stivali delle SS», la combinazione che compendiò gran parte del progetto di «eutanasia» in generale.51
Per nascondere i pazienti agli occhi del pubblico, i finestrini degli autobus erano opacizzati con vernice scura o coperti con tendine fisse o avvolgibili. La destinazione degli autobus era tenuta segreta al personale medico dell’istituto da cui i malati venivano prelevati, e ovviamente anche ai pazienti stessi. Le SS che scortavano i malati avevano speciali documenti che permettevano loro di superare tutti i punti di controllo senza sottoporsi a ispezioni. L’uso iniziale di portare i pazienti direttamente ai centri di eliminazione fu interrotto dopo un po’ di tempo, quando si cominciò a portare i pazienti in «istituti di osservazione» o in «istituti di transito» – che erano spesso grandi ospedali in prossimità dei centri di eliminazione – dove i malati trascorrevano brevi periodi di tempo prima di essere avviati agli impianti di eliminazione. Questi istituti di osservazione, la cui opportunità fu suggerita da Heyde e che potrebbero avere perfezionato l’organizzazione temporale delle uccisioni, potevano dare l’impressione che si esercitasse un controllo medico per premunirsi contro la possibilità di errori, mentre in realtà non si eseguiva alcun vero esame o osservazione.52 Pare inoltre che questa innovazione facesse parte di un piano di mistificazione burocratica inteso a rendere ancor più difficile il reperimento di un paziente e, in misura considerevole, anche della sua famiglia.
La mistificazione burocratica veniva accresciuta ancor più dalle lettere fatte pervenire alla famiglia: prima la notificazione del trasferimento «a causa di misure importanti connesse con la guerra»; poi, all’arrivo del paziente nel centro di eliminazione, una seconda lettera nella quale si annunciava che era arrivato «sano e salvo», e si aggiungeva che «in questo periodo... ragioni di difesa del Reich» e «la scarsità di personale causata dalla guerra» rendevano impossibili visite o richieste di alcun genere; la famiglia sarebbe stata in ogni caso informata «immediatamente» di eventuali mutamenti nella condizione del paziente o nei provvedimenti concernenti le visite. La seconda lettera era firmata, con un falso nome, o dal medico che si occupava delle uccisioni o dal direttore del centro di eliminazione. Una terza lettera, inviata, sotto falso nome, dalla Sezione Lettere di Condoglianze solo qualche giorno o qualche settimana dopo, notificava la morte del paziente.53
La morte avveniva generalmente entro ventiquattr’ore dall’arrivo del paziente al centro di eliminazione. Nel quadro delle normative del programma T4, la morte doveva essere impartita da un medico, in accordo con la direttiva enunciata dal dottor Viktor Brack, capo del Dipartimento II «Eutanasia» della Cancelleria del Reich: «La siringa può essere usata solo dal medico».54 Invece di una siringa, però, si trattava di solito di aprire un rubinetto del gas.
C’erano sei centri principali di eliminazione: Hartheim, Sonnenstein, Grafeneck, Bernburg, Brandeburgo e Hadamar. Si trattava di solito di ospedali psichiatrici o di case di cura convertiti; almeno uno di questi centri era stato una prigione. Si trovavano in aree isolate e avevano muri alti – alcuni erano stati in origine vecchi castelli –, cosicché dall’esterno non si poteva vedere facilmente ciò che accadeva al loro interno. «Gli autobus potevano essere svuotati dei loro occupanti in modo [che] né le grida dei pazienti né alcuna altra cosa potesse filtrare nel mondo esterno».55
Si dice che sia stato lo stesso Hitler a decidere sull’uso del gas monossido di carbonio come metodo di uccisione, sulla base del consiglio «medico» del dottor Heyde. La decisione fece seguito a un esperimento compiuto all’inizio del 1940 a Brandeburgo, dove si stava provvedendo alla conversione del carcere in un centro della morte. Nell’ambito di tale esperimento si procedette a comparare direttamente l’uccisione per mezzo di un’iniezione (usando varie combinazioni di morfina, scopolamina, curaro e acido prussico [cianuro]) con l’uccisione per mezzo del gas monossido di carbonio. Karl Brandt, «uomo molto coscienzioso [che] prendeva molto sul serio la sua responsabilità», chiese che venisse eseguito l’esperimento; e furono lui e Conti a somministrare personalmente le iniezioni, «come un’azione simbolica in cui i medici più responsabili nel Reich davano personalmente l’avvio all’esecuzione pratica dell’ordine del Führer».56
I quattro o sei pazienti («al massimo sei») sottoposti a iniezione «morirono solo lentamente» e per alcuni di loro si rese necessaria una seconda iniezione. Il gas funzionò invece perfettamente. La prima camera a gas nazista era stata costruita sotto la supervisione di Christian Wirth, della polizia criminale delle SS, prestato allo staff del programma T4. La camera era allestita come un falso locale per docce con panche, e il gas veniva introdotto dall’esterno in condutture dell’acqua nelle quali erano praticati piccoli fori, attraverso i quali il monossido di carbonio poteva fuoruscire. Erano presenti due chimici laureati delle SS, uno dei quali si occupava dell’erogazione del gas. L’altro, August Becker, raccontò che diciotto o venti persone furono fatte entrare nude nel «locale delle docce»: attraverso uno spioncino egli osservò che molto rapidamente «le persone vacillavano o si abbandonavano sulle panche», il tutto senza «scene o commozione». Trascorsi cinque minuti la stanza fu ventilata: poterono allora intervenire uomini delle SS, i quali si servirono di speciali barelle che permisero loro di spingere meccanicamente i cadaveri nei forni crematori evitando loro qualsiasi contatto. La dimostrazione tecnica fu eseguita dinanzi a un pubblico scelto, appartenente alla cerchia interna dei medici e amministratori del progetto di eliminazione medica. Dopo avere assistito alla dimostrazione, il dottor Irmfried Eberl, direttore di fresca nomina dell’istituto di Brandeburgo, decise di adottare la nuova tecnica «spontaneamente e sotto la propria responsabilità». Tanto Brack quanto Brandt espressero la loro soddisfazione per l’esperimento, e quest’ultimo sottolineò che «solo dei medici dovrebbero eseguire le gassificazioni».57
Io ho presentato quelle prime gassificazioni sia come esperimenti sia come dimostrazioni perché le testimonianze posteriori – per esempio le notevoli dichiarazioni di Brandt al processo di Norimberga ai medici – chiarirono che esse furono l’una e l’altra cosa. Brandt disse che il piano originario era di uccidere persone iniettando loro narcotici, finché ci si rese conto che questi avrebbero causato la perdita di coscienza ma che la morte non sarebbe sopravvenuta per qualche tempo. Da uno psichiatra (presumibilmente Heyde) venne il suggerimento alternativo di usare monossido di carbonio (suggerimento che condusse alla dimostrazione che ho appena descritto). Brandt disse che l’idea non gli era piaciuta perché pensava che «quest’intera questione poteva essere considerata solo da un punto di vista medico» e perché «nella mia immaginazione medica il monossido di carbonio non aveva mai svolto una parte». L’uccisione per mezzo del gas, in altri termini, rendeva molto più difficile mantenere un’aura medica. Brandt poté cambiare idea quando gli venne in mente un’esperienza personale di avvelenamento da monossido di carbonio in cui aveva perso coscienza «senza sentire nulla» e si rese conto che il monossido di carbonio «era la forma di morte più umana». Rimase però turbato perché quel metodo richiedeva «un intero mutamento nella concezione medica» e rifletté a lungo sull’argomento «per mettere in pace la mia coscienza». Egli sottopose a Hitler la differenza di opinione sui due metodi, e in seguito ricordò che il Führer gli chiese: «Qual è il modo più umano?». «La mia risposta fu chiara», testimoniò Brandt, e altri fra i principali medici partecipanti al programma furono d’accordo con lui. Brandt concluse questa parte della sua testimonianza con una meditazione sul progresso medico:
Questo è solo un esempio [di ciò che accade] quando si fanno progressi importanti nella storia medica. Ci sono casi di un’operazione che in principio viene guardata con disprezzo, ma che in seguito viene imparata ed eseguita. Qui il compito richiesto dall’autorità di Stato si aggiunse alla concezione medica di questo problema, e fu necessario trovare con buona coscienza un metodo di base che potesse rendere giustizia a entrambi questi elementi.58
Tenendo conto degli elementi di autogiustificazione e della mitologia retrospettiva padre-figlio nei primi tempi del suo rapporto con Hitler, la descrizione di Brandt ci conduce al cuore dell’adozione dell’uccisione da parte dei medici, inquadrata in una visione biomedica del risanamento della razza ariana.
Per l’intera durata del progetto di «eutanasia» furono medici anziani di rango più elevato a emanare disposizioni e a prendere decisioni, e a svolgere la funzione di alti consulenti ed esperti, mentre furono i medici più giovani a doversi occupare direttamente delle uccisioni. Questa situazione mi fu confermata dall’intervista col dottor Hans F. in connessione con l’uccisione di bambini, anche se erano primari medici più anziani a dare gli ordini o i segnali informali di procedere all’uccisione. Lo stesso quadro vale in misura ancora maggiore per l’eliminazione di pazienti adulti. Là dove erano medici anziani a doversi occupare delle uccisioni, essi cedettero ben presto quest’incombenza a medici più giovani, alcuni dei quali furono promossi ben presto a un rango più elevato. I medici che dovevano occuparsi direttamente delle uccisioni venivano scelti a quanto pare per la loro combinazione di inesperienza e di entusiasmo politico.59
A Brandeburgo, per esempio, il dottor Eberl aveva ventinove anni quando imparò a usare il meccanismo di gassificazione. L’uomo che gli fu assegnato in seguito come aiutante, il dottor Aquilin Ullrich, aveva solo ventisei anni. Ullrich testimoniò che i suoi compiti non richiedevano una grande competenza medica. Egli ed Eberl non facevano nulla di più di un’«ispezione superficiale» dei pazienti nudi in attesa di entrare nella camera a gas, cosa che a quel tempo egli trovò «inspiegabile»; in seguito si rese conto che «la presenza del medico in quel momento veniva usata per calmare i malati di mente e camuffare il processo di uccisione».60
Un altro medico, il cui primo incarico di lavoro fu quello di assistente in un centro di eliminazione, fu informato dal suo immediato superiore che «un medico, secondo la legge, aveva l’ultima parola, e che perciò egli doveva riesaminare le persone che arrivavano». In seguito fu però informato dal dottor Nitsche, uno degli «esperti di rango elevato», che questi esami pro forma «prima di avviare i malati alle camere a gas servivano soprattutto a calmare la coscienza del medico che doveva provvedere all’uccisione».61 I nazisti erano chiaramente consapevoli dell’importanza psicologica della situazione medica «come se» per i medici coinvolti nel processo di uccisione.
L’«esame» consisteva, per la maggior parte, in una semplice verifica da parte del medico della coincidenza di paziente e documentazione clinica – in altri termini, che si uccidesse la persona giusta – e nel servirsi di tale occasione come aiuto per decidere quale falsa diagnosi fosse più appropriata (ossia quale si accordasse meglio con la storia clinica e l’aspetto del paziente) per i certificati di morte che si sarebbero dovuti compilare ben presto. L’annullamento della decisione di procedere all’uccisione del paziente a quel punto era una cosa estremamente rara, e fu probabilmente limitata ai pochi casi in cui si scoprì che si trattava di vittime di guerra di qualche tipo.62m Il significato fondamentale dello pseudoesame era la legittimazione medica dell’omicidio.
Molti di questi pazienti si lasciavano evidentemente ingannare dalla messa in scena. Un uomo che lavorò al centro della morte di Hadamar disse che un paziente che conosceva da molti anni gli disse, mentre si avviava alla camera a gas: «Ora faremo un vero bagno e ci daranno altri vestiti».63 Quando i pazienti non si lasciavano ingannare e opponevano resistenza, venivano rapidamente sottomessi con l’uso della forza, anche se questo poteva assomigliare esteriormente al comune trattamento di pazienti psichiatrici. Quel che accadeva poi chiarisce la responsabilità del medico per l’intera sequenza dell’uccisione:
Dopo la chiusura delle porte, dalla camera a gas veniva aspirata l’aria attraverso un ventilatore azionato dallo stesso medico che aveva eseguito l’«esame» precedente. Poi, per circa dieci minuti, si faceva entrare monossido di carbonio e se ne osservavano gli effetti attraverso un finestrino. Non appena il medico riteneva che le persone chiuse dentro fossero morte, faceva svuotare la camera a gas. Innanzitutto si introduceva aria nuova per mezzo del ventilatore, dopo di che si faceva uscire il gas. Dall’inizio della gassificazione sino alla riapertura della camera a gas passava circa un’ora. I cadaveri che dovevano essere sottoposti a dissezione venivano portati in una stanza speciale. La grande maggioranza dei cadaveri venivano invece portati immediatamente ai forni e bruciati.64n
A proposito dell’«umanità» di questa forma di uccisione rivendicata da Brandt, un altro uomo che lavorò a Hadamar e guardò nella camera a gas da una finestra laterale, parlò di «uno spettacolo orribile quando i pazienti crollavano gradualmente uno sull’altro» e aggiunse: «Non potrò mai dimenticare quella scena».66
Troveremo che questa sequenza, compreso il ruolo centrale del medico, è sorprendentemente simile alla sequenza delle uccisioni ad Auschwitz.
Data la copertura medica delle uccisioni, ogni certificato di morte doveva essere falsificato. Il principio chiave usato nella scelta della falsa causa di morte era la credibilità medica: l’assegnazione di una malattia in accordo con l’anteriore stato fisico e mentale di un paziente, una malattia che il malato avrebbe potuto effettivamente contrarre. Fra le cause di morte indicate poteva esserci quasi qualsiasi cosa: malattie infettive, polmonite, malattie cardiache, polmonari, cerebrali o di altri organi principali. L’abilità manifestata in questo processo di falsificazione era una parte importante dell’«esperienza medica» dei medici omicidi, e quelli più giovani la acquisivano durante il loro «tirocinio» con i medici loro superiori e predecessori. Per aiutarli nell’apprendimento venivano date loro guide scritte che specificavano importanti particolari necessari per conseguire la coerenza.
Una di tali guide, per esempio, si concentrava sulla designazione come causa di morte della setticemia (infezione prodotta dalla presenza di batteri nel circolo sanguigno), con riferimento a un’infezione batterica della pelle come possibile fonte, ed elencava la sequenza di sintomi e di terapia che si doveva menzionare. Il documento comprendeva altri suggerimenti utili: i malati di mente che si insudiciano hanno spesso foruncoli che essi si grattano provocandosi infezioni. «È molto opportuno prospettare quattro giorni per la malattia di base [l’infezione batterica della pelle] e cinque giorni per la sepsi risultante»; questa diagnosi «non dovrebbe essere usata per pazienti che hanno una cura meticolosa per la propria persona» ma «è preferibile per pazienti giovani e robusti che si sporcano facilmente»; in questo caso, però, «si devono concedere da sette a otto giorni perché la malattia abbia effetto, giacché la loro circolazione è relativamente più resistente».67
Non è esagerato dire che la funzione medica primaria – o forse l’unica – dei medici omicidi fosse quella di determinare quale fosse la falsificazione più credibile del certificato di morte di ogni pazientevittima.
Il mantenimento di queste illusioni mediche richiedeva un’estesa burocrazia dell’inganno. Ogni falsificazione in questo «apparato gonfiato» doveva essere «coperta da altre due». Per esempio, in ogni centro della morte c’era un «Ufficio Speciale di Registrazione», una sezione del quale aveva il compito specifico di determinare una data di morte adatta per ciascun paziente. Sul certificato di morte preparato dal medico la data di morte era sempre omessa, e veniva fornita da questa sezione. Sulla base dei suoi «cartellini di presenza» e dei suoi «schedari dei decessi» essa poteva impedire la registrazione di un numero eccessivo di decessi in un luogo particolare durante un particolare periodo di tempo.68
La burocrazia dell’inganno si estendeva – logicamente, si potrebbe dire – alle ceneri dei pazienti cremati, le quali venivano mischiate assieme a caso, cosicché l’urna ricevuta dalla famiglia di un paziente morto conteneva ceneri che non erano quelle del proprio congiunto. (Alle famiglie si diceva che era necessario procedere rapidamente alla cremazione, specialmente in tempo di guerra, per ragioni di igiene pubblica.) Uno dei dirigenti del programma disse, in seguito, di essersi opposto energicamente «per ragioni di pietà» quando questa misura fu imposta in conseguenza della direttiva di non cremare più individualmente le salme. Egli sostenne di aver detto all’amministratore responsabile dell’ordine: «Anche se il popolo tedesco vi perdonerà tutto, non vi perdonerà mai questo fatto».69 Benché un certo scetticismo sia di prammatica quando vengono riferite conversazioni di questo genere, questa deposizione potrebbe suggerire l’esistenza, già allora, di un barlume di consapevolezza della profanazione implicita in questa falsificazione medica finale.
Inevitabilmente, nella burocrazia dell’inganno si verificarono delle sviste: una famiglia che riceveva due urne; o che si vedeva comunicare che il proprio congiunto, già operato di appendicectomia in passato, era morto di appendicite; o che riceveva la notifica della morte del congiunto, che in realtà non era stato ucciso ma era vivo e stava benissimo. Accadde anche che qualcuno (specialmente quando gruppi ecclesiastici con contatti a livello nazionale cominciarono a interessarsi del problema) venisse a conoscenza della morte sospetta di un gruppo di pazienti che erano stati prelevati assieme da uno stesso ospedale psichiatrico; o di lettere ricevute da famiglie, nello stesso tempo in varie parti della Germania, in cui si annunciava la morte di pazienti di cui si sapeva che erano arrivati in un particolare istituto in condizioni fisiche eccellenti.
Inoltre, alcuni di coloro che lavoravano nei centri di eliminazione bevevano molto in bar vicini e a volte rivelavano particolari su ciò che facevano. Anche le persone del luogo impiegate nelle cucine e nelle lavanderie di centri del programma di «eutanasia» diffondevano voci. A volte le operazioni di trasferimento furono eseguite in luoghi dove potevano essere osservate – una volta addirittura in una piazza del mercato di una città – cosicché molte persone assistettero all’uso della forza su vittime che opponevano resistenza.
C’erano inoltre prove sensoriali dirette delle uccisioni che nessun inganno burocratico poteva eliminare: «Si dice che il denso fumo che esce dall’edificio del crematorio sia visibile su Hadamar ogni giorno». E: «[Quando l’impianto lavorava] a piena capacità... [i camini a Hartheim] fumavano giorno e notte. Ciocche di capelli salivano in aria attraverso i camini e si posavano in strada». Queste sviste burocratiche furono menzionate in documenti nazisti in cui si criticava il modo in cui il programma veniva condotto e in cui si ammoniva che «non si dovrebbero mai più verificare, ovviamente, incidenti come questi».70 Ma gli «incidenti» erano in parte un prodotto dei conflitti propri del regime e delle contraddizioni sul suo principio di segretezza. Nonostante complesse manovre di occultamento a ogni livello, e nonostante l’impegno a mantenere il segreto preso da tutte le persone implicate nelle uccisioni, in vari centri di eliminazione furono ricevuti estranei – per esempio il locale Gauleiter (capo di distretto) e altri eminenti personaggi nazisti a Hartheim – e, in qualche occasione, fu addirittura permesso loro di assistere all’uccisione di pazienti.
Ci furono contraddizioni circa chi potesse essere ammesso alla conoscenza di tutto e chi no. Benché la natura del progetto di uccisione medica non fosse discussa apertamente, non era neppure mantenuta del tutto segreta. Corsi in accordo col programma di «eutanasia» venivano tenuti in grandi ospedali psichiatrici come quello di Eglfing-Haar, che, pur non essendo un centro di eliminazione ufficiale, era tuttavia un luogo in cui si uccidevano dei pazienti psichiatrici. Si pensa che ventimila fra capi nazisti militari e civili e membri delle SS abbiano potuto assistere alla proiezione di filmo e a «dimostrazioni di casi» di pazienti molto regrediti, specialmente di pazienti ebrei, presentati come «vita indegna di vita»: si ricordi la dimostrazione del dottor Pfannmüller del «metodo più semplice» consistente nel far morire di fame un bambino.72
Queste e altre contraddizioni burocratiche erano connesse all’incertezza circa la visione ufficiale del programma, considerato necessario ma difficile da far accettare alla popolazione: una visione accompagnata dalla sensazione che il programma fosse da un lato sporco, turpe e inaccettabile (e dovesse quindi essere tenuto occulto a ogni costo) e dall’altro essenziale come terapia risanatrice per la razza (e che perciò fosse lecito darne dimostrazioni). Può darsi che i medici nazisti e i loro compari nella burocrazia dell’inganno nutrissero contemporaneamente tutt’e due queste immagini.
Sin dall’inizio dell’operazione T4, i pazienti ebrei furono considerati un gruppo a sé. Essi divennero ben presto oggetto di più vaste operazioni di sterminio naziste. Ciò avvenne nel periodo (dagli ultimi mesi del 1939 all’inizio del 1940) in cui si stava sviluppando la dottrina dell’«eliminazione [nel senso di trasferimento] del giudaismo nel suo insieme». Subito dopo l’invasione della Polonia da parte delle armate tedesche (settembre 1939), Heydrich formulò un piano per costruire una «riserva ebraica» a Lublino. Benché questo piano non sia mai stato realizzato, nell’inverno del 1939-1940 treni carichi di deportati partirono per la Polonia dall’Austria, dalla Boemia e dalla Moravia trasportando ebrei (che non erano pazienti psichiatrici).73p
Benché il Piano del Madagascar (che prevedeva l’uso di quest’isola come una «riserva» per gli ebrei) non fosse stato ancora del tutto abbandonato, negli ambienti del partito si parlava sempre più di una «soluzione radicale» (Radikallösung) del «problema ebraico», che si sviluppò gradualmente nella cosiddetta Soluzione finale (Endlösung).74
Nel quadro del programma T4, non c’era bisogno che i degenti ebrei di istituti in Germania soddisfacessero i criteri comuni per l’uccisione medica (deficienza mentale o schizofrenia, lunga durata del ricovero, incapacità di lavorare eccetera). Per loro «non erano necessari speciali consulti o discussioni»: «Lo sterminio totale di questo gruppo di degenti degli ospedali psichiatrici era la logica conseguenza della “soluzione radicale” del problema ebraico in cui ci si stava imbarcando».75
Solo a questo punto l’uccisione medica diretta fornisce una prefigurazione esatta della Soluzione finale: gli ebrei dovevano essere uccisi – fino all’ultimo uomo, donna e bambino – semplicemente perché erano ebrei. Per i nazisti, i malati di mente ebrei erano unici fra tutte le vittime del nazismo per il fatto di potere incarnare sia «geni pericolosi» in un senso medico individuale sia un «veleno razziale» in un senso etnico collettivo.
Il trattamento sistematico di ebrei tedeschi nel quadro del programma T4 cominciò nell’aprile 1940, con l’annuncio, da parte del ministero dell’Interno del Reich, che, in capo a tre settimane, si dovevano inventariare tutti i pazienti ebrei. In giugno ebbero luogo le prime gassificazioni di ebrei: duecento persone, fra uomini, donne e bambini, morirono nell’impianto di Brandeburgo, dopo esservi stati trasportati in sei autobus del Gekrat dall’istituto psichiatrico di Berlino-Buch. In luglio ci furono altre uccisioni. Il 30 agosto un’altra direttiva del ministero dell’Interno ordinò che gli ebrei venissero trasferiti in vari centri a seconda della località in cui si trovavano. Si spiegò che i dipendenti degli istituti e i parenti di pazienti ariani si erano lagnati per essere curati e alloggiati assieme a ebrei.76
Il centro di raccolta in Baviera era Eglfing-Haar, dove il dottor Pfannmüller aveva una volta dichiarato orgogliosamente: «Nel mio istituto non si ammette alcun ebreo!».77 Ora gli ebrei ivi trasferiti vennero alloggiati in due speciali edifici (dove erano separati per sesso anziché per gravità della malattia) e ripresi in film propagandistici che li ritraevano come «ebrei tipici» e «feccia dell’umanità». Questa segregazione rifletté l’indirizzo generale secondo cui, nelle parole ironiche di Schmidt, «non ci si poteva attendere che dei pazienti psichiatrici ariani morissero assieme a pazienti ebrei, e tanto meno che vivessero assieme».78
Nell’autunno del 1940 si cominciò a trasportare un certo numero di pazienti ebrei nella Polonia occupata dai nazisti, nel quadro della politica di deportazione di tutti gli ebrei dalla Germania. In dicembre si annunciò che da allora in poi i pazienti ebrei sarebbero stati trasferiti in un istituto per bambini malati di mente a Bendorf, presso Neuwied, in Renania. Questo era un istituto ebraico di proprietà di privati che era stato fondato nel 1869. A cominciare dalla primavera del 1942, i pazienti di Bendorf furono trasferiti in Polonia, con sessanta-settanta pazienti rinchiusi in ogni carro merci, in treni che trasportavano anche cittadini ebrei sani. Il pretesto usato per giustificare questo trasferimento fu che l’ospedale di Bendorf doveva essere usato come ospedale militare, ma non fu mai così. Il direttore, un «ebreo privilegiato» (sposato con un’ariana), rimase nell’istituto vuoto a svolgervi la funzione di custode.79
Una volta che i pazienti erano stati ammassati sui treni, terminava la finzione del trattamento medico. I treni arrivavano a Lublino, un’area in cui venivano concentrati gli ebrei polacchi e in cui i beni confiscati agli ebrei venivano trasformati con mano d’opera servile. Non si conosce la sorte precisa di questi pazienti: essa presentò probabilmente delle variazioni, tranne che per quanto concerne l’esito finale: il loro sterminio in campi come Sobibór e Belzec.80
L’ufficio del programma T4 organizzò un’operazione di camuffamento dello sterminio di ebrei: su carta intestata dell’«Ospedale Psichiatrico di Cholm» furono spedite lettere di condoglianze e certificati di morte. Dei corrieri portavano la posta a Chełm (la grafia polacca), presso Lublino, dove veniva spedita col timbro postale appropriato. A quanto si può accertare, l’«Ospedale Psichiatrico di Cholm» fu una finzione.81
A partire dal settembre 1939, quando ebbe inizio la guerra, con le truppe tedesche che si spingevano verso est, le SS cominciarono a fucilare i degenti (di qualsiasi razza o nazionalità) degli ospedali psichiatrici per svuotarli e renderli in tal modo disponibili per i soldati. Per esempio, un ospedale a Stralsund, una città della Germania orientale sul Mar Baltico, fu svuotato nel dicembre 1939, e i suoi pazienti furono portati a Danzica per esservi fucilati. Le loro spoglie furono sepolte da prigionieri polacchi, che furono poi fucilati a loro volta. A Chełm-Lubielski, nel Governatorato generale della Polonia, i pazienti venivano fucilati in massa dalle SS, a volte dopo essere stati inseguiti attraverso l’ospedale, e poi sepolti in fosse comuni. Una volta che la Germania ebbe invaso la Russia, nel giugno 1941, le Einsatzgruppen di Heydrich liquidarono, oltre a ebrei, zingari e funzionari comunisti, anche i pazienti di ospedali. Le relazioni dal fronte sollecitavano il bisogno di letti per i soldati feriti, e ciò contribuiva all’«opinione tedesca» che quelle fossero vite indegne di vita.82
Fatto più strettamente connesso al programma T4, i tedeschi fondarono due centri psichiatrici di sterminio a Meseritz-Obrawalde e a Tiegenhof, entrambi nel vecchio territorio prussiano della Pomerania. Si trattava, prima, di massacrare i pazienti polacchi e poi di trasferire nell’ospedale così svuotato i pazienti tedeschi, e infine uccidere anche questi con metodi come la fucilazione, la gassificazione, iniezioni, la fame o farmaci somministrati col cibo. Alle famiglie venivano inviate lettere di condoglianze standard. Ci sono prove del fatto che anche soldati tedeschi, fisicamente o mentalmente menomati, vennero sottoposti a «eutanasia» in entrambi gli istituti.83
Quanto alla tecnologia dell’omicidio, si cominciò a far meno ricorso ai plotoni di esecuzione a causa del trauma psicologico che quest’esperienza comportava per gli uomini delle Einsatzgruppen. Si provò con gli esplosivi, come in Russia, nel settembre 1941, quando si uccisero con questo metodo dei malati di mente. Questo metodo si rivelò però inefficace in quanto richiedeva poi troppo lavoro nelle pulizie e a volte era necessaria più di una carica. Era chiaramente preferibile il gas.
Si fece un crescente ricorso al monossido di carbonio: prima trasportato in bidoni di metallo (un metodo che divenne sempre più costoso man mano che le truppe si spostavano verso est) e poi ottenuto, dopo ulteriori innovazioni tecnologiche, dai gas di scarico di autocarri. Nel corso di due settimane, nel maggio e giugno 1940, 1558 pazienti psichiatrici, provenienti dalla Prussia orientale, furono gassati in autocarri in un campo di transito a Soldau. Le uccisioni furono eseguite dalla «squadra itinerante di eutanasia nota come Sonderkommando (Comando speciale) Lange [dal nome del suo comandante]» e rappresentarono uno dei primi casi di mescolanza di tre elementi della Soluzione finale: il programma di «eutanasia», la scienza di laboratorio e la tecnologia delle SS (che introdusse delle innovazioni nel processo di gassificazione), e unità delle Einsatzgruppen (che lavorarono qui con la nuova tecnologia della gassificazione). Nell’ottobre del 1941 Brack e Eichmann decisero di usare questi autocarri per l’eliminazione di ebrei «inabili al lavoro» in generale. Tre di questi mezzi furono installati nel primo campo di sterminio puro a Chełmno/Kulmhof (usando personale di Soldau), dove furono uccisi principalmente ebrei, ma anche zingari, malati di tifo, prigionieri di guerra sovietici e malati di mente. In una replica del procedimento del programma T4, si diceva alle vittime che avrebbero fatto una doccia, mentre i loro vestiti sarebbero stati disinfettati. Gli ufficiali delle SS indossavano camici bianchi e portavano stetoscopi. Gli oggetti di proprietà dei prigionieri venivano registrati, dopo di che le vittime seguivano un’insegna con la scritta «Al bagno» e salivano sull’autocarro. Quando dall’autocarro, richiuso ermeticamente, non si sentiva più alcun rumore, il mezzo partiva verso i boschi vicini, dove Kommandos di ebrei scaricavano i corpi in fosse comuni. (A causa di gas nocivi che si sviluppavano, in seguito fu installato un crematorio.) Chełmno/Kulmhof, in territorio rivendicato dalla Germania, fu il primo dei campi di sterminio nel Governatorato generale, seguito da Belzec, Sobibór e Treblinka, i quali assomigliarono ancor più a centri di eliminazione del programma «eutanasia» nell’uso di camere a gas e di personale del programma T4.84 (Vedi il capitolo VII e le pp. 202-204.)
a. Questo principio fu diffuso da vari autori influenti. Implicito nelle opere di Nietzsche, esso fu abbracciato a Monaco di Baviera da una cerchia formata dai primi razzisti «scientifici», diretta dall’antropologo Alfred Ploetz e comprendente anche l’editore J.F. Lehmann, la cui casa editrice pubblicò la maggior parte degli opuscoli e dei libri del gruppo.
b. Questi «rapporti dal Reich» a cura del SD si fondavano, secondo Heinz Hohne, su «una sorta di sondaggio Gallup segreto» e si riteneva fossero piuttosto precisi, anche se spesso il loro contenuto era piuttosto mal definito.
c. Hans Hefelmann, capo dell’ufficio responsabile della Cancelleria, ricordò che il bambino mancava di tre arti e che la richiesta era stata fatta dalla nonna. Secondo Brandt la richiesta era stata fatta dal padre.
d. Gli esperti medici erano quattro consulenti esterni e due membri della burocrazia del programma di «eutanasia». I consulenti erano Werner Catel, il professore di psichiatria della clinica di Lipsia in cui era stato «trattato» il bambino Knauer; il professor Hans Heinze, direttore dell’Istituto statale a Görden, presso Brandeburgo, che aveva una grande divisione pediatrica; lo psichiatra pediatrico Ernst Wentzler di Berlino, e l’oftalmologo-scrittore Helmut Unger. Le istituzioni dirette da tre di questi uomini divennero infine parte della rete di «eutanasia» infantile; Görden fu in effetti il primo istituto e il più importante. I rappresentanti della burocrazia del programma di «eutanasia» furono Brandt e Linden.
e. Secondo la testimonianza di Hefelmann, vennero mandati bambini a Görden già nell’ottobre del 1939, poiché il comitato voleva «mettere i neonati a dormire il più presto possibile» nell’intento di prevenire l’instaurarsi di «più stretti legami fra le madri e i loro figli».24
f. Conti e Lammers furono ben presto sostituiti al vertice del programma di «eutanasia» da Philip Bouhler e da Karl Brandt.
g. A quanto pare ci fu qualche disaccordo sulla formulazione. La versione finale fu scritta dal dottor Max de Crinis, del cui ruolo ci occuperemo in seguito. Si noti l’ampliamento dei criteri di «incurabilità» in questo decreto: in seguito Brandt sostenne che Hitler sostituì l’espressione «miglior giudizio umano disponibile» con «possibilità quasi certa».36
h. A causa di varie forme di resistenza, assieme a pressioni da parte di autorità legali, si prese in seria considerazione l’idea di fare una legge per legittimare il programma e ne furono elaborati almeno due abbozzi. Tali abbozzi, assieme al decreto originale di Hitler, contribuirono all’instaurazione di una situazione legale «come se»: l’assunto che una tale legge dovesse realmente essere attuata. Era un assunto facile da farsi a causa dell’autorità del decreto originale. Si attribuiva a Hitler il timore che una legge ufficiale sull’«eutanasia» potesse conferire un vantaggio propagandistico ai nemici della Germania, e che potesse inoltre accrescere la resistenza della popolazione tedesca (specialmente cattolica), oltre che la resistenza dei pazienti psichiatrici a entrare negli ospedali (come sottolinearono varie personalità direttive del progetto di «eutanasia»). Si pensa che i nazisti abbiano imparato da questa esperienza, come spiegò in seguito un autore, che «uccisioni illegali di massa non avrebbero potuto essere eseguite nell’Altreich [“Vecchio Impero”, ossia la Germania propriamente detta], dove le maglie della rete della normale giustizia e del meccanismo amministrativo erano troppo strette, ma dovessero essere trasferite piuttosto nelle aree occupate [negli Ostgebiete, le regioni orientali], dove l’apparato esecutivo delle SS avrebbe potuto lavorare con meno ostacoli e meno fastidi».41
i. Quest’affermazione è particolarmente significativa per essere stata fatta dal dottor Gottfried Ewald, il quale, come vedremo nel capitolo III, sarebbe diventato una delle pochissime voci di dissenso nel campo della psichiatria. La sua incredulità iniziale potrebbe essere stata dovuta alle sue simpatie, allora fervide, per il nazionalsocialismo.
j. Sangue tedesco o affine, ebreo, Mischling (sangue misto) ebraico di 1° o 2° grado, negro (Mischling), zingaro (Mischling) ecc.
k. Sangue tedesco o affine, ebreo, Mischling (sangue misto) ebraico di 1° o 2° grado, negro (Mischling), zingaro (Mischling) ecc.
Fonti: Questionario tradotto dagli atti del Processo di Hadamar, Francoforte sul Meno, febbraio-marzo 1947 (4 KLS 7/47), Landgericht Frankfurt. Foglio di istruzioni dagli atti del Processo Heyde, pp. 210-211.
l. Un’affine Fondazione Previdenziale Pubblica per la Cura Istituzionale si occupava di aspetti finanziari.
m. Nel Württemberg furono salvati solo ventinove pazienti, per lo più veterani di guerra.
n. Inoltre, nel quadro dell’orientamento scientifico del programma, le vittime dell’«eutanasia» venivano fotografate nude prima della loro uccisione. Il dottor Friedrich Mennecke (vedi pp. 198-202) aveva ricevuto una speciale formazione nella «raffigurazione fotografica di tipi» durante la sua istruzione nel programma T4 a Heidelberg.65 In alcuni centri, prima che il cadavere venisse cremato, gli veniva prelevato il cervello per un ulteriore studio.
o. Uno di tali film fu Dasein ohne Leben (Esistenza senza vita), che non doveva essere destinato al pubblico in genere ma era riservato piuttosto all’istruzione del personale del programma T4 e a cerchie di persone fidate.71
p. In ogni discorso di reinsediamento, di degenti ebrei o di ebrei in generale, fu spesso menzionato l’atteggiamento antisemitico della popolazione polacca, la possibilità di aizzare i polacchi a scatenare pogrom.
III
A Monaco circolano strane voci sulla sorte dei pazienti psichiatrici.
Come mai è morto così presto? Accludo un francobollo in modo che mi diciate come ha passato le sue ultime ore.
Perché il corpo di mio fratello è stato cremato? Io avrei voluto seppellirlo in una tomba.
Dobbiamo rimproverarvi per non averci dato la possibilità di dargli l’ultimo addio... Siamo veramente amareggiati e non comprendiamo le vostre misure. Aspetto che mi diciate le ragioni di un tale comportamento.
Brani tratti da lettere di familiari di pazienti uccisi nell’ambito del programma di «eutanasia»
Alcuni psichiatri opposero resistenza al programma di uccisione medica, per lo più però in modi limitati, isolati e indiretti. Anche se insufficiente, tale resistenza non fu però priva di significato.
Quella che fu senza dubbio la forma più diffusa di resistenza è quella più difficile da valutare: la «resistenza silenziosa» nella forma di azioni intraprese da singoli psichiatri per permettere a taluni pazienti di sottrarsi alla burocrazia della morte.1 Fra queste azioni ci furono: il diagnosticare certi pazienti come gravemente nevrotici anziché schizofrenici, o il minimizzare l’inabilità al lavoro di pazienti deficienti; l’affidare i pazienti alle loro famiglie o trattenerli in cliniche universitarie o in servizi medici generali anziché trasferirli in ospedali statali; e in generale l’insistenza sulla capacità potenziale dei malati di migliorare, di lavorare e di dare infine un contributo alla società. In queste manovre potrebbe esserci stata una tacita collaborazione fra colleghi, a volte con l’aiuto di personale medico-amministrativo, psichiatrico e non medico poco entusiasta del programma. Gli psichiatri che si impegnarono in questi tentativi di eludere le disposizioni ufficiali presentarono una varietà di atteggiamenti, da un’ambivalenza verso il programma a una forte condanna, anche se le loro manovre di elusione non li dissociavano da quella che essi consideravano una cooperazione inevitabile al progetto.
Anche infermieri e personale di corsia poterono dare un contributo a sabotare il programma, o consigliando ai pazienti di lasciare l’ospedale prima che fosse troppo tardi o, a volte, persino aiutandoli a nascondersi. Una ex paziente in un istituto gestito dalla Chiesa descrisse il timore suo e di altre degenti quando sentì dire che sarebbero venute a prenderle con delle auto per portarle a morire:
Vagammo per la foresta correndo disordinatamente qua e là, poiché non sapevamo dove andare... Quando le sorelle [infermiere] vennero a prenderci, molte [pazienti] ricominciarono a correre... Alcune volte ci nascondemmo in fienili... Non si era al sicuro da nessuna parte... Quando arrivò una macchina, la capoinfermiera gridò: «Su, presto, andate a nascondervi. Se viene qualcuno non statevene ferme».2
Queste infermiere e altri membri del personale dell’ospedale, come i medici, potevano esprimere questa resistenza in un momento e prender parte nelle uccisioni in un altro momento.
Espressioni di disagio poterono venire da psichiatri che volevano che le cose fossero più esplicite e più legali. «Se il governo vuole davvero sterminare questi pazienti... non si dovrebbe proclamare una legge formulata in modo chiaro... come nel caso della legge [di sterilizzazione]?»: così il direttore di un ospedale psichiatrico espresse la sua opinione al ministero della Giustizia.3
Per ogni forma di resistenza psichiatrica ebbe un’importanza cruciale l’influenza di alcuni eminenti psichiatri umanisti della generazione precedente, come Karl Bonhoeffer. Questi uomini divennero noti come oppositori all’uccisione medica e, in vario grado, anche al regime nazista in generale. Nel 1939 Bonhoeffer, che era politicamente sospetto, fu sostituito nella sua prestigiosa posizione psichiatrica nella cattedra all’Università di Berlino e all’ospedale Charité da Max de Crinis, membro del partito e appartenente alle SS. Bonhoeffer divenne allora più attivo nell’aiutare i suoi due figli e suo genero, che, poi, pagarono tutti con la vita la loro opposizione al regime. Egli si impegnò specificatamente nella lotta contro l’eliminazione medica aiutando il proprio figlio Dietrich, che fu in seguito un famoso martire protestante, nei suoi contatti con gruppi della Chiesa che cercavano ragioni psichiatriche autorevoli per non cedere i loro pazienti al progetto.4
Il grado insolito di rispetto accordato a Bonhoeffer nella professione medica, assieme alla sua opposizione ben nota al programma di «eutanasia», fornì un sostegno professionale e psichiatrico almeno indiretto agli sforzi di resistere, per quanto parziali, di altri psichiatri.5a Uno psichiatra per il quale si dice che l’influenza di Bonhoeffer sia stata determinante fu il professor Hans Gerhard Creutzfeldt di Kiel. Creutzfeldt, che fu uno dei soli due membri del corpo docente di medicina a non iscriversi al Partito nazista, fu protetto in qualche misura dal suo decano accademico, che gli fece sapere discretamente fino a che punto potesse spingersi nel suo atteggiamento antinazista. Creutzfeldt si spinse più lontano di ogni altro, e si dice che sia riuscito a proteggere dal progetto tutti o la maggior parte dei pazienti del suo istituto. Uno psichiatra mi disse che era noto che Creutzfeldt aveva attaccato l’«eutanasia» nelle sue lezioni, dichiarando: «Sono assassini!» ed era riuscito a cavarsela perché i nazisti pensavano che fosse un individuo molto eccentrico, o addirittura «un po’ matto».b I suoi parenti stretti, da me intervistati, hanno espresso dubbi sul fatto che egli abbia potuto fare affermazioni del genere in modo così diretto. In ogni caso, egli era considerato una persona capace di esprimere tali verità.
Un solo psichiatra, il professor Gottfried Ewald di Göttingen, si oppose apertamente al progetto di uccisione medica. (Si vedano però la nota a p. 129 e le pp. 129-131.) Ewald godeva di sufficiente considerazione presso il regime per essere invitato a diventare un dirigente nel progetto di uccisione medica, ma aveva un umanitarismo personale e professionale sufficiente per poter rifiutare tale invito per ragioni di principio e abbastanza coraggio per far pervenire la sua estesa critica del programma ad alte autorità mediche.
A una riunione di pianificazione, convocata il 15 agosto 1940 da Werner Heyde per acquisire al programma psichiatri eminenti, Ewald si rifiutò di partecipare al progetto, dopo di che gli fu chiesto di andarsene. Egli ricordò che Heyde, che presiedeva una «lunga tavolata», spiegò che «l’“eutanizzazione” deve continuare» perché, anche se non c’era più un urgente bisogno dei letti di ospedale per i militari, gli ospedali dovevano nondimeno essere «liberati» dai pazienti, «perché non si sa quel che potrà accadere». Gli psichiatri autorevoli riuniti attorno a quel tavolo dovevano svolgere la funzione di «esperti» (Gutachter) o di «controperiti» (Obergutachter), ossia fornire giudizi su quali pazienti dovessero essere «eutanizzati» (euthansiert). Heyde riferì che c’erano piani per estendere il programma a pazienti senili e tubercolotici e che Hitler stava per firmare una legge (il cui testo era visibile nella stanza accanto) che avrebbe fornito una «sicurezza giudiziaria».7c
Ewald era così occupato nella formulazione delle sue obiezioni che non riuscì a ricordare che cos’altro disse Heyde. Quando gli fu data un’opportunità di parlare, Ewald disse: «Per principio, io non collaborerei a sterminare in questo modo i pazienti che mi sono stati affidati». Egli sottolineò che gli schizofrenici, il gruppo maggiore di pazienti candidati all’«eutanasia», non erano così «vuoti e senza speranza» come si sosteneva, e che avrebbero potuto benissimo trarre beneficio da nuove forme di terapia che si stavano sviluppando solo allora. Dopo che egli ebbe addotto altri argomenti ed ebbe spiegato il suo rifiuto a diventare un esperto, altri due psichiatri aderirono alla sua posizione. Essi però mutarono ancora opinione, attestò Ewald, quando Paul Nitsche, che era il vice di Heyde e che aveva una posizione professionale considerevole, narrò con toni appassionati di aver vissuto personalmente la tragedia di assistere un cognato malato di mente, e raccomandò al gruppo di non opporsi allo sterminio di tali malati.d Poiché Ewald non aggiunse altro, lasciando chiaramente intendere di non aver cambiato posizione, Heyde lo «congedò» in un modo fermo ma «molto gentile», esprimendo addirittura «rispetto per il mio punto di vista».8
Subito dopo la riunione, Ewald prese appunti di ciò che era accaduto in essa, appunti che divennero la base per un memorandum da lui inviato al decano della sua facoltà all’Università di Göttingen, oltre che a Heyde, a Conti, a un funzionario regionale a Hannover e allo psicoterapeuta Matthias Göring, con la preghiera di trasmetterlo al cugino Hermann, il potente maresciallo di aviazione.e Scritto essenzialmente in una cornice nazista, il memorandum si apriva sollevando interrogativi non sui diritti dei pazienti ma sulla questione se un’azione «di così vasta portata» avrebbe apportato al Volk sufficiente beneficio da giustificarla. Ewald ammetteva che, se un popolo fosse stato veramente assediato, e avesse avuto «bisogno di ogni granello [di cibo] per i suoi membri sani, allora... quegli sfortunati membri malati sarebbero i primi a dare la vita a favore della popolazione sana». Ma in assenza di una tale situazione estrema, i medici non dovevano «interferire col destino».
Egli continuò sostenendo che tutte le persone, e non solo i malati, dovrebbero essere disposte a mettere la loro vita e quella dei congiunti più stretti «a disposizione dello Stato», specialmente in tempo di guerra, poiché «l’obiettivo per cui noi lottiamo... [è] il massimo che conosciamo... libertà, grandezza e felicità del popolo». Egli riconobbe la validità dell’«obiettivo medico e generale superiore» di mettere fine alla vita indegna di vita piuttosto che curarla, ma desiderava limitare tale concetto a situazioni come quella di un malato terminale di cancro che desiderasse «per sane [gesund] ragioni» l’aiuto del medico per metter fine alle sue sofferenze. Ewald cercava dunque di tornare al vero significato dell’eutanasia. E sottolineò il «legame biologico di sangue» che esiste «persino fra una madre e il suo figlio idiota, e che esige rispetto». Se una famiglia, a causa dell’onere economico creato da un tale figlio, dovesse acconsentire alla sua eliminazione, lo Stato farebbe meglio a offrire aiuto alla famiglia, «per... non creare una differenza fra quei nostri compatrioti che sono in condizioni economiche migliori o peggiori».10
Solo a questo punto Ewald sollevò «certe obiezioni mediche». Egli chiese, enfatizzando questa domanda con la sottolineatura: «Sappiamo davvero con certezza che tutti i pazienti che ricadono sotto questa legge sono incurabili?». Qui, concentrandosi sulla schizofrenia, egli sottolineò che essa non contiene alcuna istopatologia (alterazione dei tessuti) chiaramente riconosciuta e che nuove terapie hanno condotto a miglioramenti «sorprendenti». Passando a esplorare le conseguenze psicologiche per i parenti e per la popolazione generale, egli osservò che molti saranno «torturati» da un senso di colpa, sia che abbiano o no dato la loro adesione; che ci saranno conflitti e accuse terribili all’interno di famiglie; e che il timore e la diffidenza saranno dilaganti, specialmente verso i medici, «sapendo che il ricovero in una clinica o in un ospedale psichiatrico potrà condurre alla morte». Non solo ne soffrirà la cura medica per l’intera popolazione, ma la professione medica perderà la sua reputazione generale e la gente associerà il medico a tutto ciò che c’è di più «sinistro, mostruoso e terribile». Ewald affrontò audacemente il carattere definitivo dell’uccisione: «Si può vivere e persino godere della vita anche senza le tube di Falloppio o senza un vaso deferente (anche se i più hanno sofferto moltissimo per il fatto di essere sottoposti alla sterilizzazione), ma la morte mette fine a tutto».11
Ewald fu particolarmente eloquente nell’affermare l’integrità della professione medica, ma ancora una volta in un contesto nazista:
La funzione del medico si fonda sull’impulso ad aiutare un altro e a confortarlo e non ad arrecargli danno. Lo psichiatra, in particolare, ha imparato a promuovere un bene superiore... il bene di tutti... Ogni medico sensibile approverà l’eutanasia. Chi, però, aspirando a diventare un medico, vorrà mettersi nella posizione di eliminare casi disperati contro il desiderio dei loro parenti, e assumersi l’abominio di uccidere senza il bisogno più pressante?... Io posso senza dubbio uccidere sempre che si tratti di salvare il Volk... Approverei anche... l’eliminazione di criminali pericolosi e di comuni parassiti. Non posso però scegliere una professione la cui attività quotidiana sia quella di eliminare una persona malata a causa della sua malattia, dopo che i suoi parenti sono venuti da me, in piena fiducia e ricercando il mio aiuto.
Ewald sottolineò che parlava sulla base di molti anni di rigorosa osservazione professionale, da uomo che aveva avuto l’opportunità di «conoscere realmente la psiche dei suoi pazienti e della gente» molto più a fondo «del migliore teorico... [o] statistico» interessato alla ricerca sull’ereditarietà.12f
In principio Ewald aveva avuto simpatie per il nazismo, come mi confermò la sua vedova, che intervistai in una casa di cura: «Egli diceva il suo Heil Hitler con lo stesso entusiasmo di chiunque altro». Documenti rinvenuti negli archivi del Partito nazista confermarono questo atteggiamento, descrivendo Ewald, nel 1939, come politicamente «fidato» e dicendo che aveva un «atteggiamento politico positivo verso il Terzo Reich».13 Eppure i persistenti tentativi di Ewald di iscriversi al partito negli anni Trenta erano stati ripetutamente respinti per quelle che furono sempre descritte come ragioni meramente «formali». Quelle ragioni formali risultarono essere connesse a una ferita sofferta da Ewald nella Prima guerra mondiale, in conseguenza della quale aveva subito l’amputazione di un avambraccio. In quanto «persona con un solo braccio, inabile a compiti militari» (come si dice in un’inchiesta su di lui),14 gli fu impedito di prestare servizio attivo nelle SA o in organizzazioni corrispondenti; entrò a far parte della riserva delle SA per potersi impegnare nelle loro manovre nonostante la sua menomazione, come già aveva partecipato alle manovre del corpo di volontari da tempo disciolto völkisches Freikorps «Oberland», di cui era entrato a far parte nel 1923. Quando, nel 1939, fu approvata la sua riconferma alla cattedra di Göttingen, Ewald fu descritto da un funzionario nazista del locale ufficio del personale come «del tutto simpatizzante per le aspirazioni della NSDAP (National Sozialistische Deutsche Arbeiter Partei, ossia il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi o partito nazista)».15
I documenti del partito spiegavano ulteriormente che per certe persone eminenti considerate «particolarmente desiderabili e giudicate di particolare importanza per il lavoro del partito» si poteva fare un’eccezione ai requisiti formali, ma che Ewald non soddisfaceva questo criterio. La possibile implicazione è che la sua posizione professionale, per quanto senza dubbio solida, non fosse di grandissimo rilievo; o che la sua identificazione nazista, per quanto forte, non fosse assoluta. Quest’ultimo «difetto» ci è suggerito dal fatto che, verso la fine del 1938, quando era direttore dell’Ospedale statale di Göttingen e dopo che erano stati formulati questi giudizi, egli aveva affidato un paziente ebreo, giudicato suscettibile di riabilitazione attraverso il lavoro, a una fattoria tedesca: un fatto che indignò i funzionari del partito.16g
Eppure egli aveva quella che sua moglie chiamò una «sorta di collegamento» con Hermann Göring, avendo curato, e ospitato a casa sua, uno dei subordinati del presidente del consiglio prussiano, per evitare che la sua malattia diventasse di dominio pubblico; Ewald si era addirittura recato a Berlino a riferire a Göring sui progressi della terapia del paziente. Questo collegamento fu senza dubbio un fattore che influì sulla posteriore decisione di Ewald di chiedere a Matthias Göring di inoltrare la sua nota critica sull’«eutanasia» al cugino Hermann. In effetti, il modo in cui Ewald espresse queste critiche e in cui le fece conoscere ad alti funzionari medici indica che aveva qualche fiducia nel regime e si attendeva che esso considerasse seriamente i suoi scrupoli morali. Il tono delle sue lettere di accompagnamento a Heyde e Conti è quello di un collega amichevole che discute un argomento molto serio. A Heyde, Ewald scrisse: «Mi spiace di averLa dovuta deludere»; e scrivendo a Conti si dichiarò «felice di mettermi a Sua disposizione per un abboccamento personale in qualsiasi tempo, qualora la cosa dovesse apparirLe opportuna». In queste lettere egli parlò però anche della sua «coscienza medica» e del suo «bisogno interiore» di fare quel che aveva fatto.18 E aveva qualche timore di rappresaglie.
Dopo il ritorno a Göttingen dalla riunione con Heyde a Berlino, Ewald disse a sua moglie, a quanto mi riferì quest’ultima: «Ti prego di considerare le cose in modo ragionevole, ma devi prepararti alla possibilità che, da un giorno all’altro, io venga mandato in un campo di concentramento». Inoltre, Ewald non si consultò con colleghi sulle uccisioni mediche naziste perché – così credeva la sua vedova – era proibito parlare dell’argomento con altri, e in ogni caso «pensava che la cosa non sarebbe stata di alcuna utilità». Essa ricordava però che in seguito, nel corso del 1944, egli parlò attivamente con dei colleghi psichiatri sull’opportunità di unire le loro forze e di dichiarare che Hitler era pazzo.h
Il comportamento di Ewald divenne ancora più complesso subito dopo la resa della Germania. La sua vedova mi raccontò che egli diede alle fiamme la maggior parte del suo archivio psichiatrico perché «conteneva materiali contro molte persone, le quali avrebbero perso la possibilità di guadagnarsi da vivere e avrebbero potuto finire in carcere». Le risposte da lei fornite ad altre mie domande mi diedero l’impressione che fra i documenti distrutti ci fossero lettere da cui risultavano vari gradi di sostegno a posizioni naziste, da espressioni pro forma a un forte entusiasmo, e che esse avrebbero potuto essere imbarazzanti non solo per colleghi ma anche per lo stesso Ewald.
La vedova di Ewald riferì anche che egli aveva «nascosto» nel suo ospedale un numero considerevole di psichiatri, persone che erano state implicate nel programma di «eutanasia». Egli permise loro di lavorarvi senza mettersi troppo in mostra (non è chiaro se essi vi lavorassero sotto falso nome o se avessero adottato altre misure per evitare di essere trovati) e in un certo periodo ebbe addirittura «cinquantun medici ospiti». Essa presentò questo fatto come un esempio degli impulsi umanitari del marito, della sua convinzione che «non sarebbe di aiuto a nessuno se questi uomini soffrissero ancora, hanno già sofferto abbastanza»; e associò quest’attività del marito con lo stesso «semplice senso del dovere» che egli aveva sentito nella sua resistenza personale al progetto di uccisione medica.
All’inizio del periodo postbellico, il dottor Ewald testimoniò volontariamente in processi per «eutanasia». Sembrava che egli volesse riaffermare la sua opposizione al progetto, ma al tempo stesso offrire un aiuto personale a psichiatri che erano stati implicati in esso. Può darsi che sotto certi aspetti non si considerasse diverso da loro. Egli era stato un ardente sostenitore del nazismo, e la sua posizione di principio contro il principale progetto «psichiatrico» del regime fu un tentativo di riformarlo dall’interno, e forse addirittura di conservarne una parte che egli si sentiva di condividere. Può darsi inoltre che gli fosse rimasto un certo senso di colpa per essersi ribellato ai rappresentanti della sua nazione e, più specificatamente, che potesse sentirsi colpevole verso i suoi colleghi per essere uscito dal loro gruppo in un modo che aveva gettato fango su di loro. Dopo tutto, egli si identificava fortemente sul piano professionale e politico con la maggior parte dei suoi colleghi, e probabilmente si era anche spinto più avanti della maggior parte di loro nel cooperare con il regime prima di prendere posizione contro il programma di uccisione medica. Questo senso di colpa e questa identificazione furono probabilmente determinanti nell’indurre Ewald a proteggere i suoi colleghi dopo la guerra. Comunque si giudichi tale comportamento, il senso di colpa che esso sembra riflettere potrebbe benissimo essere connesso all’atto di coscienza che indusse Ewald a ribellarsi all’uccisione medica. Un’importanza determinante ebbe senza dubbio anche la sua vecchia ferita, la sua condizione di persona minorata, che lo rese più sensibile di altri verso le potenziali vittime dell’uccisione medica, e un po’ più guardingo verso il concetto di «vita indegna di vita». (Significativamente, anche il dottor Kuhn – uno degli altri due che rifiutarono una partecipazione piena al programma annunciato da Heyde alla riunione di Berlino – aveva una menomazione fisica, avendo subìto in passato l’amputazione di una gamba.)20
Ewald non poteva vantare il profondo umanesimo e liberalismo di Bonhoeffer né la sua statura professionale. Io sospetto però – e qui Ewald assomiglia tanto a Bonhoeffer quanto a Creutzfeldt – che l’educazione religiosa ricevuta in famiglia abbia molto influito su questo figlio laico di un ministro protestante.21 Quale che sia stata la misura di tali influenze, e l’intensità dell’anteriore rapporto di Ewald col movimento nazista, in lui rimase viva quell’integrità interiore che consente sempre a una persona, a un certo momento, di dire no. Un medico tedesco profondamente interessato a questa vicenda, che esaminò con me l’intera vicenda di Ewald, concluse piuttosto tristemente: «Pare che un eroe non sia realmente un eroe». E potrebbe essere proprio così: Ewald fu molto meno di un eroe antinazista. Dopo tutto, però, egli fu forse un eroe. Egli compì infatti, nella sua qualità di psichiatra, all’interno di una disciplina che si piegò essenzialmente ai voleri del regime, un atto diretto, coraggioso, personale e professionale di opposizione al programma di «eutanasia».i
Psichiatri e autorità ecclesiastiche che si opposero all’«eutanasia» si influenzarono reciprocamente forse più di quanto sia stato in generale riconosciuto, anche se solo in modo sporadico e limitato. A volte però gli psichiatri che lavorarono in istituzioni ecclesiastiche poterono integrarsi in forme di resistenza più costanti e collettive. In un’istituzione psichiatrica protestante a Schussenried, il primario, un certo dottor Götz, ebbe una «violenta discussione» con l’esperto della commissione medica per l’«eutanasia» per il fatto che questi «dava giudizi sistematicamente troppo bassi [della capacità di lavoro] dei pazienti». Il dottor Götz ricordava una situazione precedente «in cui dei pazienti erano stati uccisi» e ora pensava che il visitatore «volesse addossargli [la] responsabilità [di scegliere dei pazienti da mandare a morte], cosa che non poteva accettare». Götz aveva ricevuto dal ministro dell’Interno del Württemberg l’ordine di collaborare sulla questione ed era perciò consapevole di «non aver seguito un ordine dell’ufficio del suo superiore e... che un giorno o l’altro avrebbe dovuto renderne conto».23 Quel senso di colpa potenziale per la morte di propri pazienti poteva essere un fulcro potente di resistenza, specialmente in uomini con una forte coscienza cristiana.
Il dottor Rudolph Boeckh, primario psichiatra all’istituzione evangelica luterana di Neuendettelsau (il luogo in cui c’era stata l’intrusione degli studenti di medicina e delle dattilografe [vedi pp. 101, 104]), dichiarò recisamente che «il metodo di lavoro della commissione era dannoso e contrario a ogni prassi medica». E aggiunse: «Poiché lo scopo finale di queste relazioni sui pazienti è noto al pubblico, una pesante responsabilità viene addossata a me come primario... anche se prima della decisione finale devono essere sentite varie commissioni».24
In entrambi i casi, constatiamo una tendenza a protestare contro i criteri e i metodi di operazione piuttosto che contro il progetto generale in sé (impresa molto più difficile e probabilmente più pericolosa): così il dottor Boeckh, per esempio, chiese che i questionari fossero restituiti all’istituto per consentire di compilarli in modo adeguato.25 Questa sorta di compromesso – la pressione per salvare il maggior numero possibile di pazienti, a costo di abbandonare quelli per cui si pensava di non poter fare nulla – era frequente.
La resistenza psichiatrica forse più notevole in un ambiente ecclesiastico fu quella del dottor Karsten Jasperson, il primario psichiatra nell’istituto psichiatrico di Bethel (che era distinto dall’istituto associato per epilettici). Membro del Partito nazista dal 1931, Jasperson poté spingersi fino a intentare procedimenti penali contro gruppi di polizia che avevano partecipato all’organizzazione dell’uccisione di pazienti; egli si rifiutò inoltre di compilare questionari, sostenendo che in tal caso avrebbe «aiutato e favorito l’eccidio» secondo il diritto penale vigente; e cercò di procurarsi appoggi per la sua posizione in professori di medicina di rango elevato, fra cui il proprio maestro, il professor Rüdin (con cui ebbe poco successo), e il professor August Bostroem di Lipsia (che fu sensibile alla sua richiesta e che a quanto pare persistette su questa linea, prendendo contatto con Ewald). Jasperson poté esprimere la sua resistenza, per usare le sue parole, «precisamente nella qualità di un medico nazionalsocialista [per il quale] queste misure vanno in modo diretto e deciso contro ogni concezione della professione medica». Egli espresse queste opinioni a Martin Bormann, con cui aveva un legame di vecchia data, e a cui parlò della sua preoccupazione che l’assenza di ogni base legale per le uccisioni arrecasse pregiudizio «ai concetti etici del nostro Volk». Bormann difese il programma contrapponendo alla visione cristiana del voler tenere in vita «persino le creature meno degne di vita» la posizione nazionalsocialista che tenere in vita tali persone era «del tutto contro natura».26
Quel che convinse infine i gerarchi nazisti a cancellare ufficialmente il progetto non fu l’opposizione degli psichiatri bensì piuttosto la resistenza generale fra la popolazione tedesca, espressa e sottolineata con energia da alcuni coraggiosi capi religiosi protestanti e cattolici. Familiari di pazienti scrissero lettere alla direzione di istituti (di cui abbiamo citato qualche frammento nell’epigrafe a questo capitolo), esprimendo confusione e dolore ma a volte anche una conoscenza precisa e rabbia: riferimenti a «strane voci» sulla sorte dei pazienti, domande sul perché morissero «così presto» e risentimento per il fatto che ai parenti non fosse stato concesso un funerale regolare e non fosse stata offerta loro la possibilità di dare «l’ultimo addio» al loro congiunto.27
L’agitazione poté farsi sentire molto in alto. Un giudice provinciale di un tribunale competente per le successioni scrisse al ministro per la Giustizia, Franz Gürtner, comunicandogli di aver ricevuto accuse formali da parte dei tutori di pazienti e del personale di istituzioni psichiatriche da cui i pazienti erano stati prelevati per avviarli alle camere a gas a Hartheim. Il giudice continuava dicendo al suo superiore: «Si commette un atto di... straordinaria arroganza quando ci si assume il diritto di metter fine a una vita umana per il fatto che, con la propria limitata comprensione, non si riesce più a intendere l’intero significato di tale vita». Nella stessa lettera egli dichiarò inoltre: «Tutti sanno bene quanto me» che «l’uccisione dei malati di mente è una realtà altrettanto nota quanto, diciamo, quella dei campi di concentramento».28
Ed Else von Löwis, una delle principali esponenti dell’organizzazione nazista femminile e donna del massimo rango sociale, che aveva rapporti regolari con gerarchi del regime, scrisse a un’amica, la moglie del presidente della corte della Cancelleria del partito, stretto amico di Himmler, esprimendole il suo orrore per il tentativo del regime di ingannare la gente circa le uccisioni di malati di mente («Quando i contadini del Württemberg vedono passare gli autocarri sanno bene che cosa sta accadendo, proprio come quando vedono il fumo uscire giorno e notte dai camini del crematorio») e per la politica di uccidere indiscriminatamente i pazienti psichiatrici – fra cui alcuni affetti solo da disturbi lievi o addirittura sani per lunghi periodi di tempo – anziché solo quelli «che non hanno neppure un minimo barlume di coscienza umana»: decisione, questa, che secondo lei sarebbe stata accettata dalla gente se ci fosse stata una legge appropriata. Essa ammise di avere avuto sino allora una «fiducia costante nel nostro Führer», ma ora sentiva «il terreno... vacillare sotto i nostri piedi», anche se «la gente si aggrappa ancora alla speranza che il Führer non sia al corrente di queste cose». Il presidente della corte inoltrò la lettera a Himmler, il quale lo informò «confidenzialmente» che esisteva un tale programma «sotto l’egida del Führer», che esso era eseguito da «esperti medici... consapevoli delle loro responsabilità»; e che, se il progetto fosse diventato di dominio comune, «[poteva esserne] compromesso il funzionamento».29
Rabbiose reazioni popolari furono in effetti, di tanto in tanto, sul punto di trasformarsi in vere e proprie dimostrazioni pubbliche contro l’uccisione dei malati di mente. Una relazione al Servizio di Sicurezza (Sicherheitsdienst) delle SS da Absberg, in data 1° marzo 1941, afferma che «il trasferimento di persone dall’Istituto di Ottilien ha causato molto malcontento», parla di un prete che amministrò la comunione a pazienti costretti a salire su un autobus dinanzi a una grande folla di cittadinanza cattolica, si duole del carattere pubblico dell’intera operazione, descrive quanto la gente fosse turbata e aggiunge che «fra coloro che erano sconvolti e piangevano ci sono membri del Partito».30 Questo fu uno dei pochi casi in cui il sentimento contro un regime di polizia fu espresso in modo aperto e duro.
Gran parte della resistenza religiosa protestante si incardinò su istituzioni mentali: due fra i leader di questa resistenza furono pastori che svolgevano funzioni amministrative non mediche in tali istituzioni. Essi erano Paul-Gerhard Braune, direttore dell’Istituzione di Hoffnungsstal a Berlino e vicepresidente del comitato centrale della Missione Interna; e il reverendo Fritz von Bodelschwingh, direttore del leggendario istituto di Bethel, principalmente per epilettici, a Bielefeld. Entrambi erano dirigenti attivi della Chiesa Confessionale, in contrapposizione ai «Cristiani tedeschi» che si erano alleati al regime nazionalsocialista. Entrambi i pastori appartenevano anche al gruppo, all’interno della Chiesa Confessionale, che propugnava una resistenza attiva, nella convinzione che, «quando un’istituzione era minacciata dalle uccisioni, si doveva combattere per la vita dei pazienti [contro] coloro che volevano portarli via per ucciderli», anziché limitarsi a parlare dal pulpito sul male del progetto di «eutanasia» e sul fatto che esso violava i divini comandamenti. Essi temevano che quest’ultimo modo di procedere potesse essere di pregiudizio alla causa dei pazienti.31
L’istituto di Bodelschwingh a Bethel, fondato da suo padre, era ben noto per aver creato una comunità cristiana devota e armonica. In tale atmosfera Bodelschwingh poteva contare sulla lealtà e l’appoggio dei suoi medici psichiatri – fra cui Jasperson – nell’opporre resistenza ai questionari, nell’esprimere obiezioni ai funzionari nazisti e in varie manovre per impedire che i pazienti venissero prelevati per consegnarli al meccanismo di eliminazione.j Nel maggio 1940 Bodelschwingh fece anche visita al professor Matthias Göring, il quale gli disse «di non prendere alcuna iniziativa [di opposizione], ma di farlo solo quando avremo prove ben precise» (anche se, senza dubbio, delle prove erano già disponibili). All’inizio dell’anno seguente, Bodelschwingh chiese al professor Göring di trasmettere all’illustre cugino Hermann Göring una sua lettera, nella quale chiedeva che i suoi pazienti epilettici non fossero sottoposti a misure di «pianificazione economica». Benché Hermann Göring abbia ritenuto opportuno rispondere, sostenne però che le asserzioni di Bodelschwingh erano «in parte inesatte e in grande misura false», e aggiunse che avrebbe chiesto a Karl Brandt di chiarire ulteriormente queste cose. Bodelschwingh, in effetti, negoziò senza fine con alti funzionari nazisti e sviluppò un rapporto stretto e amichevole con Brandt (vedi pp. 165-166), cooperando in parte mentre riusciva a mandare per le lunghe la realizzazione del programma nonostante una visita di una commissione di medici. Bodelschwingh riuscì a proteggere la maggior parte dei suoi pazienti.33
Braune, descritto come un uomo di «formidabile portamento militare prussiano», si era opposto al programma di sterilizzazione34k e aveva preso l’iniziativa di avvicinare Bodelschwingh per parlare con lui dell’opposizione all’«eutanasia». Braune collaborò poi strettamente con Bodelschwingh nella raccolta e scambio di informazioni, e fece visita con lui ad alti funzionari. In una di queste visite, nella quale essi furono accompagnati dal chirurgo Ferdinand Sauerbruch, comunicarono al ministro della Giustizia Gürtner, nel suo appartamento, fatti che a quanto pare lo sorpresero producendogli un «vero orrore».36l Braune produsse anche un documento veramente notevole, che combinava una protesta appassionata con prove dettagliate e sistematiche, e che fu sottoposto a un funzionario della Cancelleria e indirizzato ad Adolf Hitler.
Il documento si apre con osservazioni generali fatte in «Varie parti del Reich», le quali «non lasciano alcun dubbio sul fatto che questo è un piano su vasta scala per sterminare... migliaia di “esseri umani indegni di vita”». Queste misure, egli insisteva, «minano gravemente le basi morali dell’intero Volk» ed erano «intollerabili». Presentava poi una cronologia di direttive, di esperienze di istituti, di particolari dei questionari e di metodi di inganno, facendo addirittura delle stime statistiche sul numero delle persone uccise sulla base dei numeri presenti sulle urne di ceneri ricevute dalle famiglie. Il documento definiva questi fatti «spaventosi» e «semplicemente indegni» di istituzioni terapeutiche.37
Nel documento si parla anche della creazione sistematica di confusione: di pazienti «mischiati così completamente in grandi istituzioni [che] nessuno conosce la sorte dell’altro». Braune dice che i pazienti «si consumano di dolore in solitudine e muoiono in una totale desolazione» e offre come prova la morte di un giurista figlio di un alto funzionario governativo.38 Il documento passava così di continuo da particolari accuratamente documentati a squillanti affermazioni etiche.
Braune prosegue: «Ci troviamo di fronte a un processo cosciente, sistematico, di eliminazione di tutti coloro che sono malati di mente o altrimenti incapaci di funzionare in una comunità»: un processo che «mina gravemente la fede nelle... autorità mediche [e sanitarie]». Braune nota che la Germania ha una storia superiore di istituzioni ben gestite e di personale ben addestrato con una «dedizione altruistica al servizio», e chiede se queste inclinazioni costruttive saranno costrette «a estinguersi lentamente nel nostro popolo». Braune domanda anche quanto avanti possa spingersi lo sterminio di «vita indegna di vita», essendo state le misure di eutanasia già estese a persone «lucide e responsabili»; e quale sarà il prossimo bersaglio. Poi tocca un punto particolarmente sensibile: «Che cosa avverrà dei soldati che contrarranno infermità inguaribili mentre stanno combattendo per la loro patria?». E aggiunge: «Fra loro c’è già chi si pone queste domande».39
Egli si volge poi a questioni morali concernenti la santità della vita umana e il modo in cui la violazione «senza alcuna base legale» di tale santità pregiudichi «l’etica del popolo nella sua totalità. Chi dovrebbe essere protetto dalla legge se non l’inerme?». Egli sottolinea che, secondo un calcolo accurato, quand’anche si fossero uccise centomila persone (la stima delle persone che avrebbero dovuto essere uccise secondo il progetto iniziale),40 un tale eccidio non avrebbe apportato un aiuto significativo al benessere economico del resto della popolazione. Braune conclude con una squillante dichiarazione della dimensione del pericolo e con un’appassionata perorazione di rinunciare al progetto:
Ci troviamo di fronte a una situazione di emergenza che sconvolge profondamente tutti coloro che ne sono informati, che distrugge la pace interiore di molte famiglie e che, soprattutto, minaccia di dar forma a un pericolo le cui conseguenze non possono oggi neppure essere predette. Possano le autorità responsabili accertarsi che queste misure disastrose vengano abolite e che l’intero problema venga esaminato da un punto di vista legale e medico, e da quello etico e politico, prima che venga decisa la sorte di migliaia e decine di migliaia di persone. Videant consules, ne quid detrimenti res publica capiat! (Provvedano i consoli perché lo Stato non subisca alcun danno!).41
Fra tutte le espressioni documentate di resistenza alle uccisioni mediche naziste, il memorandum di Braune è unico nel combinare una documentazione minuziosa, un’identificazione compassionevole con le vittime, preoccupazione per l’esercizio della professione medica e per i medici, interesse per l’integrità morale di un intero popolo oltre che per il vasto principio etico della santità della vita, una denuncia della vulnerabilità del regime al timore generale per l’«eutanasia» fra i militari, e un’appassionata protesta personale fondata su una tradizione spirituale.
I capi nazisti devono essersi resi conto della forza di questa perorazione giacché, a quanto pare, il capo della Cancelleria del Reich, Lammers, ne avrebbe informato Hitler, rispondendo poi a Braune che il programma non poteva essere fermato. Un mese dopo circa, Braune fu arrestato con un mandato di arresto firmato da Heydrich in cui lo si accusava di aver «sabotato in un modo irresponsabile misure del regime e del partito». Braune fu tenuto nella prigione della Gestapo nella Prinz Albrecht Strasse per circa dieci settimane e poi rilasciato (probabilmente grazie a un intervento di Bodelschwingh), in cambio della promessa che non avrebbe intrapreso ulteriori azioni contro linee politiche del governo o del partito.42
Mentre Bodelschwingh e Braune espressero la loro resistenza essenzialmente attraverso canali ufficiali, certi ministri locali si espressero pubblicamente dalle loro chiese, e spesso pagarono le loro prese di posizione venendo inviati in campi di concentramento. Fu questa la sorte di Ernst Wilm, pastore di un villaggio della Vestfalia, che fu denunciato e inviato a Dachau, dove trascorse tre anni.43
La protesta cattolica più vibrante contro l’«eutanasia» fu il famoso sermone del conte Clemens von Galen, allora vescovo di Münster.m Il sermone fu tenuto il 3 agosto 1941, esattamente quattro domeniche dopo che l’importantissima epistola pastorale dei vescovi tedeschi era stata letta dal pulpito di ogni chiesa cattolica del paese; la lettera riaffermava gli «obblighi di coscienza» di opporsi all’eliminazione di vita «innocente», «anche se ciò dovesse costarci la vita».44 La prima parte del sermone di von Galen esplorava il tema biblico di come «Gesù, il Figlio di Dio, pianse», di come persino Dio pianse «a causa della stupidità, dell’ingiustizia... e del disastro che ne conseguì». Poi, dopo aver dichiarato: «È una cosa terribile, ingiusta e catastrofica quando l’uomo oppone la sua volontà alla volontà di Dio», von Galen citò la lettera pastorale del 6 luglio, e chiarì che la «cosa... catastrofica» a cui pensava era l’uccisione di pazienti psichiatrici innocenti e «una dottrina che autorizza la morte violenta di persone invalide e di persone anziane».45
Egli dichiarò inoltre di avere «prodotto accuse formali» alla polizia e alle autorità legali di Monaco per le deportazioni da un vicino istituto. Continuò poi esprimendosi con parole che qualsiasi contadino e lavoratore potesse capire:
Si dice, di questi pazienti: sono come una macchina vecchia che non funziona più, come un cavallo vecchio che è paralizzato senza speranza, come una mucca che non dà più latte.
Che cosa dobbiamo fare di una macchina di questo genere? La mandiamo in demolizione. Che cosa dobbiamo fare di un cavallo paralizzato? No, non voglio spingere il paragone all’estremo... Qui non stiamo parlando di una macchina, di un cavallo, né di una mucca... No, stiamo parlando di uomini e donne, nostri compatrioti, nostri fratelli e sorelle. Povere persone improduttive, se volete, ma ciò significa forse che abbiano perduto il diritto a vivere?
Von Galen sottolineò che, se si fosse accettato un tale principio, «pensate allo stato orribile in cui ci troveremo noi tutti quando saremo deboli e malati!». Il pericolo non riguardava solo gli «invalidi», che prima di ammalarsi erano stati lavoratori tenaci e produttivi, e i «soldati coraggiosi, quando tornano gravemente feriti», ma «nessuno di noi qui sarà sicuro della sua vita».46
E dopo un paio di esempi toccanti di persone specifiche che erano state uccise, il vescovo concludeva, come aveva iniziato, con immagini bibliche, questa volta non di Gesù piangente ma della «giustizia divina» – la punizione suprema – per coloro che «profanano la nostra fede» perseguitando il clero e «mandando a morte persone innocenti». Egli chiese che tali persone (che potevano essere solo le autorità naziste) venissero messe al bando e lasciate al castigo divino:
Noi vogliamo sottrarre noi stessi e i nostri fedeli alla loro influenza, per non essere contaminati dal loro pensiero e dal loro empio comportamento, e non dover poi condividere con loro la punizione che un Dio giusto dovrebbe infliggere e infliggerà a tutti coloro che – come l’ingrata Gerusalemmen – non vogliono ciò che vuole Dio!47
Con l’autorità del suo ufficio, un vescovo cattolico invocava la collera divina su coloro che stavano mettendo a morte gli innocenti. Questo forte sermone populista fu immediatamente riprodotto e distribuito nell’intera Germania: esso fu addirittura lanciato sotto forma di volantini dagli aerei della Royal Air Force britannica sulle truppe tedesche. Il sermone ebbe probabilmente un impatto molto maggiore di quello di qualsiasi altra presa di posizione nel consolidare un sentimento avverso al programma di «eutanasia»; di qui il giudizio di Bormann che il vescovo meritasse la pena di morte.48o
Forse ancora più minacciosa per i gerarchi nazisti fu la protesta di Werner Mölders, un pilota cattolico della Luftwaffe e famoso eroe di guerra che aveva ricevuto la massima decorazione militare della Germania nazista dalle mani dello stesso Hitler. In una lettera ai suoi superiori, Mölders espresse il suo rammarico per il programma di «eutanasia» e minacciò di restituire la sua decorazione.50
Forse non avremmo potuto attenderci dalla professione medica o psichiatrica una condanna etica così appassionata come quella del vescovo von Galen. Avremmo però potuto sperare in una presa di posizione così generale e moralmente chiara come quella del pastore Braune o in un impegno verso i propri pazienti così devoto e tenace come quello del pastore Bodelschwingh. Le più vicine a una tale dedizione ai propri pazienti sono le azioni e la perorazione del dottor Ewald. Egli fu però limitato nella sua azione – e altri medici lo furono più di lui – dai suoi legami col nazismo, dalla tradizione tedesca di remissività degli psichiatri e dei medici all’autorità governativa e, più in generale, da lacune di carattere etico nella professione del medico nel Novecento. Non dico questo per conferire un’aura di eroismo alle Chiese nella loro totalità: la maggior parte dei capi religiosi protestanti e cattolici o cooperarono con i nazisti o non fecero nulla. Intendo dire piuttosto che il tentativo nazista di mistificazione medica dell’eccidio non fu smascherato primariamente da psichiatri o da altri medici, molti dei quali furono direttamente implicati nell’esecuzione del programma, ma da alcuni capi ecclesiastici, i quali diedero voce alle ambasce e alla rabbia di famiglie martirizzate, attingendo a una passione etica che derivava dalle proprie tradizioni religiose.
I capi nazisti dovettero affrontare la prospettiva di imprigionare ecclesiastici eminenti, che avevano un grande seguito di pubblico, e altri protestatari – una linea che poteva presentare conseguenze molto temute sotto forma di reazioni avverse dell’opinione pubblica –, o di mettere fine al programma. Quest’ultima fu essenzialmente la raccomandazione di Himmler, il quale osservò che il segreto non era più un segreto, anche se aggiunse: «Se l’operazione T4 fosse stata affidata alle SS, le cose sarebbero andate diversamente», perché «quando il Führer ci affida un lavoro, noi sappiamo eseguirlo come si deve, senza causare inutile tumulto fra la gente».51 Hitler, a quanto pare, diede a Brandt, il 24 agosto o attorno a quella data, un ordine verbale di metter fine all’operazione T4, o almeno di temporeggiare.52p Ma l’uccisione di pazienti psichiatrici non terminò: l’eccidio di massa stava appena cominciando.
a. Va detto che Bonhoeffer fu in origine favorevole alla sterilizzazione e, inoltre, non assunse una posizione forte contro la nazificazione delle università tedesche, come in seguito ebbe la franchezza di ammettere («Purtroppo, né io né alcun altro professore ebbe il coraggio di alzarsi e uscire in segno di protesta contro l’atteggiamento offensivo adottato dal ministro [per l’Istruzione e gli Affari culturali, Bernhard Rust) verso la professione accademica»).6 Egli lottò però per mantenere un’atmosfera di decoro e di lavoro professionale equilibrato nel suo dipartimento.
b. Creutzfeldt svolse in seguito un ruolo centrale nel denunciare Werner Heyde e nel portarlo in giudizio (vedi p. 170).
c. Questo testo – se esisteva effettivamente – potrebbe essere stato l’abbozzo di tale legge, la quale, come sappiamo, non fu mai promulgata.
d. Uno di quei due medici, Arthur Kuhn (di Reichenau), contestò quest’affermazione e testimoniò di aver visto l’altro uomo, un certo dottor Meusberger (di Klagenfurt), alla stazione ferroviaria, essendosene andati via presto mentre gli altri erano rimasti fino a tardi a bere e a festeggiare; ma il ruolo complessivo di questi due psichiatri rimane oscuro. Né Kuhn né Meusberger appaiono in elenchi di esperti in documenti nazisti. (Sono grato a Ernst Klee per una comunicazione personale [novembre 1985] su questo argomento.)
e. Matthias Göring era uno psichiatra e psicoterapeuta adleriano che, grazie in gran parte all’influenza della sua famiglia, fu designato direttore di quello che sarebbe diventato noto come il Göring Institut a Berlino. Pur essendo un ardente nazista e mantenendo un contatto costante col suo eminente cugino, di cui non esitò a sfruttare il nome, Matthias Göring fu considerato in generale come abbastanza benevolo (era noto nel suo istituto come Papi [paparino]) e riuscì a mantenere sotto lo stesso tetto professionale, sia pure con certe restrizioni, psicoterapeuti e psicoanalisti adleriani, junghiani e freudiani, oltre ad altri fortemente filonazisti, antinazisti o su varie posizioni intermedie. Poiché Göring e il suo istituto permisero la sopravvivenza della psicoterapia come professione nella Germania nazista, e poiché egli offrì una qualche protezione a singoli psicoterapeuti, la sua figura è stata in qualche misura romanticizzata. Pur non avendo mai conseguito il suo obiettivo di una «nuova psicoterapia tedesca», egli spinse la psicoterapia tedesca al servizio del regime e mantenne attivi legami con i militari e con le SS. Quella dell’Istituto Göring è una storia affascinante a molti livelli, ma io credo che Göring possa essere inteso nel modo più corretto come un prototipo di «nazista rispettabile» – un genere su cui avrò modo di soffermarmi più avanti – e che egli e il suo istituto abbiano svolto la funzione primaria della Gleichschaltung per la psicoanalisi e la psicoterapia tedesca, e per una piccola porzione della psichiatria tedesca (per quella minoranza della disciplina interessata a un approccio psicoterapeutico).9
f. Ewald ricevette risposte alla lettera dal suo decano, il dottor Stich (cauto consenso e restituzione di documenti), da Conti (disaccordo espresso in forma amichevole) e dal funzionario di Stato, ma a quanto pare non da Heyde o da Matthias Göring.
g. Il capo nazista locale a Mengershausen riferì al Gauleiter di Göttingen che questo paziente ebreo era stato visto ballare con «ragazze tedesche» a feste della chiesa. Questo funzionario scrisse poi a Ewald: «La comprensione del Terzo Reich per le proprietà agrarie non consente in alcun caso la presenza di ebrei su terre agricole tedesche». Inoltre, l’apparizione di quest’ebreo in pubblico aveva suscitato scandalo. Ewald rimandò subito il paziente all’ospedale statale, dopo avere spiegato che gli erano state fatte pressioni da parte delle autorità del Land dello Hannover perché affidasse a famiglie, in terapia del lavoro, il numero più alto possibile di pazienti per ridurre l’onere a carico dello Stato. Inoltre gli agricoltori avevano scarsità di braccia e facevano a gara per avere tali pazienti. Nessun ebreo sarebbe comunque più stato inviato in fattorie.17
h. A proposito di questo fatto c’è della confusione. Nel 1938, al tempo della crisi cecoslovacca, un gruppo di cospiratori, fra cui Hans von Dohnanyi, che era genero di Karl Bonhoeffer, considerò la possibilità di catturare Hitler e di trascinarlo dinanzi a un Tribunale del Popolo per avere messo a repentaglio la sicurezza della Germania cercando di provocare una guerra. Dohnanyi e un altro avevano prodotto una relazione sulle varie infermità di Hitler, che mostrarono a Bonhoeffer nella speranza di indurlo a certificare, direttamente o attraverso una commissione da lui presieduta, che Hitler era pazzo. Un altro tentativo di mettere in discussione la sanità di mente di Hitler condusse a un complotto fra alti gerarchi nazisti durante l’ultimo anno di guerra. Non ci sono prove scritte della partecipazione di Ewald all’uno o all’altro di questi tentativi, ma egli potrebbe essere stato coinvolto in un altro tentativo di un gruppo di psichiatri, su cui non rimane alcuna documentazione, di dichiarare Hitler malato di mente.19
i. Ovviamente anche altri psichiatri laici presero posizione, in un modo o in un altro, contro le uccisioni mediche dirette. Fra questi furono Kurt Schneider (che non va assolutamente confuso con Carl Schneider [vedi pp. 174-176]), Ernst Kretschmer e il professor Karl Kleist, un internista con qualche esperienza psichiatrica, che secondo uno dei medici da me intervistati avrebbe menzionato in una lezione il suo rifiuto di far parte di una commissione per l’«eutanasia» (vedi p. 65). Anche un giovane psichiatra, Theo Lang, avvicinò Matthias Göring e gli chiese di firmare una dichiarazione contro lo sterminio di pazienti mentali. Göring non aderì alla richiesta;22 egli si oppose in almeno altre due occasioni a sforzi miranti a procurarsi il suo appoggio (vedi p. 133). Della resistenza di psichiatri di istituzioni religiose ci occuperemo nella sezione seguente di questo stesso capitolo. Quest’elenco, del resto, non è certamente completo.
j. Bodelschwingh fu in origine un sostenitore del regime e persino un fautore dell’eugenica, esprimendo una «profonda riverenza» per le ricerche in quest’area e accettando il programma di sterilizzazione. Nel suo punto di vista cristiano, però, egli considerò i minorati fisici e mentali come «un monito di Dio all’uomo e un ricordo... della connessione fra colpa ed espiazione».32 Egli usò quel fervore cristiano nella protezione dei pazienti a lui affidati.
k. Pare però che persino lui abbia presentato delle oscillazioni sul problema della sterilizzazione. A quanto pare detestava i mendicanti, con cui aveva a che fare nella sua qualità di amministratore della Società Tedesca per gli Ospizi, e sostenne che li si doveva togliere dalla società e mettere in campi di lavoro, e persino «sottoporre a misure mediche che rendano queste persone non più pericolose per il Volk».35
l. Dopo tale incontro, Gürtner chiese al capo della Cancelleria Lammers se il programma non dovesse essere fermato o reso legale.
m. La Chiesa cattolica nel suo complesso si identificava tradizionalmente meno delle Chiese protestanti con lo Stato tedesco. Benché in alcune aree della Germania i cattolici fossero una maggioranza, i cattolici tedeschi conservavano ancora tracce del loro status «minoritario».
n. L’immagine di von Galen dell’«ingrata Gerusalemme» contiene una sgradevole ironia nel suo evidente riferimento agli ebrei (che si erano opposti al volere di Dio respingendo Gesù). L’immagine potrebbe riferirsi però più in generale a una qualsiasi tendenza ad allontanarsi dal volere di Dio nel corso dell’esperienza ebraico-cristiana; essa suggerisce nondimeno il tipo di sentimento dominante all’interno della dottrina e dell’espressione dei Cristiani tedeschi, che consentì a tale clero di ignorare virtualmente la persecuzione nazista degli ebrei.
o. Bormann fece quest’affermazione in risposta a un dirigente della propaganda nazista che propose di impiccare von Galen. Bormann aggiunse però che «nella situazione di guerra, difficilmente il Führer ordinerà questa misura». Il dirigente rispose lo stesso giorno riferendo una conversazione con Joseph Goebbels, il quale non aveva saputo dargli alcuna risposta sul modo in cui combattere von Galen; il capo della propaganda temeva che, se si fosse fatto qualcosa al vescovo, la popolazione di Münster potesse andare «perduta» durevolmente per il regime e che «ad essa potesse aggiungersi anche tutta quella della Vestfalia». Un memorandum, datato 12 agosto, del ministero della Propaganda, ammoniva che l’adozione di misure contro von Galen avrebbe creato un martire, e che altri vescovi e preti avrebbero ripreso le sue accuse. Soltanto il padre Bernard Lichtenberg, che fu l’unico a condannare la persecuzione nazista degli ebrei, fu arrestato e percosso selvaggiamente; egli morì durante la traduzione a Dachau.49
p. Il dottor Friedrich Meinecke (vedi pp. 198-202) raccontò a un tribunale tedesco dopo la guerra un aneddoto che pensava spiegasse perché si fosse deciso di metter fine al programma cui aveva partecipato come esperto. Un giorno Hitler era in viaggio su un treno speciale fra Monaco e Berlino, quando d’improvviso il treno si fermò in una stazione. Guardando fuori dal finestrino per rendersi conto della ragione di quella sosta, vide una folla che osservava un gruppo di ritardati mentali che venivano fatti salire su un treno. Riconoscendo Hitler affacciato al finestrino, la folla divenne minacciosa.53 Vera o apocrifa che fosse, questa storia ci dice qualcosa sulle percezioni del grado di opposizione al regime.
Benché l’«arresto» del programma sia stato accompagnato da una «campagna di voci» secondo le quali Hitler avrebbe fermato di propria iniziativa un programma di cui non sarebbe stato in precedenza al corrente,54 molte fra le proteste da me discusse sono posteriori al 24 agosto e si riferiscono a un programma che, secondo gli estensori delle proteste, non era stato affatto fermato. L’arresto del programma non solo fu parziale, ma evidentemente contemplava la possibilità di una ripresa.
IV
Per un certo numero di medici... Hitler non aveva solo il potere di comandante in capo in senso politico, ma era anche il medico di rango più elevato.
Viktor von Weizsäcker
Quel che mutò fu solo la dimensione visibile del progetto: la gassificazione su vasta scala dei pazienti. Il T4 cessò ufficialmente come programma, ma questo risultò essere ancora un altro inganno. Le uccisioni diffuse continuarono in una seconda fase, a volte riferita in documenti nazisti come «eutanasia selvaggia» perché i medici – incoraggiati, se non diretti, dal regime – poterono ora decidere di propria iniziativa chi dovesse vivere o morire.1
Benché il regime ordinasse lo smantellamento della maggior parte delle camere a gas (ma per farle ricostruire, come si vide poi, nei territori dell’Est), non fece però nulla per arrestare lo slancio ideologico e istituzionale dell’eccidio medico. Il chiaro messaggio del regime fu, in realtà, che le uccisioni dovevano continuare, ma in modo meno vistoso. E in modo meno vistoso significava con procedimenti più isolati, individuali. I medici continuarono ad agire sulla base di inclinazioni personali e ideologiche, oltre che col senso dell’impulso fornito dal regime. Tale impulso non emanava ora più dalla Cancelleria, che uscì di scena assieme allo stesso programma T4, ma dal ministro dell’Interno del Reich e dalla sua sezione medica nazionale. Ci furono mutamenti nell’ubicazione geografica, ma il regime proseguì a organizzare i trasporti, a chiedere che i decessi di pazienti continuassero a essere documentati negli archivi centrali e in alcuni casi mantenne esperti del programma T4 in un ruolo di parziale supervisione. I pazienti venivano ora uccisi non più dal gas ma dalla fame e da farmaci: quest’ultimo metodo, in particolare, rendeva l’uccisione ancora più «medica».
La decisione di «metter fine» al programma T4 non si estese all’uccisione di bambini. Non ci fu alcun bisogno di cambiare i metodi di uccisione: farmaci e fame, e non gas, erano stati usati fin dal principio. L’uccisione di bambini era sempre stata considerevolmente meno visibile, avendo luogo nelle corsie di istituzioni minori, senza l’eloquente evidenza del fumo tossico e degli odori che emanavano dagli impianti di gassificazione su grande scala. Il programma si era fondato più su presunti motivi eugenici e scientifici che su ragioni economiche dirette (i bambini non lavoravano e mangiavano di meno) e non aveva creato un livello di controversie pubbliche paragonabile a quello suscitato dalle uccisioni di adulti. Semmai, i metodi usati nel riferire su pretese anormalità divennero più sistematici. Anche gli sforzi di ricerca, per lo più studi autoptici, assunsero una maggiore sistematicità, come accadde talvolta nell’«eutanasia selvaggia» di adulti. Non solo il regime rimase strettamente coinvolto, ma la maggior parte delle uccisioni di bambini ebbe luogo dopo la chiusura ufficiale del progetto di «eutanasia». Quel che divenne più «selvaggio» fu il metodo per decidere quali bambini dovessero essere uccisi. Ora fu abbandonata persino la finzione di una revisione dei giudizi medici per mezzo di commissioni di esperti: ogni bambino considerato in qualche misura minorato, e inviato, attraverso il sistema amministrativo, a ciascuna delle «speciali unità pediatriche» del progetto originario, era ancora un candidato legittimo all’«eutanasia». Al di là di questo limite, i medici degli istituti avevano la facoltà di procedere a loro piacimento.
L’«eutanasia selvaggia» degli adulti comportò per gli psichiatri mutamenti più radicali. Non più operatori di camere a gas, essi tornarono all’uso familiare di siringhe, farmaci orali e prescrizioni dietetiche per conseguire lo stesso obiettivo. Dalla burocrazia medica del regime veniva il messaggio continuo che i pazienti psichiatrici erano «mangiapane a ufo», un onere gravoso per lo Stato e per il suo sforzo di guerra, «vita indegna di vita». Il permesso di uccidere era abbastanza chiaro, anche se un po’ indiretto. Come testimoniò in seguito uno psichiatra: «In una conversazione con altri partecipanti al programma, appresi che nessuno avrebbe creato problemi se un medico in un istituto avesse ucciso un paziente con un’iniezione o con una dose eccessiva di un farmaco, qualora egli fosse stato convinto che l’uccisione del paziente fosse desiderabile». Ci fu inoltre una parziale fusione dei programmi di «eutanasia» infantile e adulta, in quanto l’età limite del programma infantile fu portata addirittura a sedici anni: «Questo ampliamento serviva a rimpiazzare almeno in parte il programma decaduto».2 Ci furono, in effetti, casi documentati di pazienti che avevano press’a poco quell’età, i quali erano riusciti a sopravvivere alla fine ufficiale del programma di «eutanasia» degli adulti, solo per essere fatalmente riclassificati come ragazzi (e ricadere quindi nell’«eutanasia» infantile).3a
Lo stesso psichiatra aggiunse: «Ciò tuttavia sarebbe dovuto avvenire senza disposizioni e procedimenti precisi».5 Una tale situazione anarchica dominava in ospedali che erano stati svuotati dai loro pazienti psichiatrici per opera del precedente programma di «eutanasia». La disorganizzazione generale era tale che pochi di questi istituti divennero ospedali per soldati o feriti – quella che doveva essere la loro destinazione originaria –; e nel caso di altri ospedali svuotati, usati per scuole e uffici di vario genere, ci furono lotte per accaparrarseli da parte di vari gruppi. L’impressione generale fu che le strutture divenute disponibili attraverso l’eliminazione dei pazienti psichiatrici contribuissero relativamente poco ad alleggerire gli oneri dello Stato e a favorirne lo sforzo bellico. Il regime, a quanto sembrava, era più abile e sistematico nel fissare le condizioni per le uccisioni che nell’utilizzare gli edifici in tal modo liberati. Inoltre, lo smantellamento dei centri della morte fu tutt’altro che completo, e molti membri del personale del programma di «eutanasia» si attendevano che le gassificazioni fossero destinate a riprendere alla fine della guerra. Le camere a gas di Bernburg, Sonnenstein e Hartheim rimasero pronte a riprendere a funzionare quando ne avessero ricevuto l’ordine.6
Il metodo dell’uccisione per fame fu una logica estensione dello stereotipo ricorrente del paziente psichiatrico come «mangiapane a ufo». Come strumento di morte passivo, questo elemento venne ad accentuare ancor più la situazione di generale abbandono dei malati di mente. In molti luoghi essi ricevevano già da tempo cibo molto scarso; e l’idea di non nutrirli affatto era «nell’aria». Inoltre, la creazione di un nuovo ufficio centrale di contabilità contribuì chiaramente a diminuire la quantità di denaro disponibile a tali istituzioni.7 (La diminuzione del riscaldamento in inverno ebbe cause ed effetti simili.) Il dottor Pfannmüller rispose in modo radicale a tali attese quando istituì il suo metodo di eliminazione per fame dei bambini affidati al suo istituto a Eglfing-Haar. Nel 1943 egli fondò due Hungerhäuser (case della fame) per una popolazione di età maggiore.
Il 17 novembre 1942 il ministro dell’Interno della Baviera tenne una riunione con i direttori degli ospedali psichiatrici di tutta quell’area. Il commissario di Stato per la Sanità, Walter Schultze, chiese ai direttori di fornire una «dieta speciale» (Sonderkost) ai pazienti malati senza speranza. Poiché vari medici esitavano ad applicare quest’idea, qualcuno suggerì che una direttiva ministeriale in proposito avrebbe potuto essere utile. Nessuna esitazione ebbe invece il dottor Pfannmüller, il quale «narrò... in modo teatrale come una volta strappò una fetta di pane di mano a un’infermiera che voleva darlo a un paziente». (Pfannmüller aveva avuto parte nella decisione di tenere la riunione del 1942.) Quella decisione era stata caldeggiata anche dal direttore dell’ospedale psichiatrico di Kaufbeuren, il dottor Valentin Falthauser, che vi aveva diretto il programma di «eutanasia» infantile e che dal 1940 aveva anche svolto la funzione di esperto del programma T4. Falthauser fece circolare il menu di Kaufbeuren: «del tutto privo di grassi», era formato da patate, rape e cavoli (di solito cavoli comuni, a volte cavoli rossi) cotti in acqua. «L’effetto» egli sostenne «dovrebbe essere una morte lenta, che dovrebbe sopravvenire in circa tre mesi.»8
La direttiva fu emanata il 30 novembre, sostenuta, si affermò, da ordini provenienti da Berlino. «In considerazione della situazione alimentare conseguente alla guerra e dello stato di salute dei degenti in ospedali psichiatrici che vi svolgevano dei lavori», non era più giustificato nutrire tutti nello stesso modo, «sia che forniscano lavoro produttivo o siano in terapia sia che, d’altra parte, ricevano semplicemente una forma di assistenza... senza compiere alcun lavoro utile degno di menzione». D’ora in poi avrebbero dovuto essere privilegiati i pazienti che svolgevano un lavoro utile o che erano in terapia, i bambini che avevano capacità di apprendimento, i feriti di guerra, a scapito delle persone incapaci di svolgere qualsiasi lavoro o affette da infermità senili. Ai direttori fu ordinato di mettere in atto «senza indugio» un tale programma.9
Va detto che il numero di pazienti inclusi in questo programma era una frazione minima della popolazione ospedaliera totale. La loro morte avrebbe inciso ben poco sul livello di nutrizione della popolazione tedesca, la quale, in ogni caso, soffrì assai meno privazioni di quante ne avesse sofferto durante la Prima guerra mondiale in conseguenza dei blocchi navali. Eppure nell’istituto di Eglfing, per esempio, la mortalità per cause connesse alla fame, durante la Seconda guerra mondiale, fu doppia rispetto a quella della prima. Inoltre le eccezioni, costituite principalmente da veterani di guerra e anziani, si ebbero in quelle aree in cui la disapprovazione popolare fu massima.10
Pfannmüller e i suoi colleghi ebbero carta bianca sulla scelta dei pazienti destinati alla morte per fame. Non ci furono moduli o questionari da compilare. In effetti, questa «pseudonutrizione», per usare le parole di Gerhard Schmidt, che subentrò come direttore a Pfannmüller a Eglfing alla fine della guerra, era «un metodo di uccisione... che non è un’uccisione nel senso classico, né un’azione svolta in un tempo ben preciso, con una causa o una conclusione riconoscibili».11 Pfannmüller scelse spesso pazienti che erano stati considerati non abbastanza malati per inviarli ai centri di gassificazione. Il motto a Eglfing era: «Noi non diamo loro grassi, così se ne andranno da sé».12 La dieta fu fondamentalmente una copia del modello di Kaufbeuren, con l’aggiunta di una fetta di pane al giorno. Quando questo metodo si rivelava inefficace – anche in considerazione del fatto che a volte, in effetti, il personale della cucina aggiungeva al brodo, contro gli ordini, del grasso o della carne – le razioni venivano ridotte.13
Quando il dottor Schmidt assunse la direzione dell’istituto di EglfingHaar alla fine della guerra, trovò nei due reparti (come mi disse) un totale di novantaquattro sopravvissuti e una scena che non avrebbe mai più dimenticato: «Sale immense, buie... silenziose. Nessun rumore. Niente... Le persone non mostravano alcun segno di vita. Alcuni erano in piedi. Non dicevano niente. Come semicadaveri».b
I medici che si occuparono di questi pazienti sopravvissuti trovarono che avevano allucinazioni di spiriti che venivano di notte e si mangiavano il loro cibo; senso di colpa per aver fatto qualcosa di male per cui adesso venivano puniti; e sogni e fantasie di cibo di ogni genere in quantità illimitate. La lentezza del metodo della morte per fame praticato nei loro confronti indusse molti pazienti a credere di stare ricevendo le stesse razioni di guerra di chiunque altro, e ben pochi parvero rendersi conto di essere stati appositamente prescelti per la morte per fame. Sulla base della documentazione contenuta negli archivi dell’istituto di Eglfing, si stimò che vi fossero morti direttamente o indirettamente per malnutrizione 444 pazienti, spesso in conseguenza di polmoniti, tubercolosi o qualche altra infezione.14
L’uccisione per mezzo di farmaci diede molte più possibilità ai medici. I loro metodi comprendevano iniezioni di morfina, di morfina più scopolamina, oppure compresse, di solito di veronal o di luminal. L’uccisione per mezzo di farmaci di pazienti già indeboliti era il metodo preferito in centri di uccisione ora privati delle loro camere a gas. Il dosaggio appropriato per un’uccisione graduale era stato sperimentato dal dottor Nitsche. Ora, più letteralmente, «la siringa era in mano al medico», o, come accadeva talvolta, di un suo aiutante o di un’infermiera. A volte si era usata la siringa per uccidere anche al culmine del programma T4: per esempio, quando un medico addetto alle uccisioni a Hadamar si era rifiutato di mandare una donna gravida in una camera a gas – anche se essa era stata selezionata secondo tutte le regole – il problema era stato risolto da un’infermiera che aveva praticato alla donna un’iniezione mortale.15
L’anno dopo lo smantellamento della camera a gas (nella quale erano stati uccisi diecimila pazienti in meno di un anno di funzionamento),c divenne primario a Hadamar Adolf Wahlmann, che aveva già diretto l’istituto avanti la Prima guerra mondiale e poi di nuovo alla metà degli anni Trenta. Wahlmann era entrato nel Partito nazista nel 1933 ma poi aveva avuto qualche problema col partito per il fatto di sentire come prioritario il suo impegno verso un coro di una chiesa di cui era direttore.17 Richiamato in servizio all’età di sessantasei anni, quando era già pensionato, per lavorare in un ospedale psichiatrico, prima di essere trasferito a Hadamar, sostenne in seguito al suo processo, a Francoforte, di non essere stato al corrente delle uccisioni prima del suo arrivo all’istituto. Vera o falsa che fosse la sua affermazione, quando Wahlmann arrivò a Hadamar il direttore amministrativo stava già dando gli ultimi tocchi a un procedimento di uccisioni, in cui ci si attendeva che il primario ordinasse al capoinfermiere di uccidere i pazienti di sesso maschile e alla capoinfermiera di fare lo stesso con le malate a lei affidate. Informato di quel procedimento dal direttore dell’istituto, Wahlmann si rifiutò di praticarlo indiscriminatamente, insistendo sull’opportunità di fare le cose con più metodo: ossia in un’ottica medica. Egli sviluppò il suo sistema «professionale»: osservava i pazienti al loro arrivo, faceva giri di visite tutti i giorni e studiava la documentazione clinica. Alla mattina teneva poi delle riunioni in cui queste osservazioni venivano considerate assieme alla documentazione clinica dei pazienti, dopo di che si decideva chi dovesse essere ucciso e quali farmaci e in quali dosi si dovessero usare. In queste riunioni si firmavano anche i certificati di morte e si stabilivano cause di morte plausibili per i pazienti già uccisi. Gli ordini di uccidere venivano trasmessi dal capoinfermiere e dalla capoinfermiera, presenti alle riunioni, agli infermieri e infermiere in reparto, che li eseguivano. La «somministrazione dei farmaci» (di solito fra sei e venti compresse di luminal, di trional o di un preparato affine) avveniva di solito di sera; i pazienti che la mattina seguente non erano morti ricevevano iniezioni mortali di morfina-scopolamina. Col tempo questo metodo divenne una routine, e si passò a fare un maggiore affidamento sulle iniezioni e sulla capacità di giudizio degli infermieri nel decidere le dosi necessarie di barbiturici o della morfina-scopolamina da iniettare a pazienti il cui nome era stato incluso nell’«elenco» speciale.18d
Una volta calatosi nel processo di eliminazione, il dottor Wahlmann scoraggiò un capoinfermiere dal volerlo mettere in discussione. E con l’arrivo, nel 1944, di lavoratori polacchi e russi diagnosticati per lo più categoricamente come «tubercolotici», il procedimento di uccisione si automatizzò. L’unico esame eseguito su di loro da Wahlmann o da qualsiasi altro medico fu fatto, dopo che essi ebbero ricevuto le loro dosi mortali, allo scopo di confermare la loro morte. Al processo Wahlmann giustificò tale situazione spiegando che i russi e i polacchi «ci erano stati mandati da specialisti i quali affermavano che erano inguaribili e dovevano ricevere l’eutanasia lo stesso giorno»; e disse che egli non era «uno specialista [della TBC]».20 Per assicurarsi la cooperazione dei pazienti per l’iniezione, secondo un ex infermiere, «Dicevamo loro che era per curare la loro malattia polmonare».21e Gli appunti presi da questi infermieri venivano portati alle riunioni del mattino di Wahlmann, dove questi doveva decidere una causa di morte falsa ma plausibile «da scrivere alla fine di tali casi clinici», com’egli si espresse in seguito.23
Nella sua deposizione al processo, Wahlmann insistette su princìpi medici concernenti particolari come i criteri usati per determinare il dosaggio mortale di iniezioni: «Ci sono forti differenze [da una persona all’altra]. Se una persona è molto forte, devo usarne di più. Se una persona è abituata alla morfina, devo usarne moltissima. Se una persona è molto debole, basta pochissima». Wahlmann non riusciva a ricordare esattamente quando avesse cominciato a usare le iniezioni, se «le ordinai [cominciai a ordinarle] a quel tempo, o se allora le facessimo in generale»; ma sottolineò che «l’iniezione è un metodo completamente indolore, e il termine eutanasia deriva dal greco eu, che significa bello».24
L’uccisione per mezzo di farmaci, quindi, era la forma più «medica» di tutte. Potevano esserci «riunioni» nelle quali i medici discutevano la «terapia», ordinavano l’uccisione mediante la somministrazione di farmaci e prendevano altre decisioni «cliniche» a seconda dell’effetto di tali farmaci. Con l’inizio dell’«eutanasia selvaggia» il medico poté affidare la siringa a un infermiere, ma assunse un’autorità ancora maggiore nel decidere quando e in che modo la siringa o una qualsiasi altra somministrazione di farmaci potesse essere usata. L’«eutanasia selvaggia» può essere intesa come una continuazione, in forma ancor più accentuatamente medica, del progetto di «eutanasia». Una semplice tecnologia medica – farmaci, iniezioni, diete – colmò il vuoto determinatosi nell’esecuzione del programma di sterminio quando il persistente desiderio del regime di distruggere «cattivi» geni fu affidato all’interazione fra burocrazia medica nazista e singoli medici nazisti. Il processo continuò sino alla fine del regime nazista, e in alcuni luoghi addirittura oltre: ci sono relazioni su truppe alleate che riuscirono a liberare pazienti sopravvissuti proprio mentre stavano per essere fucilati.25
a. Verso la fine del 1944, ai direttori di vari istituti pediatrici del Comitato del Reich fu detto, in una riunione a Berlino, di includere nel loro programma di eliminazione anche degli adulti. Non fu data nessuna ragione per giustificare questo provvedimento, ma fu detto loro di tralasciare le procedure usuali, in quanto avrebbero comportato «perdite di tempo eccessive». Ai medici delle istituzioni fu data l’autorità di eseguire la selezione. La dottoressa Hildegard Wesse, dell’istituto di Uchtspringe, ricordò in tribunale di essersi resa conto che questo era un ordine straordinario, ma di avere pensato che «quelli di Berlino» dovevano aver preso questa decisione sotto la pressione della guerra. Uchtspringe aveva allora duemilacinquecento pazienti, e nuovi trasporti arrivavano ogni giorno dall’Est. Il dottor Walter Schmidt, capo di una piccola sezione infantile a Eichberg, ricordò «alcune cosiddette autorizzazioni speciali (Sonderermächtigungen)»: si trattava di adulti con malformazioni gravi che arrivavano con la documentazione del Comitato del Reich, comprendente spesso una richiesta di uccisione da parte della famiglia.4
b. Da tale spettacolo prese l’avvio lo studio delle uccisioni mediche da parte di Schmidt, studio che si può considerare la missione personale di un medico antinazista sopravvissuto.
c. La decimillesima vittima a Hadamar era stata celebrata come una pietra miliare, come riferì un impiegato. Invitati da un medico del programma T4, di nome Berner, i dipendenti dell’istituto ricevettero quella sera una bottiglia di birra ciascuno, dopo di che passarono nel sotterraneo. «Ivi, su una lettiga, giaceva un cadavere maschile nudo, con una grossa testa idrocefala... Sono certo che era una vera persona morta e non un cadavere di cartapesta. Il morto fu messo dal personale addetto alle cremazioni
su una sorta di conca e poi spinto nel forno. Poi [il direttore] Märkle, che tendeva a spacciarsi come una sorta di ministro del culto, tenne un sermone funebre.» Un altro testimone riferì che la celebrazione, comprendente musica, degenerò in una processione di persone sbronze nei giardini attorno all’istituto.16
d. Vari infermieri e dipendenti non medici, che talvolta somministrarono ai pazienti le compresse, furono colpiti da stati ansiosi per ciò che stavano facendo, ma pare che i più abbiano continuato a compiere il loro lavoro e a scaricarsi la coscienza pensando che stavano solo eseguendo degli ordini. Una dipendente fu colta da quello che fu descritto come un «esaurimento nervoso» e ricevette una licenza per malattia di sei settimane; al suo ritorno fu però riassegnata allo spogliatoio (che era stato la causa primaria della sua infermità), con la spiegazione che questa esperienza l’avrebbe «indurita»; essa vi rimase per un po’ di tempo, ma poi riuscì a dimettersi sostenendo di essere incinta.19
e. In uno dei processi, la capoinfermiera, quando le fu chiesto se ritenesse che i russi e i polacchi fossero stati assassinati, rispose: «Assassinati? Come vuole che io capisca se siano stati assassinati? Morirono dopo avere ricevuto delle iniezioni». Ma, in risposta a domande insistenti se a suo giudizio si fosse trattato di omicidio, rispose: «Sì».22
V
Determinati... a intervenire terapeuticamente per conseguire guarigione e salute per tutti, colmi del desiderio di mettersi primariamente al servizio della comunità, e di rabbia impotente per l’inaccessibilità terapeutica di un numero così grande di malati di mente, psicopatici e criminali abituali (ossia gli ebrei!), essi [gli psichiatri] passarono in realtà dall’individuo al «corpo nazionale» (Volkskörper) per pervertire metaforicamente il «trattamento» (Behandlung): per fare dello sterminio (Sonderbehandlung: «trattamento speciale») la perfezione del risanamento.
Klaus Dörner
Il dottor Horst D. lavorò al centro delle uccisioni per circa un anno e, al tempo dei nostri incontri, era coinvolto in un complesso procedimento legale non risolto. Uomo vigoroso, con barba, di età non molto superiore ai sessant’anni, lo trovai teso, prudente e limitato nella sua capacità di esprimere sentimenti: egli aveva un forte desiderio di spiegare il suo comportamento e al tempo stesso era in conflitto con se stesso circa la sua stessa spiegazione.
Egli pensava di essere stato assegnato al programma T4 in conseguenza di una raccomandazione fatta a Heyde da un amico con cui, ai tempi dell’università, aveva studiato psichiatria per un semestre. Anche il suo entusiasmo giovanile per i nazisti, assieme alla sua esperienza militare e alla sua inesperienza medica, devono avere avuto una parte nella sua assegnazione. Come altri, era stato sollecitato a prestare il servizio militare prima di completare la sua tesi di medicina,1 ma rimase frustrato dato che non aveva praticamente niente da fare «e non c’era assolutamente medicina». A quel punto, alla metà del 1940, «mi fu detto di andare a Berlino e di presentarmi alla Cancelleria del Führer», senza avere «assolutamente alcuna idea di che cosa ciò significasse, di che cosa si trattasse». Presentatosi là, questo medico molto giovane e inesperto ebbe un incontro che lo impressionò molto:
Fui presentato a due professori di psichiatria. Uno era Heyde e l’altro Nitsche. Entrambi erano in abiti civili... e parlavano di eutanasia. Parlarono di questo problema dal punto di vista dell’opera di Hoche e Binding [vedi pp. 73-75]... Fu un colloquio molto intenso, nel corso del quale mi dimostrarono la necessità... di tutto questo, e mi convinsero.
Il dottor D. rimase così impressionato dal tono di quieta «persuasione» di Heyde e Nitsche e dalla situazione «del tutto... straordinaria» di sedere assieme a uomini di tale rango professionale, che poté facilmente addossare loro la responsabilità di ciò che gli veniva chiesto di fare: «Ogni volta che una persona [di quel livello] intraprende quel tipo di cose, ciò significa che si assume una bella razione di responsabilità. Io pensavo che egli [Heyde] fosse ben consapevole di ciò che stava facendo e della responsabilità che ciò comportava».
Il colloquio comprese una discussione dei concetti di Roche e Binding (introdotti dai due professori), nozioni che, pur non essendo specificatamente familiari a D., non erano in contrasto con l’insistenza sulle influenze organiche ed ereditarie a cui egli si era interessato all’università nello studio della psichiatria. In generale, questo incontro con Heyde e Nitsche stimolò la sua propensione verso l’obbedienza: una propensione che gli era stata inculcata nella sua infanzia rurale, soprattutto dal padre che era un funzionario dello Stato. E quando il dottor D. chiese a Heyde e a Nitsche se potesse discutere l’argomento con un vecchio amico di cui aveva molta stima, si sentì rispondere bruscamente che «l’intera questione era segretissima».
Egli ne ricavò l’impressione che il progetto gli offrisse opportunità mediche migliori di quelle presenti nella situazione militare in cui si trovava allora:
Mi si prospettò un dilemma terribile. Da un lato c’era l’inoperosità militare, con la probabilità che d’un tratto potessi venire a trovarmi in una situazione medica superiore alle mie forze. Era terribile... Dall’altro, non pensavo che fosse solo un’istituzione di sterminio. Pensavo che avrei avuto un’opportunità di proseguire il mio tirocinio medico – con pazienti – e che solo certi pazienti sarebbero stati selezionati, e anche quelli non semplicemente uccisi ma sottoposti a una morte pietosa... In ogni modo, fu decisivo il mio desiderio di fare il medico e non solo il soldato.
O almeno poté convincersene, in parte e temporaneamente, fino a quando non arrivò in quello che era un vero e proprio centro di sterminio: «Ebbi una grande delusione nel vedere che non c’erano pazienti... Mi immaginavo un’istituzione con pazienti psichiatrici, e con camere singole nelle quali venisse eseguito uno speciale trattamento... Ma i pazienti, quando arrivavano, venivano mandati direttamente nella camera a gas».
In D. si sviluppò allora un conflitto in relazione ai pazienti che dovevano essere uccisi. Pur dicendo che molti di loro erano effettivamente in una «condizione disperata» e davano l’impressione di vivere «in un mondo diverso», egli riconobbe anche che «qualche volta si riusciva a stabilire una qualche sorta di contatto»; e ammise, con esitazione, che in certi momenti «poteva essere accaduto» che egli provasse per loro anche della simpatia. Tale simpatia, e il senso di colpa risultante, si riflettevano di tanto in tanto in sogni e immagini in cui «vedo ancora dinanzi a me... un gruppo di persone... [e] pensavo che avrei dovuto salvarle, che avrei dovuto aiutarle». Egli confondeva tali sogni con ricordi reali di «un gruppo di persone che erano venute da molto lontano, e non so chi le avesse giudicate». Dopo avermi detto questo fece una pausa e aggiunse, con un certo turbamento: «Qui la cosa sta diventando pericolosa», perché «dire questo, dal punto di vista degli avvocati, significa che ho provato sensi di colpa»; una tale ammissione avrebbe infatti potuto dare un fondamento all’accusa di essere stato consapevole, a quel tempo, di uccidere ingiustamente delle persone, anziché agire in conseguenza di una convinzione medica genuina: «Quello che ho appena detto potrebbe significare per me, legalmente, la pena di morte».
Al suo senso di disagio e di colpa contribuivano anche i suoi dubbi «sul modo in cui la cosa era stata portata avanti»:
Erano tanti, in così gran numero, quelli di cui ci si doveva occupare subito, non intendo dire solo il numero..., ma non erano uno per volta... Avevo immaginato che sarebbe stata una sorta di procedimento individuale... uno per volta. Invece... fu fatto come un lavoro di massa... Io penso che in termini umani sia diverso se ci si occupa di qualcuno che deve subire questa sorte instaurando con lui un rapporto individuale... o se invece si procede per gruppi formati da un così gran numero di persone.
In altri termini, il metodo di uccisione non gli permetteva di continuare a illudersi che quello che stava facendo era un lavoro medico: «Ero io ad averlo fatto!» e «Chi vorrebbe fare un lavoro del genere?».
A proposito delle sue attività come medico in uno dei centri della morte, il dottor D. disse che esaminava i pazienti e le loro cartelle cliniche per scegliere una «causa di morte fittizia» e per «sovrintendere» all’intero processo. Quando gli chiesi se fosse suo compito come medico abbassare la leva per erogare il gas, si agitò moltissimo e mi chiese con irritazione: «Che cos’ha a che fare questo con questioni psicologiche?», lasciando intendere che io mi stavo comportando come un avvocato o un pubblico ministero e che avrei potuto avere addirittura qualche connessione col suo processo. Quando si fu calmato mi rispose, in modo ambiguo, che i medici dovevano «accertare se il gas avesse fatto effetto» così che «il personale tecnico potesse chiudere il gas». Pur non negando né confermando che era lui ad aprire il gas, mi lasciò l’impressione che fosse effettivamente lui: una conclusione che trassi non solo dalla sua risposta a quel tempo, ma anche dalle attività note di altri medici in centri di eliminazione.
Il dottor D. si adattò al suo lavoro per mezzo di due manovre psicologiche: il trasferimento di responsabilità e il perseguimento della conoscenza scientifica. Egli rinunciò coscientemente alla responsabilità: «Dissi [a Heyde] che non potevo assumermi nessuna responsabilità perché sapevo di non essere qualificato come medico» e «Heyde disse: “Benissimo, lei non avrà responsabilità”», sottolineando che professori e specialisti avrebbero eseguito valutazioni accurate e che «sarebbe stato il comitato a prendere la decisione finale». La sua responsabilità, si sentì dire il dottor D., sarebbe stata quella di «rendere questo servigio... veramente prezioso al collega responsabile» del centro di sterminio. Era solo una questione di lealtà e di sacrificio poiché, come giunse a convincersi, «anche i soldati al fronte dovevano fare cose spiacevoli». Egli non sarebbe stato responsabile verso i pazienti, ma verso il suo superiore, il suo paese, la sua razza.
E la responsabilità divenne inscindibile dal suo rapporto con l’autorità del regime: «L’intero sistema emanava tale autorità. Ci piacesse o no, essa ne era parte... Non avevo scelta. Ero preso in questa rete, questa rete di autorità... Se avessi parlato a qualcuno [in termini generali sulla possibilità di andarmene] mi avrebbero detto: devi restare dove sei..., dove c’è bisogno di te. Non creare problemi all’organizzazione».
L’opportunità per il suo secondo modo di adattamento gli fu fornita dalla visita al centro di sterminio di un importante neuropatologo tedesco, che desiderava procurarsi cervelli per le sue dissezioni. Il dottor D. «considerò questo fatto... un’opportunità» per sottoporre al visitatore la possibilità di fondare un «dipartimento di patologia» al centro di sterminio, e per trascorrere qualche settimana nel dipartimento del professore «allo scopo di farsi un’idea migliore delle cose ed essere meglio preparato per questo compito». D. vide in questo fatto una possibilità per rimanere per qualche tempo lontano dal centro di sterminio, come avrebbe cercato di fare ogni volta che se ne fosse offerta la possibilità. Ma si immerse anche nel suo compito, studiò la storia clinica dei pazienti «e cercò di trovare quelli il cui cervello potesse risultare interessante», in accordo con gli interessi di ricerca del professore. A D. fu assegnata addirittura come assistente un’infermiera, per aiutarlo in quello che egli venne a vedere come un «lavoro preparatorio... destinato a rendere possibile l’ulteriore lavoro di ricerca». Egli giunse infine inevitabilmente a vedere in se stesso una persona che svolgeva un lavoro utile alla scienza, e a vedere il suo dovere nel «salvare quelle cose che potrebbero avere ancora un valore scientifico... per la psichiatria in generale... [così che] lo studio di quei cervelli potesse permetterci di avvicinarci alla comprensione di malattie, e ovviamente alla cura di tali malattie». Egli aggiunse con orgoglio che «l’Istituto di Berlino diede riconoscimento a questo... lavoro».
Horst D., in altri termini, aveva trovato un modo per collegare il lavoro di uccisione con la ricerca medica e per convincersi che stava facendo il suo dovere, qual era definito sia dal suo gruppo di appartenenza immediato sia dalla «scienza». O, per esprimerci in un altro modo, un nuovo senso di servire la medicina e la scienza gli permise, psicologicamente, di proseguire nel suo lavoro di uccisione.
D. accolse con sollievo la cessazione ufficiale del programma, dopo di che fu riassegnato all’esercito per l’anno di guerra che ancora rimaneva. Nel 1945 cominciò a praticare la professione medica, prese «uno speciale piacere a dare la vita» e descrisse come «feci venire al mondo dei bambini nel cuore della notte». Il fatto di lavorare al servizio della vita contribuì ad alleviare un senso di colpa residuo che egli provava solo indirettamente. Egli si sentiva «un po’ a disagio» quando, trovandosi in compagnia di altre persone, e specialmente di quelle che si affidavano alle sue cure, si chiedeva «che cosa penserebbero quelle persone se sapessero quello che ho fatto». Quando infine fu portato in tribunale, sentì in questa esperienza – per quanto dolorosa – «una sorta di sollievo» in quanto finalmente si affrontava il problema: «Non avevo più niente da nascondere. Potevo guardare in faccia chiunque». Sperava «di potermi davvero lasciare alle spalle tutto ciò»; ma il processo andava per le lunghe, nonostante la sua iniziale assoluzione, perché lo Stato aveva interposto appello contro il giudizio di prima istanza.
Oltre a esercitare regolarmente la professione medica, il dottor D. sviluppò un vivo interesse per la psichiatria contemporanea, mettendo a confronto le «grandissime possibilità» attuali di questa disciplina di aiutare le persone con il «vicolo cieco» in cui essa era venuta a trovarsi in passato, quando «tutti condividevano l’opinione comune che la vita di questi pazienti fosse già finita, che queste persone fossero, per usare le parole di Hoche, dei “gusci vuoti”». D. sottolineò che i principali esponenti della psichiatria di oggi hanno la responsabilità di «evidenziare l’essere umano nel paziente, così che ci si senta in obbligo di aiutarlo e non lo si consideri come una cosa di cui ci si possa liberare (abschieben)». Sottolineando che, in passato, «il professore era per me l’autorità suprema», dichiarò amaramente che «non avrei mai potuto pensare che un professore, in qualsiasi campo, si attendesse che uno studente o un collega giovane facesse qualcosa che travalicasse i confini dell’etica umana».
A proposito dell’«eutanasia», o di un qualsiasi programma simile a quello condotto dai tedeschi durante la guerra, egli fu chiaro: «Oggi non darei il mio assenso a un tale programma... Chi farebbe il lavoro che ci si era attesi da me?... Chi vorrebbe assumersi la responsabilità delle decisioni?».
L’esperienza di Horst D. compendia la tendenza dei medici nazisti a provare conflitti per le uccisioni, ma a trovare nello stesso tempo dei modi per lenire tali conflitti nell’adattamento a un ambiente omicida. Il suo successivo atteggiamento, nonostante un occasionale barlume di esame di coscienza, rimase ben lontano da un autentico confronto morale.
Un altro medico che aveva lavorato in un centro di sterminio, Wolfgang R., sperimentò circostanze psicologiche molto simili a quelle del dottor D., ma pervenne a una conclusione significativamente diversa: R. riuscì infatti a smettere di fare quel lavoro dopo un mese.
Alto e sottile e di modi accattivanti, R., durante la nostra intervista, fu loquace ma consapevole del fatto che, pur essendo generalmente estroverso, «ogni volta che parlo di questo argomento... le parole non mi vengono facilmente».
Il suo entusiasmo originario per i nazisti – e specialmente per i militari – superò persino, secondo la sua descrizione, quello del dottor R. si riteneva in effetti «predestinato» alla vita militare a causa della forte tradizione militare della sua regione e fu tra i primi studenti che si arruolarono nella nuova Wehrmacht (le forze armate di cui Hitler era il comandante supremo). «Attribuivo alla Wehrmacht un valore molto speciale.» Egli usò parole come «idealistico» e «libero» per descrivere ciò che egli e altri giovani provavano nel partecipare al movimento nazista giovanile, nell’offrirsi come volontari per il lavoro del reinsediamento di tedeschi etnici dall’Europa orientale, e nel vivere nel modo più pieno il «bel tempo» di quando era stato uno studente nazista. Ricordò però un momento di dolore quando un insegnante ebreo molto popolare del suo Gymnasium [liceo-ginnasio] fu trattato brutalmente e allontanato nella Kristallnacht [la notte dei cristalli], fra il 9 e il 10 novembre 1938, quando in tutta la Germania case e negozi di ebrei furono saccheggiati, dati alle fiamme e distrutti, e molti ebrei furono uccisi o imprigionati. Il dottor R. disse del suo insegnante: «L’espressione del suo volto era... profondamente triste... Non riuscirò mai a dimenticarla».
Come il dottor D., anche il dottor R. era stato convinto ad arruolarsi prima di completare la sua tesi di laurea, ed ebbe il piacere di trovare nell’esercito un medico suo insegnante con cui istituì rapporti molto stretti. Dopo un periodo di combattimento (in cui se la cavò molto bene) e poi uno di pausa (in cui ebbe ben poco da fare), il dottor R. fu convocato e gli fu detto che gli sarebbe stata assegnata una posizione civile «indispensabile» alla Cancelleria del Führer. Eccitato da questa prospettiva, e accompagnato dalle congratulazioni e dagli auguri di tutti, «smisi la mia bella uniforme» e si presentò a Berlino. Ma anziché ricevere istruzioni da Heyde o da qualcun altro dei dirigenti psichiatrici del progetto, fu inviato direttamente al centro di sterminio in cui avrebbe dovuto lavorare, e catechizzato sul posto dal medico che dirigeva il centro, che era un professore di medicina non psichiatra e ardente nazista. Quest’ultimo inculcò in R. la legalità del programma e la sua priorità come ordine diretto del Führer, dicendogli che il progetto veniva applicato solo a pazienti mentali completamente chiusi in se stessi che erano stati selezionati con cura da professori autorevoli, che il progetto era necessario in tempo di guerra per economizzare cibo e che era stato legittimato teologicamente persino da un prete della Chiesa cattolica, il quale aveva affermato che in certi casi l’«eutanasia» era moralmente giustificabile. Il dottor R. aveva assistito ad alcune lezioni di Heyde alla facoltà di medicina, e il fatto che il nome del professore venisse attivamente invocato «contribuì a rassicurarmi».
Quest’insistenza sull’accettazione di una giustificazione morale, occorre tenerlo in mente, è in accordo con la difesa legale di R., così come la sua affermazione di non essere stato turbato dalle uccisioni perché era stato più o meno convinto che fossero dettate da buone ragioni. Un altro fattore della sua insensibilità potrebbe essere stato il fatto che, in quanto medico militare, era «abituato a vedere la morte». Quel che chiaramente lo urtò fu il fatto di trovare nel centro della morte «qualcuno che non aveva la benché minima idea della psichiatria». Egli ne fu amaramente deluso: «Avevo immaginato di poter lavorare come medico sotto la guida di medici esperti» e invece era stato «tirato fuori dalla Wehrmacht» e «messo in un posto sbagliato per me».
Andò dal medico capo e gli disse che, mancando di una qualsiasi formazione o interesse nel campo della psichiatria, non era in grado di fare quel lavoro: non era «il lavoro giusto per me». R. riuscì addirittura a farsi ricevere da Heyde e da Brack alla Cancelleria, disse loro la stessa cosa e gli fu offerto immediatamente un altro incarico «senza... nessuna difficoltà».
Egli fu evasivo sui particolari di ciò che fece al centro di sterminio. Pur ammettendo che esaminava i pazienti e la loro cartella clinica per preparare cause di morte plausibili, insistette che fu «escluso» dal processo reale di uccisione per aver tentato molto presto di andarsene, pur essendo stato implicato nella morte di molti pazienti.
Nonostante le sue veementi assicurazioni («No, non ebbi mai la sensazione di disertare, no, per niente») – e in parte proprio a causa di esse –, io sospetto che questo ardente nazista, che amava le forze armate e credeva nell’obbedienza, abbia provato un senso di colpa considerevole nell’andarsene dal centro di sterminio. Parlando dei suoi sentimenti di allora, sottolineò che si era «servito di quel periodo per cercare di imparare il più possibile sulla psichiatria», anche se sapeva che «la cosa potrebbe sembrare macabra». Qui il dottor R. assomiglia al dottor D. nel cercare di minimizzare il senso di colpa concentrandosi sull’esperienza medico-scientifica, anche se nel caso di D. il senso di colpa concerne non solo la sua attività nel centro di sterminio ma anche il suo desiderio di «disertare» dalla posizione che vi occupava.
Andandosene dal centro, R. non era affatto in cattiva luce col regime. Per un po’ di tempo gli fu affidato il compito di ricostruire la storia familiare di aspiranti ufficiali delle SS allo scopo di stabilire se il loro albero genealogico non fosse stato contaminato da sangue ebraico o da malattie ereditarie.a
In seguito, però, nel dopoguerra, egli concepì un risentimento sempre maggiore nei confronti dei dirigenti medici nazisti che lo avevano ingannato. Parlò delle loro manovre definendole «perfide», e dell’intero procedimento come di una «faccenda del tutto ingannatrice». E durante il processo in tribunale, quando uno dei dirigenti psichiatrici del programma depose sul fatto di scrivere «Sì» o «No» sui questionari, R. si sentì preso da una tale collera che avrebbe voluto gridare a quell’uomo: «Voi facevate uccidere delle persone senza nemmeno vederle!». R., di fatto, attribuì a quei sentimenti una sua successiva infermità: «Ero così furioso che ebbi un attacco di cuore». In quell’accesso di collera, e nel descrivermi la situazione, egli espresse il profondo risentimento della persona dipendente verso autorità che lo avevano abbandonato e avevano abusato di lui, un risentimento che lo induceva ancora ad attribuir loro, e non a se stesso, la responsabilità per ciò che egli aveva fatto. Egli continuava infatti ancora a chiedersi se non avrebbe potuto abbandonare il programma ancor prima; e quando gli chiesi quale consiglio darebbe a dei medici giovani per evitare che potessero cedere in futuro a un qualche tipo di progetto del genere, rispose subito: «Consiglierei loro di andarsene, di non restare in programmi del genere!». Di non restarvi neppure per un minuto, parve dire, per non diventare complici delle uccisioni. E, esprimendosi con forza ancora maggiore: «Oggi mi farei fucilare, piuttosto che partecipare a un’azione del genere».
Il suo atteggiamento era stato influenzato dalla domanda che gli ponevano di continuo i suoi figli: «Perché non te ne sei andato [prima]?». La sua risposta, che mi diede tristemente e che aveva dato senza dubbio anche ai suoi figli, fu: «A quel tempo, semplicemente, non ci ponevamo domande». Egli contrappose con approvazione l’insistenza della nuova generazione nel mettere in discussione ogni cosa e la fede totale che lui e i suoi contemporanei avevano in Hitler.
Egli espresse infine il suo senso di colpa residuo in altri due modi. Disse: «Una cosa che mi opprime ancora [è che il progetto di «eutanasia»] fu un’esperienza che servì a preparare il successivo sterminio; [com’egli infatti sapeva] durante questo processo si insegnò ai Desinfektoren (disinfettori) [come uccidere] e queste persone lavorarono in seguito in campi di concentramento nell’Est».
Egli pose a se stesso anche una domanda inquietante, «il problema che non so risolvere». La domanda era: «Come avrei reagito... se avessi avuto una preparazione psichiatrica e avessi fatto del lavoro psichiatrico alla Wehrmacht, e poi fossi stato mandato in quel centro..., se fossi stato l’uomo giusto al posto giusto?». Egli lasciò intendere che forse avrebbe potuto rimanere, perché «a quel tempo Hitler era per noi ancora il Führer... Hitler non avrebbe potuto commettere un errore».
Eppure Wolfgang R. riuscì ad andarsene dal centro di sterminio e noi dobbiamo chiederci perché egli riuscì a compiere almeno questo passo, mentre il dottor D. non vi riuscì. Non possiamo dirlo con certezza, ma la domanda che il dottor R. pose a se stesso suggerisce due fattori probabili: la sua maggiore vulnerabilità al senso di colpa e il suo intenso interesse per problemi tecnici. A proposito di quest’ultimo fattore, vedremo ripetutamente che l’affermazione dei propri limiti tecnico-professionali era il modo migliore per un medico (o per chiunque altro) per evitare di prender parte a un progetto nazista. Ma sembrava che il dottor R. volesse dirmi che il suo senso di disagio per essere stato cacciato in una situazione nella quale si dovevano uccidere delle persone non sarebbe stata una giustificazione interiore sufficiente per rifiutare un incarico importante che gli veniva dal Führer, mentre il suo senso di una reale limitazione tecnica (psichiatrica) poteva sia contribuire ad accrescere quel senso di disagio sia fornire quella giustificazione. C’era poi un ulteriore fattore che, per una curiosa ironia, potrebbe essere stato il più importante di tutti: l’intensa idealizzazione del regime: lo straordinario attaccamento del dottor R. sia ai nazisti sia ai militari tedeschi. Questa idealizzazione poté trasformarsi in una delusione profonda quando si trovò a essere confrontata col progetto nazista di «eutanasia», e specialmente quando si chiese a un medico «impreparato» di prendere parte a esso.
In relazione ai programmi T4, diversi psichiatri da me intervistati descrissero varie combinazioni di conoscenza e confusione, e di cooperazione assieme a gesti di resistenza.
Il dottor Günther E., che aveva lavorato in alcuni degli ospedali statali in cui prestavano allora servizio la maggior parte degli psichiatri tedeschi, rappresentò uno dei tipi di risposta forniti dalla bassa forza della psichiatria. Quando lo conobbi era un vecchio che viveva ritirato in campagna: dapprima amichevole e ben disposto a collaborare, si trovò sempre più a disagio nel corso dell’intervista, man mano che riemergeva l’atmosfera del periodo nazista.
Il dottor E., che non era mai stato un ardente nazista ma che aveva avuto un atteggiamento amichevole verso il regime, aveva considerato il programma di sterilizzazione «una cosa utile» essendo d’accordo con la tesi del regime che «lo Stato doveva fare qualcosa per garantire un’eredità sana». L’unica sua riserva era che il programma era diventato troppo politicizzato.
Sembrava che egli avesse visto similmente di buon occhio il programma di «eutanasia» – che, com’egli sottolineò, «era un termine medico» – ma concepì un atteggiamento critico verso di esso quando cominciò ad assomigliare di più a «un’azione politica». Egli descrisse la confusione sua e dei suoi colleghi quando erano stati tolti loro dei pazienti per avviarli «a una destinazione ignota»: solo dai parenti aveva poi appreso che quei pazienti erano «morti molto presto» in istituti specifici. Nell’apprendere la verità «rimasi indignato..., impaurito nel pensare che ciò stava accadendo in uno Stato ordinato». Egli e i suoi colleghi si sforzarono allora di trovare modi per salvare delle persone (evitando le diagnosi di schizofrenia, trasferendo i pazienti in istituti privati meno soggetti al progetto di «eutanasia» o inviandoli a casa), ma per lo più cooperarono anche se limitavano tale cooperazione a ciò che consideravano inevitabile. L’orientamento generale degli psichiatri variò fra l’«opposizione» e l’«indifferenza». Gli indifferenti sembravano essere la maggioranza e «accettarono [il progetto]. E poiché esso era una politica di Stato, non desideravano opporvisi». Molto dipese dall’atteggiamento dei direttori di ospedale e delle autorità medico-amministrative locali, fra i quali c’erano «nazisti radicali» che premevano per un’obbedienza totale mentre altri cercavano di ridurre al minimo il numero dei pazienti da avviare ai centri di «eutanasia».
Il dottor E. continuò spiegandomi che lui e altri psichiatri impararono a distinguere fra le opinioni «disoneste» provenienti da quelli, fra gli esperti, che operavano sulla base di una «motivazione meramente politica» e i giudizi «onesti» rilasciati da quegli esperti, in numero molto minore, che fondavano le loro opinioni su genuine considerazioni mediche. Mentre egli parlava, mi resi conto che proprio l’insistenza su questa distinzione aveva permesso a lui e ai suoi colleghi di evitare di riconoscere verità morali concernenti il progetto di «eutanasia»: di evitare di riconoscere che proprio quelle che essi consideravano «opinioni mediche oneste» sugli schizofrenici o sui deficienti mentali stavano diventando la base per lo sterminio di questi pazienti. Eppure il suo dolore visibile nel discutere questi argomenti suggeriva che non aveva potuto evitare di pervenire infine a tale riconoscimento, un riconoscimento che si era probabilmente affacciato già allora.
Dopo una conversazione di poco meno di due ore, egli mi chiarì espressamente che non desiderava aggiungere altro: «Ho quasi ottant’anni e... non voglio avere nient’altro a che fare con quel periodo... Non voglio pensarci più».
La storia del dottor E. è quella di un funzionario psichiatrico di mezza età, che svolge i suoi compiti nel sistema statale con lealtà e obbedienza. Benché il progetto di «eutanasia» fosse troppo radicale per lui, egli non poteva rischiare o neppure immaginare una genuina resistenza, e il suo compromesso consistette nel combinare l’obbedienza con uno sforzo di rispettare le norme della professione psichiatrica. Ne risultò un’amarezza per la propria corruzione morale e la disillusione verso il regime che gli imponeva di servire violando importanti norme umane e professionali. L’esperienza personale del dottor E. compendia il dilemma che ossessiona l’intera psichiatria tedesca: un episodio criminale del recente passato il cui ricordo non può essere né affrontato né assorbito né cancellato con un colpo di bacchetta magica.
Gli psichiatri attivi in centri accademici tendevano a essere leggermente più separati dal processo di «eutanasia» rispetto a quelli che lavoravano negli ospedali di Stato. Come mi disse uno dei primi: «Noi dovevamo mandare loro pazienti... ma [l’uccisione] veniva eseguita là».b Eppure anche nei centri accademici, non meno che negli ospedali di Stato, gli psichiatri fecero costantemente dei compromessi, mandando alcuni pazienti e salvandone altri, e a volte persino secondo il principio che mi fu espresso da uno di tali psichiatri – «prendendo parte alle selezioni [per il progetto di «eutanasia»] per impedire che accadesse di peggio».
C’era anche un fattore generazionale, come mi chiarì uno psichiatra che prese parte attiva al programma: «I più giovani [fra i quali identificò se stesso] erano più favorevoli»; e solo fra «i più anziani si levava [di tanto in tanto]... una voce ad ammonire..., a dirci che non lo si poteva fare, e a chiederci dove volevamo tracciare la linea di demarcazione». Gli psichiatri più giovani tendevano a identificarsi maggiormente sia col regime sia con lo sforzo di guerra, ed erano più soggetti a credere (come lo stesso psichiatra continuò a spiegare) che «se il nemico uccide la nostra gioventù sana, allora questo [l’“eutanasia”] non può essere un crimine». Inoltre l’espressione «vita indegna di vita» divenne ricorrente in discussioni fra psichiatri non meno che in documenti ufficiali e gli psichiatri si trovarono ad accettarla in vario grado, pensando che almeno in certi casi coloro che dirigevano il programma dovevano dopo tutto aver ragione, perché «a quel tempo non c’era un’opposizione inequivocabile e chiara al programma». «In una dittatura...», infatti, com’egli continuò a spiegare, «il regime autoritario solleva [l’individuo] da ogni responsabilità» così che, invece di stare a rimuginare sul problema se agire in un modo o nell’altro, si finisce col pensare: «Devo agire in questo modo... per non venire a trovarmi in una situazione di conflitto..., cosa che può essere sbagliata... ma... presenta i suoi vantaggi».
Per la bassa forza della psichiatria, quindi, la partecipazione all’uccisione medica diretta fu un modo per non mettersi in urto con un regime col quale si tendeva a essere in simpatia, o al quale si preferiva quanto meno non opporsi. Sia che ci si immergesse entusiasticamente nel progetto, o si facessero dei compromessi numerici (cedendo qualche paziente al processo di eliminazione per poterne salvare qualche altro) o ci si concentrasse sulla professionalità, si finiva col sottrarsi in qualche misura alla responsabilità per le proprie azioni.
Per quanto concerne la mentalità specifica degli psichiatri, ci sono due aspetti della loro ideologia che ho solo sfiorato, i quali hanno a che fare con la loro percezione dei pazienti psichiatrici, dell’infermità psichiatrica e della gerarchia psichiatrica. Innanzitutto, molti psichiatri tedeschi (e psichiatri che lavorarono in altri paesi con tradizioni simili) erano legati all’idea della schizofrenia come una malattia organica, incurabile, il cui corso naturale era un progressivo deterioramento. Per molti, in effetti, l’orgoglio professionale dipendeva proprio da tale concezione. Ogni sforzo per penetrare nella psiche di un paziente schizofrenico come mezzo di comprensione e come forma di trattamento era considerato da questi psichiatri «ascientifico» e quindi una minaccia professionale e personale. Un eminente psichiatra tedesco con cui ebbi modo di discutere quest’argomento caratterizzò questa mentalità come «la dottrina dell’assenza di empatia».c Certo, questa mentalità di per sé non conduce inevitabilmente all’uccisione nel nome dell’«eutanasia»; ci furono psichiatri che espressero empatia per i loro pazienti e che ciò nonostante divennero dirigenti nel progetto di «eutanasia»: Carl Schneider, col suo pietoso programma di terapia del lavoro, è un esempio in proposito. Eppure il principio generale dell’assenza di empatia, connesso a questa particolare concezione della schizofrenia, caratterizza l’atmosfera psichiatrica all’interno della quale l’uccisione medica poteva essere facilmente adottata.d
Se, nel profondo della propria identità professionale, si diventa facilmente ricettivi all’idea che i pazienti mentali – e forse anche altri gruppi – sono privi di qualità umane comuni, e quindi all’idea di eliminare quel gruppo a favore della presunta salute di altri, si potrebbe essere più disponibili ad abbracciare una nuova «terapia» che si rivela in accordo con le proprie percezioni organico-genetiche. In tal modo (come si descrive nell’epigrafe premessa a questo capitolo) molti psichiatri poterono conciliarsi con la visione nazista più generale di risanare mediante l’uccisione.
Il secondo fattore influente nella psichiatria tedesca fu il rapporto tradizionale della professione con lo Stato. Singoli psichiatri tedeschi si erano sempre identificati come funzionari dello Stato, piuttosto che come professionisti indipendenti. Specialmente gli ospedali psichiatrici facevano parte della struttura amministrativa dello Stato, e lo stesso si potrebbe dire addirittura per le facoltà di medicina delle università. Questa organizzazione tradizionale, una volta interiorizzata e sostenuta dall’insistenza della cultura tedesca sull’autorità e sull’obbedienza, rese difficile a singoli psichiatri considerare – o addirittura immaginare – la possibilità di sfidare lo Stato quando questo chiamava l’individuo a partecipare a un progetto di qualsiasi genere.
Fra i dirigenti del programma di «eutanasia», Karl Brandt (1904-1948) dev’essere considerato per primo; fu infatti lui l’uomo scelto dal Führer come iniziatore del programma e come la sua autorità medica suprema, anche se egli venne ad avere relativamente pochi contatti con la sua operazione quotidiana. Più di qualsiasi altro medico nazista, Brandt compendia il medico di élite, molto colto e dedito alla sua professione, che aderisce attivamente al programma di uccisione medica.
Brandt veniva da una famiglia di medici di grande distinzione in Alsazia, aveva fatto tirocinio col grande chirurgo tedesco Ferdinand Sauerbruch e, ancor prima dei trent’anni, stava già emergendo come un chirurgo dotato e un’autorità sulle lesioni alla testa e alla colonna vertebrale.4 Era anche un fervente nazionalista e aveva aderito al movimento nazista come «partito della vendetta e della speranza», nel quadro di quello che un amico e compagno di studi di Brandt definì il suo «sogno fantastico» del recupero da parte della Germania della regione dell’Alsazia, che egli era stato costretto a lasciare per diventare un tedesco nazionale. Eppure quello stesso Karl Brandt era stato fortemente attratto da Albert Schweitzer, alsaziano come lui, e si dice che non avesse potuto unirsi a lui nel suo lavoro missionario in Africa solo a causa delle richieste, da parte francese (Lambaréné era nell’Africa controllata dai francesi), di servizio militare e cittadinanza. Secondo il vecchio amico di Brandt, «Schweitzer e Hitler furono le due figure più influenti nella vita di Brandt. Essi furono i suoi due modelli, i suoi due specchi».5
Brandt si iscrisse al Partito nazionalsocialista e alla Lega dei Medici Tedeschi Nazionalsocialisti nel 1932: fu presentato a Hitler quello stesso anno dalla sua fidanzata, una campionessa tedesca di nuoto; e nel 1934, all’età di ventinove anni, era diventato il «medico accompagnatore» personale di Hitler. Nell’ambiente medico più ristretto attorno a Hitler, Brandt fu la figura scientifica e il medico tradizionale attendibile, in contrapposizione a Theodor Morell, medico personale del Führer a partire dal 1939, che era considerato (giustamente) un medicastro e un ciarlatano (vedi p. 188).6 Benché Morell conservasse il suo ascendente su Hitler, Brandt sviluppò con Hitler quello che alcuni chiamarono un rapporto di «figlio adottivo» simile a quello di Albert Speer, l’architetto personale e successivamente ministro per l’Armamento e la Produzione di guerra di Hitler.7 Entrambi i giovani erano alti ed eleganti, provenivano da famiglie di professionisti di elevata formazione accademica ed erano molto colti e introdotti nella tradizione culturale e intellettuale tedesca: qualità di cui Hitler era personalmente privo ma verso le quali era attratto e che sfruttava.
Anche altri medici nazisti tenevano Brandt in una considerazione insolitamente elevata, sia dal punto di vista professionale sia da quello personale. Essi parlavano di lui come di una persona rispettabile, franca e fidata. Un medico che lo aveva conosciuto abbastanza bene lo descrisse come «una persona di princìpi etici elevati..., uno fra i medici più idealisti che io abbia mai conosciuto durante la mia carriera». Albert Speer,e che era stato anche lui buon amico di Brandt, me lo descrisse come un uomo apprezzato da molti e «assai coscienzioso nella sua vita, qualsiasi cosa facesse». Speer rimase sconcertato quando sentì parlare dopo la guerra del coinvolgimento del suo amico nell’«eutanasia», e disse che l’integrità di Brandt era tale che «egli doveva aver creduto nel programma».
Forse la testimonianza più appassionata a favore di Brandt fu quella fornita nel 1973 dal padre del bambino, usato da Hitler per dare inizio all’intero progetto di «eutanasia», a uno scrittore che gli faceva visita (vedi pp. 79-80):
Era proprio qui. Karl Brandt era qui, in piedi vicino alla finestra. Era alto e imponente. Sembrava che riempisse tutta la stanza... Mi spiegò che il Führer lo aveva mandato personalmente, e che era molto, molto interessato al caso di mio figlio. Il Führer voleva esplorare il problema delle persone prive di un futuro, la cui vita era senza valore. Da allora in poi, non avremmo più dovuto soffrire per questa terribile disgrazia, poiché il Führer ci aveva concesso l’uccisione pietosa di nostro figlio. In seguito avremmo potuto avere altri figli, belli e sani, di cui il Reich avrebbe potuto essere fiero... Si doveva costruire la Germania e c’era bisogno di ogni particella di energia. Ecco quel che mi spiegò Herr Brandt. Era un uomo magnifico: intelligente, molto convincente. Fu per noi come un salvatore: l’uomo che poteva sollevarci di un peso molto grande. Lo ringraziammo e gli esprimemmo tutta la nostra gratitudine.9
L’aura quasi mitica di eleganza e di purezza di Brandt fece di lui il perfetto fautore dell’«eutanasia» e il delegato ideale del Führer. Quell’aura riuscì quasi a conquistare persino l’uomo che viene associato più spesso alla difesa dei propri pazienti contro il programma di «eutanasia», il reverendo Fritz von Bodelschwingh (vedi pp. 132-134). In una trasmissione radiofonica della BBC nell’estate del 1945, si attribuì a Bodelschwingh il seguente commento: «Non si può presentare il professore Brandt come un criminale, bensì piuttosto come un idealista». A quanto pare Brandt aveva dato un aiuto importante per risparmiare i pazienti di Bodelschwingh.10 Dopo la morte di Bodelschwingh, il suo successore ne espose le opinioni in un affidavit a favore di Brandt, nel tentativo di salvarlo dalla pena di morte a Norimberga. Bodelschwingh era rimasto impressionato dalla disponibilità di Brandt ad ascoltare opinioni opposte alle sue, e pensava che Brandt si fosse sforzato più di altri di limitare l’applicazione del progetto a casi in cui una vita era «completamente finita», e che egli fosse motivato «non da brutalità ma da un certo idealismo... intrinseco alla sua concezione di vita».11
In Brandt c’erano però anche altri aspetti. François Bayle, uno psicologo francese che lo intervistò ripetutamente al tempo del processo di Norimberga, lo descrisse come «una personalità ricca, vigorosa... [ma] indisciplinata..., pugnace e infantile..., reso vulnerabile dalla sua ambizione... [e] dal suo orgoglio»; in possesso di «un’intelligenza vivida... [ma] di poca chiarezza logica e di molta immaginazione, la quale può facilmente essere influenzata e sviata»; «anche il suo carattere [poteva essere influenzato]... con la stessa facilità».12 L’insistenza di Bayle su questa combinazione di intensa ambizione e di vulnerabilità a influenze esterne ben si accorda con lo straordinario attaccamento di Brandt a Hitler e con l’ascendente che questi continuò sempre a esercitare su di lui.
Ci fu anche un’opinione fortemente dissenziente, espressa da un medico alla periferia della cerchia di Hitler, il quale mi descrisse Brandt come abbacinato da Hitler, attratto profondamente dalla «sensazione di possedere potere» ma «un fallimento completo» in quasi tutto ciò che fece, compreso il tentativo di far costruire una rete di ospedali militari in varie parti della Germania. Questo medico riteneva anche che fosse giusto il giudizio di colpevolezza pronunciato nei confronti di Brandt a Norimberga per la sua responsabilità in relazione non solo all’«eutanasia» ma anche a vari esperimenti medici letali eseguiti nei campi di concentramento. Quest’ambizione di potere si rivela anche nel ricordo di Speer, secondo cui il suo amico Brandt era rimasto per anni a un grado relativamente basso nelle SS finché «d’improvviso saltò molto più in alto degli altri... diventando improvvisamente... un alto ufficiale delle SS».
Benché Brandt non fosse considerato altrettanto fortemente antisemita, un certo dottor Hirsch di Tel Aviv disse che nel 1925, a Monaco di Baviera, un suo compagno di studi a medicina gli aveva un giorno chiesto di vedere il suo quaderno di appunti, e glielo aveva poi restituito col disegno di una forca e di un impiccato e la scritta: «La fine di Hirsch: 19..?». Risultò che il compagno di studi si chiamava Brandt.13
A Norimberga Brandt potrebbe benissimo avere espresso una convinzione genuina a proposito del valore dell’«eutanasia» per pazienti incurabili. Ma da quanto si sa sul ruolo di Brandt nella «dimostrazione sperimentale» eseguita a Brandeburgo in cui si compararono gli effetti letali del monossido di carbonio e di iniezioni di morfina, egli dimostrò sicuramente abbrutimento e insensibilità quando designò tale processo come «uno dei maggiori passi avanti nella storia medica». Un medico che fu assistente di Brandt mi disse che alcuni psichiatri si spinsero molto oltre di quanto secondo Brandt avrebbero dovuto nel «condannare... a morte persone che non avrebbero dovuto esserlo», e che Brandt fu molto contrariato quando venne a saperlo e avrebbe voluto metter fine immediatamente al programma. Il suo atteggiamento in questo caso fu simile alla sua disponibilità a permettere che certi gruppi di pazienti fossero sottratti alla morte, pur senza modificare in alcun senso reale il progetto di base dell’uccisione medica. Piuttosto, egli era il tipo di nazista che voleva che tali progetti venissero portati avanti nel modo più «giusto» e «umano» possibile.
Della massima importanza è il fatto che Brandt non ripudiò mai in alcun modo lo Stato tedesco, il regime nazista o lo stesso Hitler. Non sorprende che il presidente della corte abbia potuto dire che «sul banco degli imputati è seduta una figura invisibile» e «tale figura è Hitler».14 Benché Hitler avesse esercitato su di lui un’influenza malefica, Brandt non mise mai in discussione il loro rapporto o neppure l’umanità del suo Führer nell’avviare il programma di «eutanasia», né si sottrasse mai all’attrazione magnetica che Hitler esercitava su di lui. Può darsi quindi che Brandt fosse sincero quando dichiarò, nel giugno 1948, prima di essere impiccato: «Io mi sono sempre battuto in buona coscienza a sostegno delle mie convinzioni personali e l’ho fatto in modo onesto, franco e aperto».15
Brandt è, più di qualsiasi altro medico, il prototipo di quello che io chiamerò il «nazista rispettabile». Una tale figura proveniva di solito da una famiglia di aristocratici o di professionisti, spesso una famiglia di medici la cui cultura generale e le cui preoccupazioni etiche prenaziste sembrano sorprendentemente in disaccordo con la profondità del coinvolgimento a favore del nazismo. Tale coinvolgimento comprese un impegno ardente nel tema della rivitalizzazione collettiva. Brandt, in particolare, abbracciò personalmente Hitler non solo come un padre, ma anche come un profeta e un salvatore. In questi medici, un’inclinazione romantico-visionaria poté combinarsi con l’accettazione, e persino la venerazione, di una razionalità scientifico-medica. L’impegno religioso-romantico di Brandt nel progetto nazista contribuì al suo sempre maggiore ottundimento psichico verso l’eccidio di massa e alla sua straordinaria capacità di continuare a vedere dei pregi nel programma nazista totale. Egli poté rafforzare un senso di virtù personale per mezzo di una certa misura di responsabilità nei rapporti immediati e nell’opposizione ai «nazisti più rozzi» che lo circondavano. Il suo forte senso di se stesso come medico, come terapeuta, fu centrale per il processo di «eutanasia».
Il «nazista rispettabile» fece gran parte del lavoro del regime e fu indispensabile allo sterminio perpetrato dai nazisti.
Werner Heyde (1902-1961) era di stampo molto diverso: l’equivalente medico del «vecchio nazista» o del «veterano», che divenne un uomo di punta delle SS prima di assumere la direzione del progetto di «eutanasia». Persino per i medici vicini al regime, come mi disse uno di loro, Heyde aveva una «cattiva reputazione... era un vero nazista privo di inibizioni».
Né il suo ambiente familiare (era figlio di un fabbricante di tessuti a Lausitz) né i suoi primi successi nel mondo accademico (si diceva che fosse «sempre il primo della classe») forniscono speciali indizi di ciò che sarebbe diventato. Di due anni maggiore di Brandt, poté arruolarsi nelle forze armate all’età di sedici anni, durante gli ultimi mesi della Prima guerra mondiale.
All’età di diciotto anni partecipò al putsch di Kapp,f dopo di che fu membro di una lunga serie di organizzazioni ed ebbe parte in eventi connessi al nazionalismo radicale e al nazionalsocialismo.
Si diceva che Heyde, quando era studente di medicina all’inizio degli anni Venti, avesse frequentato le lezioni di psichiatria di Hoche e fosse diventato uno psichiatra competente ma non particolarmente degno di nota; un altro medico mi parlò di lui descrivendomelo come «una persona ordinaria... [che] non si sarebbe mai pensato... fosse capace di fare cose del genere». In origine medico d’ospedale e infine medico capo (Oberarzt) in un ospedale psichiatrico, accelerò la sua carriera grazie alla sua partecipazione al nazismo (si iscrisse al partito il 1° maggio 1933) e divenne professore ordinario a Würzburg nel 1939. Frattanto, nel 1935, era diventato direttore dell’Ufficio di Politica Razziale a Würzburg.
Si potrebbe dire che la carriera di Heyde nelle SS abbia avuto inizio già nel 1933, quando egli allacciò uno stretto rapporto con Theodor Eicke, il suo primo paziente, che nel giugno di quello stesso anno diventò comandante a Dachau prima di essere nominato ispettore generale dei campi di concentramento. Eicke, che divenne l’artefice di gran parte del sistema dei campi di concentramento e consigliere e ispiratore dei comandanti di molti campi, fece molto per istituzionalizzare la sistematica brutalità fisica e psicologica. Non è impossibile che Heyde abbia contribuito ad alcune di queste concezioni (vedi p. 215).
Heyde si era iscritto al partito su sollecitazione di Eicke. Attraverso questo legame e poi quello con Ernst Robert von Grawitz, il famigerato medico capo delle SS, nel 1936 Heyde entrò a far parte di tale organizzazione, ne divenne immediatamente capitano e, nel 1941, 1943 e 1945, fu promosso maggiore, tenente colonnello e colonnello. Fra i suoi incarichi nelle SS ci furono la creazione di una divisione neuropsichiatrica e la supervisione sulla «ricerca psichiatrico-neurologica e sull’ereditarietà» sugli internati nei campi di concentramento. Quest’ultimo incarico parve «particolarmente urgente» per le possibilità che offriva di «applicazioni scientifiche». Heyde fu anche un esperto neuropsichiatra e come tale fornì consulenze alla Gestapo a Berlino. Quest’ultimo incarico implicava attività segrete alle quali, come scrisse Heyde nella sua autobiografia nazista, «posso naturalmente solo accennare», e che probabilmente comprendevano consigli su metodi di tortura per indurre i prigionieri a fornire informazioni, oltre a valutazioni psichiatriche utili alla Gestapo.16g
Heyde fu una figura centrale, e l’incarnazione della legittimazione medica, nel programma di sterminio dell’«eutanasia». Egli svolse un ruolo importante nella pianificazione dell’intera struttura dei procedimenti di inganno e di eccidio e, finché non fu sostituito da Nitsche, fu il principale Obergutachter (controperito) sulle decisioni ultime circa chi doveva essere sottoposto all’«eutanasia». Al tempo stesso, come abbiamo visto, egli poteva essere molto ragionevole, professionale e professorale nel «guidare» altri medici, specialmente più giovani, nella loro partecipazione. Questo psichiatra-organizzatore e amministratore dell’uccisione medica diretta, dotato di un grande attivismo, estese la sua partecipazione all’eccidio ai campi di concentramento nel quadro del programma 14f13 (vedi cap. VI).
Dopo la guerra, Heyde riuscì a fuggire dal carcere; si procurò documenti falsi e fece vari lavori. Infine ottenne un posto come medico sportivo in una scuola nei pressi di Kiel, dove – sotto lo pseudonimo di dottor Sawada – cominciò a fornire opinioni mediche come esperto in vari casi, compresi quelli di psichiatria. A causa dei suoi lauti guadagni e della sua vita mondana, il suo vero nome e la sua vera identità cominciarono a essere noti alle principali figure politiche e giudiziarie dell’area, oltre che a psichiatri e ad altri medici. Egli fu infine denunciato dal professor Creutzfeldt, che aveva riconosciuto la sua mano in una perizia forense discutibile, e contraria alla propria; di fronte all’esitazione del vecchio antinazista, i suoi due figli medici premettero su di lui perché portasse avanti la cosa. Il tribunale preparò un dossier dettagliatissimo in vista del processo, ma nel 1961, prima che il processo potesse cominciare, Heyde fu trovato morto nella sua cella per avvelenamento da cianuro. Quest’episodio richiama alla mente altri suicidi di SS avvenuti alla fine della guerra, e lascia il sospetto che Heyde sia stato aiutato a uccidersi, o forse che abbia addirittura subito pressioni per farlo da parte di persone legate alle SS, forse anche di altri medici, infiltratisi nelle carceri, i quali non volevano che si facesse il processo.18
Heyde fu un medico di livello relativamente comune, che un impegno appassionato verso il nazionalismo tedesco e verso la visione nazista del mutamento condusse a una disponibilità quasi assoluta a subordinare i princìpi professionali al partito, alle SS, alla Gestapo e al progetto nazista generale. Può darsi che medici come lui abbiano creduto al principio visionario nazista di uccidere in nome del risanamento pur avendo al tempo stesso una qualche consapevolezza di essere implicati in un’attività sporca e omicida. Per mezzo di meccanismi psicologici che esplorerò nel corso di tutto questo studio, Heyde fu in grado di minimizzare tale consapevolezza e di continuare a sentirsi giustificato in ciò che stava facendo. Egli ebbe senza dubbio anche tendenze psicopatiche e sadiche, le quali non acquistarono però probabilmente un rilievo eccezionale finché non furono sollecitate dal suo impegno nel progetto nazista. La sua carriera ci rivela fin dove poterono spingersi dei medici, incitati da un’ideologia e da accomodamenti istituzionali, nel negare un’anteriore coscienza professionale e nell’applicare le loro abilità mediche all’omicidio.
Hermann Pfannmüller (1886-1961) – che, come Heyde, entrò nel partito nel maggio 1933 – è un altro esempio dello psichiatra corrotto, nazificato. Direttore di un ospedale, fu lui a dire ridendo, mentre tirava su per le gambe un bambino di tre anni quasi morto: «Questo è il metodo più semplice» (vedi a p. 94). È forte la tentazione di definirlo un assassino psichiatrico e di voltare pagina.
Gerhard Schmidt, lo psichiatra antinazista che assunse alla fine della guerra la direzione dell’istituto di Pfannmüller, scrisse un libro su ciò che trovò all’istituto e altrove sul progetto di «eutanasia». Schmidt sottolineò il profondo impegno di Pfannmüller nell’ideologia della «vita indegna di vita» e in una concezione del mondo nazista che richiedeva l’eliminazione, come diceva Pfannmüller, del «paziente miserando», che presentava solo «la sembianza di un’esistenza umana».19 E durante le conversazioni che ebbi col dottor Schmidt, questi mi descrisse Pfannmüller, che conobbe personalmente solo dopo la guerra, come un «uomo semplice, [il quale] era fortemente convinto che [il programma di “eutanasia”] fosse urgentemente necessario» e apparteneva al gruppo di coloro che «pensavano di poter rendere in questo modo più sana l’umanità». Schmidt disse anche che Pfannmüller aveva la fama di essere «molto mite: un tipo mite, depresso», che di solito «non avrebbe saputo far male a una mosca». È probabile che Pfannmüller fosse sia un genuino ideologo sia un esempio estremo della persona depressa che supera la propria ansia e le sue fantasticherie di morte danneggiando altri. Quando però egli raggiunse il punto di ridurre alla morte per fame neonati, bambini e adulti, è probabile che agisse in lui un forte miscuglio psicologico di onnipotenza e di sadismo. Al tempo stesso, può darsi che egli abbia continuato a vedere in se stesso una persona ispirata per lo più da motivi idealistici e un uomo addirittura rispettabile. In seguito Pfannmüller dichiarò in tribunale di aver considerato «abili al lavoro», a differenza di Heyde, persino quei pazienti adulti che erano in grado di eseguire solo i compiti più semplici. Tale dichiarazione era ovviamente pro domo sua, ma poteva anche riflettere il suo sforzo di vedere in se stesso, persino a quel tempo, un professionista progressivo e umano. Nel 1948 un tribunale di Monaco di Baviera lo dichiarò in condizioni di salute non idonee a sostenere il processo. L’anno dopo fu condannato a sei anni di carcere.20
Pfannmüller rimane il prototipo del medico abbrutito che diventa assassino. Nella sua motivazione si riscontra un misto di passione ideologica (biomedica oltre che politica) e burocratica, di ambizione di carriera all’interno della gerarchia nazista e di tendenze alla depressione e all’impotenza che egli poté superare per mezzo di un comportamento onnipotente e sadico.
Il professor Max de Crinis (1889-1945), che fu probabilmente «il nazista più esplicito e influente nell’establishment psichiatrico tedesco»,21 fu sorprendente per la doppia vita che tentò di condurre. Designato nel 1939 a succedere a Karl Bonhoeffer sulla cattedra psichiatrica di Berlino e all’ospedale Charité, fu un consulente psichiatrico al massimo livello del regime. Come abbiamo menzionato in precedenza, si pensava che fosse stato lui a fornire a Hitler la formulazione del decreto originario sull’«eutanasia»; egli fu comunque attivo in tutti gli aspetti della pianificazione di tale programma anche se non fu mai identificato come uno dei suoi capi.
De Crinis, nato in Austria, aveva partecipato ad attività anticomuniste e aveva fatto parte dei volontari del Freikorps (vedi pp. 181-183); entrato nel Partito nazista nel 1931, nel 1934 – dopo il fallito putsch contro il regime di Dollfuss, in cui era stato implicato – si era rifugiato in Germania. Nel 1936 era attivo non solo nelle SS ma anche nelle SD; in seguito fu ritenuto opportuno che egli occultasse in pubblico queste affiliazioni.h Similmente, mentre partecipò a una delle prime riunioni organizzative del programma di «eutanasia» nel 1939, si dice che de Crinis abbia «dimostrato un atteggiamento positivo» verso tutte le decisioni prese, ma che gli sia stato permesso di non svolgere la funzione di esperto nel progetto «per ragioni personali». Fu però attivo nell’Ufficio delle SS per la Razza e per l’Insediamento e nel 1941 divenne direttore medico del ministero dell’Istruzione. Prese parte anche ad almeno una bizzarra missione dei servizi segreti in Olanda, recitando la parte di un ufficiale implicato in una congiura contro Hitler.22
All’Università di Berlino e all’ospedale Charité, de Crinis era considerato un uomo dotato di fascino e di stile professorale. Benché i suoi stretti legami col nazismo fossero ben noti, egli si premurò di tenere segreto il suo coinvolgimento nel programma di «eutanasia», al punto di poter apparire come un oppositore all’uccisione medica. Ci fu per esempio un caso, riferitomi da uno dei medici da me intervistati, di un bambino gravemente idrocefalico che venne portato da de Crinis per essere esaminato da lui e dal suo assistente. Quando però si pose il problema se il bambino dovesse essere trasferito in uno dei canali che portavano all’«eutanasia», de Crinis si espresse con energia contro tale eventualità: «Dev’essere mandato da qualche altra parte». (Dopo avere esaminato Hitler e avergli diagnosticato il morbo di Parkinson, de Crinis fu coinvolto anche in un intrigo ad alto livello assieme ad altri medici, fra cui Schellenberg, Himmler e Conti sul tema di un armistizio in Occidente.)23
Nell’università e nell’ospedale si diffuse infine la voce delle attività del de Crinis, e si dice che Bonhoeffer gli abbia contestato alcune cose. Eppure de Crinis protesse alcuni pazienti della Charité dall’uccisione medica e perseguì attivamente la ricerca scientifica sulle basi somatiche dei disturbi psichiatrici e delle emozioni in generale. De Crinis fu un portavoce dell’ortodossia psichiatrica nell’attaccare gli assunti psicogeni e nel resistere alla psicoterapia non medica. In effetti la psicoterapia in quanto tale era sospettata di essere un approccio «ebraico» alla malattia mentale.
A prescindere dalle ragioni che de Crinis potrebbe avere avuto per nascondere la misura del suo coinvolgimento nel programma di «eutanasia» e nelle SS, il suo caso rivela un manifesto processo di «sdoppiamento» (vedi capp. XIX e XX). Può darsi che de Crinis abbia mantenuto entro di sé, in misura significativa, il senso di essere uno psichiatra accademico: un «sé anteriore» che coesistette, con un certo grado di autonomia, con il sé nazificato dell’«eutanasia» e con il sé legato ai servizi segreti delle SS. Quest’ultimo «sé», costruito a partire dal fervore ideologico e da un senso di grandezza nazista, gli consentì di svolgere un ruolo importante nell’uccisione medica diretta. De Crinis si uccise il 1° maggio 1945 nel modo prescritto ai nazisti, inghiottendo cianuro.24 Uno storico dell’ospedale Charité sostenne nel 1963 che, negli splendidi 250 anni di esistenza dell’istituto, nessun altro medico si era macchiato di crimini di gravità paragonabile a quelli di cui fu colpevole de Crinis.25
Carl Schneider (1891-1946), anche lui austriaco, esemplifica la degenerazione morale di un eminente psichiatra accademico nella visione del mondo nazista e in un ruolo chiave nel progetto di «eutanasia». La cosa più sorprendente in Schneider è la documentazione impressionante dell’empatia e delle misure di riabilitazione a favore di pazienti che egli associò al suo impegno nel programma di «eutanasia».
Una psicologa che aveva lavorato per Schneider, da me intervistata, sottolineò il suo idealismo, la convinzione sua e di altri che un progetto di «eutanasia» potesse mettere fine all’orrore – il «crimine occulto..., il lato oscuro della medicina» – di pazienti psichiatrici profondamente regrediti, isolati, ritardati. Essa pensava che Schneider fosse insolitamente sensibile ai sintomi psicologici, e che non fosse «un uomo malvagio».
Schneider fu descritto in seguito da un collega più giovane come uno «psichiatra eccellente... molto sensibile... con un grande ascendente su psichiatri più giovani». Egli «detestava la forza e la fredda routine», permetteva agli psichiatri di far colazione con i pazienti e diffuse princìpi di empatia, specialmente verso pazienti epilettici, che aveva imparato durante il periodo trascorso nell’istituto per epilettici di Bethel, dove egli – che era figlio di un pastore – era stato medico capo fino al 1933.26i
Schneider lasciò l’istituto di Bethel per assumere la direzione della clinica universitaria di Heidelberg. Era entrato nel partito nel 1932 e, dopo l’assunzione del potere da parte dei nazisti, i suoi collaboratori osservarono la sua trasformazione da «modesto studioso con ombrello e cartella, occupato nel tipo più sottile di investigazioni sulla schizofrenia», in un uomo che, assurto al rango di «uno dei leader della psichiatria tedesca, si assunse la missione di predicare il nazionalsocialismo e di offrire il suo programma illuminato di terapia del lavoro come un approccio nazionalsocialista per eccellenza».27 Per una curiosa ironia, proprio quel programma di terapia del lavoro di Carl Schneider fu citato dal professor Ewald (vedi pp. 122-126) come uno sviluppo molto promettente nel trattamento della schizofrenia, uno sviluppo che forniva validi argomenti contro l’uso di sottoporre i pazienti schizofrenici al programma di «eutanasia», e contro l’uccisione medica in generale.
Il suo ex collaboratore Walter Ritter von Baeyer lo giudicò «un uomo ambivalente». E lo stesso Schneider, nel discutere su molti pazienti, proponeva «due modi possibili di aiutarli», uno dei quali era la terapia del lavoro, mentre l’altro era la sterilizzazione e l’uccisione medica. Von Baeyer pensava anche che Schneider fosse il tipo d’«uomo sensibile e debole» che in conseguenza di convinzioni nazionalsocialiste poteva trasformarsi facilmente in «una persona molto aggressiva», con nuova energia e sicurezza. Egli poté avere una grande influenza sugli psichiatri più giovani perché essi «prima si identificavano con quest’uomo sensibile, e poi col suo aspetto più aggressivo, quando accettavano anch’essi l’ideologia nazionalsocialista».28
Tale nuovo senso di fiducia in se stesso poté assumere la forma della grandiosità – progetti, mai realizzati, per un grande istituto di ricerca che si concentrasse sullo studio delle influenze ereditarie nell’«idiozia» –; Schneider aspirò, inoltre, a creare una nuova «antropologia biologica» che mettesse «finalmente termine alle vecchie idee sull’umanità». Egli riuscì a ottenere grandi finanziamenti per un istituto di ricerca dove iniziò una parte di questo lavoro, usando principalmente cervelli ottenuti dal progetto di «eutanasia».29
La via alla corruzione, per Schneider, fu il suo idealismo psichiatrico. Una volta avviatosi su questa strada, egli si sentì però chiamato anche dal suo potere professionale, che sembrava offrirgli una sorta di immortalità. Benché egli debba aver provato senza dubbio dei conflitti, riuscì però a istituire una connessione fra la sua insolita empatia per i pazienti psichiatrici e la visione biomedica nazista, con la rivendicazione associata di mettere fine alla sofferenza e di rafforzare la razza. La profonda immersione nell’ideologia nazista permise a quest’uomo, che in precedenza era stato molto sensibile, di svolgere la duplice funzione di psichiatra dotato di una forte carica di empatia e di carnefice con gli strumenti della medicina.
Ci rimane infine da trattare di Irmfried Eberl (1910-1948), unico fra i medici per il fatto che, da capo dei maggiori impianti di gassificazione nel programma T4, diventò, all’età di soli trentadue anni, comandante – non medico capo ma comandante generale – di un campo di sterminio.
Anche lui austriaco, Eberl appartenne alla generazione più giovane dei medici entrati molto presto nel partito e quindi altamente politicizzati (al suo ingresso nel partito aveva solo ventun anni). All’epoca della dimostrazione degli impianti di gassificazione a Brandeburgo, nel 1940, fu uno fra i primi a cui fu mostrato come funzionava la tecnologia di uccisione con gas tossici. Egli fece ampio uso di tale conoscenza come capo di quel centro della morte e, quando esso fu chiuso, come capo del centro di Bernburg. E, oltre a prestare servizio nella cerchia più ristretta di esperti psichiatrici, fu investito della speciale autorità di poter entrare in varie istituzioni psichiatriche ed esaminarne l’atteggiamento nei confronti del progetto di «eutanasia» e la volontà di collaborare con impegno in esso.30
Eberl svolse la funzione di uno speciale rappresentante di Heyde nell’esercitare una supervisione sull’area importantissima delle false cause di morte, col compito di accertare la coerenza dei metodi usati nei vari centri di uccisione e di introdurre sistemi che potessero mantenere in modo convincente il sotterfugio.31j Eberl fu implicato attivamente nell’organizzazione di speciali trasporti di pazienti ebrei nel suo centro della morte a Brandeburgo; in una sua agenda tascabile i vari trasporti di ebrei sono indicati con la lettera «J» (Juden), assieme al numero di persone e al nome delle città dalle cui istituzioni i pazienti destinati al progetto di «eutanasia» erano stati prelevati.33
L’entusiasmo di Eberl per il programma di «eutanasia» trovò espressione nel fervente appoggio da lui dato alla richiesta di una legge che legittimasse apertamente il progetto oltre che l’uccisione pietosa su richiesta. Egli sottolineò che, quali che fossero le riserve esistenti da parte dei medici, «il numero di funzionari medici ideologicamente inaccettabili è in effetti destinato a contrarsi di anno in anno; è infatti presumibile che la nuova generazione sarà ideologicamente ortodossa in una misura schiacciante».34
Eberl fu designato comandante del campo di Treblinka quando questo entrò in funzione, nel luglio 1942. Un ingegnere del programma T4 aveva aiutato a costruire gli impianti di gassificazione; e il personale, come negli altri campi della morte in Polonia, era formato in grande misura da uomini delle SS che avevano già partecipato al programma di «eutanasia». Una novità furono le guardie ucraine con cani. Il fatto che Eberl sia stato l’unico medico noto ad avere avuto il comando di un campo della morte suggerisce che i nazisti avessero buone ragioni per pensare che egli fosse indistinguibile da un non medico nel suo atteggiamento verso l’uccisione di ebrei. La designazione di Eberl poteva però significare anche che i nazisti stessero considerando la possibilità di fare un uso maggiore dei medici come comandanti di campi di sterminio, estendendo in tal modo il principio dell’uccisione medica.
Se la designazione di Eberl fu un caso test, essa non ebbe successo. Una visita di ispezione di SS a Treblinka alcune settimane dopo l’arrivo del primo trasporto rivelò una situazione caotica. Quando arrivavano i nuovi trasporti, i cumuli di cadaveri in decomposizione davano agli ebrei appena giunti un’idea fin troppo chiara di ciò che li attendeva, e rendeva difficile mantenerne il controllo; e quando gli arrivi si succedevano con grande frequenza era difficile rispettare i tempi. Eberl fu congedato in breve tempo. Egli non era riuscito a far fronte alle nuove dimensioni dell’eccidio, anche se la sua inefficienza non rallentò affatto il processo. Nel periodo di massima attività, verso la fine di agosto, i treni stavano portando da 10.000 a 12.000 ebrei al giorno; alla fine di quel mese ne erano stati uccisi 215.000. (Per confronto, come medico del programma T4, Eberl aveva ucciso «solo» 18.000 pazienti in poco più di un anno e mezzo.)35
Durante il suo breve periodo di comando, si dice che Eberl, quando camminava nel campo, indossasse il suo camice bianco di medico. Vera o falsa che sia questa notizia, egli divenne – per un breve intervallo di tempo – un caso estremo di terapeuta trasformato in assassino, anche se non raggiunse i massimi vertici nell’eccidio. Quale che fosse la sua anteriore propensione psicologica all’onnipotenza, al sadismo e alla violenza, egli sperimentò a quanto pare il tipo di immersione totale nell’ideologia nazista che avrebbe permesso l’uccisione di qualsiasi individuo o gruppo, in qualsiasi modo e in qualsiasi tempo, per promuovere la visione di una purificazione e di un risanamento della razza ariana.
Benché Johann S. sia stato implicato solo marginalmente nel progetto di «eutanasia», egli visse a fondo l’intera storia e ideologia dei capi medici nazisti. Durante una ventina di ore di conversazione nel corso di tre giornate piuttosto piene, trovai che questo vecchio furbo, energico e fanatico, che viveva in un prospero ambiente rurale, era il nazista più impenitente fra tutti i medici da me intervistati. La sua vita rispecchiava in modo unico la speciale miscela nazista di nazionalismo violento e di biologia visionaria.
Subito dopo esserci seduti assieme per la prima volta, S. accennò a un recente programma televisivo in cui si era parlato di un progetto per un’accademia di medicina che saldasse finalmente la frattura fra la teoria medica e il lavoro clinico, e dichiarò di avere lavorato a un piano del genere durante il Terzo Reich, quando «i medici formavano un’organizzazione medica molto compatta, del tutto autosufficiente», che integrava tutte le organizzazioni sanitarie e le istituzioni private in «un settore medico completo». Queste affermazioni introduttive fissarono il tono dell’intervista: nostalgia per la bella esperienza medica nazista e giustificazione del suo insuccesso, senza alcun segno che facesse pensare a un abbandono della sua fede originaria. In effetti, egli aveva speso praticamente tutta la sua vita di medico – di «vecchio nazista» e di funzionario medico agli alti livelli del regime – dedicandosi al perseguimento e alla realizzazione di tale visione.
Johann S. si descrisse come «figlio di un medico»: la sua era una famiglia di medici la cui storia poteva essere seguita a ritroso sino all’inizio del Seicento, e che aveva avuto legami con gente comune (come veterinari e fabbri) prima di emergere come parte dell’élite rurale progressista (entrambi i suoi nonni erano stati membri nazional-liberali del Reichstag). Da bambino aveva manifestato un forte interesse per ogni forma di vita animale, e quando gli chiesi quale argomento gli interessava di più, rispose enfaticamente che i suoi interessi erano stati «sempre nella vita, nella biologia». Quando fu un po’ più grande, cominciò a leggere Bölsche e Haeckel. Ernst Haeckel, autore di grandissimo rilievo nella biologia tedesca che era stato fra i primi ad accettare la teoria di Darwin, era anche un razzista, un credente in un Volk mistico e un forte fautore dell’«eugenica» che «può essere considerato un diretto precursore» del progetto nazista di «eutanasia».36 Wilhelm Bölsche fu un critico letterario che divenne un discepolo e biografo di Haeckel e che, a quanto si sa, fornì a Hitler un «accesso diretto alle idee principali del darwinismo sociale haeckeliano» (vedi pp. 599-600).37
Quando S. ebbe undici anni, suo padre trasferì il suo studio medico dalla campagna a una grande città: una mossa che S. venne ad associare alla perdita di una vita comunitaria, o Gemeinschaftsleben, rurale idealizzata («[In campagna] c’era sempre un amico che capitava per dividere con noi ciò che c’era sulla nostra tavola... Il nostro vetturino si sedeva con noi..., viveva con noi») e alla scoperta del «terribile isolamento delle persone» in città («Nella stessa casa c’è gente che muore e l’altro non se ne accorge nemmeno»). Egli si spinse a dire addirittura che «Il fatto che io divenni un politicok può essere ricondotto a questo [spostamento]», intendendo dire con ciò che una visione di riscoperta di tale comunità ideale divenne il Leitmotif delle sue lotte politiche.
Nella sua adolescenza, allo scoppio della Prima guerra mondiale, egli ricorda la «sensazione molto forte» dell’ordine di mobilitazione e l’euforia dell’intera popolazione in quel momento e poi all’annuncio, sulla piazza del mercato, di ogni vittoria tedesca. Tutta la sua famiglia fu direttamente coinvolta: il padre come medico dell’esercito; il fratello maggiore studiava per diventare ufficiale; la madre aveva una funzione direttiva in attività di sostegno; persino il nonno era veterinario presso un reggimento di cavalleria; e lo stesso S., ragazzo attratto verso i militari, gironzolava attorno agli ufficiali acquartierati a casa sua. Di lì a poco, però, a vittorie e celebrazioni seguirono sconfitte e scarsità di cibo e fame. Ma la cosa peggiore fu il telegramma che annunciava che suo padre era stato ferito. La vista del padre «in piedi davanti a me alla stazione ferroviaria..., con un braccio bendato..., in uniforme e... pantofole» fu così forte da sembrare a S. un’esperienza di déjà vu: egli si convinse di aver già vissuto quella stessa scena in un sogno la notte prima dell’arrivo del telegramma. (Risultò che suo padre era stato ferito da una pallottola sparata da un aereo tedesco; ma piuttosto di riconoscere una tale assurdità, S. tentò di trasformare quell’episodio in una forma meno banale assimilando il padre al principe Guglielmo d’Assia, che era stato colpito anche lui da una pallottola tedesca, rimanendone però ucciso.) Anche se suo padre sopravvisse, S. ricordò una serie di eventi successivi, quasi altrettanto sconvolgenti, fra cui la sconfitta finale e le truppe di ritorno a casa che gridavano slogan antimilitari e antimonarchici, formando consigli di soldati e strappando i gradi dalle uniformi dei loro ufficiali (cosa che produsse un particolare «turbamento» in S.). A completare il quadro, negli ultimi giorni di guerra il fratello maggiore di S. fu ferito in battaglia e «poi il governo crollò».
In effetti la famiglia di S. non uscì mai del tutto dalla guerra. Il fratello maggiore divenne uno dei fondatori di un’unità dei Freikorps (i Freikorps erano unità paramilitari composte per lo più da soldati smobilitati); e lo stesso S., che aveva allora diciassette anni, si arruolò per andare a prestar servizio sotto il fratello. Era ansioso di entrare nelle forze armate: «Appartengo alla classe che non fu chiamata alle armi per la guerra del 1918». Benché la formazione di queste unità fosse inizialmente incoraggiata da un governo debole per mantenere la pace sociale e per sopprimere la minaccia della rivoluzione comunista, i membri dei Freikorps giunsero a vedere se stessi come «uniti dal proprio sangue», impegnati a far continuare la guerra e a rovesciarne l’esito per ripristinare la gloria della Germania.38 Qui S. entrò direttamente nell’epopea romantica della lotta e della morte; ricordò orgogliosamente l’audacia della sua unità nel servirsi di un equipaggiamento raccogliticcio per sconfiggere truppe comuniste, il modo miracoloso in cui il fratello era riuscito a evitare di essere fucilato dai comunisti e l’esperienza da lui vissuta dei princìpi dei Freikorps, princìpi che un partecipante compendiò con le parole «guerra e avventura, esaltazione e distruzione». Per il giovane S. il Freikorps fu un’esperienza profondamente formativa; e per uno dei principali storici del fenomeno, «la vera importanza del movimento risiede in... quella brutalità di spirito e in quella esaltazione della forza che gli uomini dei Corpi franchi lasciarono in eredità al Terzo Reich».39
Si pensava che l’esperienza della Prima guerra mondiale «fece di noi un popolo» e che la Germania non fosse stata «sconfitta militarmente» ma minata da «scioperi nelle fabbriche di munizioni». Questa era una versione della teoria – che aveva largo corso nella destra – della «pugnalata nella schiena» (Dolchstoss): nella Prima guerra mondiale la Germania non era stata sconfitta bensì tradita: dalle sinistre, dai comunisti, dai non tedeschi e, soprattutto, dagli ebrei. Nel corso dei suoi studi universitari e di medicina, S. andò via via precisandosi come un intellettuale della destra radicale, a un tempo di élite e populista, sprezzante nei confronti della Repubblica di Weimar («Dicemmo: “Questo disordine va sostituito con qualcosa di completamente diverso”»), che leggeva Spengler ed era sensibile (per usare le parole di un commentatore recente) alla sua «celebrazione... di un’anima nazionale e razziale che si opponga a una finanza internazionale senza radici... situata... nel corpo estraneo dell’anima degli ebrei».40 S. fu «fortemente influenzato» nelle sue «concezioni storiche» anche da Houston Stuart Chamberlain, l’inglese che, all’inizio del Novecento, assunse la cittadinanza tedesca e sposò la figlia di Richard Wagner, Eva. Chamberlain scrisse in tedesco e la sua teoria razzista della storia presenta i membri della razza tedesca (nordica) come «salvatori dell’umanità» in una lotta mortale che «deciderà se il basso spirito ebraico trionferà sull’anima ariana e trascinerà con sé il mondo verso l’abisso».41 S. faceva parte di un nuovo nazionalismo che insisteva sulla «comunità di sangue» e sulla trascendenza mistica dell’«esperienza del fronte» di battaglia nella Prima guerra mondiale (nelle parole di Ernst Jünger: «L’ultima guerra, la nostra guerra, l’evento più grande e possente di quest’epoca... [poiché] in esso il genio della guerra permeò lo spirito di progresso... [e] la crescente trasformazione della vita in energia»).42l
Nei suoi anni di università, Johann S. seguì una tradizione familiare diventando un membro attivo delle Burschenschaften, le associazioni goliardiche da lui associate alle profonde radici germaniche e a princìpi völkisch: «Molti fra i primi medici nazionalsocialisti furono membri di una Burschenschaft».m Alle Burschenschaften era legato anche un professore molto ammirato da S., il quale univa una estrema eccentricità, una grandissima abilità clinica e terapeutica che confinava con la magia, il trionfo dell’intuizione sulla fredda ragione e sulla macchina, e persino la prevalenza della dignità del medico su quella delle famiglie reali (secondo un racconto, l’idolo di S. sarebbe riuscito a far pagare a un imperatore recalcitrante un onorario esorbitante per i servizi medici da lui prestatigli). Questi temi erano in accordo con la medicina nazista e, soprattutto, col principio di un Führer, nella medicina come nel regime.
La lotta della famiglia di S. con l’estrema inflazione del dopoguerra in Germania, il successivo esercizio della professione medica da parte di S. assieme a suo padre come «medico degli operai e medico della povera gente», e i suoi interessi generali verso la comunità, tutto questo lo faceva propendere verso un socialismo della destra, chiamato talvolta «socialismo prussiano», fondato su quella che Jünger chiamò la Gestalt (figura) del lavoratore-soldato tedesco.44 Tale inclinazione svolse una parte importante nell’ingresso di S., alla fine del 1930, nelle SA, cosa a cui lo predestinavano anche l’esperienza nei Freikorps (di cui considerava la Sturmabteilung «una prosecuzione») e, di fatto, la sua intera precedente formazione politica. Inoltre, c’era la sua immagine di sé romantica: la vista di «una piccola truppa che indossava la camicia bruna e portava la bandiera con la svastican... cantando l’inno di Horst Wessel,o ... veri giovani operai... circondati da comunisti che si facevano beffe di loro..., ma loro continuavano a marciare» gli fece pensare: «Dovrei vergognarmi di me stesso. Quei ragazzi rischiano la vita e io non faccio niente».
S. si tuffò nelle loro marce «completamente militarizzate», organizzò servizi medici per loro e si considerò parte, come i capi delle SA, di un esercito rivoluzionario a cui si dovette la vittoria di Hitler, avendo esso ripulito le strade dai «rossi». Soprattutto, quell’esperienza esercitò un’influenza molto forte su di lui: egli si sentì in un rapporto di comunione con «i veri operai... Questo fu uno dei massimi risultati conseguiti da Hitler... Venimmo a vivere in stretto rapporto con questi giovani lavoratori»; e infine, «noi della generazione più giovane» avemmo accesso all’«esperienza del fronte», che S. aveva conosciuto in precedenza solo dai racconti del fratello. Negando specificamente la tattica del terrore delle SA, la nostalgia di S. confinava col rapimento quando descrisse la bellezza delle marce, la nobiltà del suo gruppo nel «marciare audacemente per le strade... affollate di rossi», e dichiarò: «Questo fu uno dei periodi più belli della mia vita». Egli ritenne inoltre che i suoi confratelli medici stessero sviluppando all’interno delle SA qualcosa di simile a una medicina rivoluzionaria e, di fatto, a uno Stato biologizzato: «Ed erano tutti medici come me, che cercavano di pensare biologicamente, di vedere nella biologia il fondamento del pensiero medico... Non volevamo la politica – avevamo un atteggiamento critico verso la politica – ma [eravamo interessati] al modo come sono realmente gli esseri umani, non solo a un’idea o a una filosofia».
La nazione sarebbe stata ora governata secondo quella che Johann S. e le sue coorti consideravano una verità biologica, «il modo come gli esseri umani sono realmente». Ecco perché egli ebbe una genuina esperienza di «eureka» – la sensazione «è proprio questo che stavamo cercando!» – quando udì Rudolf Hess dichiarare che il nazionalsocialismo non era «nient’altro che biologia applicata» (vedi p. 53). Il dottor S. si sentì in comunione spirituale non solo con Hess (mi disse, con eccitazione: «A quel tempo mi trovai a non più di dieci metri da lui!») ma anche col Führer stesso: «Hess sapeva esattamente che cosa pensasse Hitler... Era l’unico che avesse uno stretto rapporto con lui per tutto il tempo». S. si iscrisse ben presto al partito e si dedicò alla realizzazione di quell’ideale biologico.
Egli sottolineò orgogliosamente che quei primi medici delle SA formarono il nucleo della Lega nazionalsocialista Tedesca dei Medici (Nationalsozialistischer Deutscher Ärztebund); furono in effetti i medici, per usare le sue parole, «i primi intellettuali ad avere piena fiducia... nel nazionalsocialismo, a marciare nelle strade», a mettersi in riga. Ora l’eroe di S. fu Gerhard Wagner, che aveva prestato servizio nella Prima guerra mondiale, nei Freikorps e nelle SA e che era il fondatore e capo della Lega nazista dei medici. Descritto fedelmente da un osservatore come «un famigerato fautore pubblico delle leggi razziali antiebraiche»,45 Wagner fu per Johann S. «una persona fantastica, un medico eclettico proveniente da una famiglia di medici, [il quale] aveva un’influenza personale su Hitler». Wagner era un protetto di Rudolf Hess, e il dottor S. comprese che entrambi questi capi erano favorevoli a una sorta di rivoluzione permanente ed erano propensi a considerare il nazionalsocialismo «come un movimento più che come un partito, un movimento impegnato in una continua crescita e in un continuo mutamento a seconda delle richieste “sanitarie” del corpo del popolo (Volkskörper)»: «Esattamente come un corpo può soccombere alla malattia, così lo stesso potrebbe valere per il Volkskörper».
S. collaborò strettamente nella nazificazione della medicina tedesca con Wagner, con cui condivideva il misticismo del Volk di Hess, la difesa dei guaritori non medici, una versione nazista della medicina olistica che voleva «portare in primo piano... questioni della psiche che erano state trascurate» (vedi pp. 66-67), un’ampia introduzione della medicina in ogni sorta di istituzione (concedendo una priorità all’autorità medica, così che per esempio i «dipendenti di una fabbrica sapessero che il loro datore di lavoro non poteva dare ordini ai medici») e «una nuova Weltanschauung medica». Questa concezione del mondo veniva a sostituire due false dottrine – quella cristiana, che intendeva gli esseri umani solo in un senso spirituale, e quella della Rivoluzione francese, che sosteneva che «tutti gli esseri umani sono uguali» –, due false dottrine che, secondo S., erano entrambe «in conflitto con l’esperienza biologica..., con le leggi della vita».
Durante quegli anni tempestosi dal 1934 al 1939, S. divenne un missionario di questa visione biomedica, facendo centinaia di discorsi a gruppi di medici, in riunioni di partito e a pubblici generici. Egli combinò il suo concetto mistico di «socialismo biologico» con princìpi di gerarchia nazista, specialmente in relazione all’egemonia dei medici come autentici biologi praticanti in materia di razza e di popolazione, a giudizi sui bisogni del popolo e a molte altre cose. Quanto alle azioni e agli atteggiamenti antisemitici, S. insistette sulla tesi che «la questione razziale... [e] il rancore verso la razza ebraica... non avevano nulla a che fare con l’antisemitismo medievale... ma solo [con] l’obiettivo della nostra realizzazione compiuta, della nostra realizzazione come Volk». In altri termini, era tutta una questione di biologia scientifica e di comunità. Di nuovo, S. commentò nostalgicamente: «Fu un bel tempo per me».
Tutto cambiò nel 1939, l’anno in cui morì Wagner e in cui ebbe inizio la guerra. Benché S. accettasse la visione nazista della guerra (secondo la quale questa sarebbe stata imposta al suo paese dai maltrattamenti inflitti dai polacchi ai tedeschi etnici), egli pensò che la guerra interrompeva la sua missione biologica e, di fatto, «interrompeva l’intero movimento nazionalsocialista». Egli vide l’aspetto medico del movimento, sotto il successore di Wagner, Conti, sempre più burocratizzato nel ministero dell’Interno, con gli avvocati che stavano prendendo il sopravvento e i visionari come lui con una base nel partito relegati sempre più in secondo piano. Persino prima di allora S. aveva avuto un atteggiamento critico nei confronti di questa tendenza legalistica quale si era manifestata nelle leggi razziali di Norimberga e nel programma di sterilizzazione. S. voleva che, piuttosto che dai tribunali e dalla complessa macchina legale, il programma venisse gestito completamente dai medici, i quali avrebbero potuto benissimo decidere da soli quali persone avessero caratteri ereditari pericolosi, e modificare la linea d’azione secondo il mutare delle conoscenze mediche.
Un altro «cattivo» in questa storia fu il capo delle SS Himmler, che S. descrisse come «un mero riproduttore di animali... [il quale] pensava di essere competente in questioni razziali» e non rappresentò mai la vera concezione del Partito nazionalsocialista, provocando anzi molte delle critiche negative che esso dovette subire. S. si diede da fare per avere una nuova assegnazione fuori Berlino, per sottrarsi alla «grottesca» situazione burocratica.
A proposito dell’«eutanasia», egli guardò con simpatia al concetto, sottolineando che per pazienti mentali regrediti era una «benedizione» essere «liberati» in questo modo. Fu però estremamente critico nei confronti del progetto reale, considerandolo un prodotto della «cerchia di Himmler» e giudicando un vero disastro burocratico la decisione dei tempi della sua attuazione. S. sollevò obiezioni anche al fatto che fosse lo Stato nazista – il rappresentante dell’intera comunità, o Gemeinschaft – ad arrogarsi il compito di togliere vite umane, e sembrava preferire che anche qui la questione venisse lasciata completamente ai medici. Egli credeva che la «protesta più forte» contro l’«eutanasia» fosse venuta dai vecchi medici nazisti che erano funzionari medici di Land; che la condanna a morte di Karl Brandt a Norimberga fosse stata «completamente ingiustificata»; e che i responsabili di come il programma era stato gestito fossero stati Brack, un «medico fallito» che cercava solo di far carriera, e Bouhler, un altro non medico, che a Norimberga aveva scaricato le responsabilità su Brandt per salvare la sua pelle. Ma l’intero argomento mise a disagio S., che passò a quella che divenne per lui una caratteristica diatriba di fine intervista, nella quale criticò l’atmosfera di brutalità «provocata dalle truppe russe», la «dichiarazione di guerra» da parte di Chaim Weizmann, il capo sionista, contro i tedeschi e la «brutalità delle incursioni aeree contro la Germania».
In tutto questo, S. si presentò non come un idealista biologico bensì come un «nazista ragionevole» che cercava di contrastare gli eccessi di altri. Egli difese il concetto che «esistono certe qualità della razza nordica» e sostenne che questa era «un’idea scientifica» e che «noi volevamo suscitare la sostanza spirituale della cultura nordeuropea, della cultura veramente europea [Kultur, nell’uso nazista, poteva significare “cultura razziale”]»: «Basta dare un’occhiata a chi governa il Suo paese... fondamentalmente la razza nordica». Egli concedeva però che il popolo tedesco era un miscuglio di razze, e che, equiparando il Volk alla razza, «noi vedevamo le cose in un modo troppo ristretto». Attribuì però questi errori all’insufficiente conoscenza della genetica propria di quel tempo: ossia a una sorta di ingenuità.
S., che era stato chiaramente un antisemita almeno durante l’epoca nazista, dichiarò untuosamente, sapendo di trovarsi di fronte a un ebreo: «La questione ebraica divenne la nostra tragedia e la vostra tragedia». Spiegò che essa era stata iniziata «dall’afflusso [di ebrei] dall’Est», e dai princìpi darwiniani che permisero a degli ebrei di diventare particolarmente abili «attraverso una selezione così dura nel corso di questi duemila anni» nell’assumersi un così gran numero di posizioni mediche da cui furono esclusi medici tedeschi; ma aggiunse: «Oggi sappiamo che noi tutti, ebrei e tedeschi, apparteniamo alla stessa comunità culturale» e dobbiamo opporci alla «comunità culturale avversa», comprendente la Cina e la Russia ma soprattutto i popoli in espansione del mondo islamico, «dai quali proviene la minaccia». Il dottor S. non era cambiato poi molto, se si eccettua la riassegnazione delle parti ai personaggi della sua storia. Sul piano delle idee razziali, egli praticava ciò che predicava, e aveva una famiglia molto numerosa: «Ho sempre creduto che coloro che sono abili dovrebbero avere il maggior numero di figli possibile, e coloro che non sono abili dovrebbero averne il minor numero possibile».
Il suo atteggiamento verso Hitler era in generale di venerazione: «Era una persona straordinariamente simpatica, e si prendeva cura dei suoi uomini proprio come un padre... Era un genio... brillante..., aveva una memoria incredibile» e non ricadeva su di lui la responsabilità di eccessi come l’«eutanasia» o l’uccisione di ebrei, le quali erano opera di uomini come Himmler, che manovravano dietro le sue spalle. Inoltre, Hitler non era veramente un «antisemita», ma «ovviamente... si irritò quando gli ebrei cominciarono a fargli la guerra» (qui il dottor S. si riferiva al libro di Theodore N. Kaufman, edito nel 1941, Germany Must Perish!).p Eppure S. poté anche dire che era un peccato che Hitler fosse stato considerato «alla stregua di un Dio»; che egli era il tipo d’uomo che doveva «parlare con se stesso a ruota libera» dei problemi, e che era soggetto a contraddirsi, e che le persone erano anche troppo svelte a fare ciò che pensavano che egli volesse; e che, come tutti i geni, egli era psicologicamente instabile e «quello che noi medici chiameremmo uno psicopatico». S. disse di aver detto a Conti, prima di partire per la guerra: «Non può chiedermi di seguire un Führer che io sono convinto non sia più sano di mente». Alla fine, però, S. scagionò Hitler attribuendone le difficoltà mentali al cattivo trattamento medico di cui era stato oggetto da parte di Morell, il medicastro che somministrava di continuo farmaci a Hitler, finendo col creare quella che, secondo il dottor S., doveva essere una dipendenza sia dalle anfetamine sia dal glucosio endovena.q In questo modo, egli invocò una spiegazione medica per gli errori e gli eccessi sia dello stesso Hitler sia del regime nazista.
A proposito dei campi di concentramento, il dottor S. disse che i medici che vi lavorarono «non avevano nulla a che fare con noi», ossia che non facevano parte dei gruppi di medici con cui egli lavorò o che presiedette. Egli insistette di non aver saputo nulla sui campi di concentramento fin dopo la guerra, che il ruolo dei medici negli esperimenti e nelle selezioni era «contestato», che l’intera cerchia di Himmler responsabile di tutto ciò aveva mantenuto il segreto con tanto impegno che era difficile venire a conoscenza della verità, e infine che «i medici in quelle istituzioni [i campi di concentramento] erano assai poco nazionalsocialisti» e che «se fossero stati autenticamente nazionalsocialisti, sarebbero stati al fronte», come lui.
Nel 1943, quando S. vide segni del «deterioramento» di Hitler e si rese conto di altri «errori gravi», si recò da Conti e lo criticò per le sue insufficienze, e specialmente per non aver protetto Hitler da Morell, dopo di che si arruolò in un’unità delle SA come soldato semplice e partì per il fronte russo. S. stava cercando una qualche forma di purificazione, ispirata da un’importante ricerca personale («Volevo sperimentare la guerra») ma, soprattutto, cercava la mistica «esperienza del fronte» associata alla Prima guerra mondiale. Riferendosi di nuovo a suo padre e a suo fratello, disse: «Tutto questo lasciò in me un’impressione tale che, anche se lasciavo a casa sette figli, mi arruolai volontario per... fare questa esperienza di guerra... subito là al fronte». Egli non rimase deluso. Scrisse con entusiasmo della sua esperienza come soldato semplice e come medico militare, e aggiunse: «Umanamente parlando, e anche dal punto di vista di un medico, mi mancherebbe molto se non l’avessi vissuta».
La storia di Johann S. illustra l’interazione di forze storiche con tendenze individuali-psicologiche. A proposito di tale interazione, vorrei sottolineare la sua fede intensa nel Volk immortale; la mistica della guerra e la sua culminazione e amara frustrazione nella Prima guerra mondiale; il gravissimo sacrificio di vite umane comportato da tale guerra e la crisi conseguente alla sconfitta, rovesciata poi singolarmente nella glorificazione dell’«esperienza del fronte» e nella spiegazione della sconfitta con la «pugnalata nella schiena», attraverso la quale la resurrezione della Germania diventa una missione dei sopravvissuti e un debito verso i morti, i quali «non sono veramente morti... ma escono dalle tombe e ci fanno visita di notte nei nostri sogni»;48 la violenza dell’impulso collettivo alla redenzione e alla rivitalizzazione, quale si esprime attraverso bande maschili militarizzate (i Freikorps e le SA) con un’ambivalenza che poteva diventare omicida verso le loro tendenze all’omoerotismo;49 la combinazione, all’interno di una singola costellazione eroica, di quegli elementi di romanticismo völkisch, di ethos guerresco e di rivitalizzazione nazionale col biologismo visionario, con un razzismo incentrato sui popoli nordici e con un appassionato antisemitismo; e una visione di re medici-filosofi in possesso di mitici poteri medico-alchimistici (vedi pp. 654-659), i quali esemplificano e al tempo stesso servono il «principio del Führer» nel determinare una rivitalizzazione razziale che mira all’immortalità.
La decisione del dottor S. di cercare la purificazione in battaglia potrebbe benissimo essere stata un tentativo di evitare di rendersi conto del fallimento generale, dell’erroneità, e persino del male, connessi all’intero progetto nazista. (Un impulso alla purificazione in qualche misura parallelo potrebbe aver motivato Hitler nel suo sforzo di distruggere l’intera Germania alla fine della guerra.) Quale che possa essere stata la vera funzione dell’esperienza del fronte, S. ne emerse non pentendosi di nulla. Sapeva che i nazisti avevano perpetrato eccessi nell’uccisione di ebrei, ma, nel suo impegno (riuscito) di restare fedele alla religione nazista, sostenne che si poteva dimostrare che le cifre che venivano addotte erano esagerate, che gran parte delle uccisioni erano state compiute non da tedeschi bensì da ucraini, e che «in ogni modo i numeri non contano». La sua conclusione fu non che il nazionalsocialismo era sbagliato o cattivo, ma che «c’era da troppo poco tempo»; che, per la realizzazione dei suoi obiettivi, si «richiederanno molte generazioni»; e che Hitler, presumibilmente come Mosè, «aprì le porte a una nuova epoca, ma non ne varcò la soglia» ed era essenzialmente un uomo dell’Ottocento». E, infine, «il Nazionalsocialismo fallì perché non potemmo sviluppare un insegnamento abbastanza biologico – non fu possibile educare abbastanza la gente in biologia» – cosicché «la tragedia del nazionalsocialismo fu che esso non fu mai realizzato».
Anche se le oscillazioni del dottor S. fra logica e follia potrebbero essere attribuite a una forma di senilità, erano però tipiche di persone vittime di un sistema complesso di credenze caratterizzato da una certa coerenza interna ma dominato anche da un’assurdità intellettuale e da una follia morale di fondo. Fu determinante la vasta diffusione di quel progetto, così che le idee e le misure più bizzarre poterono sembrare «normali a tutte le persone interessate».50 L’esempio di Johann S. dimostra come i medici nazisti abbiano potuto combinare certe strutture logiche con espressioni vistose e omicide di quella follia morale, senza che ciò impedisse loro di continuare a partecipare alla realizzazione di quel progetto.
a. Nella maggior parte dei casi l’orientamento fu quello di trasferire rapidamente i medici che manifestavano opposizione al programma di «eutanasia», affidando loro altri incarichi (oppure, come nel caso di Ewald, rinunciando ad arruolarli per tale programma), e cercare sostituti meglio disposti a cooperare. Se la riluttanza o il rifiuto erano espressi in modo discreto – ossia nella forma di un’incapacità personale piuttosto che di disapprovazione o di condanna del programma – era improbabile che ci fosse una qualsiasi punizione o perdita di rango o di reputazione.2
b. Centri di uccisione medica furono creati in ospedali statali, in grandi istituzioni gestite da chiese che erano state espropriate dallo Stato o, in un caso (Brandeburgo), in un carcere.
c. Walter Ritten von Baeyer, comunicazione personale.
d. Si può spingere l’argomentazione ancor oltre. Nel periodo intercorso fra la Prima guerra mondiale (e ancor prima) e l’epoca nazista, nella psichiatria tedesca c’erano state lotte furiose attorno alla scuola emergente della psicoanalisi. Benché Freud avesse dei dubbi sull’efficacia del trattamento psicoanalitico per la schizofrenia, la psicoanalisi in generale era a favore del principio dell’empatia: lo psicoanalista o lo psichiatra deve entrare nella mente, deve cercare di rivivere in sé i pensieri e i sentimenti del paziente. La maggior parte degli psichiatri tedeschi si oppose fortemente alla psicoanalisi. Fra i più veementi di tutti ci fu Alfred Hoche, a cui si deve la coniazione dell’espressione «vita indegna di vita» (lebensunwertes Leben). A un congresso medico, Hoche si spinse al punto di leggere una comunicazione sulla psicoanalisi intitolata «Un’epidemia psichica fra i medici».3 Gli psichiatri come Hoche sentivano chiaramente che la loro identità come medici e scienziati era minacciata dalla diffusione della psicoanalisi. Quel senso di minaccia potrebbe avere intensificato il loro impegno nel proprio credo: quello della dottrina dell’assenza di empatia. Tale credo contribuì allo sviluppo di terapie somatiche violente (quale che fosse la loro efficacia), come l’insulino-shockterapia e la metrazoloshockterapia, l’elettroshockterapia e la lobotomia. Sotto costrizione, coloro che accettavano la dottrina dell’assenza di empatia potevano essere più disponibili di altri a collaborare all’uccisione dei loro pazienti.
e. Uso il nome di Speer perché, durante le nostre interviste, egli mi diede il permesso esplicito di farlo. Speer e Brandt erano non solo stretti amici ma agirono anche per salvare l’uno la vita dell’altro. Nel 1944 Brandt fece ricorso ai medici suoi amici per salvare Speer, che era già malato, da un tentativo di omicidio medico organizzato da Himmler, che era disturbato dall’influenza di Speer su Hitler. Negli ultimi giorni della guerra, Speer tentò di mobilitare varie persone per salvare la vita di Brandt quando Hitler lo condannò a morte per «tradimento» per aver tentato di mandare sua moglie e i suoi figli nella zona americana, sottraendoli a quel suicidio in massa dei nazisti fedeli che egli aveva in mente.8
f. Questo putsch fu un tentativo compiuto da organizzazioni paramilitari e militari di rovesciare la Repubblica di Weimar nel marzo 1920. Il tentativo fallì quattro giorni dopo, in grande misura a causa dell’opposizione unita e decisa della sinistra.
g. Walter Schellenberg, il capo della sezione estera dei Servizi Segreti della Germania, parafrasò un rapporto scritto da Heyde su Georg Elser, il carpentiere-elettricista che per poco non riuscì ad assassinare Hitler nel 1939, descrivendolo come «la migliore analisi» fatta a quel tempo e rivelandoci fino a qual punto potesse spingersi la corruzione della psichiatria: «[Heyde] disse che l’assassino era un tipico fanatico pervertito che aveva agito da solo. [Elser] aveva coazioni psicotiche, connesse specialmente a questioni tecniche, le quali derivavano da un forte desiderio di raggiungere qualche risultato veramente notevole. Tale desiderio derivava da un bisogno anormale di riconoscimento, ulteriormente rafforzato dalla sete di vendetta per la presunta ingiustizia di cui era stato vittima suo fratello [che era stato arrestato come simpatizzante comunista e internato in un campo di concentramento]. Uccidendo il capo del Terzo Reich, Elser avrebbe soddisfatto tutte queste coazioni, giacché sarebbe diventato famoso egli stesso, e si sarebbe sentito moralmente giustificato, avendo liberato la Germania da un grande male. Tutti quegli impulsi, combinati col desiderio di soffrire e di sacrificare se stesso, erano tipici di un fanatismo religioso e settario. Facendo dei controlli sulla storia familiare di Elser, si trovò che gli stessi disturbi si erano già manifestati nella storia della sua famiglia.17
h. Ci sono prove di una politica ufficiale secondo cui i medici che partecipavano al programma di «eutanasia» dovevano occultare i loro legami con le SS, ma pare che de Crinis abbia seguito questa prassi a un grado estremo.
i. Nonostante la sua posizione al Bethel, Schneider era stato coinvolto in intrighi nazisti contro Bodelschwingh per il controllo della Chiesa protestante.
j. In questo ruolo, Eberl scrisse una lunga lettera, argomentata con cura, al dottor Rudolf Lonauer, direttore a Hartheim, nella quale obiettò alla citazione come causa di morte, da parte di uno dei suoi assistenti, la tubercolosi polmonare, essendo improbabile che tale malattia diventasse improvvisamente fatale; inoltre, la tubercolosi richiedeva procedimenti legali-epidemiologici obbligatori, come l’isolamento e la chiusura di reparti o istituti. La lettera si concludeva con un paragrafo degno di nota: «In sintesi, vorrei dire che, in conseguenza di tutte le ragioni citate, la diagnosi frequente di “tubercolosi polmonare” da voi addotta (dal 40 al 50 per cento di tutti i casi su cui ci avete informati ricadono sotto questa diagnosi) non va esente da obiezioni, e io Le chiedo, nell’interesse di una cooperazione efficace, di evitare di far ricorso a questa diagnosi in un così gran numero di casi, specialmente in assenza di sintomi precedenti. Devo anche rifiutare il giudizio del Suo capo ufficio in quanto, non essendo egli medico, non è in grado di valutare correttamente i fatti, e sono d’accordo con lui quando dice che questo problema è puramente medico e perciò dev’essere deciso solo da medici».32 Il suo principio costante era che si richiedeva una menzogna medica irreprensibile.
k. Poiché la parola «politico» (Politiker) ha in generale una connotazione spregiativa per una persona di origine rurale come il dottor S., il suo uso qui potrebbe suggerire una certa autocondanna inconscia.
l. Jünger fu il principale rappresentante letterario della «generazione del fronte» e della sua «esperienza interiore» delle trincee durante la Prima guerra mondiale. Romanziere e saggista di talento, «probabilmente minò la Repubblica di Weimar più efficacemente di qualsiasi altro singolo autore e contribuì ad alimentare un clima mentale in cui poté fiorire il nazismo». Egli resistette però alle pressioni per entrare nel Partito nazionalsocialista, e dopo l’esperienza militare nella Seconda guerra mondiale produsse diari «sprezzanti verso lo spirito del nazismo, al quale egli aveva dato un tempo un contributo non disprezzabile».43
m. Le Burschenschaften emersero all’inizio dell’Ottocento come gruppi studenteschi votati all’idea dell’unità nazionale tedesca (in opposizione all’influenza militare, politica e culturale franco-napoleonica) da un lato, e alla liberalizzazione politica (in opposizione alla repressione prussiano-autoritaria) dall’altro. In origine sprezzante verso i corpi studenteschi tradizionali e verso il loro interesse esclusivo per i duelli e le bevute, il movimento stesso delle Burschenschaften assunse infine un orientamento conservatore e venne ad apprezzare queste stesse attività, pur tenendo fermo a un intenso nazionalismo.
n. La bandiera con la svastica fu l’emblema prima del Partito nazista e poi della Germania nazista. Escogitata da Hitler, la bandiera aveva un fondo rosso, al centro del quale, all’interno di un cerchio bianco, c’era una croce uncinata nera (la svastica [che in sanscrito significa buona salute o buona fortuna], un antico simbolo presente in molte culture).
o. Lo Horst Wessel Lied fu composto da un giovane capo delle SA ucciso in una rissa a Berlino nel 1930. La sua morte fu manipolata sistematicamente da Goebbels in un modo che trasformò in un martire ascetico un uomo che era stato letteralmente un mezzano.
p. Edito nel 1941, questo libro propugna in effetti «l’estinzione della nazione tedesca e il totale sradicamento dalla terra di tutto il suo popolo»: una fine, si aggiunge con una curiosa ironia, che dev’essere accompagnata da un programma sistematico, «vasto e radicale», di «sterilizzazione eugenica». La giustificazione addotta per un tale programma è la prevenzione di future guerre, data l’esistenza, praticamente dall’inizio della storia, di un’«anima guerresca» o di una «brama di guerra» dei tedeschi, che finisce col manifestarsi in un modo o nell’altro.46 Il libro fu accolto dai propagandisti tedeschi in modo non dissimile da quello in cui me ne parlò il dottor S.
q. Il dottor S. diede un indirizzo psicostorico all’argomento dicendo che il disagio di Hitler per non essere riuscito a realizzare il suo sogno di un’alleanza con l’Inghilterra gli causò disturbi gastrici cronici, che Morell fu chiamato a curare. Ci sono pochi dubbi sul fatto che Morell fosse un ciarlatano, ma ci sono dissensi sulla questione se egli abbia o no creato veramente in Hitler una dipendenza da anfetamine o da altri farmaci. Un libro conclude che «uno stato tossico da anfetamine è una diagnosi estremamente probabile», ma uno studio ancora più recente sostiene che non si verificò alcuna dipendenza del genere.47 Quale che sia stato il rapporto di Hitler con le anfetamine, si dovrebbero riconoscere i pericoli insiti nell’invocare una tossicomania come «la causa» del comportamento estremo o di una direzione storica negativa di Hitler o dei nazisti.
VI
Dovere dell’igiene razziale dev’essere quello di occuparsi con sollecitudine di un’eliminazione degli esseri umani moralmente inferiori più severa di quanto non sia praticata oggi... Noi dovremmo letteralmente sostituire tutti i fattori che determinano la selezione in una vita naturale e libera... Nei tempi preistorici dell’umanità la selezione delle qualità della resistenza, dell’eroismo, dell’utilità sociale ecc. fu praticata esclusivamente da fattori sociali esterni. Questo ruolo dev’essere oggi assunto da un’organizzazione sociale; in caso contrario l’umanità, per mancanza di fattori selettivi, sarà annientata dai fenomeni degenerativi che si accompagnano alla domesticazione.
Konrad Lorenz (1940)
Era probabilmente inevitabile che il progetto di sterminio T4 venisse esteso ai campi di concentramento, ma il programma sotto il quale esso fu eseguito, che reca il nome in codice 14f13, è sempre rimasto molto misterioso. Dall’angolo visuale di questo studio possiamo considerare questo programma un mezzo fondamentale per collegare l’uccisione medica diretta di cui ci siamo occupati fin qui con l’uccisione inserita in una visione medica attuata nei campi di concentramento, ossia per collegare la versione nazista dell’«eutanasia» col genocidio.
Non erano state le SS a gestire il T4, anche se avevano avuto strette connessioni col programma. Abbiamo visto come le SS avessero fornito i mezzi per uccidere: la camera a gas (che usava monossido di carbonio), elaborata dall’ufficiale delle SS Christian Wirth, oltre che altro personale e gli equipaggiamenti necessari per il trasporto e per l’eccidio. Altrettanto estesi erano stati i legami delle SS con i principali psichiatri del progetto T4 e il coinvolgimento di Heyde, a partire dal 1936, con i campi di concentramento, come supervisore del «controllo neurologico ed ereditario» dei prigionieri.
All’inizio del 1941 il capo del progetto T4, Bouhler, accettò di lasciar usare a Himmler il personale e gli impianti del T4 per liberare i campi dagli internati «in eccesso»: in particolare dai «malati più gravi», tanto fisicamente quanto mentalmente. Chiamato talvolta «eutanasia dei prigionieri» o (dai prigionieri) «Operazione invalidi», il programma risultante si chiamò ufficialmente «Operazione [o Trattamento Speciale] 14f13».a Questa denominazione derivò dal numero di riferimento usato per designare questa operazione nei documenti dell’Ispettorato dei Campi di concentramento.b Quella primavera «esperti psichiatri» del progetto T4 furono mandati nei lager, con l’assicurazione che il loro lavoro nella selezione di elementi «asociali» avesse importanza scientifica. Il loro lavoro, come nel progetto T4, si fondò su questionari anteriori. A questo scopo, però, i questionari furono semplificati, richiedendo solo il nome del prigioniero, la razza e le «condizioni di salute» (ossia se era incurabile).c La brevità del questionario era giustificata con la mancanza di tempo dei medici del programma T4, anche se dovevano essere i comandanti dei campi o i medici dei campi a fare una cernita iniziale. Per camuffare il procedimento, si diceva alle persone prescelte che sarebbero state inviate in una «casa di riposo». (In effetti, ci furono a quanto pare delle persone che si offrirono volontariamente, finché non ci si rese conto di quanto stava accadendo veramente vedendo tornare al campo gli effetti personali, ma non i prigionieri «messi a riposo».)6
Per quanto negligenti fossero i criteri di giudizio nel progetto T4, nel 14f13 era ancora peggio. Gli «esami» eseguiti dai medici del T4 erano superficiali o inesistenti e spesso i questionari non contenevano alcuna informazione medica, ma solo un elenco di crimini e deviazioni politiche del detenuto. Il comune personale dei lager costituito da SS poteva interpretare opinioni politiche o commenti insolenti sul Führer come sintomi di «deficienza mentale» o di «aberrazione psicologica» e la commissione dei medici in visita al campo non sollevava quasi mai obiezioni a una richiesta di «trasferimento» (a un impianto di uccisione) da parte delle SS. In qualunque modo venisse travestita la medicina, taluni internati osservarono che «i medici indossavano camici bianchi», anche se altri prigionieri supposero che si trattasse di uomini della Gestapo travestiti.7
Verso gli ebrei, questi medici in camice bianco svilupparono un procedimento che sarebbe diventato una sorta di marchio di fabbrica nazista: quello della diagnosi collettiva. Per gli ebrei non erano necessari né un «esame» né una considerazione dello stato di salute. Come ricordò uno psichiatra impegnato nel progetto T4, «era sufficiente prendere le ragioni addotte per l’arresto (spesso molto estese!) dai documenti e trasferirle nei questionari».8 Ciò significa che l’unica cosa che si doveva considerare era il fatto che erano ebrei e che potevano essere considerati come un gruppo: un modo di procedere, come vedremo, abbastanza simile a quello delle selezioni ad Auschwitz. Lo stesso psichiatra aveva copiato sul rovescio di fotografie di ebrei espressioni tratte dagli archivi delle SS di Dachau e Ravensbrück. Su una c’era scritto: «Ebreo incendiario ostile ai tedeschi; nel campo è pigro e insolente». Su un’altra: «Disposizione antitedesca. Sintomi: funzionario ben noto della KPD [Kommunistische Partei Deutschlands], agitatore militante». Su un’altra ancora: «Diagnosi: psicopatico asociale, ha un odio fanatico contro i tedeschi. Sintomi principali: comunista inveterato, inabile al servizio militare».9 Come affermò uno psichiatra tedesco del dopoguerra: «Sarebbe difficile trovare una documentazione più chiara della manipolazione politica di cui fu oggetto la professione psichiatrica».10
Una chiave alla comprensione della natura del 14f13 risiede nell’espressione «trattamento speciale» (Sonderbehandlung) compresa nel nome del programma. L’espressione «trattamento speciale», anche se in seguito sarebbe diventata un eufemismo per l’uccisione in generale, fu usata in origine (a partire dal 1939) come un concetto specifico della Gestapo e come uno specifico termine in codice per legittimare le esecuzioni extralegali. Così, in data 3 e 20 settembre 1939, Reinhard Heydrich emanò decreti che distinguevano fra i casi di cui ci si poteva occupare «nel modo abituale e quelli che richiedono un trattamento speciale»: questi ultimi, a causa della loro gravità, pericolosità e delle possibili «conseguenze propagandistiche meritano di essere considerati per l’eliminazione, spietatamente e senza riguardo alle persone». Il concetto era in accordo con la rivendicazione formalmente espressa da Hitler (nell’ottobre 1939, subito dopo lo scoppio della guerra) al «diritto di decidere sulla vita e sulla morte di tutti i tedeschi, senza tener conto delle leggi esistenti». Il T4 stesso era stato iniziato sulla base di questa rivendicazione, ma il 14f13 lo strutturò in connessione specifica col principio del «trattamento speciale». Il termine fu poi esteso a una varietà di casi nel lavoro della polizia segreta e a deliberazioni dell’Ufficio per la Razza e il Reinsediamento in relazione al trattamento di persone razzialmente indesiderabili. Alla metà del 1941 il termine veniva usato tanto correntemente in connessione allo sterminio di ebrei nell’Est, da condurre alla creazione di forme verbali come il participio passato sonderbehandelt («special-trattato», sottoposto a trattamento speciale). Nel giugno 1942 Himmler approvò l’applicazione dell’«eutanasia» a lavoratori polacchi tubercolotici, affermando: «Non ho alcuna obiezione a che vengano sottoposti a trattamento speciale i polacchi... che siano stati diagnosticati incurabili da medici autorizzati!».11
L’espressione «trattamento speciale» fu quindi applicata dapprima a presunti criminali pericolosi, poi a «vite senza valore» per la società, diagnosticate come tali dai medici (nel programma T4, nel quale però l’espressione non ebbe largo impiego), e infine all’«eutanasia», situata ancora in una prospettiva medica, attuata nei campi di concentramento (attraverso il programma 14f13, nel quale il termine fu sempre usato), quale fu praticata a danno di tutti i gruppi considerati indesiderabili dal regime (ebrei, omosessuali, oppositori politici, criminali comuni, «elementi inetti», critici cattolici eccetera) e ora giudicati tutti «vite indegne di vita». Quest’estensione dell’aura dell’«eutanasia» ai campi di concentramento accrebbe ora indefinitamente il potenziale raggio d’applicazione dell’uccisione in una prospettiva medica. E questa forma di uccisione extralegale ma legittimata assunse una speciale priorità e assolutezza: i protocolli della riunione delle SS del 1° gennaio 1940 su questioni dell’immigrazione connesse alla razza affermano che un giudizio individuale sul «trattamento speciale» doveva essere «incontestabile, come quello di un medico» (vedi anche le pp. 584-589).12
Benché il nome in codice avesse avuto origine nell’ufficio dell’Ispettorato dei Campi di concentramento, ordini e direttive provenivano solo dal quartier generale del T4, e i medici dei campi di concentramento si presentavano al quartier generale per esservi ricevuti da Heyde o da Nitsche e per lasciarvi i questionari compilati in modo da consentire di passare alla fase successiva; gli elenchi dei «trasferimenti» venivano preparati qui, cosicché gli internati annotati sugli elenchi potevano essere inviati direttamente in uno dei centri della morte ancora operanti (come Bernburg e Hartheim), dove venivano gassati nello stesso modo dei pazienti nel programma T4. Una variazione rispetto al procedimento del T4 era che la comunicazione del decesso veniva data dai campi anziché dagli organismi centrali, anche se con cause di morte similmente contraffatte. (All’inizio del 1942 non fu inviata alcuna comunicazione.) Il persistere del linguaggio pseudomedico dell’«eutanasia» si rifletté anche in documenti nazisti in riferimento all’«eutanasia di prigionieri» e nell’espressione «trasporti di invalidi», usata dagli internati nei lager.13
Nel corso del periodo in cui rimase in opera, il programma 14f13 subì vari mutamenti. Il suo interesse principale si spostò quasi subito dai malati mentali (ammesso che questi siano mai stati la principale preoccupazione) a detenuti politici, ebrei, polacchi, renitenti alla leva e persone dichiarate inabili al servizio militare, individui rei di crimini «razziali» e criminali abituali, finché i malati di mente passarono decisamente in secondo piano. Ancora nel marzo 1942, una direttiva inviata dal comando delle SS ai comandanti dei campi sottolineò che i detenuti capaci di lavorare non dovevano essere inclusi nel programma 14f13. (La decisione di non mandare a morte chi era in grado di lavorare potrebbe essere stata determinata in qualche misura dal fatto che gli impianti T4 restanti erano oberati di lavoro.) E in aprile, quando un numero sempre maggiore di internati dei campi venivano fatti lavorare in industrie di armi, si disse addirittura ai comandanti che dovevano essere selezionati per «essere scartati» (Ausmusterung) solo i veri malati di mente. Persino i malati costretti a letto potevano ricevere compiti appropriati. Come vedremo quando ci occuperemo di Auschwitz, nei campi ci furono sempre conflitti fra due fazioni, le quali potevano trovarsi entrambe all’interno della burocrazia delle SS. Una fazione era favorevole allo sterminio su vasta scala, l’altra allo sfruttamento della forza-lavoro.14
Secondo il dottor Hans-Günther Seraphim, un testimone esperto in vari processi del dopoguerra, è più probabile che uno «sterminio spietato» sia stato sollecitato dai comitati di medici del programma 14f13, con la loro posizione burocratica nella Cancelleria di Hitler, che non dall’amministrazione dei campi di concentramento.15 Quest’affermazione potrebbe essere valida per la maggior parte della storia del programma. All’inizio del 1944, però, man mano che la guerra continuava a esigere il suo tributo di vite umane, il programma 14f13 entrò in un’altra fase. Il lager di Mauthausen, nei pressi di Linz, per esempio, era gravemente sovraffollato e soffriva di condizioni sempre più antigieniche. Si richiese allora l’assistenza del vicino centro del programma T4 di Hartheim. Poiché a Mauthausen c’era semplicemente bisogno di spazio, non ci fu bisogno di questionari o di esperti. La selezione fu fatta dal personale del campo e fra coloro che furono avviati alla morte c’erano lavoratori schiavi dell’Est, prigionieri di guerra russi, ebrei ungheresi, testimoni di Geova e, soprattutto, Muselmänner.d
Hartheim ricevette carichi umani anche da Dachau e da Ravensbrück. In questa situazione furono eliminati persino internati in grado di lavorare. Ai cadaveri venivano estratti i denti d’oro, che venivano poi inviati al centro T4. A quanto pare furono selezionati per l’uccisione un numero così grande di detenuti che a Hartheim si riprese la gassificazione. Gli impianti di eliminazione di questa località furono infine smantellati nel dicembre 1944, quando il castello in stile rinascimentale della svolta del secolo divenne un ospizio per bambini, nell’intento di occultare ciò che vi era accaduto. A Hadamar, questo fu il momento in cui ricevettero iniezioni letali per ordine delle SS i lavoratori schiavi provenienti dall’Est, che furono diagnosticati categoricamente come «tubercolotici» (vedi pp. 145-148).17
Un attento osservatore rileva che il programma 14f13 ebbe inizialmente l’obiettivo di sterminare gli internati nei campi affetti da infermità psichiatriche; e che, data la rozzezza degli inganni usati, «è difficile capire perché Himmler non abbia affidato il compito di eseguire le selezioni ai medici dei campi, dal momento che, con i criteri applicati, qualsiasi sergente delle SS avrebbe potuto agire con la stessa competenza... [e] i professori esperti avrebbero potuto apporre le loro firme a Berlino».18 La risposta si trova, secondo me, nel forte impulso nazista, a volte cosciente e altre volte appena incipiente, a fornire il massimo grado di legittimazione medica alla più vasta gamma di eliminazioni.
Il progetto 14f13 fornì due ponti cruciali fra concetti e indirizzi correnti e un genocidio sfrenato. Il primo fu il ponte ideologico fra l’uccisione delle persone considerate fisiologicamente indegne di vivere e l’eliminazione, sotto la direzione di medici, di tutti coloro che il regime considerava indesiderabili o inutili; il ponte, cioè, fra l’uccisione medica diretta e l’uccisione legittimata in una prospettiva medica. Il carattere fraudolento del processo fu abbastanza chiaro anche a coloro che lo eseguirono – persino uno dei medici del programma 14f13 mise fra virgolette la parola «esame» in una lettera alla moglie19 – ma l’uso persistente della terminologia medica obbedì a fini ideologici e psicologici per i singoli partecipanti.
Il secondo è il ponte istituzionale fra il progetto T4 e i campi di concentramento (i quali erano stati fondati nel 1933 [vedi cap. VII]). I campi stessi vennero connessi a un principio di uccisione medicoeugenica. La sequenza nella gestione delle uccisioni passò dal T4, agli uffici centrali e all’Ispettorato dei Campi in generale, fino a un’iniziativa sempre più allargata da parte di singoli medici. In questo modo i medici dei campi si assunsero sempre più la funzione dell’«eutanasia», e tale funzione si fuse con la loro partecipazione all’eccidio. Questa sequenza risulta abbastanza chiara in un rapporto investigativo del 1944 del giudice Konrad Morgen, appartenente alle SS, sulla corruzione nei campi. Morgen distinse, nell’attività dei campi, fra forme di uccisione illegali e legali. Egli menzionò come legali «quei casi in cui i medici, con loro decisione personale, liberano dalle loro sofferenze pazienti malati in modo incurabile somministrando loro un farmaco per una morte pietosa». E, nella frase successiva, aggiunse: «Lo stesso vale per quei casi in cui dei medici agirono in uno stato di emergenza, in cui uccisero vittime di epidemie e coloro che potevano essere sospettati di essere contagiati, e li uccisero in modo indolore, per prevenire la morte di numerose altre persone».20 L’omicidio praticato in una situazione del genere poteva essere sovrapposto facilmente all’«uccisione pietosa» in quanto entrambi venivano percepiti come funzioni mediche. (Nella Parte Seconda, osserveremo come un tale approccio «preventivo» alle epidemie sia stato perseguito sistematicamente nel quadro dello sterminio.)
Con l’eccezione di Auschwitz, tutti i campi di concentramento in cui il programma 14f13 fu operativo (per esempio, Dachau, Sachsenhausen, Ravensbrück) furono del tipo standard, in cui gli internati venivano percossi, affamati, sottoposti al lavoro forzato e spesso uccisi; ma la funzione complessiva del campo non era lo sterminio in sé. Fornendo a questi campi ordinari dei centri di eliminazione oltre che un processo di selezione corrotto per facilitare le uccisioni di massa, il programma 14f13 li trasformò in equivalenti funzionali dei campi di sterminio. Questa trasformazione poteva essere temporanea, o protratta nel tempo come nel caso di Mauthausen e di Hartheim. I medici del T4 fecero estese selezioni a Mauthausen nella prima fase di applicazione del 14f13; successivamente furono i medici del lager di Mauthausen a compiere selezioni di persone che dovevano essere uccise a Hartheim. La connessione continuò fino allo smantellamento del centro, quando l’ordine venne non dalle SS bensì dalla Cancelleria di Hitler, e specificatamente da Viktor Brack, l’amministratore centrale del programma di «eutanasia».21
In definitiva, quindi, il programma 14f13 diede la possibilità di applicare in modo virtualmente illimitato il programma di «eutanasia», specialmente a danno di ebrei, ma anche di zingari, di russi, di polacchi e di altri tedeschi. Il messaggio dei nazisti – alle vittime, ai possibili osservatori e soprattutto a se stessi – fu: tutte le nostre uccisioni sono uccisioni mediche, dettate da ragioni mediche ed eseguite da medici. Si ritiene che il progetto 14f13 abbia determinato direttamente la morte di più di ventimila persone, ma i concetti e i procedimenti da esso promossi contribuirono alla morte di milioni di persone.
La serie di lettere che il dottor Friedrich Mennecke scrisse a sua moglie (che era a sua volta un’assistente di laboratorio del progetto T4) dai vari campi di concentramento da lui visitati forniscono una visione del 14f13 dall’interno: in modo abbastanza appropriato, queste lettere furono spesso scritte sul rovescio dei questionari stampati per l’«eutanasia».
Mennecke era un nazista fervente, essendo entrato nel partito e nelle SS nel 1932 ed essendo stato vice capo del partito nella sua area, cosa in verità un po’ insolita per un medico, così com’era insolito il fatto che un medico fosse figlio di un muratore. Egli rivendicò, nella corrispondenza con autorità del partito, un forte impegno professionale nella «biologia ereditaria» e nella sterilizzazione. Aveva solo tre anni di esperienza nell’ospedale psichiatrico statale di Eichberg quando, nel 1939, ne fu nominato direttore. A Eichberg fu creata un’unità speciale per l’uccisione in massa di bambini. Nel 1941, a soli trentasette anni di età, Mennecke fu uno fra i principali dirigenti del programma 14f13.22 Le sue lettere suggeriscono una varietà di modi in cui un medico poteva sperimentare entusiasmo professionale in connessione con la partecipazione all’omicidio.
Nelle sue lettere si avverte il senso di una speciale opportunità professionale: «Il nostro lavoro qui [al campo di Sachsenhausen] è molto, molto interessante... Sto raccogliendo... grandi quantità di nuove esperienze» (4 aprile 1941). Tre giorni dopo: «Attribuisco un valore particolare a questi esami in vista di un’eventuale futura utilizzazione scientifica». Mennecke parla con orgoglio della possibilità di assumersi maggiori responsabilità: «Ho parlato al telefono col dottor Heyde e gli ho detto che sarei in grado di sbrigare tutto da me, cosicché oggi nessuno è venuto ad aiutarmi» (20 novembre 1941). Le sue lettere documentano anche un’alacre operosità professionale: «Il 13 dicembre [1941] andremo di nuovo a Berlino, da dove ripartiremo il 14 per Fürstenberg [Ravensbrück], dove cominceremo a lavorare il 15. A Ravensbrück dovremo avere finito il 21 dicembre» (25 novembre 1941). C’è un senso di efficienza fondato sulla statistica: «Anche se oggi ho dovuto cominciare a lavorare mezz’ora dopo, ho battuto un record. Sono riuscito a compilare 230 moduli, cosicché ne ho già completati un totale di 1192» (1 dicembre 1941). E dopo avere riempito altri 80 moduli lavorando «di buona lena» per meno di due ore il mattino seguente, espresse un senso di trionfo col suo totale di 320 moduli, «che il dottor Müller [il suo collega al programma 14f13] non sarebbe senza dubbio riuscito a completare neppure in due giorni interi. Chi lavora velocemente risparmia tempo!»e (2 dicembre 1941). E il suo zelo professionale nel trasmettere a un medico del campo e al comandante «le mie idee su quali internati dovrebbero essere presi in considerazione per la registrazione» sfociò – fortunatamente per lui – nella decisione che «il numero dev’essere aumentato di 60-70 unità» (20 novembre 1941).
Al tempo stesso, la sua consapevolezza almeno parziale del carattere fondamentalmente fraudolento dell’operazione emerge nell’uso frequente di virgolette per la parola «esaminato» e in commenti come: «Ci sono solo 2000 uomini, i quali finiranno molto presto, poiché vengono esaminati nello stesso stile di una catena di montaggio» (3 settembre 1941) e «Sulla composizione dei paz[ienti a Ravensbrück] non vorrei scrivere niente in questa lettera» (20 novembre 1941). È chiaro che comincia a emergere il disinganno, poiché in una lettera del 19 novembre 1941 alla moglie egli scrive che, quando Heyde gli chiese di continuare a dedicarsi indefinitamente a questo stesso lavoro, «io declinai molto gentilmente» e in una posteriore discussione, all’inizio del 1942, egli disse a Nitsche «che volevo tornare nel mio ospedale (a Eichberg]» (14 gennaio 1942).f
Uno dei modi in cui Mennecke continuò a operare, pur rendendosi conto del carattere fraudolento del programma, fu condannando quello che considerava un eccesso all’interno del progetto («Si dice che [il dottor Hans] Gorgass... si sia comportato in un modo spaventoso a Buchenwald... Pare che abbia agito più come un boia che come un medico, arrecando in tal modo pregiudizio al buon nome di tutta la nostra operazione. Noi dovremo ora stirare queste grinze» [25 novembre 1941]. Di contro, Mennecke lasciò intendere un dignitoso professionismo per se stesso e una buona reputazione medica per il progetto.
Come molti medici implicati nell’eccidio medico, Mennecke condannò «Berlino» – intendendo i dirigenti del progetto – per avere esercitato eccessive pressioni su di lui: «A Berlino (Jennerwein!)g si dice semplicemente di farne 2000 di più: se un così gran numero ricada o no sotto i criteri fondamentali è una cosa di cui ci pare che nessuno si dia pensiero!» (20 novembre 1941). Mennecke sviluppò la collera del burocrate sottomesso verso l’inefficienza dall’alto, la quale, in questo caso, gli chiedeva di tornare in certi campi una seconda volta. Ma l’espressione di sentimenti come «Oggi la disorganizzazione a Berlino ha raggiunto il culmine» potrebbe aver fornito a Mennecke proprio quel modo di sfogarsi che gli consentiva di continuare a svolgere il suo lavoro. Un sostegno ancor più importante gli venne dall’opportunità di frequentare la stessa élite di «Berlino» in alberghi di lusso, come il Bayerisches Hof a Monaco di Baviera: «Andammo alla stazione ferroviaria alle sette del mattino a ricevere il professor Nitsche (e il professor Heyde) oltre che Frau Nitsche» (3 settembre 1941). «[Heyde] fu molto, molto amichevole... [Il professor Nitsche] fu molto, molto cordiale e mi chiese di te.» Mennecke era fuori di sé per il piacere quando fu elogiato e trattato da collega: «Anche Heyde parlò in termini molto lusinghieri del mio lavoro... Io discussi con lui vari punti interessanti concernenti il nostro lavoro» (19 novembre 1941). Quel senso di approvazione paterna, di fusione con l’autorità, e di riconferma del suo status medico-professionale aiutò Mennecke a conservare la sua insensibilità: «Una seconda infornata di 1200 ebrei seguì [a un gruppo più piccolo di non ebrei], ma non ci fu bisogno di “esaminarli”» (25 novembre 1941).
Tale ottundimento della sensibilità diventa una parte importante di un «sé medico omicida» che si separa in modo più o meno totale dal resto del sé, nel processo di sdoppiamento della personalità che esaminerò in connessione con i medici di Auschwitz. Importante per questo processo è l’affermazione, da parte di Mennecke, del suo sé anteriore conseguita rivolgendo affettuosità alla moglie: «La prossima volta verrà con me la mia Mutti [mamma]... Baci affezionatissimi dal tuo devoto Vati [papà]... Bacini dal tuo sempre devoto Fritz-Pa». Rapporti cordiali con dirigenti e colleghi del programma 14f13 univano i due elementi dissociati del sé, come in una cartolina spedita da una località pittoresca famosa vicina a Monaco, lo Starnberger See («Poiché cominceremo a lavorare domani, abbiamo fatto una bella gita» [3 settembre 1941]), e firmata non solo dallo stesso Mennecke ma anche dal dottor Gerhard Wischer, capo dell’istituto di Waldheim in Sassonia, dal dottor Nitsche, dal dottor Viktor Ratka, dal dottor Rudolf Lonauer, direttore a Hartheim, da Eric Bauer, autista, e, aggiunto separatamente, dal dottor Theodor Steinmeyer. C’è anche una fotografia di gruppo di questi escursionisti rilassati.25h
All’equilibrio fra i suoi due sé contribuì anche l’orgoglio di essere classificato «essenziale» al regime (e quindi non soggetto alla leva militare). Mennecke fu condannato a morte da un tribunale tedesco, ma morì in prigione nel 1947 di tubercolosi, contratta durante il lavoro al programma di «eutanasia».26
Sul numero delle persone uccise nell’ambito dei progetti T4 e 14f13 si danno di solito le seguenti statistiche: malati di mente adulti provenienti da ospedali, da 80.000 a 100.000; bambini in ospedali, 5000; azione speciale contro ebrei in ospedali, 1000; detenuti in campi di concentramento trasportati in centri di eliminazione (14f13) 20.000. (Klee stimò che, alla fine del 1941, fossero stati liberati per altri usi 93.521 «letti» [70.000 pazienti gassati, più oltre 20.000 morti per fame e in conseguenza della somministrazione di farmaci]: in altri termini, approssimativamente un terzo dei posti per i malati di mente.)27 Queste cifre potrebbero essere, però, molto inferiori al vero; potrebbero in effetti essere state uccise un numero doppio di persone. Il fatto è che non sappiamo, e probabilmente non sapremo mai. Elementi di inganno, caos imposto e la distruzione di molti archivi rendono impossibile una stima abbastanza precisa.
Lo stesso vale per il numero totale di persone uccise in centri di eliminazione specifici. Le vittime di Hartheim, nell’ambito dei due programmi, di «eutanasia» normale e del 14f13, sono variamente stimate fra 20.000 (dal dottor Georg Renno, successo come direttore a Lonauer) e 40.000 (da Franz Ziereis, l’ex comandante di Mauthausen, sul suo letto di morte); si ritiene che 30.000 sia la stima migliore.28 Benché queste cifre possano sembrare modeste al confronto con i milioni di persone uccise nel quadro della Soluzione finale, rappresentano nondimeno l’assassinio di un numero terribilmente grande di persone, il tutto in luoghi indicati come ospedali.
Mennecke descrisse a sua moglie, il 12 gennaio 1942, un momento oscuro ma centrale nella sequenza dal T4 al genocidio. «Ieri l’altro» scrisse «un grande gruppo della nostra Operazione partì per l’Est sotto la direzione di Herr Brack per aiutare a salvare i nostri feriti nel ghiaccio e nella neve.» Questa missione era «segretissima! Non sono andati solo coloro che erano indispensabili per svolgere il lavoro più urgente della nostra Operazione». Il gruppo, formato da venti-trenta fra medici, infermieri e personale d’ufficio, forniti particolarmente da Hadamar e da Sonnenstein, varcò a quanto pare il confine russo e si recò in una località imprecisata nell’area di Minsk. Se così stavano veramente le cose, non c’era alcuna ragione per tener segreta una missione così dichiaratamente umanitaria e patriottica. La segretezza fu dovuta, a quanto pare, a due ordini di motivi. Innanzitutto, alcuni osservatori pensano che questo gruppo praticasse l’«eutanasia» su soldati tedeschi: su quelli feriti gravemente, in particolare se avevano subito lesioni cerebrali, o anche se erano stati resi psicologicamente inabili alla lotta.29 Tali uccisioni non avrebbero potuto, ovviamente, essere rese di dominio pubblico. In secondo luogo, questo progetto aveva attinenza a quanto pare con la creazione di campi di sterminio in Polonia, per cui una parte del personale della missione si fermò nell’Est. Figure chiave di questa missione furono Christian Wirth (vedi pp. 106-108), la cui conoscenza tecnica delle camere a gas del programma T4 sarebbe ora stata usata nell’Est (si stava costruendo allora Belzec), e il dottor Irmfried Eberl, che sarebbe diventato ben presto comandante a Treblinka.30i
Un altro medico della missione, Horst Schumann, avrebbe presto completato il suo itinerario dai centri della morte di Grafeneck e Sonnenstein ad Auschwitz (vedi pp. 380-389).
L’estate precedente il dottor Ernst von Grawitz aveva raccomandato a Himmler l’uso di camere a gas come il metodo migliore per procedere a uccisioni di massa. Il metodo del monossido di carbonio sviluppato per l’«eutanasia» fu successivamente usato in tutti i campi della morte, con l’eccezione di Auschwitz.
Tutti questi sviluppi furono espressione dell’evolversi di una mentalità votata al genocidio. I nazisti erano avviati a realizzare con la violenza la visione di Lorenz (citata nell’epigrafe a questo capitolo) della necessità di sostituirsi ai fattori naturali della selezione.31 Come hanno infatti sottolineato Raul Hilberg e altri (e come vedremo nella Parte Terza), pare che il genocidio nazista non sia stato il risultato finale di un piano chiaro, sviluppatosi gradualmente nel corso del tempo, bensì piuttosto che si sia evoluto da un repertorio di nozioni e immagini più o meno confuse condivise dai capi nazisti.32 Un periodo cruciale per l’evoluzione di questa mentalità genocida fu l’inizio del 1941, quando le restrizioni al programma di uccisione medica furono sempre più abbandonate e un’azione risoluta fu dapprima incoraggiata e poi richiesta. Questo fu anche il periodo dei preparativi per l’invasione dell’Unione Sovietica, dell’attivazione delle Einsatzgruppen, dell’estensione del programma T4 nel 14f13, e della trasformazione della visione biomedica nella Soluzione finale. L’invasione dell’Unione Sovietica in giugno ebbe un’importanza estrema. Essa sottopose a uno sforzo enorme tutte le risorse tedesche, comprese quelle necessarie a mantenere un gran numero di prigionieri sovietici. L’invasione ebbe come conseguenza anche la crescente concentrazione nei ghetti di un numero grandissimo di ebrei, con i problemi connessi non solo di fame ma anche di epidemie che potevano estendersi anche al personale tedesco: ed ebbe luogo dopo il rifiuto opposto a vari piani su vasta scala miranti al reinsediamento degli ebrei in altre aree, fra cui il Piano del Madagascar. Questi problemi, nell’ambito della visione biomedica e della mentalità bellica dei nazisti, poterono essere risolti con un’espansione continua dell’«eutanasia»: con una politica di «eliminazione di vite indesiderate» che non ha l’eguale nella storia umana.
a. C’è qualche prova – le rievocazioni di Friedrich Mennecke nella sua testimonianza a Norimberga1 – che già nell’estate del 1940 psichiatri del progetto T4 vennero mandati nei lager per valutare detenuti sui quali si aveva già un primo giudizio nei questionari originali compilati da medici dei lager. Un commentatore vede in questa prima sequenza una fase sperimentale nell’espansione dell’«eutanasia».2 Altri si chiedono invece se una fase del genere si sia davvero verificata.3
b. Similmente, in tali documenti, i decessi naturali avevano per esempio la sigla 14f1; la sigla 14f2 indicava un suicidio o una morte accidentale; il 14f3 la morte per ferite di arma da fuoco in occasione di un tentativo di fuga; il 14f4 un’esecuzione.4
c. Questo fatto contraddice la posteriore testimonianza di Nitsche secondo cui «l’eliminazione dai c[ampi di] c[oncentramento] veniva condotta esattamente in accordo con lo stesso punto di vista, per mezzo degli stessi questionari, come negli ospedali psichiatrici». Nitsche sostenne che, a causa delle voci di tumulti popolari per l’invio dei malati di mente nei lager, essi vennero rimandati nei loro istituti.5
d. Muselmann o Moslem (musulmano) era una parola di gergo nei campi per indicare internati ridotti a veri cadaveri viventi, i quali erano chiamati così, secondo Hermann Langbein (che riferisce la testimonianza del dottor Władysław Fejkiel) perché «Se si osservava un gruppo di malati da lontano, si aveva l’impressione di arabi in preghiera».16
e. E, non va trascurato, guadagna più denaro. Il servizio come esperto al programma T4 era un lavoro a cottimo. Il compenso mensile fino a 500 questionari era di 100 marchi, fino a 2000 questionari di 200 marchi, fino a 3500 di 300 marchi e sopra i 3500 di 400 marchi.23
f. In una deposizione in tribunale nel novembre 1946, Mennecke sostenne che, dal 1942 in poi, si era reso conto che «tutti questi metodi del governo nazista erano disumani e crudeli e del tutto indiscriminati e deplorevoli»: in realtà egli era consapevole di alcune di queste verità già dal 1940. Anche se dovremmo conservare in proposito un atteggiamento scettico, può darsi che egli cercasse di evitare quel tipo di consapevolezza persino quando procedeva entusiasticamente a svolgere il suo lavoro mortale. Egli sostenne che, durante le sue prime visite ai campi di concentramento, gli internati venivano esaminati individualmente «per accertare la presenza di psicosi o di sintomi psichiatrici» e che quello che si stava affrontando allora era ancora «un problema medico».24 Questa affermazione potrebbe essere del tutto falsa. Ma anche se fosse in parte vera, suggerirebbe il carattere altamente dubbio della prospettiva medica del progetto sin dalle sue origini.
g. Jennerwein era il nome in codice del direttore amministrativo del programma T4, Brack. Poiché Brack non era un medico, il risentimento di Mennecke qui potrebbe essere diretto in parte verso qualche ignoranza o irragionevolezza «non medica» percepita. È difficile dire che cosa intendesse Mennecke parlando di «criteri fondamentali» violati. È probabile che essi avessero a che fare con la capacità di lavorare, e che i funzionari del T4 stessero premendo perché fossero inclusi negli elenchi un numero sempre maggiore di non lavoratori (o di internati giudicati inabili al lavoro).
h. Mennecke manifestò una combinazione di sentimenti simile ringraziando il direttore di un istituto in cui si era recato a esercitare pressioni allo scopo di rendere più celeri le selezioni per l’«eutanasia»: «Ripenseremo con gioia ai giorni trascorsi con Lei... e avremo i più bei ricordi delle singole corsie».
i. Molti di coloro che erano stati mandati in origine nell’Est tornarono in Germania prima di essere assegnati ai campi di sterminio.
Parte Seconda
Se i nazisti avessero dato alle loro istituzioni di «eutanasia» dei nomi conformi ai loro concetti, avrebbero potuto parlare del «Centro di Hartheim [o di Grafeneck] per l’uccisione terapeutica genetica» e, corrispondentemente, del «Centro di Auschwitz per l’uccisione terapeutica razziale».
Fu un medico nazista, Heinz Thilo, a dare ad Auschwitz un nome molto più appropriato – anus mundi, «ano del mondo» – espressione con cui intese caratterizzare quello che un altro medico nazista, Johann Paul Kremer, descrisse come «il più orribile di tutti gli orrori»: «l’azione... particolarmente sgradevole di gassare donne ridotte a pelle e ossa».1
Uno psichiatra polacco ha suggerito che l’espressione anus mundi rifletta con precisione la visione nazista della «necessità di ripulire il mondo», una visione «del superuomo tedesco..., di un mondo in cui non ci fosse posto per malati, storpi, persone psicologicamente immorali, contaminate da ebrei, da zingari o da altro sangue».2 Tutte queste persone, sta dicendo questo psichiatra, erano per i nazisti materiale biomedico di scarto. Ad Auschwitz, in particolare, i rifiuti umani erano specialmente gli ebrei.
Benché il campo di Auschwitz ospitasse zingari, polacchi e russi, solo gli ebrei furono sottoposti a selezioni sistematiche.a La funzione primaria di Auschwitz, una volta che essa fu ristabilita, fu infatti l’uccisione di ogni singolo ebreo su cui i tedeschi (nelle parole di Himmler) fossero riusciti a mettere le mani in qualsiasi paese.
Il medico delle SS non svolgeva primariamente un lavoro medico. La sua funzione primaria era quella di eseguire il programma istituzionale di Auschwitz, quello del genocidio sotto l’egida della medicina.3 Consideriamo le attività del medico SS ad Auschwitz. Egli eseguiva le selezioni iniziali su vasta scala degli internati ebrei al loro arrivo al campo di Birkenau (cap. VIII). Queste selezioni venivano condotte di solito secondo la formula seguente: persone vecchie e debilitate, bambini e donne con bambini venivano selezionati tutti per la camera a gas, mentre gli adulti giovani in buone condizioni di salute venivano lasciati sopravvivere, almeno temporaneamente. L’esperienza delle vittime, con cui cominciamo, ci dà il quadro più fedele della realtà di Auschwitz.
Compiuta la selezione, il medico saliva su un veicolo delle SS, contrassegnato di solito con una croce rossa, assieme a un tecnico medico (che faceva parte di un gruppo speciale di «disinfettori», o Desinfektoren, appartenente al Sanitätsdienstgrade o SDG), e si recava a una camera a gas adiacente a uno dei crematori. In quanto Führer, o «capo» della squadra, il medico aveva la responsabilità di controllare che il processo di uccisione venisse eseguito correttamente, anche se erano i disinfettori a introdurre nell’impianto le pallottole del gas e se l’intera sequenza finì col diventare una routine così abituale da richiedere ormai ben pochi interventi. Il medico aveva anche il compito di dichiarare che le persone all’interno della camera a gas erano morte, e a volte guardava attraverso uno spioncino per osservarle. Anche questo fatto divenne una routine, e infine si lasciavano semplicemente passare una ventina di minuti prima di aprire le porte della camera a gas e trasportare fuori le vittime.
I medici SS eseguivano anche altre due forme di selezione (cap. IX). In una gli internati ebrei venivano fatti schierare, con brevissimo preavviso, in vari luoghi nel campo e i loro ranghi venivano sfoltiti per lasciare spazio ai sostituti presumibilmente più sani forniti dai nuovi trasporti. L’altro tipo di selezione si verificava direttamente nei blocchi medici, in una caricatura del triage. Anziché lasciar semplicemente morire le persone più prossime alla morte – per usare le limitate risorse mediche disponibili nella cura di coloro che potevano essere salvati – come nel triage medico tradizionale (dando al termine il significato in cui lo avevano usato in origine i militari francesi), i nazisti combinarono il triage con l’omicidio, inviando alla camera a gas le persone giudicate molto malate o debilitate, o che richiedevano più di due o tre settimane per guarire.
L’omicidio nella forma del triage medico divenne un procedimento standard delle SS, influenzato sia dalla visione della Soluzione finale sia dalle esigenze economiche della I.G. Farben. Ma un altro fattore di grande importanza fu la residua influenza esercitata nei campi dall’azione del programma di «eutanasia» 14f13. In altri termini, il principio di uccidere i vecchi, i malati e in generale le persone indesiderabili era stato dapprima stabilito in ambienti medici, esteso poi specificamente ai campi di concentramento, e poi istituzionalizzato (ancora in ambienti medici) ad Auschwitz, e solo ad Auschwitz, su una scala grandissima. Quell’influenza del programma 14f13 implicò tanto la mentalità quanto la legalità di una forma medica dell’assassinio nella forma del triage, così che il tribunale di Francoforte poteva considerare le uccisioni conseguenti a una scelta medica come probabilmente derivate dai procedimenti del programma 14f13. In altri termini, le versioni naziste dell’«eutanasia» e la Soluzione finale vennero a convergere nei blocchi medici di Auschwitz, trasformandoli in tal modo in un fattore importante dell’ecologia dell’omicidio nel campo di sterminio di Auschwitz.4
I medici SS condussero anche forme omicide di «epidemiologia»: i prigionieri affetti da malattie infettive – di solito tifo ma anche scarlattina o altre forme contagiose – venivano inviati nelle camere a gas, a volte assieme agli altri pazienti ricoverati nello stesso blocco medico (molti dei quali potevano benissimo non essere infetti), dopo di che si poteva procedere a una «disinfezione» totale del blocco così svuotato. (I medici nazisti svolsero un ruolo simile in Polonia, dove contribuirono all’adozione di misure oppressive giustificate col pretesto di controllare le epidemie, e specialmente il tifo.)5
I medici SS ordinavano l’uccisione di pazienti debilitati, e a volte la eseguivano personalmente nei blocchi medici, praticando loro iniezioni di fenolo nel circolo sanguigno o nel cuore (cap. XIV). Il metodo delle iniezioni fu particolarmente diffuso nei primi anni di Auschwitz (1941-1943), prima del pieno sviluppo delle camere a gas. Esse venivano eseguite di solito da tecnici medici o da prigionieri abbrutiti, che fungevano da sostituti dei medici. I medici SS si occuparono anche di un altro tipo di uccisioni per mezzo del fenolo, ordinate dal Dipartimento politico di Auschwitz (in realtà dalla Gestapo), le cosiddette «esecuzioni occulte»: l’uccisione di prigionieri politici polacchi o, occasionalmente, di militari tedeschi o altro personale condannato a morte per varie ragioni. I medici presenziavano anche ad altre esecuzioni di prigionieri politici – di solito mediante fucilazione – per dichiarare la vittima ufficialmente morta.
In occasione di tutte queste uccisioni i medici firmavano falsi certificati di morte, attribuendo il decesso di ogni internato ad Auschwitz, o delle persone ivi condotte dall’esterno per esservi uccise, a una malattia specifica (cardiaca, respiratoria, infettiva o di qualsiasi altro genere). Gli ebrei che erano stati selezionati per l’esecuzione alla banchina, al loro arrivo, non essendo entrati nel campo non richiedevano un certificato di morte.
I dentisti SS, che lavoravano a stretto contatto con i medici, e che eseguivano anch’essi selezioni, avevano l’incarico di sorvegliare i Kommandos di detenuti che estraevano i denti d’oro e le otturazioni d’oro agli ebrei morti, dopo la loro gassificazione.
I medici SS (secondo Höss) dovevano far abortire le donne «straniere» (fremdvölkisch) trovate incinte. Sia che questa categoria comprendesse o no donne ebree (o che queste formassero una categoria separata a sé), nel caso di queste ultime gli aborti cominciarono a essere praticati in segreto da medici ebrei prigionieri nel campo, quando divenne chiaro che una diagnosi di gravidanza in una donna ebrea significava la gassificazione immediata.
Nel caso di punizioni corporali ufficiali (per esempio mediante fustigazione), i medici SS erano tenuti sia a firmare moduli che attestavano la capacità fisica del prigioniero di sopportare tale punizione sia a essere presenti durante la somministrazione della pena.
I medici SS fornivano anche una consulenza attiva per far sì che le selezioni potessero procedere senza intoppi: per esempio facendo raccomandazioni sull’opportunità di separare donne e bambini o di permettere che rimanessero assieme. Essi davano consigli anche sul numero di persone che era opportuno lasciare in vita, soppesando i benefici che il regime nazista avrebbe tratto dal lavoro svolto dagli internati di contro agli accresciuti problemi sanitari creati dal mantenere in vita persone relativamente debilitate.
Ci si appellava alla competenza tecnica dei medici anche per quanto concerneva la cremazione dei corpi, un problema grosso ad Auschwitz nell’estate del 1944, quando l’arrivo di un numero enorme di ebrei ungheresi mise in crisi la capacità dei crematori, imponendo di procedere a cremazioni all’aperto.
Le selezioni, il rituale quintessenziale di Auschwitz, compendiarono e conservarono il paradosso dell’uccisione come terapia. Le prime selezioni eseguite dal medico SS al suo arrivo al campo erano il suo rituale di iniziazione, il suo passaggio dalla vita comune all’universo di Auschwitz, e una prima evocazione del suo «sé di Auschwitz».
Nei termini di richieste professionali reali, non c’era assolutamente alcun bisogno che le selezioni venissero compiute da medici: chiunque avrebbe potuto eseguire la scelta di prigionieri deboli e moribondi. Ma se si considera Auschwitz, come fecero gli ideologi tedeschi, come un’impresa sanitaria pubblica, solo i medici potevano assumersi quel compito. Così facendo, il medico si tuffò in quello che si può chiamare il paradosso dell’uccisione come terapia.
Specialmente per lui, l’uccisione divenne una condizione per la guarigione. Egli poteva provvedere alla cura medica solo se il mattatoio veniva mantenuto in piena funzione. E la sua terapia (il blocco medico) era al tempo stesso un centro di smistamento per ulteriori uccisioni. Il medico SS divenne un fautore delle uccisioni a due livelli fondamentali: da un lato quello dell’ecologia del campo (selezionando un maggior numero di prigionieri al loro arrivo e in infermeria, quando il campo era sovraffollato, quando le condizioni di igiene erano minacciate e quando la grande quantità di internati malati o deboli sottoponeva le strutture mediche a uno sforzo eccessivo e diminuiva l’efficienza del lavoro [vedi pp. 251-253]), e dall’altro in connessione con la visione biomedica generale (quella di risanare la razza nordica liberandola dal pericoloso contagio del sangue ebraico), quale che fosse il grado di intensità del suo impegno in tale visione. Il paradosso dell’uccisione come terapia era quella che il dottor Ernst B. chiamò la «situazione schizofrenica». Ma tale situazione fu una condizione istituzionale duratura, la base dell’equilibrio sociale ad Auschwitz (vedi pp. 291-296).
Non si poteva però permettere ai prigionieri di metter fine da sé alle loro sofferenze: il suicidio violava la logica del paradosso dell’uccisione come terapia. In effetti il suicidio compiuto apertamente, come quello di lanciarsi contro un reticolato elettrificato, era considerato una violazione grave della disciplina e diventava spesso oggetto di inchieste minuziose. (I suicidi di prigionieri a Treblinka furono descritti da un commentatore come la «prima affermazione di libertà», e avrebbero contribuito a una significativa ribellione dei prigionieri in quel campo.)6 Una sottomissione più graduale alla morte, come nel caso dei Muselmänner, poteva essere tollerata o addirittura incoraggiata perché non sembrava sfidare il controllo nazista sulla vita e la morte. Il paradosso dell’uccisione come terapia, per essere interiorizzato dal «sé di Auschwitz», richiedeva un controllo esclusivo della vita e della morte da parte dei perpetratori nazisti.
La parola-chiave nel rovesciamento della guarigione-uccisione è Sonderbehandlung, o «trattamento speciale», trasferita qui dalla prassi nazista e in particolare dal progetto 14f13 (vedi pp. 193-195). Abbiamo visto come quest’eufemismo per indicare l’uccisione suggerisce una qualche affinità con la terapia medica, facendo pensare a un’assoluta legalità. (Nell’uso burocratico generale, «speciale» [sonder-] era l’opposto di «normale»: treni speciali e treni normali, tribunali speciali e tribunali normali eccetera) Speciali procedimenti erano ritenuti necessari in risposta a condizioni speciali. La parola non solo toglieva ogni implicazione negativa alle uccisioni e aiutava a trasformarle in un’attività di routine, ma, nello stesso tempo, infondeva in esse una priorità quasi mistica al «sé di Auschwitz» nell’eseguirle. L’uccisione assumeva un certo senso di necessità e di adeguatezza, accentuata dall’aura medica, oltre che militare, che la circondava.
La Sonderbehandlung faceva parte dell’imperativo mistico di uccidere tutti gli ebrei; e una volta che Auschwitz ebbe raccolto quell’imperativo, ogni ebreo che arrivava o che era già internato nel campo poté essere sentito dal «sé di Auschwitz» del medico nazista come destinato alla morte e, psicologicamente parlando, già morto. L’uccisione di chi è già morto non dev’essere sentita necessariamente come un omicidio. E poiché gli ebrei, per molto tempo le vittime designate dei nazisti, venivano percepiti più in generale come portatori di morte, o veicolo della corruzione della morte, essi divennero «doppiamente morti». Esattamente come non si poteva uccidere chi era già morto, non si poteva procurare loro alcun danno comunque se ne mutilasse il corpo nella sperimentazione medica. Gli esperimenti sull’uomo eseguiti da medici nazisti (cap. XV), pur essendo marginali a questioni di ecologia, furono in pieno accordo con la visione biomedica più generale del regime.
Per esercitare la loro funzione di regolazione dell’ecologia di Auschwitz, i medici SS avevano bisogno del concreto lavoro medico dei medici prigionieri, i quali avevano a loro volta bisogno dei medici SS per avere l’autorizzazione a compiere tale lavoro: per mantenere in vita altri prigionieri e per rimaner vivi essi stessi. Da questa situazione derivarono nei medici prigionieri profondi conflitti circa il loro rapporto con l’ecologia di Auschwitz e con i loro padroni delle SS quando essi (i medici prigionieri) si sforzarono di non partecipare alle selezioni (cap. XI) e cercarono di conservare una funzione genuinamente terapeutica (cap. XII). Fra questi medici prigionieri ci furono antagonismi, oltre a qualche esempio di stretta identificazione con le misure mediche naziste (cap. XIII). Le fila venivano tirate però dai medici SS, i quali, pur non riuscendo a sottrarsi a conflitti interiori considerevoli, riuscirono ad adattarsi al sistema di Auschwitz quanto bastava per conservarne le uccisioni col crisma della legittimazione medica (cap. X). Il loro adattamento implicò il processo che chiamerò «sdoppiamento», processo che permise loro di compiere le selezioni per la camera a gas senza vedere in se stessi degli assassini.
A conclusione della Parte Seconda esaminerò con maggiore abbondanza di particolari il comportamento e l’esperienza psicologica di tre singoli medici SS: uno che riuscì a evitare di compiere le selezioni e che aiutò molti internati, nonostante le sue contraddizioni naziste (cap. XVI); un altro, il famigerato Mengele, che trovò ad Auschwitz l’espressione più piena della sua personalità (cap. XVII); e il medico capo (cap. XVIII) che cercò di «riformare» il sistema di Auschwitz secondo modi che potessero apportare benefici ai prigionieri, anche se organizzò l’intero meccanismo dell’uccisione sotto l’egida della medicina.
a. I polacchi e altri internati furono sottoposti a selezioni limitate, condotte all’interno del campo, nella prima parte della storia di Auschwitz. E nel 1944 il campo degli zingari fu selezionato in massa per l’eliminazione (vedi pp. 258-259). Ma le selezioni istituzionalizzate per le camere a gas riguardarono solo gli ebrei.
VII
Certamente, ci sono popoli che si sono odiati per secoli. Ma che si uccidano persone in modo così sistematico, con l’aiuto di medici, solo perché appartengono a un’altra razza, questa è una cosa nuova al mondo.
Fratello del medico capo delle SS ad Auschwitz
Si può capire la realtà di Auschwitz solo in relazione alle sue tre identità storiche: come campo di concentramento, o Konzentrationslager, nazista; come campo di lavoro, o Arbeitslager, con una speciale connessione con l’industria I.G. Farben; e come campo di annientamento o di sterminio, o Vernichtungslager.
I campi di concentramento furono istituiti quasi dal momento in cui i nazisti assunsero il potere. Dachau, il primo, fu creato da Himmler il 20 marzo 1933, come luogo in cui «concentrare» e detenere comunisti, socialdemocratici e altri presunti nemici politici. Questi «politici» erano stati arrestati in numero considerevole dopo il decreto di emergenza della «custodia protettiva» emanato il 28 febbraio, che entrò in vigore subito dopo l’incendio del Reichstag.1a Dachau, dopo una breve fase di brutalità visionaria da parte dell’amministrazione delle SS, divenne il campo di concentramento modello. Ora Himmler conferì ai campi lo status di «unità amministrative legalmente indipendenti sottratte al codice penale e ai comuni procedimenti giudiziari».2
Sotto Theodor Eicke – prima come comandante a Dachau dopo la metà del 1934 e poi come ispettore dei campi di concentramento e come generale di brigata delle SS responsabile dei Totenkopfverbände (Unità delle teste di morto, o dei teschi)b – la brutalità fu sostituita da una politica di terrore impersonale, sistematico. In precedenza, a causa dei suoi atti di violenza, Eicke era stato arrestato per ordine di Himmler e poi trasferito per breve tempo alla Clinica psichiatrica dell’Università di Würzburg, dove, come abbiamo già menzionato, fu paziente di Heyde; dopo essere stato dimesso da Heyde, Eicke fu assegnato da Himmler a dirigere Dachau. Qualunque cosa si sia verificata fra psichiatra e paziente, questa sequenza suggerisce che molto presto Heyde abbia dato un contributo significativo tanto professionale quanto medico all’indirizzo dei campi di concentramento. In ogni caso tale indirizzo si trasformò sotto la guida di Eicke in quello che Rudolf Höss, che fece pratica a Dachau per il posto di comandante ad Auschwitz, chiamò in seguito un «culto della severità» e uno «spirito di Dachau», secondo cui tutti gli internati erano nemici dello Stato; e le guardie dei campi dovevano essere addestrate alla crudeltà, che dovevano infliggere con spietatezza (o «durezza»), distacco e incorruttibilità.3 In realtà in un tale sistema era endemica la corruzione.
Alla metà e verso la fine degli anni Trenta, le categorie degli internati nei campi furono estese a comprendere persone considerate «criminali abituali», «elementi antisociali» (mendicanti, vagabondi, zingari, accattoni, «fannulloni», perditempo, prostitute, brontoloni, ubriaconi, teppisti, trasgressori delle leggi di circolazione e i cosiddetti psicopatici e casi mentali), omosessuali, Testimoni di Geova (la cui organizzazione fu messa fuori legge a causa del suo intransigente pacifismo), e – specialmente dopo la «notte dei cristalli» (9-10 novembre 1938), gli ebrei. Fu istituito un sistema di identificazione, secondo cui ogni prigioniero doveva portare, cucito sulla sua uniforme, un pezzo rettangolare di un qualche materiale su cui era stampato un triangolo colorato: rosso per i prigionieri politici, viola per i Testimoni di Geova, nero per gli asociali (per esempio le prostitute), verde per i criminali e rosa per gli omosessuali. Gli ebrei avevano un triangolo (di solito rosso), sotto il quale era cucito un altro triangolo (di solito giallo) a formare un esagramma (la Stella di Davide). Verso la fine del 1944 questa «stella ebraica» fu abolita e sostituita da una striscia gialla orizzontale sopra il triangolo di classificazione.4
La teoria legale e sociale dei campi di concentramento, quale fu formulata nel 1936, aveva una distinta sfumatura biologica e terapeutica. Werner Best, il consigliere legale di Himmler, identificò il «principio politico del totalitarismo» col «principio ideologico della comunità nazionale organicamente indivisibile» e dichiarò che «ogni tentativo di procurare un riconoscimento a idee politiche diverse o addirittura di sostenerle sarà stroncato nel modo più spietato, come sintomo di una malattia che minaccia l’unità sana dell’organismo nazionale indivisibile, senza alcun riguardo ai desideri soggettivi dei suoi sostenitori».5c Così l’immagine della cura delle malattie fu estesa ai campi di concentramento: un rovesciamento ancora maggiore di quello fra terapia e uccisione. Tale rovesciamento dominò i blocchi medici del campo praticamente dal loro inizio. Per lo più «ammalarsi in un campo di concentramento significava essere condannati», come si espresse Eugen Kogon. I medici e i soldati della sanità contribuivano spesso a quella condanna somministrando iniezioni letali. A Buchenwald, per esempio, un medico delle SS «uccise un’intera fila di prigionieri con iniezioni di sodio-evipan» e poi «uscì dalla sala operatoria, con una sigaretta in mano, fischiettando allegramente “La fine di una giornata perfetta”».6
Kogon, che durante la sua prigionia a Buchenwald fu segretario del medico capo, descrisse il potere detenuto da funzionari prigionieri sui blocchi medici; egli spiegò che i prigionieri portati in ospedale come pazienti, se erano considerati pericolosi (perché si erano comportati in modo brutale con altri prigionieri che se ne erano lagnati o perché appartenevano a una fazione politica rivale) potevano o essere trascurati dai prigionieri che prestavano servizio medico in ospedale o addirittura essere uccisi da loro per mezzo di iniezioni mortali. Nella maggior parte dei campi di concentramento dapprima si usarono come personale dei blocchi medici criminali comuni, situazione a cui conseguirono però gravissimi abusi; le cose migliorarono notevolmente quando i criminali comuni persero il loro potere a favore dei prigionieri politici e quando i medici prigionieri poterono infine svolgere il loro lavoro. Poco tempo dopo, però, medici e infermieri delle SS cominciarono a usare i blocchi medici dei campi per le uccisioni; a Dachau c’erano «convalescenziari» in cui gli individui deboli e malati venivano lasciati semplicemente morire.7d Sappiamo inoltre dell’uso dei blocchi medici per raccogliervi internati apparentemente incurabili o altrimenti indesiderabili per l’applicazione dell’«eutanasia».
Ma l’ospedale poté diventare anche quella che Kogon chiamò una «stazione di salvataggio per innumerevoli prigionieri». Più che in qualsiasi altra parte nel campo, vi si potevano nascondere prigionieri, manipolare i numeri e avvertire e dimettere pazienti proposti per l’uccisione. Un altro espediente efficace era quello di nascondere dei prigionieri in corsie di malati contagiosi, dove le SS entravano personalmente molto di rado: Kogon afferma di essersi nascosto egli stesso in tre occasioni nella corsia dei tubercolotici per evitare di essere trasferito ad Auschwitz per esservi ucciso.9 In ospedale potevano esserci anche reparti dedicati genuinamente alla convalescenza e altre strutture mediche che aiutavano i malati a sopravvivere, permettendo loro di trascorrere vari giorni in condizioni relativamente favorevoli.
I medici SS assegnati ai primi campi di concentramento non potevano vantare di solito meriti professionali particolari, avevano forti legami col nazismo e una tendenza personale a far carriera. «In generale erano più inclini ad arricchirsi che a esercitare con abnegazione il proprio lavoro di medici, e di solito erano più abili a uccidere che a salvare dalla morte.»10 Anche gli esperimenti sui prigionieri furono compiuti principalmente in questi campi tradizionali, anche se per la maggior parte, sino all’inizio degli anni Quaranta, non su una base organizzata molto estesa. Più tipica dei medici nazisti fu la loro partecipazione regolare alla selezione e uccisione dei deboli e dei malati, oltre che dei prigionieri designati dall’esterno. A volte i medici dei campi facevano fare anche un appello dei malati per visitarli, ma solo con riluttanza e a volte addirittura con brutalità.
I modi dei medici tendevano a essere militareschi: sin dal principio la loro funzione medica fu subordinata alle richieste del campo e alla legittimazione della brutalità e dell’uccisione. Per esempio, i medici firmavano moduli in cui si attestava la capacità di prigionieri di resistere a punizioni corporali o al trasferimento in un altro campo. Benché i medici avessero anche la funzione medica reale di controllare e prevenire epidemie, tendevano a preoccuparsi esclusivamente della salute del personale delle SS.
Il campo di Auschwitz fu creato, nel giugno 1940, sul modello del campo di concentramento tradizionale, ed era allora destinato a quanto pare ad accogliere prigionieri polacchi e a fungere da campo di quarantena e di transito da cui i prigionieri venivano inviati in campi in Germania. L’organizzazione medica ad Auschwitz era in origine la stessa che nei campi di concentramento tradizionali.
Nei campi di concentramento si richiedeva sempre ai prigionieri di lavorare. Il lavoro faceva parte in generale di un programma sistematico di terrore e di umiliazione ed era spesso un mezzo di uccisione graduale ma intenzionale, dei polacchi come degli ebrei. A partire dal 1937, la mano d’opera nei campi divenne abbastanza organizzata da essere considerata un’importante fonte nazionale di lavoro forzato, e arresti sempre più diffusi furono motivati dal bisogno di tale mano d’opera. Come nel caso degli internati del programma T4, i prigionieri vennero a essere giudicati degni di vivere solo nella misura in cui la loro capacità di lavorare contribuiva al potere del Terzo Reich, cosa che faceva di loro, com’è stato sottolineato, «meno di schiavi».11
Sotto quel pragmatismo c’erano però il culto del lavoro proprio dei nazisti e la loro mitologia secondo cui i prigionieri potevano guadagnarsi la libertà per mezzo del lavoro. Questa mitologia fu promulgata specialmente da Eicke, il quale fu probabilmente responsabile – senza ironia – della famigerata insegna con la frase Arbeit macht frei («Il lavoro rende liberi») affissa prima a Dachau e poi all’ingresso di Auschwitz.e
A partire almeno dagli ultimi mesi del 1941 il lavoro cominciò ad assumere un’importanza centrale nei campi, cosa che condusse infine a un relativo miglioramento nelle condizioni di vita dei prigionieri. Questi ebbero in alcuni casi, oltre che cibo migliore, anche una remunerazione in denaro, sigarette e l’accesso a bordelli nel campo. L’accentrarsi dell’interesse sul lavoro coincise con la subordinazione dei campi, nel marzo 1941, all’Ufficio Centrale dell’Amministrazione Economica (Wirtschaftsverwaltungshauptamt, o WVHA), che, diretto da Oswald Pohl, si occupava dei problemi economici connessi all’impiego degli internati. Di contro, l’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich (Reichssicherheitshauptamt, o RSHA), in quanto unità politica e di polizia, si preoccupava della brutale detenzione dei prigionieri e dello sterminio degli ebrei (vedi pp. 242-245).13
Il lager di Auschwitz era destinato a diventare una fonte importante di lavoro coatto al servizio di un enorme stabilimento della I.G. Farben per la produzione di benzina e gomma sintetiche. Il luogo in cui costruire la fabbrica fu scelto all’inizio del 1941 in gran parte in considerazione della sua vicinanza al campo e a risorse di carbone e d’acqua. L’operazione complessiva divenne nota come I.G. Auschwitz. Gli internati di Auschwitz lavorarono alla costruzione di tale fabbrica, nota come I.G. Buna,f ancor prima della creazione del campo sussidiario di Birkenau, dove furono eseguite la maggior parte delle uccisioni. Durante il 1942 la I.G. Farben istituì il suo proprio campo esterno a Monowitz, che faceva ancora parte della costellazione complessiva di Auschwitz. Questo impianto era inteso ad accrescere il controllo della I.G. Farben sulla mano d’opera, a diminuire le spese e a ridurre le perdite di tempo e di energia dovute al trasferimento a piedi sino al posto di lavoro. Nell’economia di Monowitz, la I.G. Farben forniva cibo, alloggio e cure mediche; le SS erano responsabili della sicurezza e delle punizioni. C’era sempre uno stretto collegamento fra autorità del campo e funzionari della I.G. Farben nel brutale sfruttamento degli internati, che in generale lavoravano dalle tre o quattro del mattino sino al calar della notte, con una dieta che era al di sotto del limite di sopravvivenza (vedi pp. 260-262). Ma per quante misure venissero prese o per abusare ancor più dei prigionieri o per migliorarne lievemente la sorte, l’efficienza del lavoro rimaneva modesta.14g
A partire dall’inizio del 1943, altre grandi aziende si unirono alla I.G. Farben nello sfruttamento del lavoro coatto. Fra queste furono la Krupp, che trasferì ad Auschwitz un impianto per la produzione di spolette; gli Hermann Göring Werke (miniere di carbone); la Siemens-Schuckert (parti elettriche); e lo Jägerstab (per la produzione di caccia), dipendente dal ministero di Speer per gli Armamenti, i cui tentativi, nel 1944, di reclutare prigionieri per la costruzione di fabbriche sotterranee di aerei furono frustrati dalla crescente scarsità di prigionieri capaci di lavorare. Queste e altre aziende prelevarono la mano d’opera per lo più dal lager di Monowitz (noto come Auschwitz III) e costituirono una rete di campi satelliti per chilometri e chilometri tutto attorno.15
Höss ha fatto l’osservazione che, a causa della politica ufficiale di tener vivi un numero significativo di prigionieri per lavorare, «Auschwitz divenne un campo di ebrei..., un luogo di raccolta per ebrei, in una scala che superò di gran lunga qualsiasi precedente noto».16 In realtà però, dato che la maggior parte degli ebrei venivano uccisi al loro arrivo, essi non cominciarono probabilmente a costituire una maggioranza fra gli internati nel campo fino al 1944, e anche allora rimasero dominati nella gerarchia dei prigionieri da gruppi minori di tedeschi (prigionieri politici e criminali comuni) e polacchi.
Le esigenze di lavoro richiedevano non solo selezioni su vasta scala per decidere quali prigionieri dovevano essere uccisi immediatamente e quali avrebbero potuto lavorare e quindi vivere un po’ di più,h ma anche un blocco medico funzionante, dove i prigionieri potessero essere curati da medici prigionieri. In effetti Auschwitz, più di qualsiasi altro campo, rifletté il conflitto interno dei nazisti fra un indurimento pragmatico (attraverso il lavoro coatto nelle industrie belliche) e l’omicidio visionario. Ma per quanto complessa fosse l’organizzazione in funzione del lavoro, essa rimase secondaria rispetto alla funzione di sterminio del campo.
Il campo di sterminio emerse verso la fine del 1941 e all’inizio del 1942. In Polonia c’erano sei di tali campi: Chełmno (Kulmhof), Belzec, Sobibór, Treblinka, Majdanek e Auschwitz. I primi quattro si dedicarono esclusivamente alla funzione di eliminazione, anche se a volte solo Chełmno e Belzec vengono considerati «campi di sterminio puri», giacché un’attività industriale minore con lavoratori-schiavi veniva condotta a Treblinka ed era almeno nella fase di pianificazione a Sobibór. Ma solo Auschwitz e Majdanek combinarono una quantità significativa di lavoro coatto con la funzione sistematica di eliminazione. I quattro campi dediti esclusivamente allo sterminio erano gestiti da unità di polizia delle SS, non dalla divisione economico-amministrativa delle SS che gestiva Auschwitz. Diversamente da Auschwitz, inoltre, gran parte delle attrezzature e del personale per le uccisioni (con l’eccezione aggiunta di Chełmno) provenivano direttamente dal programma di «eutanasia», comprese le camere a gas col monossido di carbonio e il personale del centro di uccisione. Gran parte dei primi impianti e del funzionamento del loro apparato di eliminazione fu controllata in effetti da Christian Wirth, che aveva fatto lo stesso lavoro per i centri della morte del programma T4 (vedi p. 107).18
Auschwitz segnò un’escalation radicale tanto nella concezione quanto nella tecnologia del massacro. L’immagine biologica era connessa in modo complesso nella visione di Auschwitz quale ci viene rivelata da una descrizione di Himmler della finalità del campo (nel ricordo di Höss):
Gli ebrei sono gli eterni nemici del popolo tedesco e devono essere sterminati. Tutti gli ebrei a portata di mano devono essere distrutti senza alcuna eccezione, ora, durante la guerra. Se non riusciremo a distruggere la sostanza biologica degli ebrei, gli ebrei distruggeranno un giorno il popolo tedesco.19
Höss ricordò di essere stato «convocato improvvisamente», nell’estate del 1941, da Himmler, che gli aveva detto: «Il Führer ha ordinato che la questione ebraica venga risolta una volta per tutte e che siamo noi, le SS, a realizzare quest’ordine». Himmler gli spiegò che i centri di sterminio esistenti nell’Est non potevano eseguire «le grandi azioni che si prevedono». Auschwitz era stata destinata a quel compito perché la sua posizione era favorevole alle comunicazioni e ai trasporti, ed era abbastanza isolata per tenere segreta la sua attività. Himmler si sforzò di convincere Höss della gravità dell’impresa, «lavoro difficile e gravoso» che richiedeva «una devozione completa nonostante le difficoltà che possono verificarsi». Höss avrebbe dovuto «considerare quest’ordine assolutamente segreto».20
Auschwitz assunse un rango speciale come l’istituzione primaria per eseguire la politica, che si sarebbe chiarita ben presto, dello sterminio degli ebrei. Il compito richiedeva a Höss di esplorare – assieme a Adolf Eichmann, che si occupava del problema degli ebrei all’RSHA – «i modi e i mezzi per eseguire lo sterminio».21
Nonostante le anteriori osservazioni di Hitler sullo sterminio degli ebrei, i nazisti considerarono una varietà di piani per l’espulsione, l’emigrazione volontaria, il reinsediamento nel Madagascar eccetera. Solo una volta abbandonati questi piani – rivelatisi irrealizzabili per varie ragioni, fra cui la riluttanza di altre nazioni ad accettare un gran numero di ebrei – fu presa la decisione definitiva di attuare la «Soluzione finale». Nel 1938 in Germania c’erano ancora circa 350.000 ebrei (da 515.000 che erano in precedenza) e le invasioni e annessioni per opera dei tedeschi condussero all’arresto di altri ebrei. Nel marzo 1941 Keitel firmò un ordine per l’attivazione delle unità di uccisione di Himmler in Russia una volta che l’invasione avesse preso l’avvio. Poi, il 1° luglio, dopo l’inizio dell’invasione, Göring firmò un ordine per Heydrich autorizzandolo a compiere «tutti i preparativi necessari» in relazione a questioni organizzative e finanziarie in vista della «soluzione totale della questione ebraica nella sfera di influenza tedesca in Europa».22 Ad altri enti era stato ordinato di cooperare in caso di bisogno.
Il potere di organizzare deportazioni fu ora assegnato a Eichmann, l’esperto dell’RSHA per gli affari ebraici. Höss disse che il colloquio con Himmler doveva avere avuto luogo dopo l’emanazione di quest’ordine. Il 21 novembre Heydrich ordinò a vari segretari di Stato e capi delle SS di riunirsi per discutere la Soluzione finale. La cosiddetta conferenza del Wannsee che ne risultò, su richiesta dell’RSHA, si tenne il 20 gennaio 1942. Nel corso di una discussione del piano di evacuare gli ebrei nell’Est, dove i sopravvissuti alla loro utilizzazione come forza lavoro sarebbero stati «trattati corrispondentemente» (entsprechend behandelt), fu citata l’autorità del Führer. Benché si discutesse anche di problemi collaterali, come i matrimoni misti e gli ebrei vecchi e i veterani di guerra – che, si disse, sarebbero stati inviati nei campi modello di Theresienstadt –, il succo della conferenza fu chiaro, anche se rimase in gran parte inespresso. Come scrisse Hilberg: «Gradualmente la notizia della “Soluzione finale” cominciò a filtrare nei ranghi della burocrazia... La misura della consapevolezza che una persona poteva averne dipendeva dalla sua vicinanza alle operazioni distruttive e alla sua capacità di intuire la natura del processo di distruzione».23
All’inizio del 1942 i particolari del procedimento di sterminio non erano ancora chiari e non furono risolti fino alla primavera, con l’allestimento di camere a gas in Polonia. L’intervallo di tempo trascorso fra l’inizio delle deportazioni e la costruzione degli impianti per lo sterminio condusse a un sovraffollamento in alcuni ghetti dell’Est e a miti burocratici di «migrazione» ebraica. Le rievocazioni di Höss chiariscono in quale misura questa «soluzione» sia stata influenzata dall’iniziativa individuale una volta che divenne noto che essa corrispondeva, in effetti, alla volontà del Führer.24
Le gravi difficoltà psicologiche sperimentate dagli uomini delle Einsatzgruppen nell’eseguire uccisioni faccia a faccia erano note ai capi nazisti. Come ricordò in seguito Rudolf Höss:
Avevo sentito la descrizione di Eichmann di ebrei falciati dagli Einsatzkommandos armati di mitragliatrici e di pistole mitragliatrici. Si dice che ci siano state scene orrende, di persone che cercavano di fuggire dopo essere state colpite, di feriti, e in particolare delle donne e dei bambini, a cui veniva dato il colpo di grazia. Molti membri degli Einsatzkommandos, non potendo più sopportare quello spargimento di sangue, si erano suicidati. Alcuni erano addirittura impazziti. La maggior parte dei membri di questi Kommandos dovevano contare sull’aiuto dell’alcol quando eseguivano il loro orribile lavoro.25i
Nell’autunno del 1941, uno dei principali generali delle Einsatzgruppen, Erich von dem Bach-Zelewski, sbalordì Himmler dicendogli, dopo che avevano assistito assieme all’uccisione di un centinaio di ebrei: «Guardi gli occhi degli uomini di questo Kommando, quanto sono scossi! Questi uomini sono finiti (fertig) per il resto della loro vita. Che tipo di seguaci stiamo addestrando qui? Nevrotici o selvaggi!».27 E lo stesso Bach-Zelewski avrebbe risentito gli effetti di questa dura esperienza: ricoverato in ospedale con gravi disturbi gastrici e intestinali, sperimentò, secondo il dottor Ernst Robert von Grawitz, medico capo delle SS, «esaurimento psichico» e «allucinazioni connesse alle fucilazioni di ebrei» da lui ordinate e «ad altre angosciose esperienze nell’Est» (vedi anche la nota a p. 594).28
Di conseguenza, come spiegò Höss, fu preso in seria considerazione solo il gas, «poiché sarebbe stato assolutamente impossibile eliminare con le fucilazioni il grande numero di persone previsto, e si sarebbe imposto un onere troppo gravoso agli uomini delle SS designati a eseguire tale compito, specialmente a causa delle donne e dei bambini presenti fra le vittime».29 Inevitabilmente, ci si volse a considerare l’anteriore esperienza nazista con la gassificazione, e Eichmann familiarizzò Höss con l’uso del monossido di carbonio, liberato attraverso finte docce, già impiegato nel progetto di «eutanasia». Il metodo era però inadeguato per lo sterminio di un gran numero di persone a causa della grande quantità di gas e delle molte installazioni di camere a gas che avrebbe richiesto. Le unità mobili di gassificazione usate nell’Est avevano limitazioni simili. Perciò «Eichmann decise di tentare di trovare un gas disponibile in grandi quantità che non richiedesse speciali installazioni per il suo uso». Ancora nel novembre del 1941 Eichmann e Höss non avevano trovato un gas adatto, anche se il comandante del campo aveva scelto per l’eccidio un sito di Auschwitz isolato: una ex fattoria agricola, che fu trasformata nella camera a gas Bunker I. Essi non avevano ancora pensato alla cremazione dei cadaveri, e i prati circostanti offrivano spazio in abbondanza per scavarvi lunghe fosse comuni in cui gettare i corpi.30
In uno dei periodi di assenza di Höss da Auschwitz, nell’agosto 1941, il suo vice, il capitano delle SS Karl Fritzch, eseguì «di propria iniziativa» esperimenti con lo Zyklon-B (il nome commerciale tedesco per l’acido cianidrico o acido prussico) sui prigionieri di guerra russi al Blocco 11, il blocco di punizione. Lo Zyklon-B «veniva usato costantemente ad Auschwitz per la distruzione dei parassiti, e perciò c’era sempre abbondanza di barattoli di questo gas a disposizione».31 Höss, avuta notizia del successo dell’esperimento, lo fece ripetere al suo ritorno, mettendosi una maschera antigas per osservare l’effetto del gas sulle vittime e notando che la morte sopravveniva molto rapidamente, anche se in seguito sostenne: «Durante questa prima esperienza di gassificare persone non mi resi pienamente conto di ciò che stava accadendo, forse perché rimasi troppo impressionato dall’intero procedimento».j
Durante la successiva visita di Eichmann ad Auschwitz, egli e Höss decisero di utilizzare il gas «per l’operazione sterminio di massa». Dopo avere usato due siti provvisori, nella primavera del 1942 l’operazione fu trasferita nei bunker I e II, nell’area scelta inizialmente da Eichmann e Höss. Fra le vittime ci furono ebrei provenienti dall’Alta Slesia (territorio ceduto dalla Germania alla Polonia nella conferenza di pace di Versailles) oltre che prigionieri di guerra russi. Ora Höss cominciò a gloriarsi del nuovo metodo. Visitando i campi di sterminio a Chełmnok e a Treblinka, egli osservò che il monossido di carbonio, usato in quei campi, dava risultati inferiori: il gas di scarico prodotto dai motori di autocarri non era sempre sufficiente, cosicché un certo numero di vittime «erano solo ridotte all’incoscienza e dovevano essere finite con colpi di pistola». Persino dopo la guerra, mentre era in carcere in Polonia, Höss rimase orgoglioso dell’efficienza del «suo» gas. L’esperienza aveva dimostrato che la preparazione di acido prussico nota come Zyklon-B causava la morte con una velocità e sicurezza molto maggiori, specialmente se le stanze venivano mantenute asciutte ed ermetiche, e se la gente vi veniva accalcata, e purché ci fosse il maggior numero di bocche possibile per l’immissione del gas».34
L’uccisione in massa di ebrei ebbe inizio verso la fine del 1941 o nei primi mesi del 1942. L’amministrazione di Auschwitz si era procurata lo Zyklon-B dalla ditta produttrice – la DEGESCH, acronimo per Società Tedesca per la Disinfestazione – in modo indiretto. La DEGESCH, che era controllata in gran parte dalla I.G. Farben, distribuiva il gas attraverso altre due ditte, nel territorio di Auschwitz attraverso la TESTA.35 Nel 1942 la distribuzione del gas all’interno del corpo delle SS venne a essere regolamentata centralmente dall’Istituto di Igiene di Berlino delle SS diretto dal dottor Joachim Mrugowsky. Dato l’esteso uso anteriore del gas contro roditori e insetti portatori di malattie, possiamo dire che lo Zyklon-B era sempre stato considerato parte dell’equipaggiamento medico. Esso fu posto però sotto un più rigoroso controllo medico solo quando divenne l’agente chimico primario dello sterminio e per un certo periodo di tempo fu addirittura immagazzinato nella farmacia di Auschwitz.l
Si verificò anche un altro mutamento. In precedenza allo Zyklon-B doveva essere combinata per legge una piccola quantità di un gas irritante, che aveva la funzione di avvertire della presenza del gas pericoloso quando un ambiente non era stato ventilato a sufficienza dopo la fumigazione. Nel 1943 il gas cominciò a essere distribuito ad Auschwitz senza la sostanza irritante, con l’avvertenza: «Attenzione! Senza irritante!». L’eliminazione della sostanza irritante accelerava chiaramente il processo di uccisione, comportando però al tempo stesso un pericolo maggiore per coloro che dovevano manipolare tale gas letale. Perciò si richiese sempre uno speciale addestramento per questo personale. Le persone che usavano il gas erano state fornite in origine dalla ditta produttrice, ma questa responsabilità fu in seguito trasferita a un gruppo speciale di «disinfettori», tratti dal servizio sanitario delle SS. Questi Desinfektoren divennero un’élite di sottufficiali, e fra i compiti del medico che prestava servizio a Auschwitz c’erano quelli di prendere le misure necessarie per evitare che fossero esposti allo Zyklon-B e di sottoporli immediatamente a trattamento nel caso che una tale esposizione si fosse accidentalmente verificata. Possiamo dire, quindi, che lo Zyklon-B divenne un pericoloso «farmaco mortale», che doveva essere usato solo da personale medico.36m
A partire dal 1943 si verificarono situazioni di scarsità di Zyklon-B in quanto le incursioni aeree degli Alleati ne ostacolavano la produzione. A volte gli ufficiali dei campi si trovarono nella necessità di andare a prendere il gas allo stabilimento di produzione nei pressi di Dessau, 500 chilometri circa a nordovest. Höss stimò in seguito (nella sua testimonianza) che Auschwitz abbia usato un totale di 1900 chilogrammi di questo farmaco letale.38 Fin dall’inizio, egli si consultò con i medici di Auschwitz sugli effetti del gas:
Avevo sempre pensato che le vittime provassero una terribile sensazione di soffocamento. Ma i corpi, senza alcuna eccezione, non presentarono alcun segno di convulsioni. I medici mi spiegarono che l’acido prussico aveva un effetto paralizzante sui polmoni, ma che la sua azione era così rapida e forte che la morte veniva prima che potessero iniziare convulsioni, e in questo i suoi effetti differivano da quelli prodotti dal monossido di carbonio o da una carenza generale di ossigeno.39 [Il corsivo è mio.]
La spiegazione lasciava intendere falsamente che la morte fosse indolore. Ma questa efficacia medica generale era rassicurante per Höss ed egli non dovette più sperimentare gli orrori dell’uccisione faccia a faccia: «Ho sempre tremato all’idea di dovere eseguire lo sterminio mediante fucilazione... Fui perciò sollevato dall’idea che ci sarebbero stati risparmiati tutti quei bagni di sangue, e che anche alle vittime sarebbe stata risparmiata la sofferenza fino all’ultimo istante».40
Ma il suo sollievo maggiore – e la «terapia» personale più importante che il gas gli diede – fu il contributo dello Zyklon-B alla soluzione del problema tecnico e burocratico che gli era stato assegnato: «Devo ammettere addirittura che, grazie all’uso del gas, mi misi l’anima in pace, poiché lo sterminio in massa degli ebrei sarebbe cominciato presto e a quel tempo né Eichmann né io sapevamo con certezza in che modo queste uccisioni in massa dovevano essere condotte... Ora avevamo il gas, e dovevamo stabilire una procedura».41 Quella «procedura» era la base della «catena di montaggio» delle uccisioni: questa espressione, abbastanza appropriatamente, è di un medico del campo di Auschwitz.42
a. L’incendio si verificò il 27 febbraio 1933. Benché ci sia stata qualche controversia fra gli storici sul problema se l’incendio sia stato o no architettato dai nazisti come pretesto, essi non si lasciarono sfuggire quest’occasione per fare retate dei loro oppositori politici e per cominciare a consolidare la loro dittatura.
b. I Totenkopfverbände furono creati da Himmler a Dachau sotto il comando di Eicke e divennero il corpo generale delle guardie dei campi di concentramento. Essi presero il nome dalla loro insegna, formata da un teschio e da ossa incrociate.
c. Best si riferiva alla legge prussiana sulla Polizia segreta di Stato del febbraio 1936, la quale sottrasse la Gestapo, e in particolare l’uso che essa faceva della detenzione preventiva, a limitazioni giudiziarie.
d. Questa licenza di uccidere non si estendeva sempre ai prigionieri sani, almeno nella prima fase dell’esistenza dei campi. Nel giugno 1933 l’Ufficio del Pubblico ministero di Monaco di Baviera accusò un medico del lager di Dachau, assieme al predecessore di Eicke, dell’assassinio di un internato.8 Una tale scrupolosità legale nei campi di concentramento dev’essere stata rara.
e. Nelle parole di Höss: «Era ferma intenzione di Eicke che, quale che fosse la loro categoria di appartenenza, quei prigionieri che, per la loro costanza e il loro zelo nel lavoro si fossero distinti dagli altri, dovessero a tempo debito essere liberati, indipendentemente da ciò che la Gestapo e l’Ufficio della Polizia Criminale potessero pensare in contrario. In effetti ciò accadde di tanto in tanto, finché non venne la guerra a metter fine a tutte quelle buone intenzioni».12
f. La Buna, una gomma sintetica sviluppata dalla I.G. Farben, fu prodotta sperimentalmente prima a partire da carbone e in seguito da petrolio.
g. In discussioni iniziali fra le SS e la I.G. Farben si stimò che da lavoratori-schiavi non ci si poteva attendere un’efficienza superiore al 75 per cento di quella dei lavoratori tedeschi; in pratica la loro efficienza risultò essere inferiore di un terzo rispetto a quella dei lavoratori liberi.
h. La speranza di vita dei lavoratori ebrei alla I.G. Farben era di tre o quattro mesi; nelle miniere esterne, di circa un mese.17
i. Si dice che Himmler, dopo avere assistito a un’esecuzione di massa, si fosse ammalato, e che in seguito avesse ordinato uccisioni «più umane».26
j. C’è qualche prova del fatto che Höss e il suo vice non possano ambire al dubbio riconoscimento di essere gli unici «scopritori» dello Zyklon-B come agente per uccidere un gran numero di esseri umani. Secondo una testimonianza resa al suo processo (davanti a un Tribunale Militare Britannico ad Amburgo, con inizio il 1° marzo 1956), il dottor Bruno Tesch, proprietario della società TESTA (acronimo per Tesch e Stabenow) che distribuiva il gas ad Auschwitz, condusse personalmente degli esperimenti per verificare se il gas potesse essere usato, oltre che come insetticida, anche come mezzo per uccidere con efficienza un gran numero di persone. C’è un altro rapporto, di un soldato delle SS di nome Breitweiser, che assistette a quanto pare ai primi esperimenti di Auschwitz e che avrebbe commentato, notando quanto lo Zyklon-B fosse efficace nell’uccisione dei pidocchi: «Ora abbiamo il mezzo per lo sterminio dei prigionieri». Yehuda Bauer ed Erich Kulka credono che tutto questo interesse per l’uso dello Zyklon-B nell’eccidio sia una prova parziale della centralità di Auschwitz nelle previsioni naziste della Soluzione finale ancora maggiore di quanto non si fosse riconosciuto in precedenza. Anche il fatto che per quei primi esperimenti con lo Zyklon-B ad Auschwitz si siano scelti alcuni prigionieri malati suggerisce che al centro dell’attività di Auschwitz ci fosse fin dal principio il rovesciamento omicida di guarigione e uccisione. È probabile che, essendo in corso l’esperienza dello Zyklon-B per l’eliminazione dei pidocchi ed essendo sempre ben presente il bisogno di un agente efficace per uccidere gli esseri umani, l’idea di usare tale agente sia venuta più o meno simultaneamente tanto ai «teorici» delle aziende che producevano e distribuivano il gas quanto al personale «pratico» che usava il gas nelle disinfestazioni ad Auschwitz.32 [Si può aggiungere che l’idea di uccidere gli ebrei con un gas usato per le disinfestazioni può essere dovuta a un’associazione di idee semplice, anche se raccapricciante: gli antisemiti consideravano infatti gli ebrei dei pidocchi, dei parassiti: perché dunque non usare lo stesso disinfestante per eliminare entrambi i tipi di parassiti? La medesima associazione si ritrova forse nella frase Eine Laus, dein Tod (Un pidocchio, la tua morte), scritta, secondo la testimonianza di Primo Levi, su una parete di un lavatoio di Auschwitz. Qui pare che l’idea sia di una sorta di contrappasso, del parassita ucciso da un altro parassita. In Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1976, p. 42. (N.d.T.)]
k. Höss era andato a Chełmno anche per studiare i metodi di cremazione che vi venivano usati. Nell’estate del 1942, Himmler ordinò che si aprissero le fosse comuni e si cremassero i cadaveri e che le ceneri venissero eliminate, «così che in futuro fosse impossibile calcolare il numero dei cadaveri cremati».33
l. Un medico da me intervistato, che deteneva una posizione elevata di consulente all’interno di strutture civili e militari naziste, mi disse di avere prestato servizio come presidente di un comitato ad alto livello per l’assegnazione delle scarse risorse mediche a gruppi civili e medici, comprese le SS. Dopo la guerra sostenne di essere inorridito e di essersi angosciato nell’apprendere a quali scopi le SS avessero usato lo Zyklon-B. Questa storia tende in realtà a confermare lo status medico del gas. Per quanto concerne l’affermazione del medico di essere stato all’oscuro dell’uso del gas come mezzo di sterminio, direi che egli aveva dimostrato in vari modi una capacità estrema di invocare le risorse psicologiche della negazione e dell’obnubilamento, della volontà di non sapere. Nel suo caso quei meccanismi di difesa dovevano avere assunto proporzioni estreme – si sospetta che, almeno in parte, egli sapesse, date le quantità sempre maggiori di gas che le SS chiedevano per Auschwitz: per esempio, i campi ricevevano il gas per le fumigazioni ogni sei mesi circa; Auschwitz riceveva invece il gas ogni sei settimane.
m. La ditta produttrice si oppose all’eliminazione dell’irritante perché il suo brevetto riguardava l’aggiunta dell’irritante, più che il gas stesso. In questo mutamento ebbe una parte Kurt Gerstein, allora ufficiale delle SS incaricato delle disinfestazioni, che lavorava agli ordini di Mrugowsky a Berlino. Gerstein aveva una preparazione tecnica, oltre che una certa formazione medica. Poche figure hanno suscitato una confusione paragonabile fra gli storici e i biografi, in considerazione, da un lato, dei suoi stretti legami con le SS nel centro di sterminio, assieme al suo fanatico comportamento SS, e dall’altro delle sue connessioni protestanti evangeliche antinaziste e dei suoi sforzi disperati (compresa una pericolosa conversazione con un diplomatico svedese) per informare il mondo esterno della Soluzione finale. Gerstein sostenne in seguito – e fu creduto da un biografo – di avere proposto l’eliminazione dell’irritante perché, senza di esso, la morte era più umana, e anche perché, rendendo il gas non più percepibile, avrebbe potuto far eliminare delle consegne di gas col pretesto di fughe pericolose. La maggior parte degli osservatori – in particolare Rolf Hochhuth nel dramma del 1964 Der Stellvertreter (Il vicario) – hanno sottolineato gli straordinari atti di resistenza di Gerstein, mentre altri, come Hilberg, sono impressionati soprattutto dal suo ruolo nel processo di sterminio. In un certo senso entrambi i gruppi hanno ragione: io credo che Gerstein sia stato l’esempio più estremo del processo di sdoppiamento in cui ci siamo imbattuti in questo studio.37 [Una suggestiva biografia di Gerstein in italiano è quella di Saul Friedländer Kurt Gerstein o l’ambiguità del bene, trad. it. di M.T. Lanza, Feltrinelli, Milano 1967. (N.d.T.)]
VIII
Erano tutti medici.
Un sopravvissuto di Auschwitz
Agli ebrei che arrivavano al campo sembrava che non stesse accadendo nulla che avesse attinenza con la medicina, anche se gran parte dell’esperienza che stavano vivendo era orchestrata da medici nazisti. Era una scena terribile di grande confusione, che sotto molti aspetti estendeva una persecuzione cominciata quando erano stati strappati dalle loro case e continuata nei giorni o nelle settimane di un viaggio lento, crudele, disumanizzante verso il lager in carri merci brutalmente sovraffollati. Al loro arrivo gli ebrei vedevano di solito il medico delle SS in piedi sulla banchina, il quale appariva subito ai loro occhi come un altro ufficiale delle SS dotato di un potere assoluto su di loro. Molti non ebbero neppure la sensazione che fosse in corso un processo di selezione di qualche genere.
L’esperienza di Marianne F., che quando arrivò ad Auschwitz dalla Cecoslovacchia all’inizio del 1943 era una ragazza di diciassette anni, è tipica. Innanzitutto la bizzarra accoglienza:
Arrivammo di notte... Arrivando di notte, si vedevano chilometri e chilometri di luci, e il fuoco che usciva dai... crematori. E poi grida e fischi, e i «Fuori, fuori!» [ora essa gridò] «Raus! raus! raus! raus!» [abbreviazione colloquiale di heraus, «fuori»], e gli uomini in uniforme e le SS con i cani, e i prigionieri che indossavano indumenti a righe – noi allora non sapevamo ovviamente ancora chi fossero – ed essi dissero: «Buttate giù tutto. Allineatevi: immediatamente!».
E poi le rapide selezioni, in una confusione indescrivibile:
Ci separarono e ci fecero allineare in file di cinque..., e c’erano due uomini in piedi... Da un lato c’era un medico, uno era Mengele... e dall’altro lato c’era... l’Arbeitsführer, l’uomo che dirigeva il Kommando. Qualcuno diceva: «Tu vai di là, tu vai all’autocarro. Tu di là, tu all’autocarro...». Ben presto si sviluppò un ordine visibile: quelli di meno di quattordici anni circa e quelli di più di trentacinque furono assegnati agli autocarri. E solo dopo l’ingresso nei campi si seppe esattamente dove gli autocarri fossero andati... il tutto, io penso, in modo molto veloce, molto efficiente.
Seguì poi un’accoglienza rituale da parte dei vecchi internati:
[Andammo] al campo direttamente a piedi... e... l’istante in cui entrammo nel campo... [c’era] un cosiddetto comitato di prigioniere per il benvenuto, che ci osservarono finché non potemmo essere condotte alla sauna [doccia]. Erano prigioniere – ragazze slovacche che si trovavano nel campo da un anno circa... L’unica cosa a cui erano interessate era prima di tutto farsi dare da noi tutto quel che si poteva prima che ce lo prendessero le SS – gioielli o orologi, quello che avevamo – poiché esse facevano già parte dei gruppi più introdotti di coloro che sapevano come darsi da fare per procurarsi cibo e altre cose. In secondo luogo, erano ansiose di spiegarci immediatamente che cosa ci attendeva e che cosa era accaduto. In qualche modo [esse pensavano]: Noi siamo [qui] da molto tempo, anche voi dovete saperlo».
Tale conoscenza, conseguita nel giro di ore o persino di soli minuti, causava e sosteneva l’estremo intorpidimento mentale che caratterizzava l’intera vita nel campo:
E poi, naturalmente, ci si rendeva subito conto di che cosa fosse quell’odore incredibile... eravamo noi ad avere quell’odore... In un modo o nell’altro esse erano già così abituate... Si arriva al punto che, se si fosse qui da un tempo sufficiente... non ci resterebbe più alcuna emozione e l’unico interesse residuo sarebbe [quello per] la sopravvivenza.
Ma i più non sopravvivevano. La terribile situazione di cui questa ragazza cecoslovacca fu messa brutalmente a conoscenza fu rievocata dal dottor Otto Wolken, un medico ebreo austriaco prigioniero, il quale osservò attentamente che cosa accadeva nel campo, e specialmente il comportamento dei medici SS:
Nel corso del tempo furono costruiti cinque crematori, nei quali si trovavano anche le camere a gas. Vi venivano gassate persone provenienti da tutte le nazioni, di entrambi i sessi, di tutte le età... Gassificazioni di proporzioni inimmaginabili si verificavano all’arrivo dei trasporti di prigionieri dalla Francia, dal Belgio, dall’Italia, dall’Ungheria, dalla Grecia, dalla Cecoslovacchia e dalla Germania, oltre che dai campi polacchi e dalla Norvegia. Quando arrivavano i treni, i nuovi venuti dovevano passare davanti al medico del campo... in servizio. Egli puntava il pollice verso destra o verso sinistra: la sinistra significava morte col gas. Su un trasporto di 1500 persone circa, da 1200 a 1300 venivano inviate nelle camere a gas. Molto di rado la percentuale di coloro che venivano lasciati in vita era maggiore di questa. In queste selezioni Mengele e [il dottor Heinz] Thilo facevano le loro scelte fischiettando una melodia. Coloro che erano stati scelti per essere uccisi col gas dovevano spogliarsi davanti all’ingresso delle camere a gas e venivano poi fatti entrare in esse a sferzate, dopo di che le porte venivano chiuse e aveva inizio la gassificazione. Dopo circa otto minuti (la morte si verificava dopo circa quattro minuti) si aprivano le camere e uno speciale Kommando aveva l’incombenza di portare i cadaveri nei forni per la cremazione, i quali erano attivi giorno e notte. Al tempo dei trasporti dall’Ungheria [iniziati verso la fine di maggio del 1944] non c’erano abbastanza forni, cosicché dovettero essere scavate grandi fosse per bruciarvi i cadaveri. Qui si cospargeva la legna di petrolio. In queste fosse venivano gettati i cadaveri. Spesso nelle fosse per la cremazione venivano gettati bambini e adulti vivi, i quali vi facevano una morte atroce, venendo arsi vivi. Per fare economia di petrolio si ricavavano in parte l’olio e i grassi necessari per la combustione dai cadaveri delle persone gassate.1
I nuovi venuti nel campo, uomini e donne, come continuò a descrivere Marianne F., dovevano subire una serie di umiliazioni iniziatiche: svestirsi completamente davanti a uomini delle SS prima di entrare nei locali della doccia o «sauna»; subire la rasatura di tutti i peli corporei («utile, lo ammetto, per... evitare di prendere i pidocchi, che erano ovviamente presenti, ma dal punto di vista psicologico... era una cosa incredibilmente degradante...»); avere in dotazione indumenti minimi, di taglia sbagliata, ricavati per lo più dalle vecchie uniformi di prigionieri russi; e ricevere il tatuaggio («Ricordo quando... ti veniva applicata quella cosa [il numero tatuato sull’avambraccio di ogni prigioniero]..., si infettava e gonfiava, credo – io non sentii mai dolore –, si aveva la mente realmente intorpidita»).
Essa parlò dell’efficacia psicologica dell’intero processo:
Chiunque fosse stato l’organizzatore di tutto ciò, doveva avere una sorta di percezione demoniaca... E il fatto è che se si fa qualcosa di totalmente incredibile e... non si riesce a crederci, non ci si crede. E le cose che accaddero ad Auschwitz... le camere a gas, nessuno ci avrebbe creduto. E poi le case nei crematori – case di mattoni, con finestre, tendine, steccati bianchi sulla fronte delle case. E non si pensava mai a nulla a proposito dei camini fumanti. Non ci si poteva credere... C’era un tocco di genialità diabolica.
Wolken affermò similmente che, pur avendo saputo di ciò che accadeva ad Auschwitz prima ancora di esservi trasportato, da un polacco che era già stato nel campo, lui e i suoi amici non volevano «crederci... Dicevamo che non doveva esserci stato, e che ci stava raccontando delle favole».2
I medici nazisti e coloro che erano addetti ad accogliere i nuovi arrivi variavano molto il loro tono. Un altro sopravvissuto, che grazie al proprio lavoro aveva l’opportunità di girare per il campo, spiegò che i nazisti «erano psicologicamente molto [ben] preparati ad affrontare qualsiasi situazione», cosicché a volte «il medico aveva un tono molto amichevole con le persone..., chiedendo loro “Come sta?” e “Che lavoro fa?”». Quando un nuovo arrivato diceva di avere una malattia, sembrava debole o era troppo giovane o troppo vecchio, quello stesso medico prendeva la decisione di mandarlo nella camera a gas. Questo sopravvissuto parlò di un caso (che gli era stato descritto dai membri del Sonderkommando)a in cui un medico, presentandosi nel locale attiguo alla camera a gas in cui i prigionieri dovevano spogliarsi, avendo notato sul pavimento un frammento di una lente per occhiali rotta, disse ai presenti: «Fate attenzione a... non farvi male». Il sopravvissuto concluse che: «Fino all’ultimo istante i nazisti... usavano l’inganno».
Egli continuò elencando la serie di fasi attraverso le quali si articolava il coinvolgimento dei medici SS nelle uccisioni: innanzitutto c’erano le istruzioni del medico capo ai suoi subordinati a proposito dei tempi di servizio e dei procedimenti diretti di selezione; seguiva, in secondo luogo, il servizio del singolo medico alla banchina, che eseguiva le selezioni «in un modo molto nobile [apparentemente gentile]»; in terzo luogo, dopo la selezione il medico saliva su un’ambulanza o su un’automobile della Croce Rossa che partiva alla volta dei crematori; in quarto luogo, il medico ordinava «quante pastiglie di gas si dovessero introdurre nei... fori del soffitto, secondo il numero delle persone, e chi dovesse farlo... C’erano tre o quattro Desinfektoren; in quinto luogo: «Egli osservava attraverso lo spioncino come morivano le persone»; in sesto luogo: «Quando le persone erano morte... dava l’ordine di ventilare..., di aprire la camera a gas, ed entrava nella camera con una maschera antigas»; in settimo luogo «Firmava [un modulo in cui si diceva] che le persone erano morte... e quanto tempo avevano impiegato»; e in ottavo luogo «osservava... l’estrazione dei denti... dai cadaveri». Questo sopravvissuto fu lo stesso che concluse che «il programma di uccisione era diretto da medici, dal principio alla fine».
Altri sopravvissuti espressero la loro sensazione di bizzarra irrealtà («Scheletri viventi in uniformi a righe, il cranio rasato... simili a ombre mute, che si arrampicavano sui treni... strani “facchini” [che] portavano fuori i nostri bagagli») e la profondità della loro confusione («Uomini rozzi in vestiti a righe... Mezzo yiddish mezzo tedesco; lasciano tutto; dei bastoni calano su di noi, colpi»).3
Si poteva essere istupiditi sino alla catatonia, come descrisse una dottoressa ebrea, Gerda N., arrivata verso la fine del giugno 1944:
Eravamo in una tale confusione, in un tale stato di shock... Ci raparono a zero e ci diedero dei vestiti terribili... Ci presero tutto. Il nostro bagaglio, ogni cosa... e io andai in un campo chiamato Mexico... Non c’era niente..., neppure acqua... Penso che in una baracca ci fosse un migliaio [di persone]... Ci diedero il primo pasto il giorno seguente... Devo dire che ero in uno stato di... stupore [catatonico]... Non riuscivo a muovermi... I primi giorni, forse una settimana o dieci giorni, rimasi in realtà del tutto immobile...
«Non ci si può credere»: fu questo il modo in cui si espresse un altro medico prigioniero, intendendo dire che un’esperienza del genere era impossibile da accettare o da assimilare.
Dalla fine del 1942 o dall’inizio del 1943, i medici che arrivavano al campo come prigionieri non solo venivano lasciati in vita, ma formarono una speciale categoria di internati. Essi venivano di solito prescelti alla banchina di arrivo, anche se alcuni venivano ammessi al campo (anziché essere inviati alla camera a gas) sulla base della loro giovinezza e forza, e solo al campo venivano successivamente identificati come medici. Il processo poteva essere casuale. Poteva accadere infatti che medici più anziani venissero inviati alla camera a gas senza essere stati neppure ammessi al campo. All’altro estremo, un medico sopravvissuto affermò che, al suo arrivo ad Auschwitz con un trasporto che era stato affidato alla sua responsabilità come medico:
Vennero aperte le porte e ci dissero di affrettarci verso una piattaforma. Vicino a noi c’era un ufficiale medico delle SS di grado elevato e io gli dissi nel mio tedesco migliore che Nora [la sua fidanzata] e io eravamo l’infermiera e il medico cui era stata affidata la responsabilità del trasporto. Egli si mostrò cordiale verso di noi e ci disse dove metterci e di non lasciarci spostare da nessuno. Ci trattò come colleghi. Mi disse persino di non mollare i libri che avevo in mano e di cercarlo più tardi al campo, e aggiunse che sarei stato trattato bene.4
Si sospetta che persino il sollievo nel vedersi trattati così bene fosse associato a un terrore sottostante, che questo medico riuscì in parte a reprimere.
Inoltre, il fatto di essere identificato e favorito come medico poteva intensificare il dolore e l’autocondanna al pensiero della sorte di propri familiari. Un medico prigioniero affermò semplicemente che, quando il medico delle SS che faceva le selezioni lo identificò come medico, «fece andare me a destra e mia moglie a sinistra». Un altro medico, arrivato ad Auschwitz nel settembre 1943 da un campo di transito in Olanda, mi trasmise con immediatezza il senso primordiale sia del suo impulso a sopravvivere sia del suo senso di colpa per essere stato l’unico della sua famiglia a sopravvivere grazie al fatto di essere medico:
Eravamo... mia moglie, mio figlio, e i genitori di mia moglie. Scendemmo dal treno. C’era un tedesco. Disse che le donne dovevano mettersi da una parte e gli uomini dall’altra. Poi... non so esattamente che cosa sia in realtà accaduto... Ma in quel momento ero in piedi accanto a mio suocero. Aveva circa... un po’ più di settant’anni. Era un vecchio. E io pensavo: «Forse posso aiutarlo». Allora sentii qualcuno che diceva: «Doctors [in inglese], austreten [“Uscire fuori dalla fila”]». Io feci un passo avanti ed egli mi aggregò al piccolo gruppo delle persone più giovani... Vede, se io non avessi sentito quel grido [la chiamata dei medici], ora non sarei qui. La fortuna è una cosa molto importante. Lo sentii. E feci un passo avanti. Non pensavo... che fosse qualcosa di speciale. Forse pensavo... che poteva avere qualche significato... Ma vorrei sottolineare che devo la vita al fatto di essere un medico. Questo fatto lo devo ai miei genitori [che avevano poco denaro e lo spesero per darmi un’istruzione]. Io non li ho mai ringraziati per questo fatto... Ho anche un senso di colpa per questo... Ma... essi mi salvarono la vita consentendomi di non entrare nella camera a gas.
Un’ora dopo qualcuno ci disse che tutte le altre persone che avevano fatto parte del nostro trasporto erano state gassate. Si rimane sotto shock. Che cosa è normale? Se si apprende da una telefonata, Gott behüte [Dio scampi], che la propria moglie e i propri figli sono morti, qual è la reazione normale?... In questo modo io appresi che mia moglie, mio figlio, i miei genitori, i miei suoceri, mia sorella, erano stati uccisi. E ciò nonostante io volevo vivere. Si può parlare di Selbsterhaltungstrieb [istinto di autoconservazione] o di Lebenstrieb [pulsione di vita] di Freud, o come lo si vuole chiamare, ma non si può capire. È una cosa così difficile da accettare... Che non c’è un solo momento nella vita che si possa dire di no... Si può sentir dire che tutti i membri della propria famiglia sono stati gassati. E un’ora dopo chiamarono di nuovo: «Doctors, antreten [Medici, mettersi in fila]» e io andai.
Alcuni medici, all’arrivo al campo, avendo udito che i nazisti tendevano a uccidere gli intellettuali e volevano solo persone capaci di svolgere lavori fisici, erano riluttanti a rivelare la loro identità di medici, come descrisse uno di loro parlando del suo arrivo ad Auschwitz nel novembre 1943:
Sento che stanno chiedendo... età e professione. Avevo sentito dire che tutti quelli che dichiarano qualche mestiere fisico o qualche lavoro fisico non vengono mandati con i vecchi sugli autocarri. Perciò quando venni... qui... dissi la mia età e dissi di essere un lavoratore del cemento... E quando arrivammo al campo, gli impiegati, che erano anche loro prigionieri... presero... altri particolari; il nome e poi la professione. E uno di loro, un ebreo, disse: «Se fra di voi ci sono dei medici, lo dicano senza timore, poiché ora c’è bisogno di medici». Non si sterminano più i medici. Perché prima c’era uno sterminio totale dei medici e non solo dei medici... ma – come si dice? – dell’intellighentsia... di quelli che studiano per praticare una professione... E [solo] allora dissi... che ero un medico.
Come mi dissero molti sopravvissuti, alle selezioni «venivano chiamati fuori medici e gemelli». Il privilegio di poter sopravvivere come medico comportava però di dover assistere alla morte di altre persone. Così un medico prigioniero, Henri Q., arrivato al campo nel luglio 1942, quando non erano ancora state istituite formalmente le selezioni ma le condizioni nel lager erano estremamente brutali, disse che in capo a un mese il 90 per cento delle ottocento persone del suo trasporto erano morte, e che «al tempo della liberazione erano ancora vivi quattordici di noi [meno del 2 per cento]».
All’arrivo dei convogli venivano chiamati anche i gemelli perché Mengele li stava raccogliendo per studiarli. Alla selezione veniva gridato l’ordine: «Zwillinge raus! (Fuori i gemelli!)» e «Zwillinge heraustreten! (Gemelli, un passo avanti!)». Una ragazza, arrivata con la sorella gemella e la madre, sentì la chiamata, alla quale rispose la loro madre; in effetti, il giorno dopo un prigioniero esperto disse loro: «Voi avete una probabilità di restare in vita solo perché siete gemelle».
Ci furono sforzi tragici per proteggere la vita di propri familiari che ebbero l’effetto opposto e lasciarono ai sopravvissuti dei sensi di colpa particolarmente dolorosi. Una donna che, al suo arrivo al campo, aveva diciassette anni disse di essere stata messa in un gruppo con la sua sorella più piccola, di quattro anni minore di lei. Vedendo che la bambina era disorientata, «praticamente la spinsi» verso la fila in cui si trovavano la madre e la nonna, dicendo alle SS: «Sua madre è là». Quella fila – cosa di cui lei era allora all’oscuro – era avviata verso la camera a gas. «Questa è la tragedia con cui devo convivere.»
Una storia similmente dolorosa mi fu narrata dal dottor Abraham C., radiologo, che, arrivato ad Auschwitz con la moglie in una notte molto fredda, le diede la sua giacca a vento da indossare e la sua sciarpa da mettere in testa. Poiché la donna, così imbacuccata, «sembrava una vecchina», fu assegnata alla fila che andava alla camera a gas. «Così, in un certo senso, fu a causa delle precauzioni che presi per lei se essa fu assegnata al gruppo sbagliato; altrimenti, giovane e attiva com’era, sarebbe stata sicuramente fra le trenta o quaranta giovani donne che furono risparmiate e avviate al campo.»
Questi fatti trassero origine direttamente dalle manovre e dagli inganni messi in atto dai medici nazisti. La verità che essi occultavano si trovava nelle camere a gas e nei crematori ed è stata descritta da un ebreo polacco che per la maggior parte dei dieci mesi da lui trascorsi ad Auschwitz, a partire dal marzo 1944, lavorò nel Sonderkommando. Una tale testimonianza diretta è rara perché di solito dopo un certo tempo i membri di un Kommando venivano uccisi per eliminare testimoni scomodi, sorte a cui quest’uomo sfuggì solo grazie alla liberazione del campo per opera dei russi.b Egli ha spiegato il mutamento intervenuto a un certo punto nel modo di trattare i prigionieri, il passaggio dalla brutalità precedente a «un metodo diverso, che facilitava il lavoro, e che consisteva nel dire ai nuovi arrivati che avrebbero fatto una doccia per ripulirsi dopo il lungo viaggio». Ora il compito assegnato agli ebrei del Sonderkommando divenne quello di «calmare le persone [i nuovi arrivi che venivano condotti alla camera a gas]». Questi ebrei svolsero con diligenza il compito loro assegnato di ingannare le vittime perché «erano in un macello da cui non c’era scampo, e ognuno si aggrappava alla propria vita», e anche perché «era meglio salvare le vittime da... torture» (i metodi precedenti di esporre gli ebrei a percosse, a cani aggressivi e a crudeli colpi di arma da fuoco); così, «assumendosi il compito delle SS, essi resero un ultimo servigio ai candidati alla morte».
Questo stesso testimone continuò dicendo che, quando gli ebrei del Sonderkommando dicevano ai nuovi arrivati che stavano per essere gassati, «essi impazzivano, cosicché in seguito preferimmo lasciarli tranquilli».5
Egli descrisse poi la sequenza dell’uccisione:
Dopo essere stati portati in prossimità del crematorio, i nuovi arrivati selezionati per la camera a gas venivano fatti svestire completamente, col pretesto che dovevano fare una doccia. Poi venivano fatti entrare dalle SS – spesso con percosse – nel cosiddetto bagno, che in realtà era la camera a gas. Era un locale a chiusura ermetica di circa 80 metri quadrati, alto circa 2,25 metri. C’erano due porte: una era l’ingresso, l’altra quella da cui si portavano fuori i cadaveri. Attraverso due finestrini situati immediatamente sotto il soffitto un uomo delle SS immetteva nella stanza il gas Zyklon-B. L’agonia di queste persone durava circa quindici minuti...c
Il nostro compito consisteva nel caricare i cadaveri su una barella fino ai forni e nel gettarli nei forni stessi. Ogni dieci minuti venivano gettati nei forni quattro cadaveri. Quando nel forno si era accumulata una certa quantità di cenere, dovevamo trasportarla fuori (circa una volta alla settimana), polverizzarla e caricarla sugli autocarri. Le ceneri venivano poi portate al fiume Vistola e gettate in esso.6
Un giudice delle SS che fece un’inchiesta sulla «corruzione» ad Auschwitz notò che i crematori non attraevano molto l’attenzione:
Attraverso un grande portone si giungeva ai cosiddetti spogliatoi. Lì c’erano dei posti numerati e anche marche da guardaroba. Sulla parete erano dipinte frecce che indicavano le docce. Le indicazioni erano riportate in sei o sette lingue. Nel gigantesco crematorio tutto era lucido come uno specchio. Niente faceva intuire che lì, appena una notte prima, fossero state gassificate e bruciate migliaia di persone. Di loro non era rimasto nulla, nemmeno un granello di polvere sui pannelli indicatori dei forni.7
Il membro del Sonderkommando spiegò che, quando si uccideva un numero relativamente piccolo di persone, e «non valeva la pena di sprecarci del gas», un Unterscharführer (vicecapo plotone), di nome Georgi, «aveva il compito... di sparare personalmente alle vittime designate». Queste venivano «accompagnate da due di noi» in presenza di Georgi, il quale «sparava loro da dietro un colpo alla nuca». In seguito, quando i corpi venivano bruciati in fosse aperte perché i crematori non erano più in grado di far fronte al grande numero di arrivi, Georgi «divenne più coraggioso e più brutale» e a volte le vittime venivano portate dal Sonderkommando direttamente nella fossa per la cremazione, [dove] ricevevano l’ordine di sdraiarsi [ed] egli le uccideva con colpi di pistola una dopo l’altra».8
L’uccisione in massa veniva compiuta sistematicamente, con un’organizzazione elaborata:
C’erano cinque crematori, in cui lavoravano circa 800 prigionieri. I crematori constavano di quattro locali costruiti appositamente più una camera che in precedenza era stata una fattoria. In ogni crematorio lavoravano circa 180 prigionieri...
In ogni forno potevano essere cremati nell’arco delle ventiquattr’ore circa 800 cadaveri. Ciò non era sufficiente. Furono scavate altre fosse comuni, profonde circa due metri, lunghe dieci metri e larghe cinque, per bruciarvi esseri umani...
Quando i quattro crematori non furono più sufficienti per cremare i gruppi crescenti di prigionieri in arrivo... dovemmo gettare i cadaveri in fosse per la cremazione. Qui i tedeschi avevano trovato che, per risparmiare benzina, si poteva versare sui cadaveri del grasso umano, che poteva poi essere recuperato in una fossa più in basso. Versavamo il grasso umano con secchi sui corpi, così che bruciassero più in fretta. Lavorammo qui dal maggio 1944 all’ottobre 1944. Lavoravamo da 12 a 16 ore al giorno; in ogni crematorio erano di servizio quattro uomini delle SS, che erano aiutati da 180 prigionieri. Il fuoco ardeva di continuo, giorno e notte.
Non sorprende che, come disse questo sopravvissuto, «le grida terribili di queste persone risuonano ancora nella mia testa e io non riesco a liberarmene».9
Hilberg ha sottolineato che i quattro crematori di Birkenau potevano bruciare un massimo di circa 4400 corpi al giorno. In maggio e in giugno, però, il numero dei soli ungheresi ed ebrei che venivano gassati ogni giorno era di circa 10.000, cosicché per ardere i corpi si richiedevano altre fosse. Quando si dovettero scavare quelle fosse, le quattro unità del Sonderkommando ebrei comprendevano da 500 a 2000 uomini, e nell’agosto 1944 furono bruciati in certi giorni più di 20.000 corpi.10
I medici avevano un ruolo centrale nell’elaborata macchinazione medica, come sottolineò il dottor Henri Q.:
La collusione... dei medici [nazisti] nell’inganno... era una vera messinscena... Un autocarro della Croce Rossa per rassicurare le persone, e nell’autocarro c’era l’acido prussico per ucciderle. Quando arrivavano i convogli di prigionieri c’era un’ambulanza della Croce Rossa. Questi particolari erano stati studiati appositamente per tranquillizzare le persone. Quando si vede un’ambulanza, si pensa che ci sia un’assistenza medica. Era un trucco psicologico deliberato per prevenire reazioni da parte dei prigionieri...
C’erano autocarri su cui venivano fatti salire malati e vecchi, bambini e donne incinte. L’impressione che se ne ricavava era che i tedeschi fossero persone civili e che mandassero autocarri per non affaticare i malati, i vecchi, i bambini e le donne. La gente pensava che in realtà i tedeschi non fossero poi così cattivi. Ma le persone sane andavano al campo e gli autocarri al gas. Molti facevano di tutto per poter salire sugli autocarri dicendo di avere il diabete o il mal di cuore. Essi avrebbero dovuto andare al campo, ma pensavano che fosse meglio andare sugli autocarri.
Persino il dottor Q. e altri medici prigionieri furono ingannati dalla messinscena: «Ci occorse un po’ di tempo per renderci conto che i medici... erano implicati in tutto ciò».
Le selezioni venivano eseguite, dall’interno di una gerarchia medica, da medici del campo (Lagerärzte), sotto l’autorità diretta del medico capo di Auschwitz, o medico di guarnigione (Standortarzt). Quest’ultimo – che per la maggior parte del periodo di cui ci occupiamo fu Eduard Wirths (vedi cap. XVIII) – operava all’interno di due catene di comando distinte. Egli era subordinato al medico capo dei campi di concentramento, dell’Ufficio Principale di Amministrazione dell’Economia delle SS, o WVHA (Wirtschaftsverwaltungshauptamt). Questa posizione fu detenuta dal 1942 da Enno Lolling, che aveva il suo ufficio a Berlino ma che si recava spesso ad Auschwitz e in altri campi. Al tempo stesso, Wirths era soggetto anche all’autorità del comandante del campo, con cui aveva contatti quotidiani.d
Altri medici avevano incarichi diversi e appartenevano a catene di comando diverse e non avevano il compito di eseguire le selezioni. Fra questi c’erano i medici della truppa (Truppenärzte), che prestavano le cure mediche al personale delle SS; i medici (fra cui, in particolare, Carl Clauberg e Horst Schumann) che venivano inviati ad Auschwitz specificamente per compiervi esperimenti sugli internati e che tendevano ad avere connessioni più dirette con Himmler; e i medici appartenenti al locale Istituto di Igiene del campo, ubicato all’esterno del campo principale e facente parte di una catena di comando separata sia da quella dei medici del campo sia da quella del comandante del campo. L’Istituto di Igiene si occupava ufficialmente di questioni di epidemiologia e di batteriologia e fu installato ad Auschwitz dopo un’estesa epidemia di tifo nel 1942.
«L’attività medica ad Auschwitz consisteva esclusivamente nella selezione di persone per la camera a gas»: fu così che mi spiegò la situazione il dottor Ernst B., che c’era stato. (Nel capitolo XVI riferisco diffusamente sulle mie conversazioni col dottor B.) Senza dubbio quello che veniva chiamato il «servizio alla banchina» era una funzione centrale dei medici del campo di Auschwitz. In generale si alternavano in quel compito circa sette medici SS, e l’esecuzione delle selezioni era considerata una questione di giurisdizione militare: all’interno della struttura militare-istituzionale le selezioni erano un compito medico che solo i medici erano considerati competenti a svolgere.
Il principio – stabilito dall’alto – che solo medici dovessero compiere le selezioni fu difeso in modo inflessibile da Wirths. Egli stesso insistette in effetti nel voler dare un esempio: non solo prese parte personalmente alle selezioni – cosa che un capo non avrebbe dovuto fare –, ma si sottrasse ad altri obblighi che avrebbero potuto impedirgli di prestare il servizio alla banchina quando fosse stato il suo turno.11 Il suo atteggiamento era simile a quello di Höss, il comandante del campo, che si sentiva tenuto a essere a volte presente non solo alle selezioni ma all’intera sequenza dell’eccidio: «Dovevo mostrare a tutti che io non solo emanavo gli ordini e facevo i regolamenti, ma ero anche personalmente preparato a essere presente, qualsiasi compito avessi assegnato ai miei subordinati». Significativamente, Höss sostenne che anche i medici si attendevano da lui che sentisse il dovere di «guardare attraverso lo spioncino delle camere a gas e osservare il processo della morte stessa, perché i medici volevano che io lo vedessi».12
Il medico delle SS dottor Ernst B. pensava che il fatto che fosse un medico a condurre le selezioni «rendeva perfetto» questo processo. Con queste parole egli intendeva dire che: «Se viene qualcuno da qualche altro posto e dice che non abbiamo abbastanza persone o che ne abbiamo troppe..., si può sostenere che sono stati i medici a fare le selezioni, e che le hanno fatte con un preciso giudizio medico». Quella «perfezione» implicava l’apparenza di un’attività medica appropriata – la situazione «come se» di Auschwitz – e quell’uso delle selezioni eseguite da medici era stato progettato in gran parte (secondo Höss) dal medico capo delle SS, il Reichsarzt Ernst Robert von Grawitz.13
Era chiaro che Wirths doveva avere avuto altre ragioni per insistere sul controllo medico delle selezioni, ragioni che avevano a che fare con l’attrito costante fra il suo ufficio e il comandante o il comando militare in generale. Come si espresse Ernst B.: «Secondo il medico capo, tutto ciò che facevano i militari era assurdo e sbagliato e se egli avesse demandato loro le proprie responsabilità – in questo caso quella della selezione –, la sua influenza sui militari si sarebbe ridotta. Egli doveva puntellare in ogni modo possibile il suo potere, ed evitare di mollare la presa a vari livelli». Il dottor B. stava suggerendo implicitamente che Wirths considerava se stesso, come medico, più umano, ma che al tempo stesso era coinvolto in una classica lotta burocratica. E per la stessa ragione il dottor B. credeva che il medico capo preferisse conservare personalmente il controllo sulle selezioni, piuttosto che affidarlo ai suoi subordinati medici, allo scopo di mantenere la sua influenza generale: «In ogni struttura di potere ognuno cercava di ingrandire la propria “scrivania” [Schreibtisch]».
Nel tener fermo il principio dell’efficienza medica per l’intera operazione, Wirths esercitò il proprio controllo sul processo di selezione, compresa l’organizzazione del personale, mantenendo in tal modo l’efficienza delle uccisioni ad Auschwitz. (Esaminerò il suo comportamento e i suoi conflitti nel capitolo XVIII.)
L’esecuzione delle selezioni fu costantemente paragonata al servizio al fronte. Il messaggio proveniente da Himmler, dal comandante del campo e dalla gerarchia medica era che questo difficile incarico doveva essere inteso come un dovere del tempo di guerra. Le selezioni venivano spesso paragonate più direttamente al triage, la scelta dei feriti da curare connessa alla scarsa disponibilità di risorse mediche in tempo di guerra. Così il dottor B. poté attribuire all’amico Mengele l’affermazione – che questi avrebbe fatto ripetutamente – che «le selezioni durante la guerra per decidere chi, nel proprio stesso popolo, dovesse ricevere le cure mediche di emergenza e chi no, erano molto più ardue» delle selezioni ad Auschwitz.
L’organizzazione delle selezioni era abbastanza semplice.e Il medico capo (Wirths) forniva i nomi dei medici – e in seguito dei farmacisti e dei dentisti – soggetti alla sua giurisdizione al sottufficiale di grado più elevato dell’unità medica (di solito un sergente maggiore [uno Stabsscharführer] o a un sergente tecnico [Oberscharführer]) e gli ordinava di preparare un prospetto dei turni per il servizio alla banchina. Questi ordini di servizio indicavano, oltre al medico di turno per le selezioni in un giorno particolare, anche un medico di riserva. Anche quest’ultimo doveva essere presente, ma, specialmente verso le ultime fasi delle gassificazioni, nel 1944, non fu sempre così. Gli ordini di servizio dovevano essere firmati da Wirths e affissi con una settimana di anticipo. Ordini di servizio simili venivano preparati anche per il servizio alla banchina dei soldati della sanità, compresi i Desinfektoren, che erano gli unici cui veniva permesso l’uso del gas.
Quando all’ufficio del comandante veniva notificato l’arrivo di un trasporto, esso ne informava immediatamente la divisione medica delle SS. Tale ufficio informava inoltre il medico di servizio, oltre al sottufficiale Desinfektor di grado più elevato e i responsabili della sezione motorizzata che provvedeva all’invio dell’autoambulanza o di altri veicoli (di solito con l’emblema della Croce Rossa). Quest’accurata organizzazione interna assicurava che la selezione, dal punto di vista dei medici e del personale delle ss, fosse condotta in un modo ordinato e appropriato, ossia secondo i regolamenti.f Un tale ordine organizzativo si estendeva al funzionamento del Sonderkommando ebraico nei crematori, che era strettamente coordinato con questa struttura medica.
Ogni selezione era fortemente influenzata dalle istruzioni provenienti dall’alto circa il numero relativo degli ebrei in arrivo che dovevano essere uccisi o lasciati sopravvivere. In generale tali istruzioni venivano definite a Berlino da ufficiali superiori delle SS, fra cui lo stesso Himmler. Sulle selezioni influivano però fortemente anche le deliberazioni prese ad Auschwitz fra il medico capo e il comandante del lager. Nel complesso c’era un conflitto di base fra il braccio poliziesco delle SS, che riteneva di doversi occupare direttamente dell’annientamento di tutti gli ebrei, e il braccio economico dell’organizzazione, che rispondeva al bisogno sempre più disperato del tempo di guerra di lavoro coatto produttivo. Wirths e altri medici pensavano di far parte essenzialmente del secondo gruppo, poiché, oltre a svolgere le selezioni, il loro compito comprendeva principalmente il mantenimento di uno stato di salute accettabile di questi lavoratori-schiavi, almeno in misura tale da permettere loro di lavorare. Ma i medici SS potevano assumere anche il punto di vista opposto, sostenendo che il sovraffollamento e condizioni igieniche estremamente cattive potevano condurre a epidemie devastanti. Essi insistevano perciò sulla necessità di ammettere al campo un numero minore di nuovi arrivati, e quindi di ucciderne una percentuale maggiore. Wirths e Höss si consultarono costantemente su tali argomenti, e si sapeva che fra i due c’erano dissensi e tensioni considerevoli. Wirths si sforzava costantemente di migliorare gli impianti igienici, mentre Höss era preoccupato soprattutto dell’efficienza degli impianti di sterminio. Secondo il dottor B. essi discutevano su molte cose, soprattutto nell’intento di prevenire «errori».
Uno dei possibili errori era che ufficiali non medici potessero eseguire illegalmente delle selezioni: o perché rappresentavano la posizione della Reichssicherheit (ossia della polizia: Eichmann) e volevano vedere uccisi tutti gli ebrei, o perché rappresentavano il punto di vista dell’Ufficio Principale di Amministrazione dell’Economia (WVHA) delle SS, e volevano tener vivi per il lavoro il maggior numero possibile di ebrei. Höss affermò che l’autorità medica appoggiava il suo orientamento di uccidere il massimo numero possibile di ebrei:
Il Reichsarzt [Grawitz]... pensava che solo gli ebrei che erano completamente sani e abili al lavoro dovessero essere selezionati per l’impiego. I vecchi e gli individui deboli o poco robusti diventavano ben presto incapaci di lavorare, cosa che causava un ulteriore deterioramento nel livello generale di salute, e un aumento non necessario delle strutture ospedaliere, richiedendo altro personale medico e altre medicine, cosa del tutto inutile visto che alla fine quelle persone dovevano essere uccise...
Io stesso pensavo che solo gli ebrei veramente forti e sani dovessero essere selezionati per il lavoro.14
Il conflitto all’interno delle SS non fu mai del tutto risolto. In un certo senso non doveva esserlo. I fautori dell’uccisione del maggior numero possibile di ebrei potevano prendersi la soddisfazione di mandare nelle camere a gas un numero immenso di ebrei in arrivo; le selezioni fornivano ai fautori del lavoro coatto gli schiavi di cui c’era bisogno. E le raccomandazioni dei medici venivano accolte dai fautori di entrambe le tendenze: le uccisioni di massa prevenivano il sovraffollamento, e le selezioni, fornendo prigionieri più robusti, facilitavano il compito dei medici di mantenere in buono stato di salute la popolazione dei prigionieri del lager.
I medici potevano addirittura vedere il loro compito, come disse il dottor B., nel rendere «umana» l’uccisione: «La discussione [fra medici] era su come si potesse sbrigare la cosa umanamente (die Sache human durchgeführt). Era questo il problema del medico... La discussione sulla possibilità di usare metodi umani [nell’uccisione]... [al cospetto del] generale sovraccarico degli impianti: questo era il problema».
Le selezioni divennero semplicemente «una parte della loro vita», come commentò con me un medico prigioniero, Jacob R. E anche il dottor B. osservò che, quali che fossero le riserve che i medici SS avevano in principio, essi finivano ben presto col vedere nelle selezioni un «compito ordinario», «un lavoro normale». In effetti, nell’atmosfera di Auschwitz, come testimoniò un altro sopravvissuto, «uccidere un uomo non era niente, non valeva neppure la pena di parlarne»: un medico che, per la maggior parte del tempo, si dimostrò perfettamente gentile e rispettabile, non provava «alcun rimorso per avere mandato delle persone nella camera a gas».15
A partire dalla fine della primavera del 1944, quando l’arrivo di numerosi contingenti di ebrei ungheresi sovraccaricò di lavoro i medici di servizio alla banchina, il modo di condurre le selezioni cambiò. Ora, come spiegò il dottor B., si dovettero usare sistemi di selezioni in massa. A una speciale riunione di ufficiali medici, Wirths annunciò che anche dentisti e farmacisti avrebbero dovuto alternarsi regolarmente ai medici nelle selezioni. E le selezioni vennero compiute ora per «gruppi»: «Quando arrivava il treno, venivano dati con un altoparlante annunci come questo: “Madri e bambini vadano a sinistra!”».
Benché fossero presenti due medici, nessuno dei due prendeva più decisioni sui singoli arrivi. Il medico divenne piuttosto «solo un supervisore». La sua presenza era nondimeno ancora importante, avendo egli la responsabilità di controllare il comportamento dei sottufficiali, di altre persone che facevano parte della squadra di selezione e di prigionieri, tutti impegnati nell’assegnare uomini e donne in arrivo a vari gruppi a seconda della loro categoria. Poiché ogni giorno arrivavano migliaia di persone – fino a diecimila in una notte – le selezioni venivano fatte «solo a gruppi... Non si potevano selezionare individui... Nei regolamenti si diceva che si doveva giudicare la capacità di lavorare di ogni individuo – se egli fosse o no “degno del campo” – sulla base di ragioni mediche. In pratica non si procedette mai a valutazioni individuali, perché era impossibile. Si... facevano selezioni solo per categorie». Ma il medico aveva ancora una posizione centrale. Il dottor B. sottolineò: «Egli stava là e dirigeva tutto».
I medici potevano essere molto assorbiti da problemi sul metodo o la tecnica delle selezioni:g «Le persone che partecipavano a una selezione ne discutevano per giorni. “Che cos’è meglio: mandar le madri nelle camere a gas assieme ai loro figli, o selezionare le madri in seguito, separandole dai loro figli?” Questi erano i tipi di problemi ad Auschwitz: non problemi ideologici, ma problemi puramente tecnici. E su questi problemi si accendevano scontri molto violenti».
Il dottor B. spiegò che i medici e i capi del campo, appartenenti alle SS, si facevano consigliare dalle kapò, prigioniere cui venivano affidati compiti di comando – come i kapò, esse erano tratte dalla categoria dei detenuti «criminali» –: le kapò trovavano molto meno difficile controllare le madri in arrivo alle quali erano stati lasciati i figli.
Medici e militari discutevano animatamente su quante persone dovevano essere uccise e quante ammesse al campo, sempre dal punto di vista medico e sulla base di considerazioni igieniche:
Ci furono numerose discussioni: Se ne dovevano gassare di più o di meno? Dove si doveva fissare il limite? In altri termini, se si accettava nei campi un maggior numero di persone anziane c’erano più persone malate e questo, per molte ragioni, era il problema peggiore in un campo di lavoro... dove c’era solo una possibilità limitata [quanto al numero delle persone che si potevano mantenere in vita]... Allora interveniva la direzione del campo..., dicendo: «Ci state mandando delle persone che non ci sono di alcuna utilità. Esse dovranno morire»... Lei capisce che su questi problemi puramente tecnici c’erano accanite e intense discussioni.
Il dottor B. mi disse che «i medici divennero realmente attivi» nell’affrontare il problema tecnico di primaria importanza della cremazione di un gran numero di cadaveri. Poiché i crematori non erano in grado di far fronte al sovraccarico di lavoro, furono scavate fosse e in esse furono accumulati cadaveri.
Se ne dovevano ardere... grandi cumuli, cumuli enormi. Ora, questo è un grosso problema, ardere cumuli di cadaveri. Lei può immaginare: nudi. Non c’è niente che bruci. Come si può fare?...
Erano stati mandati nelle camere a gas, e ora giacevano qua e là a migliaia e dovevano essere bruciati. Come fare? si provarono numerosi metodi: e i medici, coinvolti nel tentativo di risolvere questo problema, contribuirono a trovare soluzioni.
Lo stesso Ernst B. si eccitò un po’ spiegando con maggiore abbondanza di particolari il problema tecnico:
Le camere a gas erano sufficienti, e quindi da questa parte non c’era alcun problema. Ma per cremare i cadaveri i forni non bastavano. E i cadaveri dovevano essere cremati in grandi cumuli... Il problema pone una difficoltà tecnica veramente grande. Non c’era molto spazio a disposizione, cosicché in principio si pensò di dover procedere cremando un piccolo numero di cadaveri per volta... Era una soluzione da sperimentare... Poi ognuno mise a disposizione le proprie conoscenze di fisica, suggerendo le diverse soluzioni possibili. Se si procedeva con fosse attorno ai cadaveri, l’aria poteva salire dal basso ad alimentare la fiamma, e [si trattava di stabilire se mettere] tavole di legno sotto e benzina sopra, o benzina sotto e tavole di legno sopra: questi erano i problemi. Beh, la soluzione consisteva nel non lasciar morire il fuoco. E nel mantenere la cooperazione fra la camera a gas e il crematorio. Quando [il fuoco] raggiungeva una certa intensità, tutto bene, ma in tal caso non ci si poteva più avvicinare, c’era troppo caldo ecc. Quelli erano i problemi.
B. continuò spiegando come diverse persone facessero cose diverse per aiutare:
E il vero lavoro veniva fatto ovviamente dai comandanti subalterni (Unterführer), lei capisce, i sottufficiali (Unteroffiziere), persone che erano esperte nello sgombrare (wegräumen), i quali... dovevano occuparsi di questi problemi di routine (hausbacken). C’erano persone che avevano un certo talento tecnico... medici e... sottufficiali e anche comandanti di compagnia e capi di campo. Alcuni erano... come dire?... beh, non ci si può esprimere altrimenti, erano interessati alla cosa. Essi premevano, o piuttosto si impegnavano... Dicevano: «Ciò che stanno facendo quegli altri è tutta spazzatura!»... Alcuni erano già stati in altri campi di concentramento dove si stavano facendo esperimenti su queste cose perché, per esempio, i crematori erano stati messi fuori uso o erano piccoli... I medici e altre persone – tutti coloro che ritenevano di essere degli esperti – si impegnarono su questi problemi.
Il dottor B. compendiò la questione nel modo seguente: «Il problema non era quello delle selezioni, bensì di come si potessero bruciare le quantità colossali [di cadaveri] se i forni non funzionavano. Questo era ciò di cui si parlava, e nient’altro».
Il problema condusse ad antagonismi fra i medici e altri capi delle SS («Perché non ci avete pensato?») e a disconoscimenti di responsabilità («Questo non è affar nostro: sta a voi andare avanti e fare qualcosa»). Ben presto le discussioni sul molesto problema non furono più limitate a piccole cerchie di medici o di tecnici, ma si protrassero in conversazioni informali fuori servizio con commenti come: «Quello stupido fece così e così, come poté non rendersi conto che...?». Il dottor B. spiegò che le «idee migliori» non venivano necessariamente da medici o da altri ufficiali; spesso vennero anzi da «uomini molto semplici», fra i ranghi più bassi delle SS. Ed egli ripeté spesso che l’accento principale delle discussioni era sempre su argomenti concreti, su ciò che funzionava, «non su considerazioni morali o estetiche o di qualsiasi altro genere... perché [l’area del sentimento] era già chiusa (abgeblockt)... Era una questione puramente tecnica». E, con agghiacciante coerenza, sul tema dell’etica: «No. L’etica non vi gioca assolutamente alcuna parte: la parola non esiste».h
B. fornì poi un modello semplice ma rivelatore:
L’intera situazione nell’atmosfera del lager... era esattamente come in una comunità civile, con tutta la confusione umana, lei capisce... Era come la progettazione di una costruzione o qualcosa del genere, le stesse cose che si osservano in qualsiasi comunità. Non solo conflitti professionali ma anche posizioni di potere... Si lottava come in ogni organizzazione civile, ma qui le discussioni vertevano sul crematorio di Auschwitz e su cose del genere... È esattamente la stessa cosa. Gli esseri umani che vivono in comunità hanno ognuno il suo compito..., quello di amministrare qualcosa, e... operano sempre nello stesso modo: secondo regole, per esempio la legge di Parkinson.i E la situazione era esattamente la stessa all’interno del campo di concentramento, tanto più a causa del segreto e del fatto che esso [il campo] aveva una posizione così eccezionale [qui la parola Sonderstellung suggerisce una «funzione speciale»]... La [natura] straordinaria di tali... azioni [le uccisioni]... non era oggetto di discussioni... ma era un fatto accettato. Per esempio, il problema del crematorio e la sua capacità ecc., era paragonabile al problema di un sistema di fognature o simili in una diversa situazione.
Si trattava di eliminare il materiale di rifiuto di un’attività collettiva di routine.
Per lo più i medici sollevavano obiezioni non al progetto in sé ma al fatto di essere loro stessi danneggiati da quelle che ritenevano violazioni delle regole del gioco: «Per esempio... a volte si doveva stare di servizio per tre notti di seguito... per il fatto che c’era chi... riusciva a evitare questa incombenza facendosi assegnare un compito di ispezione a un campo esterno, che era un incarico molto meno gravoso».
Ciò nonostante era possibile mobilitare uno spirito di corpo: «Se, per esempio, dei medici erano fuori servizio e un altro [medico, che era in servizio] non riusciva a sbrigare da solo i suoi compiti..., essi lo aiutavano, secondo la loro [capacità tecnica, consigliandogli i modi migliori per mantenere in funzione i crematori]».
L’uso di un veicolo con l’emblema della Croce Rossa sembrava una cosa perfettamente naturale: «Era un veicolo militare. Che cos’altro avrebbero dovuto usare? La gassificazione era di competenza del medico. I medici avevano solo autovetture con l’emblema della Croce Rossa. Che cosa avrebbero dunque dovuto [usare]?».
L’accurata descrizione di Ernst B. lascia fuori quel senso di male e di colpa che pure i medici SS conservavano a un qualche livello di coscienza. Così, nel suo diario (vedi p. 400), Kremer commentò: «Al confronto... l’inferno di Dante è quasi una commedia. Non per nulla chiamano Auschwitz un campo di sterminio!».16 E vero però che questo commento e il suo commento su Auschwitz come anus mundi sono annotati dopo la sua prima e seconda selezione; più avanti il diario di Kremer, che già prima aveva un tono distaccato, accentua ancor più questo carattere nei pochi mesi da lui trascorsi ad Auschwitz. Lo stesso dottor B. tuttavia, riferendosi al servizio alla banchina più di trentacinque anni dopo, riconobbe: «Non si può dare un’idea di che cosa fossero le selezioni ad Auschwitz».
a. Il Sonderkommando era formato da prigionieri ebrei incaricati di eliminare i cadaveri degli ebrei uccisi. Il termine Sonderkommando, letteralmente «comando speciale», poteva essere riferito in generale a gruppi che assolvevano compiti straordinari. Fra questi gruppi c’erano nell’Est le squadre della morte delle SS.
b. Poteva accadere che qualche membro del Sonderkommando fosse lasciato in vita o grazie alle sue abilità tecniche o in conseguenza della confusione generale che regnò nel campo durante i suoi ultimi mesi di esistenza.
c. I più morivano probabilmente in un tempo un po’ minore.
d. Questa doppia catena di autorità era caratteristica della burocrazia nazista, e implicava spesso la gerarchia sia della propria istituzione diretta di appartenenza sia del partito stesso o di una struttura affiliata.
e. Essa mi fu illustrata da un ex internato che aveva lavorato a stretto contatto con Wirths, e dal dottor B.
f. L’espressione spesso usata in proposito è ordnungsgemässer Ablauf (corso regolamentare).
g. Di contro, essi non discussero praticamente mai la natura delle selezioni (vedi pp. 268-269).
h. Nel tedesco originale: «Nein. Ethisch spielt überhaupt: das Wort gibt es nicht».
i. Il principio semiumoristico – formulato nel libro di C. Northcote Parkinson del 1980, Parkinson: A Law – secondo cui la burocrazia si espande sino a occupare tutto lo spazio disponibile.
IX
Un medico non era un medico. Un medico era la selezione. Ecco quello che era il medico: la selezione.
Un sopravvissuto di Auschwitz
Le selezioni potevano aver luogo in qualsiasi parte del campo, compresi ovviamente i blocchi medici. Possiamo designare come «selezioni generali al campo» (o semplicemente «selezioni al campo») quelle che avevano luogo in qualsiasi luogo tranne che nelle aree mediche. Le selezioni generali al campo potevano avvenire in uno o più blocchi, o dinanzi ai vari blocchi (a volte all’appello), o in Kommandos di lavoro (spesso al momento della loro uscita per iniziare la loro attività la mattina presto), o in ogni luogo di raccolta del campo. Il numero delle persone selezionate variava da decine a centinaia di persone tratte da un’area relativamente piccola del campo, a migliaia di persone tratte da un’unità maggiore all’interno del lager. Anche in questi casi venivano selezionati solo ebrei.
Come tutte le selezioni, anche queste si inquadravano nell’equilibrio complessivo fra sterminio e produttività del lavoro, ossia in quella che ho chiamato l’ecologia di Auschwitz. E anche queste erano influenzate da considerazioni «di igiene» all’interno del campo: ossia dalla scarsa disponibilità di risorse «sanitarie» e dal pericolo di epidemie creato dal numero relativamente grande di Muselmänner, ossia di prigionieri estremamente emaciati. Benché gli indirizzi generali venissero impartiti dall’alto, c’era spazio a sufficienza per la variazione e per un’improvvisazione creativa dal basso.
Il fatto che la politica base di Auschwitz di uccidere gli internati inabili al lavoro avesse avuto inizio con un ordine (del marzo 1942) emanato da Enno Lolling, il medico capo dei campi di concentramento, suggerisce una partecipazione medica ad alto livello nell’attuazione della politica delle selezioni.1 E siamo a conoscenza di un coinvolgimento medico significativo anche nella sua formulazione. In ogni caso, questa politica di uccidere dichiaratamente gli internati deboli fu perseguita in modo così spietato per i successivi diciotto mesi (la seconda metà del 1942 e l’intero 1943) che dovettero essere emanate varie direttive supplementari per ammonire che si doveva comunque mantenere in vita un numero di prigionieri sufficiente per compiere il lavoro necessario.2 Verso la fine le selezioni diminuirono considerevolmente, se si fa eccezione per la distruzione di due intere unità del campo alla metà del 1944.
A volte gli ordini concernenti le selezioni nel campo sembravano abbastanza precisi – o almeno erano tradotti dal comando e dalle autorità mediche in numeri abbastanza precisi – perché i medici che eseguivano le selezioni avessero richieste abbastanza precise da soddisfare. Più spesso c’erano invece margini di discrezionalità considerevoli cosicché la selezione, come si espresse un sopravvissuto che conosceva bene la situazione, diventava «molto, molto arbitraria» e il singolo medico che la eseguiva poteva spesso «procedere a suo piacimento».
Le selezioni potevano essere richieste, oltre che ufficialmente, anche in forma non ufficiale. (Il capo di un lager, come ci dice lo stesso sopravvissuto, poteva rivolgersi a un medico delle SS lagnandosi di un Überlag [sovraffollamento].) In entrambi i casi c’erano probabilmente una combinazione di pressioni sul medico perché seguisse una politica generale e una considerevole discrezione da parte sua circa il modo di farlo.
Il dottor Otto Wolken, il medico prigioniero che prese appunti sulla vita nel lager, parlò di una selezione in massa nel campo avvenuta «l’ultima domenica di agosto del 1943», nella quale furono mandati nella camera a gas quattromila ebrei. Egli si riferì a una sequenza di selezioni sulla banchina; di uccisioni di singoli individui da parte di kapò, incoraggiati dalle autorità del campo; di prigionieri ammessi al campo ma rivelatisi poi incapaci di svolgere il lavoro assegnato loro. E quando «questi eroi non provarono più piacere a fare questo [lavoro]... entrò in scena il medico del campo». La sua apparizione equivaleva al temuto ordine «Blocksperre!» (Serrata del blocco!), il quale significava che nessuno poteva uscire dalla propria baracca, e che le tende venivano chiuse per impedire a chiunque di vedere che cosa avvenisse all’interno o all’esterno dei blocchi interessati:
Il medico del campo, accompagnato da alcune SS, si recava da un blocco all’altro. Egli riceveva dalla fureria l’elenco degli ebrei presenti in ciascun blocco. Gli ebrei venivano prelevati dai blocchi... e si controllava il loro numero all’appello. Poi veniva loro ordinato di svestirsi completamente, d’inverno come d’estate. Ora il medico passava dinanzi alla fila di persone nude, e tutti coloro che apparivano deboli o gracili, che avevano bende, che presentavano foruncoli o addirittura cicatrici o scabbia venivano... mandati assieme a coloro che dovevano essere uccisi.3
Wolken continuò spiegando l’organizzazione sistematica del processo da un blocco all’altro: i prigionieri selezionati venivano condotti in un blocco appositamente svuotato dove restavano un giorno o due, «pigiati come sardine», mentre le razioni loro destinate venivano intercettate in gran parte dai kapò; questi barattavano i cibi con alcol e «facevano orge, che si concludevano di solito con gravi maltrattamenti a danno delle persone selezionate». Non importava se qualche prigioniero veniva a morire in questo modo perché «solo il numero [totale] doveva essere giusto: essi dovevano morire in un modo o nell’altro». Quando, di notte, i prigionieri selezionati venivano trasportati con autocarri alla camera a gas, le SS facevano loro «scherzi grossolani», resi più pesanti dall’alcol, e infierivano su di loro, percuotendoli e a volte uccidendone qualcuno.4
Questa combinazione di efficienza, di estrema casualità e di brutalità e umiliazione valeva specialmente per le selezioni nel campo. Il dottor Jacob R., un prigioniero ebreo-ceco, disse che «a volte le SS prendevano un intero Kommando, ordinavano ai suoi membri di calarsi i pantaloni e guardavano loro le natiche [l’assenza delle natiche o muscoli glutei era un’indicazione di debolezza e di prossimità alla morte per fame], dopo di che li mandavano nelle camere a gas». Wolken riferì che il medico che faceva la selezione sceglieva prigionieri che, «per qualche ragione, non gli piacevano... Non si procedeva ad alcun esame medico», cosicché un suo amico «fu inviato nella camera a gas semplicemente a causa di una vecchia ferita dovuta a un’operazione di appendicite». E aggiunse: «Il fatto che un medico potesse ispezionare in dieci minuti tutti i prigionieri presenti in un blocco, una media di 500 persone, può dare un’idea di come venissero fatte le selezioni».5
Marianne F. descrisse il processo come ancor più casuale e imprevedibile:
Questi [i criteri per la selezione] non ebbero francamente mai né capo né coda, poiché quando io ebbi la febbre tifoide e avevo una faccia così [fece un’espressione grottesca], ero senza capelli e ridotta a uno scheletro [non fui scelta]. Furono prese invece persone che erano vicine a me, già guarite – da cinque o sei mesi –, le quali avevano già un aspetto molto più normale. Non si poteva prevedere niente.
E continuò a descrivere come ci si sentiva a essere esposti (come accadde a lei dal gennaio al maggio o giugno del 1943) a due selezioni al giorno, all’uscita dal campo per andare al lavoro alla mattina e al ritorno alla sera:
La mattina ci si alzava alle quattro, ed era buio pesto, voglio dire in inverno... poi c’era l’appello, e si stava in piedi, si stava in piedi, si stava in piedi... a volte per due ore o più, in fila per cinque, finché non era finito l’appello. E ancor oggi non riesco a capire come i conti potessero tornare, perché mucchi di persone... morivano durante la notte... Molti venivano percossi a morte... perché non volevano alzarsi [dalle loro cuccette e presentarsi alla selezione]. Voglio dire che non sono mai riuscita a capire che tipo di matematica applicassero. Doveva essere però una matematica molto precisa perché a volte, se l’appello non tornava, venivamo tenuti là in piedi anche fino alle sette o alle otto! Poi, finito l’appello, si usciva marciando... A sinistra l’orchestra [suonava] marcette allegre. A destra, c’erano il medico e l’Arbeitsführer [capo di lavoro], e la selezione.
A volte a fare la selezione era Mengele da solo, a volte [uno de]gli altri [medici] da solo, altre volte entrambi... Essi stavano semplicemente alla porta, faceva parte dei loro compiti... Si arrivava alla porta e [ci veniva dato l’ordine:] «Halt!». E lui [Mengele o l’altro medico] guardava lungo la fila... guardava le facce. «Tu!, tu!, tu!, fuori!» Quelli delle file di dietro dovevano venire avanti per ricostituire la riga...
E trovavamo lo stesso comitato di benvenuto quando tornavamo al campo alle sei di sera... [Dopo una giornata di duro lavoro fisico] eravamo troppo dannatamente sfiniti per poter fare qualsiasi cosa!... Eppure dovevamo correre, per tutto il tempo, e loro ci sceglievano mentre entravamo correndo. E mi creda, non mi sembrava affatto di correre... Sappiamo che il medico aveva una parte in tutto ciò.
Le selezioni venivano compiute a volte in coincidenza con una festa religiosa degli ebrei o in un giorno di festa religiosa comune, come il Natale. Questa prigioniera sopravvissuta, che era ebrea ma era stata ammessa a lavorare in un gruppo di impiegati formato per la maggior parte da polacchi non ebrei, mi raccontò che, mentre erano «[seduti attorno] all’albero di Natale [nel 1943]» e cantavano «inni di Natale... probabilmente tre o quattro autocarri stavano dirigendosi verso le camere a gas».
Benché, a partire dagli ultimi mesi del 1942 o dall’inizio del 1943, i medici prigionieri venissero di solito risparmiati, potevano però essere selezionati assieme ad altri prigionieri se erano deboli o malati. Essi erano però meglio di altri in grado di studiare il processo delle selezioni e di trovare modi per sopravvivere a esso.
I prigionieri facevano ricorso a ogni stratagemma possibile per dare l’impressione di essere in buona salute, robusti e, soprattutto, abili al lavoro. Alcuni si imbottivano di stracci per apparire più grassi (quando non veniva loro ordinato di spogliarsi); altri si sfregavano sulla faccia qualsiasi sostanza riuscissero a trovare, o semplicemente si massaggiavano energicamente il viso per eliminare il pallore e produrre un colorito più sano; e tutti cercavano di compiere movimenti fisici vigorosi (come correre sul posto), al di là di quelle che essi stessi credevano che fossero allora le loro capacità. Marianne F. mi spiegò che, senza capirne esattamente la ragione, «mantenni in viso un’espressione risoluta... [ed] ero decisa a non mostrare mai timore» e si preoccupò di spazzolarsi sempre i denti e lavarsi la faccia, altrettanti comportamenti che si inquadravano nello sforzo straordinario messo in atto da certi prigionieri per conservare la loro vita.
Alcune donne tentavano di drappeggiare i loro indumenti in modo da nascondere la gravidanza (che per le donne ebree significava essere inviate subito nella camera a gas), mentre altre abortivano in segreto con l’aiuto di medici ebrei prigionieri. Una donna raccontò che una volta Mengele le chiese in modo sospettoso se fosse gravida, dicendole che, se lo era, l’avrebbe mandata «in un altro posto con condizioni migliori»; essa disse di avere risposto: «Come potrei essere gravida?», risposta che le salvò la vita.6
Il messaggio contro cui i prigionieri lottavano fu espresso da un sopravvissuto ebreo romeno: «Tutti ci dicevano: “Dovete morire perché siete sporchi”», dove la parola «sporchi» stava per ogni impurità attribuita a ebrei che richiedeva come inevitabile la loro eliminazione.
Spesso dei prigionieri, specialmente medici, tentavano di salvare qualche persona manipolando documenti e rapporti e specialmente i numeri assegnati ai prigionieri al campo [e tatuati sul loro braccio sinistro]. Wolken disse di aver cooperato con un impiegato ebreo per salvare persone che erano già state selezionate: assegnando loro il numero di persone morte, togliendo, quando era possibile, il nome di persone dall’elenco di coloro che erano stati selezionati, e «una volta rubai persino, davanti agli occhi del medico del campo... una pila di... rapporti da cui dovevano essere presi i nomi per l’elenco delle persone da gassare».7 Per lo più, però, come tutte le selezioni, anche quelle nel campo procedevano in modo inesorabile.
In due occasioni furono selezionate per le camere a gas le popolazioni di interi campi: il campo delle famiglie cecoslovacche e il campo degli zingari. Queste persone non furono selezionate nel senso solito: non ci fu nessun medico a dividere le persone in due gruppi: quelle che dovevano morire e quelle cui veniva permesso di vivere.a In ciascuno di questi due casi arrivò un ordine dall’alto (da Berlino) di annientare un gruppo specifico di migliaia di persone che in precedenza era stato conservato intatto. Nel campo gli eventi furono percepiti come una selezione su vasta scala.
È probabile che in queste decisioni siano stati coinvolti dei medici, considerando i problemi sanitari posti da questi campi di famiglie, in particolare dal campo degli zingari, che era descritto da molti come un ammassamento caotico di persone, afflitte da fame e malattie, in un grado eccezionale persino per Auschwitz. Certamente, quando gli ordini venivano dall’alto, i medici erano figure chiave nel condurre l’uccisione in massa.
Consideriamo la seguente descrizione, fatta da un ex prigioniero, che faceva parte allora del Sonderkommando e che fu perciò un testimone diretto di questi eventi: del primo dei due eccidi in massa del campo delle famiglie cecoslovacche (ebraiche), che ebbe luogo l’8 marzo 1944 e che costò la vita (secondo Wolken) a 3792 persone, fra uomini, donne e bambini. I nazisti avevano utilizzato i cecoslovacchi – la maggior parte dei quali arrivati nel settembre 1943 dal ghetto modello di Theresienstadt – per estese campagne di propaganda, fra cui l’accurata realizzazione di un film documentario che propalava notizie radicalmente false sull’organizzazione della vita nel campo – il tutto associato alla voce che il campo fosse sotto la protezione della Croce Rossa Internazionale. Ma, nell’eseguire l’eccidio, le SS si resero conto che le persone internate nel campo si trovavano ad Auschwitz da un tempo abbastanza lungo per rendersi conto di ciò che stava accadendo, e perciò le trattarono con grande e aperta brutalità:
[Nello spogliatoio del crematorio] persone dalla testa e dalla faccia insanguinate e contuse dimostravano che quasi nessuno era riuscito a sottrarsi ai colpi di bastone che si erano abbattuti su di loro in cortile. I volti erano lividi per il timore e l’angoscia... Solo qualche giorno prima il Lagerführer [Johann] Schwarzhuber aveva promesso loro, dando la sua parola d’onore come capo delle SS, che sarebbero stati trasferiti con le loro famiglie a Heydebreck [uno stabilimento della I.G. Farben]... Speranza e illusioni erano svanite. Quel che restava erano delusione, disperazione e rabbia.
Cominciarono a dirsi addio fra loro. I mariti abbracciavano le mogli e i figli. Tutti erano in lacrime. Le madri si volgevano ai loro figli e li accarezzavano con tenerezza. I piccoli... piangevano assieme alle loro madri e si aggrappavano ad esse. Ma... quando vari capi delle SS – fra cui il Lagerführer Schwarzhuber e il dottor Mengele – apparvero sulla soglia dello spogliatoio, quelli più vicini divennero furiosi. La sofferenza e l’afflizione diedero sfogo a un odio sfrenato verso quegli uomini...
Dopo un po’ udii grida acute, colpi violenti battuti contro la porta e anche lamenti e pianti. Alcuni cominciarono a tossire. La loro tosse si fece sempre più convulsa, segno che il gas aveva cominciato ad agire. Poi il clamore cominciò ad attenuarsi e a trasformarsi in una sorta di opaco parlottio a molte voci, soffocato qua e là dalla tosse...
Mi sembrava che quel giorno la morte fosse stata più rapida del solito. Erano trascorsi appena dieci minuti dall’introduzione dei cristalli di gas quando nella camera a gas si fece un silenzio totale.8
Quando questo membro del Sonderkommando scese in ascensore dal crematorio assieme ad alcuni prigionieri suoi compagni di lavoro, trovò davanti alla porta della camera a gas il comandante del campo (il capo di uno dei singoli lager di Auschwitz) e Mengele:
Il medico stava giusto accendendo la luce. Poi si chinò in avanti e guardò attraverso uno spioncino nella porta per vedere se all’interno ci fosse ancora qualche segno di vita. Dopo un po’ ordinò al Kommandoführer di azionare i ventilatori che dovevano disperdere il gas. Dopo che essi ebbero funzionato per qualche minuto, fu aperta la porta della camera a gas, che era assicurata con pochi chiavistelli orizzontali.9
I medici delle SS – e di nuovo specialmente Mengele – furono specificamente implicati nell’uccisione dei quattromila internati del campo degli zingari, eccidio avvenuto il 1° agosto 1944 (vedi anche p. 511). Mengele era il medico capo in quel lager e fu così attivo nel processo di annientamento che molti prigionieri con cui ebbi modo di parlarne pensavano che ne fosse stato personalmente responsabile e che fosse stato lui ad aver dato l’ordine specifico. Ci sono prove che in realtà egli si oppose a questo sterminio, ma, una volta che esso fu ordinato, applicò un’energia straordinaria alla sua attuazione (vedi p. 440).
Alcuni medici prigionieri che avevano lavorato ad Auschwitz in quel periodo mi dissero che quel giorno Mengele sembrava essere contemporaneamente dappertutto, esercitando un’attiva supervisione sull’uccisione degli zingari. Mengele aveva avuto stretti rapporti con alcuni bambini zingari, ai quali portava di solito cibo e dolci, e a volte anche piccoli giocattoli, e che aveva anche condotto a fare brevi passeggiate fuori del lager. Ogni volta che appariva nel campo degli zingari, i bambini lo salutavano con calore, gridando «Onkel [zio] Mengele!». Ma quel giorno i bambini erano spaventati. Il dottor Alexander O. descrisse la scena e l’appello di uno dei bambini a Mengele:
Mengele arrivò attorno alle otto o alle sette e mezza. Era giorno fatto. Al suo arrivo i bambini [gli si fanno attorno]... Una bambina zingara di undici o dodici anni..., la primogenita di un’intera famiglia – o forse anche di tredici, dato che con la denutrizione a volte si cresce di meno: «Onkel Mengele, [lo chiama], il mio fratellino sta piangendo da morire. Non sappiamo dove sia nostra madre. Piange da morire, Onkel Mengele!». Da chi andava a cercare conforto? Da Mengele: la persona che amava e da cui sapeva di essere amata, perché Mengele li amava. E che cosa ti: rispose Mengele? «Willst du die Schnauze halten!»... Lo disse in un modo normale, volgare... ma... con una sorta di tenerezza:... «Perché non chiudi il becco?»
Altri riferirono che Mengele ispezionò minuziosamente i blocchi, scovando bambini zingari che si erano nascosti, e che trasportò personalmente in macchina un gruppo di quei bambini alla camera a gas, contando sulla fiducia che avevano in lui e parlando loro sino alla fine con tenerezza e in modo rassicurante.
Nel caso degli adulti le cose andarono in modo un po’ diverso. Il dottor Alexander O. ricordò le loro proteste di aver «combattuto per la Germania». Un altro prigioniero medico, ricordando una Blocksperre, disse: «Ogni volta che vedo un’immagine di Dracula, penso a Mengele che corre attraverso il campo degli Zigeuner (zingari), proprio come Dracula... Sentivamo le grida terribili degli zingari mentre li percuotevano e li torturavano su quelle vetture... [In blocchi vicini] altre persone piangevano e gridavano: “Abbiamo paura che Mengele e i suoi aiutanti vengano e ci brucino”».
Il comportamento dei medici nazisti fu forse osservato nel modo migliore – e fu forse più rivelatore – quando essi eseguivano la selezione nei blocchi medici. In queste selezioni il medico SS compiva il suo rovesciamento della guarigione-uccisione in un contesto medico. Le selezioni furono perciò una chiave per l’eccidio sotto l’egida della medicina e una verità speciale di Auschwitz. Le selezioni in un blocco medico erano una caricatura macabra del triage, la selezione connessa alle scarse risorse mediche in tempo di guerra per decidere chi dovesse ricevere le cure mediche e chi no: il medico sceglieva il malato e il debole per alimentare la macchina dello sterminio.
Uno fra i principali medici prigionieri polacchi, Władysław Fejkiel, affermò che lo «scopo principale» del «servizio sanitario» di Auschwitz era quello di fungere «da anello di connessione nella campagna di sterminio di massa». Gli «ambulatori» erano «un luogo per selezioni»; e le aree ospedaliere erano «“sale di attesa” prima di essere avviati alla morte». I blocchi medici di Auschwitz, secondo Fejkiel, fornivano anche una legittimazione medica: «Per chi fosse venuto a sapere che nel campo esistevano queste... istituzioni, sarebbe stato impossibile credere che gli internati fossero sottoposti alla fame, al terrore o al massacro in massa». L’ospedale assolveva anche il compito di isolare i malati, specialmente quelli affetti da malattie infettive, per «prevenire possibili epidemie, che avrebbero potuto trasmettere il contagio anche al personale delle SS e alla mano d’opera civile coatta, impiegata dall’industria tedesca, assegnata al campo». La funzione aggiuntiva dei blocchi medici divenne quella di fornire una terapia reale per quei lavoratori-schiavi, i prigionieri che lavoravano nel campo di concentramento. Nella prima fase dell’esistenza del campo di Auschwitz non fu però virtualmente disponibile alcuna assistenza medica, e la pratica della medicina di un qualsiasi genere fu molto limitata. Inoltre, come continuò a spiegare il dottor Fejkiel, la dieta media ad Auschwitz permetteva a un prigioniero di restare in vita per non più di tre mesi, dopo di che comparivano i sintomi di un forte dimagrimento e della «malattia della fame»; e i primi blocchi medici svolsero la funzione di luoghi «in cui le persone sofferenti della malattia della fame potevano trascorrere il tempo dall’inizio della loro malattia sino alla morte».10 In questo senso i blocchi medici divennero un mezzo particolarmente diretto di mantenere l’ecologia omicida del campo.
In relazione alla funzione generale di Auschwitz, i blocchi medici rimasero una contraddizione. Considerate le condizioni vigenti nel campo e la dieta al di sotto del limite di sopravvivenza, essi non poterono dare un contributo significativo al mantenimento di uno stato di salute accettabile della mano d’opera; e un numero sufficiente di ebrei arrivavano costantemente a sostituire i membri più deboli di tale forza-lavoro. I blocchi medici dovettero probabilmente la loro esistenza all’anteriore funzione del campo di concentramento, al desiderio di prevenire epidemie, alle tendenze professionali e psicologiche dei medici nazisti e, soprattutto, al forte impulso nazista alla legittimazione medica delle uccisioni.
Con l’arrivo di Eduard Wirths come medico capo delle SS nel settembre 1942, e con la crescente insistenza ufficiale sull’esigenza che un gran numero di prigionieri fossero in grado di lavorare, le attrezzature mediche vennero considerevolmente sviluppate e migliorate. Ai medici prigionieri fu permesso di svolgere un vero lavoro medico; prigionieri politici responsabili (molti dei quali erano comunisti tedeschi) sostituirono i prigionieri criminali, spesso brutali, in posizioni importanti connesse alla medicina; e i medici delle SS sostennero per lo più questi sviluppi. Eppure, proprio nello stesso tempo, anche l’eccidio in massa degli ebrei fu sviluppato sino a raggiungere le sue proporzioni più estreme, e in ciò i medici delle SS esercitarono i compiti di coordinazione più importanti. Essi «fecero tutto ciò che il comando desiderava»; ossia «cooperarono strettamente... all’annientamento dei prigionieri, e al tempo stesso fecero di tutto per far credere che somministravano il trattamento medico appropriato, e in tal modo contribuirono a celare vari crimini». Fra le falsificazioni da loro perpetrate ci furono l’aver certificato che le razioni di cibo distribuite ai prigionieri erano sufficienti per la vita, oltre ai successivi certificati di morte (che si richiedevano per i prigionieri che erano stati ammessi al campo).11
La I.G. Farben fornì una dimensione economica significante alla selezione ad Auschwitz. Nel marzo 1941 essa accettò di pagare alle SS tre Reichsmark al giorno per ogni manovale fornito dal campo di concentramento, e quattro Reichsmark per ogni internato capace di svolgere un lavoro qualificato. Il prezzo fissato per i ragazzi era di un marco e mezzo al giorno. A volte i rappresentanti della I.G. Farben si lagnavano della brutalità delle SS nei confronti dei prigionieri, il cui rendimento lavorativo veniva così compromesso (anche se a volte condividevano il punto di vista delle SS che «solo la forza bruta ha qualche effetto su queste persone» e che «è impossibile indurle a fare qualsiasi lavoro se non si fa ricorso a punizioni corporali»); ma forse la lagnanza principale era che «nei trasporti da Berlino [ossia inviati dalle autorità di Berlino] continuavano a esserci un gran numero di donne e di bambini, oltre che di ebrei vecchi» (ossia non c’era un numero sufficiente di adulti di sesso maschile abili al lavoro). E nel settembre 1942, la I.G. Farben gestiva il suo proprio campo di concentramento a Monowitz.12
Questa collaborazione fra la I.G. Farben e le SS si discostò dall’«economia convenzionale della schiavitù» (in cui lo schiavo è quella parte del capitale costituita da un’«attrezzatura che dev’essere mantenuta in efficienza e usata in modo ottimale» con un «deprezzamento» graduale nel corso di un’intera vita), riducendo invece
I lavoratori-schiavi a una materia prima consumabile, un giacimento umano da cui si estraeva sistematicamente il minerale della vita. Quando non rimaneva più alcuna energia utilizzabile, i rifiuti umani venivano caricati su autocarri e mandati alle camere a gas e ai forni per la cremazione nel centro di sterminio a Birkenau, dove le SS li riciclavano ai fini dell’economia bellica tedesca: denti d’oro per la Reichsbank, capelli per i materassi... Persino i lamenti di condannati diventavano un incentivo al lavoro, esortando gli internati restanti a un maggiore sforzo.13
L’intero processo era in accordo con la politica ufficiale nazista – applicabile a tutti gli «elementi asociali» (compresi gli internati di Auschwitz) – della Vernichtung durch Arbeit (distruzione attraverso il lavoro), che in pratica significava far lavorare le persone a morte.14
Pur essendo costretta a espandere le sue strutture ospedaliere a Monowitz, la I.G. Farben stabilì la norma che in esse non potesse essere ospitato più del 5 per cento del personale per volta. E, in quel 5 per cento, i pazienti dovevano essere in grado (a giudizio dei medici) di tornare al lavoro entro due settimane; altrimenti dovevano essere mandati alle camere a gas (i documenti della I.G. Farben usavano l’eufemismo nach Birkenau, «a Birkenau»). Il criterio delle due settimane aveva un’importanza considerevole perché la I.G. Farben era riuscita a imporre la condizione che, dopo tale periodo, avrebbe cessato il pagamento alle SS per quel particolare prigioniero. Questo accordo funzionò come una sorta di «assicurazione contro le malattie» che la I.G. Farben fornì all’istituzione che, per così dire, era proprietaria dei lavoratori-schiavi.15
Nel concordare i termini di questi accordi e nel metterli in pratica, alcuni funzionari della I.G. Farben si impegnarono con le loro controparti delle SS in svaghi come la caccia e pranzi cerimoniali e simili: per esempio, «il 20 dicembre [1941], alcuni rappresentanti della I.G. presero parte a una festa di Natale delle Waffen ss che fu molto gaia e si concluse con allegre bevute».16 È probabile che i medici delle SS abbiano preso parte ad alcune di queste attività fraterne.
Verso la fine del 1942 l’ordine di Lolling che tutti i prigionieri inabili al lavoro venissero uccisi fu esteso a comprendere i prigionieri malati per i quali non si potesse prevedere la guarigione in capo a quattro settimane. In pratica, però, il periodo di malattia permesso non era di solito di più di due o tre settimane. E il numero dei prigionieri ospitati nell’ospedale (nel campo principale di Auschwitz e a Birkenau, diversamente da Monowitz, dove la I.G. Farben impose una politica ancora più rigorosa) non doveva superare il 7 per cento della popolazione del campo in estate e il 10 per cento in inverno.17b
Il blocco medico non era solo un luogo in cui si facevano selezioni, ma anche quello in cui si teneva la documentazione sulle uccisioni. Una polacca sopravvissuta che aveva svolto lavoro d’ufficio in un blocco medico disse: «Avevamo archivi..., una documentazione della morte di ogni persona, quando la macchina della morte funzionava a pieno regime. Sapevamo tutto». Il blocco medico in cui lavorò questa donna teneva una documentazione su tutte le donne internate nel campo, e alle internate che lavoravano in ufficio «fu ordinato di cassare... le donne [destinate ai crematori] scrivendo sulla loro cartella “trasferita”». In altri termini, il blocco medico era il percorso finale comune per il controllo della morte ad Auschwitz, e il luogo in cui veniva registrato tutto.
Esso era anche un’unità autonoma nel campo, soggetta tecnicamente solo all’autorità del medico del campo e dei suoi assistenti del servizio sanitario (SDG) e non anche all’autorità del comando.
Ma l’autorità del medico delle SS poteva condurre rapidamente alla morte, come scrisse successivamente il dottor Robert Levy in un articolo: «Il 21 gennaio 1944, nel mio blocco chirurgico, a causa della decisione irrevocabile del medico delle SS Thilo, persi in pochi istanti 96 dei miei 100 pazienti».18
Al processo sui crimini di Auschwitz svoltosi a Francoforte nel 1963-1964, fu descritta con precisione la sequenza di una selezione nel blocco medico:
Fra le 8 e le 9 del mattino arrivava il medico SS del campo [Friedrich Entress e]... si recava nella stanza del medico nel Blocco 21... Dopo essersi occupato della corrispondenza, si recava assieme a [Josef] Klehr [un famigerato sottufficiale del servizio sanitario, implicato a molti livelli in uccisioni di internati (vedi pp. 363-366)] nell’ambulatorio al Blocco 28. Qui si faceva condurre i nuovi pazienti... Il medico prigioniero gli diceva la sua diagnosi. Il medico delle SS dava solo una rapida occhiata alla persona malata e con uno sguardo alla scheda datagli dal medico prigioniero o dall’infermiera, internata anche lei, si accertava se il paziente fosse o no un ebreo. Dopo di che decideva immediatamente quale dovesse essere la sorte del prigioniero: trattenerlo in infermeria o rimandarlo alle baracche, oppure ancora destinarlo alla «Sonderbehandlung» (trattamento speciale), che significava morte per mezzo del fenolo. La Sonderbehandlung era riservata ai soli prigionieri ebrei, e specialmente a quelli che apparivano deboli (i Muselmänner) o che avevano una malattia che difficilmente avrebbe permesso loro di tornare presto al lavoro... A volte il dottor Entress disponeva le schede dei prigionieri «esaminati» in varie pile. Coloro che erano addentro alle segrete cose [gli aiutanti delle SS, il medico prigioniero ecc.]... capivano subito quale pila contenesse le schede dei prigionieri destinati alla Sonderbehandlung... Molti [fra i prigionieri selezionati] non sospettavano nulla... Altri avevano invece il timore di essere uccisi perché, nonostante il segreto più rigoroso, in tutto il campo circolava la voce che nel Blocco 20 si uccidevano dei prigionieri per mezzo di iniezioni di fenolo praticate da Klehr. Ecco perché molti prigionieri ebrei si dichiararono malati solo in condizioni di estrema emergenza.19
Alcuni commentatori distinsero fra «piccole selezioni» e «grandi selezioni» nei blocchi medici. Nel tipo minore, che è stato appena descritto, il medico delle SS si guardava rapidamente attorno nei blocchi medici, o si faceva condurre un certo numero di pazienti, e sceglieva alcuni fra i più deboli per praticare loro iniezioni di fenolo. Nel caso delle selezioni maggiori tutti i pazienti prigionieri venivano condotti, di solito nudi, dinanzi al medico del campo, il quale, con uno sguardo, decideva chi fra loro potesse restare al campo e chi dovesse essere ucciso. Queste grandi selezioni potevano coinvolgere duecento o trecento prigionieri; e entro un giorno o due dalla selezione i prigionieri venivano caricati sugli autocarri e avviati alle camere a gas.
Selezioni particolarmente estese ai blocchi medici si verificavano in connessione con epidemie di tifo o col timore di un’epidemia. La più famigerata di queste selezioni ebbe luogo il 29 agosto 1942. Il tifo si era diffuso rapidamente nel campo principale, colpendo, oltre che i prigionieri, anche uomini delle SS, e rendendo necessaria l’assegnazione di una speciale baracca di legno ai malati di tifo. La decisione di «liquidare» quei malati venne a quanto pare da Berlino, ed Entress selezionò settecento o ottocento persone, fra cui, oltre ai malati di tifo, i pazienti sospettati di avere contratto la malattia e i convalescenti. In principio si pensò che dovessero essere compresi nell’elenco anche medici e infermieri prigionieri, ma essi furono salvati presumibilmente in conseguenza di una qualche forma di contrattazione.20
Il dottor Jan W., uno fra i principali medici prigionieri polacchi, disse che il medico delle SS agiva sulla base del principio che «una persona può vivere solo se lavora; se non lavora... deve morire», e che, assieme ai suoi aiutanti, «aveva in realtà il compito di accelerare... [tale] morte».
I medici prigionieri ebbero modo di osservare direttamente come avvenissero le selezioni nelle baracche del blocco medico. La dottoressa molto stimata Lucie Adelsberger, che lavorò nell’affollatissimo blocco degli ebreic nella sezione femminile dell’ospedale di Birkenau, descrisse una scena in ospedale:
Le malate giacciono su pagliericci, tutte accalcate in disordine, l’una sull’altra, e non possono distendere le membra doloranti né poggiare la schiena. I letti sono gonfi di sporcizia e di escrementi, e donne morte e cadaveri in decomposizione premono con i corpi irrigiditi contro le pazienti vive che, compresse come sono, non possono spostarsi. Qui è rappresentata ogni malattia presente nel campo: tubercolosi, diarrea, eruzioni cutanee provocate da parassiti, edemi da fame là dove il corpo scheletrico si è riempito d’acqua per sostituire il tessuto cellulare svanito, donne con righe rosse sulla pelle causate da colpi di frusta, persone con arti storpiati, con i piedi congelati, con ferite prodotte dal filo elettrico o da colpi di arma da fuoco, esplosi, per motivi banali, da qualche SS dal grilletto facile. Tutte le degenti soffrono, gemono, sono affamate, assetate, tremano per il freddo sotto le scarse coperte, eppure lottano per conservare la loro vita miseranda.21
Il medico prigioniero Alexander O., che aveva studiato in Francia, descrisse una situazione equivalente per gli uomini:
Nel «reparto convalescenza» al secondo piano del Blocco 20... dovevamo occuparci per lo più di ebrei. La stanza era chiamata la «stanza della diarrea» e qui ricoveravamo pazienti che avevano per lo più edemi agli arti inferiori, che noi definivamo casi di «debolezza generale». Quasi tutti avevano ulcere, le quali non guarivano a causa degli edemi alle gambe. Così tutti questi pazienti, classificati come malati, erano semplicemente in attesa del loro turno per essere mandati nelle camere a gas.
Il dottor O. continuò dicendo che un giorno, subito dopo l’inizio del suo lavoro in corsia, mentre si era in attesa di una selezione, era rimasto sconcertato dall’insistenza con cui il suo collega, prigioniero come lui, raccomandava ai degenti di saltar giù dalle loro cuccette, addirittura picchiandoli se necessario; come capì poi, questo era l’unico modo per salvar loro la vita. Dopo che i medici furono riusciti a far alzare quasi tutti i pazienti, ebbe inizio la selezione:
Qualcuno annunciò: «Achtung, Lagerarzt!» (Attenzione, il medico del campo!). Entrò un bel giovane, sottile, alto, un ufficiale delle SS, seguito da un sottufficiale. Questi erano chiamati... diciamo, il personale medico, con un caduceo... Tutti dovevano sfilare – nudi – davanti al medico, di corsa, petto in fuori, in modo molto militaresco... Chi non ha mai visto questo portamento militare in uno scheletro non sa che cosa siano la degradazione e il disprezzo... Se uno scheletro cammina chinato, procedendo lentamente, è uno scheletro che presenta un aspetto normale, si potrebbe dire addirittura un aspetto rispettabile. Ma vedere questa processione di scheletri che marciano con un passo militare, petto in fuori, spalle all’indietro, per fermarsi bruscamente, è uno spettacolo che rattrista, che umilia, al di là di ogni descrizione. Uno scheletro che marcia così – l’edema [il liquido] nello scroto che oscilla, lo scroto completamente svuotato che oscilla – è una cosa che non si riesce a dimenticare.
Per non lasciarsi ingannare dai tentativi dei medici prigionieri di salvare delle vite umane, i più fanatici e malvagi fra i medici delle SS, come Friedrich Entress, crearono quella che divenne nota, secondo un sopravvissuto, uno scienziato non medico, come la «selezione negativa»: «In altri termini, per scoprire i malati nascosti dal personale del blocco – per scoprire gli inganni di un tipo o dell’altro –, egli prendeva quelli dall’aspetto più sano. Entress non lo fece spesso, ma qualche volta lo fece. Egli fu l’unico che, a quanto mi risulti, praticò tale selezione negativa».
Persino quando la selezione era solo parziale, come avveniva più abitualmente, poteva essere avviato alla camera a gas un gran numero di pazienti, come descrisse la dottoressa Adelsberger:
Alle dieci circa arriva il Lagerarzt (medico del campo). «Achtung!» Blocco ebraico con 683 pazienti! Oggi il Lagerarzt ha molto tempo a disposizione per il blocco ed esamina ciascun paziente separatamente. Quelli in grado di camminare devono passare in fila davanti a lui. Egli prende nota del numero di quelli che non camminano con sufficiente energia, di quelli che hanno piedi gonfi o piaghe superficiali, di quelli che non riescono a scendere dal letto. Dopo appena un’ora sono stati annotati più di 400 numeri. Quando il Lagerarzt se ne va, nel blocco c’è un silenzio paralizzante. Più di 400 persone sanno che, in capo a poche ore, saranno trasferite in un altro blocco, dove forse altre centinaia di persone sono già in attesa... un blocco isolato dal resto del campo in cui possono entrare solo i becchini, poiché la morte in attesa nella camera a gas ha già impresso il suo sigillo irrevocabile.22
a. Ma i medici potevano fare in modo di salvare qualche persona (vedi pp. 320-323).
b. A volte si parla invece del 6 per cento. Pare che la percentuale fosse compresa fra il 5 e il 7 per cento; e che ci siano stati sforzi costanti da parte dei medici per aggirare questa regola, trattenendo surrettiziamente in infermeria una percentuale di internati superiore a quella permessa.
c. I regolamenti imponevano che gli internati ebrei venissero curati da medici ebrei, e gli internati «ariani» da medici non ebrei. Il rigore con cui questa segregazione fu mantenuta variò da un medico nazista a un altro, ma pare che essa sia stata osservata in modo più scrupoloso nella sezione femminile dell’ospedale di Birkenau che altrove.
X
Essi [i medici ss] facevano il loro lavoro esattamente come una persona che se ne va in ufficio. Erano persone distinte che andavano e venivano, che esercitavano la loro supervisione ed erano rilassati, a volte sorridenti, a volte scherzosi, ma mai infelici. Erano spiritosi, se erano nell’umore giusto. Personalmente non avevo l’impressione che risentissero molto di ciò che stava accadendo, e tanto meno che ne fossero traumatizzati. La cosa andò avanti per anni, non per un giorno.
Un medico prigioniero ad Auschwitz
Praticamente tutti i medici nazisti ad Auschwitz accettarono di compiere le selezioni, anche se presentarono differenze nel modo di condurle e negli atteggiamenti manifestati verso ciò che facevano. Gli atteggiamenti variarono dall’entusiasmo all’ambivalenza alla riluttanza e a una temporanea avversione e, in almeno un caso, in una resistenza coronata da successo, o almeno in un tentativo riuscito di sottrarsi a quel compito.
Per la maggior parte dei medici SS le selezioni erano un lavoro, qualcosa di sgradevole e spesso di stressante, e un’occasione di grandi bevute, come spiegò il dottor Karl K.:
Le selezioni erano per lo più uno strapazzo (eine Strapaze). In particolare comportavano di dover stare in piedi per tutta la notte. E non era solo quello: anche il giorno successivo era completamente perduto perché si beveva di continuo... Nella seconda metà della notte si era già alticci, e alla fine completamente sbronzi...
[Si beveva] durante la selezione... Per ogni selezione veniva fornito un certo numero di bottiglie e tutti bevevano e facevano brindisi con gli altri... Non si poteva restarne fuori [dalle bevute]. E il risultato era che verso le due o le tre ci si cominciava a sentire molto stanchi, e allora si beveva ancora di più.a
Inoltre, per qualcuno dei medici SS più anziani, il processo delle selezioni rappresentava un miglioramento rispetto alle condizioni anteriori vigenti nei campi:
C’erano medici più anziani che in passato avevano vissuto esperienze molto peggiori delle selezioni: percuotendo personalmente a morte qualche prigioniero e cose del genere... [Il dovere] era sgradevole, suscitava un senso di avversione. Eppure i medici anziani che si trovavano già nei campi quando vi furono introdotte queste selezioni, che avevano esperienza del tempo in cui le persone morivano nei campi e i prigionieri si picchiavano a morte fra loro o picchiavano a morte i morenti o quelli che erano sospettati di essere malati di tifo...b Per quei medici le selezioni erano praticamente... non si può dire del tutto un sollievo, ma in ogni caso un miglioramento. Ora le cose andavano meglio, c’era più ordine.
I nuovi venuti, che non avevano sperimentato quelle anteriori condizioni di brutalità nel campo, «soffrirono in principio» alle selezioni, ma «poi anche quella finì col diventare una routine, come tutte le altre attività di routine ad Auschwitz». Solo di rado i medici parlavano delle selezioni: «Se lo facevano, poteva essere per lagnarsi... Qualcuno poteva sentirsi truffato se doveva prestare servizio una notte di più [di altri], o se non veniva rilevato [dal servizio quando qualcuno avrebbe dovuto dargli il cambio] o simili».
Un sopravvissuto, Hermann Langbein – che è fra le fonti principali su Auschwitz –, classificò i medici nazisti in tre categorie: gli zelanti che partecipavano con fervore al processo di sterminio e facevano addirittura del «lavoro extra» per meglio contribuire alle uccisioni; quelli che affrontavano il lavoro in un modo più o meno metodico, e non facevano nulla né di più né di meno di quello che pensavano fosse il loro dovere; e quelli che prendevano parte al processo di sterminio solo con riluttanza.2 Langbein si riferì principalmente alle selezioni nel campo, che potevano essere osservate molto da vicino dai prigionieri medici e da certi altri internati (egli stesso, in qualità di segretario di Wirths, ebbe occasione di osservare molto di ciò che accadeva nel campo). Ma quei diversi atteggiamenti si applicavano anche alle selezioni alla banchina: sia per quanto concerne il massiccio consumo di alcolici appena descritto sia nello «stile» complessivo manifestato dai medici che praticavano le selezioni all’arrivo dei convogli.
Per esempio, un altro sopravvissuto mise a confronto lo stile del dottor Franz Lucas, che è riconosciuto in generale come un partecipante riluttante, con quello di Josef Mengele: Lucas era «un uomo dall’aspetto pacioccone, paterno, che eseguiva la selezione alla banchina con studiata lentezza», mentre Mengele «lo faceva con movimenti eleganti e rapidi». Lo stile esuberante di Mengele rifletteva un insieme di qualità ideologiche e caratteriali che esamineremo nel capitolo XVII. Lo stile più misurato di Lucas era quello di un uomo che, secondo i medici prigionieri, «era sempre cortese verso i pazienti e... ci trattava bene» ed «era un essere umano... [che] mi restituì la fede nell’uomo tedesco» e la cui relativa gentilezza verso i prigionieri lo mise in ripetuto conflitto con altri medici e ufficiali delle SS. Eppure, nonostante tutto questo, anch’egli eseguiva le selezioni.
Benché quelle differenze fossero reali e significassero molto per i medici prigionieri e altri internati, il dottor Ernst B. ha sostenuto che non erano così grandi come potevano apparire. Egli stesso era stato venerato da un certo numero di sopravvissuti come una rarità, un medico SS umano. Egli pensava però che gli atteggiamenti più critici e più timorosi manifestati dagli internati sopravvissuti verso altri medici avessero a che fare con i loro modi autoritari «tipici delle SS», e si spinse a suggerire che si trattava di poco più di una questione di modi di fare nel rapporto fra medico e paziente. Parlando del suo stesso comportamento e di quello del suo superiore medico ad Auschwitz (che era molto temuto ed evitato dai prigionieri), il dottor B. fece l’analogia di due medici che entrano in una comunità con le stesse capacità professionali e, pur usando gli stessi farmaci, «nell’opinione della... gente, uno è un buon medico e l’altro no»: la differenza nella loro reputazione risiederebbe solo «nel loro modo di fare, con i pazienti..., in piccole cose personali».
È quasi superfluo dire che ad Auschwitz le «piccole cose personali» potevano avere un’importanza enorme; e il dottor B., per ragioni psicologiche proprie, minimizzava importanti differenze reali esistenti fra lui e i medici SS suoi colleghi (per esempio, lui solo riuscì a evitare di eseguire selezioni [vedi cap. XVI]). Egli riconobbe che i medici differivano fra loro nel modo di affrontare le selezioni, ma c’era del vero nella sua affermazione che tutti i medici SS erano molto influenzati da quelli che egli chiamava problemi «pratici» (intendendo dire pragmatici): ossia dal loro rapporto con l’istituzione di cui erano parte e dalle sue richieste di selezione, le quali erano regolamentate da autorità mediche e militari superiori. E al crescere del numero dei trasporti in arrivo, le selezioni vennero a occupare un tempo sempre maggiore, fino a essere praticate per gran parte del tempo; come si espresse il dottor B.: «Non si poteva evitare di vederle se si doveva lavorare nel campo».
Sotto le crescenti pressioni cui erano sottoposti perché esercitassero la selezione, la maggior parte dei medici SS sperimentarono quello che il dottor B. considerava uno straordinario mutamento psicologico individuale dall’avversione all’accettazione: «In principio era quasi impossibile. In seguito divenne quasi una routine. Questo è l’unico modo di presentare ciò che avvenne».
Questo mutamento comportò una socializzazione con Auschwitz, compresa l’importante transizione da estraneo a integrato.
In questa transizione svolse una funzione cruciale l’alcol. Bevendo assieme, e spesso generosamente, nei circoli degli ufficiali, i medici «parlavano con grande libertà» ed «esprimevano le obiezioni più segrete». Alcuni «condannavano tutto» e insistevano che «questa faccenda è una porcheria (Schweinerei)!». Il dottor B. descrisse queste reazioni come così insistenti da «assomigliare a una mania (Sucht)..., una malattia... per Auschwitz e le gassificazioni».
Una tale protesta espressa sotto l’effetto dei fumi dell’alcol non causò ripercussioni – in realtà potrebbe essere stata addirittura incoraggiata – e non ebbe alcuna connessione con forme di impegno o di azione pratica. Di conseguenza, «che si avesse o no un atteggiamento di condanna non importava molto». Quel che importava, secondo Ernst B., era che «Auschwitz era un fatto esistente. Non si poteva... in realtà essere contro di esso, si doveva coesistere con esso, buono o cattivo che fosse». In altri termini, lo sterminio di massa era il fatto della vita ineluttabile a cui ognuno doveva adattarsi.
Ogni volta che arrivava ad Auschwitz un nuovo medico SS si ripeteva lo stesso processo, e alle domande invariabilmente poste dal nuovo venuto rispondevano i suoi compagni di bevuta più esperti:
Egli chiedeva: «Com’è possibile che qui si facciano queste cose?». Poi veniva una sorta di risposta generale... che chiariva tutto. Che cos’è meglio per lui [il prigioniero]: crepare (verrecken) nella merda o andarsene in cielo in [una nube di] gas? E questa risposta chiudeva la faccenda per gli iniziati (Eingeweihten).
Questo ragionamento in apparenza umano, diceva il dottor B., era in sé un’asserzione della realtà di Auschwitz come fondamento per tutto il resto. La terminologia dell’iniziazione da lui usata è appropriata, nel senso che le selezioni erano la «prova» specifica per cui l’iniziato doveva passare per emergerne come «adulto» all’altezza dei compiti che gli erano assegnati ad Auschwitz. Ed esprimendo e combattendo i dubbi, le riunioni conviviali aiutavano a soffocare gli aspetti morali del proprio sé anteriore a favore del nuovo sé ad Auschwitz.
I dubbi potevano comprendere il problema fondamentale che si poneva a un medico coinvolto nell’eccidio: «Si diceva: “La selezione non è di competenza del medico, essendo un’attività completamente non medica”... Io devo rifiutarmi di compiere la selezione perché il mio unico scopo è quello di conservare la vita». Anche questo argomento suscitava una risposta... a cui nessuno era in grado di obiettare: «Che cosa si fa in guerra..., in battaglia: non si fa forse anche là una sorta di selezione? Dato che non tutti possono essere curati e non tutti possono essere trasportati, questo [bisogno di selezionare] è il problema che si pone a ogni medico militare».
Per quanto assurdo possa essere questo paragone su un piano logico, in quel contesto poteva sembrare credibile. Infatti, come aggiunse il dottor B.: «Che si creda o no qualcosa, dipende sempre dalla situazione». E la «situazione psicologica essenziale» dei medici ad Auschwitz era, secondo lui, la rassegnazione alla sua struttura di sterminio: «Io sono qui. Non posso uscirne. Se arrivano dei prigionieri, questo è un fenomeno naturale (Naturereignis). And I have to do [make] the best of it (E io devo fare del mio meglio)». (Il dottor B. disse quest’ultima frase in inglese.)
Andando oltre la mera rassegnazione, i medici SS entravano psicologicamente in quella realtà percepita di Auschwitz. Nel corso delle bevute in comune, le resistenze venivano eliminate attraverso la discussione (ausdiskutiert), cosicché, dopo un paio di settimane, il nuovo venuto «non parlava più di queste cose», e poiché «ognuno [conosceva] il punto di vista dell’altro... non [si faceva più] alcuna discussione». E a quel punto si diventava un «membro integrato».
Il dottor B. compendiò, con una notevole percezione, il carattere estremo (e misterioso) di questo processo di transizione:
Quando si assiste a una selezione per la prima volta – non sto parlando solo di me stesso, ma anche delle SS più indurite – ... si vede... come vengano selezionati bambini e donne. Si rimane colpiti... in un modo che non si può descrivere. E dopo qualche settimana ci si può abituare (kann man es gewöhnen). E questo [processo, mutamento] non si può spiegare a nessuno. È però lo stesso fenomeno che si verifica oggi nei terroristi, in gruppi di terroristi molto stretti... E [per capirlo] si deve averne fatto esperienza diretta. L’esperto può prenderne atto, ma non può conoscerlo veramente (nachempfinden, «sentirlo nel proprio intimo»)... Io penso però di poterle dare almeno un’impressione. Se lei è mai stato in un macello, dove si uccidono animali..., ne fa parte anche l’odore [es gehört auch der Geruch: letteralmente, «l’odore è ciò che si richiede (per la tua reazione)»]..., non solo il fatto che essi [gli animali] vengano abbattuti... Dopo un’esperienza come questa è probabile che una bistecca non abbia più per noi lo stesso sapore. E quando ci si trova [in questa situazione] ogni giorno per due settimane, allora la tua bistecca finirà col riprendere lo stesso buon sapore di prima.
L’esempio del mattatoio è anche troppo pertinente, ma il dottor B. stava sforzandosi sia di dare una spiegazione sia di esprimere il suo sgomento e la sua angoscia retrospettivi per il fatto di una tale transizione psicologica.
Egli spiegò però anche che i medici volevano nel loro intimo compiere tale transizione a causa del forte bisogno di integrarsi. In una situazione così straordinaria, infatti – voleva fare intendere il dottor B. –, l’isolamento personale era una cosa intollerabile, e si sentiva un desiderio disperato di «stabilire in qualche modo un contatto» con gli altri. I nuovi venuti cercavano nel personale del campo degli uomini con una formazione e con punti di vista relativamente simili con cui potersi identificare. Per esempio, un giovane medico appena entrato nelle SS cercava altri uomini appartenenti alla sua stessa categoria piuttosto che cercare di stringere rapporti con i medici «veterani» che erano da anni nel sistema dei campi di concentramento. C’erano anche atteggiamenti regionali condivisi (come l’antagonismo dei bavaresi contro i prussiani) o affinità di formazione scolastica o di classe. A volte medici di Auschwitz esperti venivano assegnati come padri spirituali ai neofiti appena arrivati (di questo fatto ci occuperemo più avanti): evidentemente le autorità erano consapevoli dei conflitti che si manifestavano nella fase iniziale dell’esperienza della transizione.
Nello stesso tempo ci furono pressioni costanti dall’alto per ottenere il massimo impegno nelle selezioni, specialmente a partire dalla primavera del 1944, quando si ordinò anche a dentisti e a farmacisti di fare i loro turni di servizio alla banchina. Uno di quei dentisti testimoniò in seguito che, alla sua richiesta di lasciare il campo, motivata con l’affermazione di non sentirsi capace di eseguire le selezioni, Wirths aveva risposto freddamente che «secondo un “ordine del Führer”» il servizio in un campo di concentramento era considerato come un servizio al fronte, e che ogni rifiuto doveva essere considerato una diserzione» (vedi pp. 535-538).3
Pressioni e guida spirituale potevano combinarsi, come nel caso di Franz Lucas che, avendo notoriamente una certa riluttanza a compiere le selezioni, fu condotto alla banchina da Wirths e Mengele, i quali gli mostrarono più o meno come si doveva procedere. A quanto pare Lucas tentò, per evitare le selezioni, di far ricorso a vari stratagemmi, fra cui quello di fingersi malato; e persino dopo essere stato ridotto all’obbedienza, la sua gentilezza e l’aiuto medico che forniva ai prigionieri gli valsero una nota di biasimo e provocarono infine il suo trasferimento.4
Le prove raccolte inducono a pensare che Wirths preferisse in generale la persuasione alla minaccia, ma che un medico, se era abbastanza deciso, potesse evitare di compiere le selezioni senza incorrere in sanzioni, purché esprimesse la sua riluttanza come un’incapacità personale anziché come una sfida. Si conosce qualche caso di sottufficiali che soffrirono di gravi forme di esaurimento nervoso in conseguenza del servizio alla banchina. Benché si dica che in un caso Wirths abbia «dato in escandescenze», gridando che, nel quinto anno di guerra, non ci si poteva permettere una «simpatia per tali sentimentalismi», a tali uomini venivano assegnati in generale compiti diversi. Gli atteggiamenti ufficiali variavano; e si dice addirittura che Wirths abbia risposto alla riluttanza per le selezioni manifestata da un medico SS col commento: «Finalmente una persona di carattere».
Abbia o no detto esattamente queste parole, Wirths difese con energia le sue prerogative in relazione al controllo medico delle selezioni. Il dottor B. riferì per esempio che, durante la crisi fatta segnare dal gran numero di trasporti ungheresi, quando un comandante di campo apprese che i medici erano in numero troppo piccolo per eseguire tutte le selezioni richieste e si offrì di assegnare alcuni suoi dipendenti, Wirths rispose con fermezza: «No, questa è una mia responsabilità. Io non voglio affidarla a nessun altro».
Dopo aver detto che le selezioni avevano permeato la routine di Auschwitz in modo tale da diventare «come le condizioni del tempo», il dottor B. aggiunse immediatamente, «come una bufera di neve», giacché «quando ci si trova in essa non si riesce a riflettere», suggerendo in tal modo che le selezioni non fossero un tempo di calma ma piuttosto un periodo di grande agitazione.
La socializzazione dei medici SS con l’eccidio di Auschwitz fu favorita dall’isolamento del campo rispetto al mondo esterno. La figura medica che assicurava il collegamento con le autorità all’esterno era Enno Lolling, che si recò spesso al campo dal suo ufficio di Berlino ed era essenzialmente un incompetente e un forte bevitore. Ernst B. aveva l’impressione che i superiori di Lolling preferissero ignorare molti particolari sui campi, e che ci fosse una politica generale per «sottrarre» i campi alle unità regolari delle SS. I medici dei campi contribuirono a perpetuare l’isolamento con la loro riluttanza, come si espresse il dottor B., a lasciare che gli altri «vedessero le loro carte». Ne risultò, com’egli si espresse con un’esagerazione solo parziale, che «un campo di concentramento [divenne] un’entità del tutto autonoma, assolutamente isolata da tutto, cosa che vale specialmente per Auschwitz».
I dottori assegnati a questo campo ebbero, quindi, un contatto limitato con qualsiasi cosa che non fosse la realtà di Auschwitz. Essi dovevano preoccuparsi soprattutto di adattarsi a questa realtà, e il rifiuto morale poté essere convertito in sentimenti di sconforto, di infelicità, di angoscia e di disperazione. Gli sforzi soggettivi poterono sostituirsi a questioni morali. Questi medici finirono col preoccuparsi non del male dell’ambiente bensì del problema di come venire a patti con esso.
I medici divennero quindi creature di quello che il dottor B. descrisse come l’ambiente o atmosfera di importanza suprema di Auschwitz: «In tale atmosfera tutto appariva diverso da come ci apparirebbe ora». In conseguenza di tutte le pressioni e le inclinazioni adattive che ho descritto, «dopo qualche settimana trascorsa in tale ambiente, si pensa: “Sì”».
La macchina delle selezioni non funzionava in modo impeccabile. Potevano esserci non solo troppi trasporti in relazione alla capacità degli impianti, ma anche una cattiva organizzazione nell’occuparsi dei convogli in arrivo, troppo poco spazio nei locali di isolamento del campo in cui venivano tenuti i nuovi arrivi, e a volte anche un rifornimento insufficiente di gas. Fra le truppe l’efficienza poteva essere diminuita da un consumo eccessivo di bevande alcoliche, e lo stesso valeva anche per i medici. Questi, in effetti, bevevano molto, anche se, secondo il dottor B., uno solo era un alcolista riconoscibile come tale, e persino lui «era abbastanza disciplinato per non ubriacarsi quando era di servizio alle selezioni». Si potrebbe dire che, quali che fossero i problemi tecnici o le debolezze umane, Auschwitz poteva mobilitare una determinazione collettiva per mantenere in funzione il processo di gassificazione.
La partecipazione alle selezioni era facilitata anche dalla sensazione che esse non venissero al primo posto nella gerarchia degli orrori. Il dottor B., per esempio, sottolineò che «c’erano cose molto peggiori», come «i bambini affamati nel campo degli zingari», dove l’80 per cento degli internati moriva in generale per fame, mentre alcuni potevano «vivere molto bene». Il dottor B. insistette sulla sofferenza di dover «vedere queste cose di continuo, tutti i giorni» e sul tempo che «occorreva prima di riuscire ad abituarsi a tutto questo».
Là, come in altre situazioni, quel che importava era quel che si poteva vedere, quel che si poteva percepire direttamente: «L’eccidio era per lo più escluso [dalla conversazione]..., non essendo una cosa visibile direttamente. Erano invece molto visibili i cosiddetti Muselmänner (“musulmani”). Erano visibili [inoltre] quelli che morivano... di fame... Quello era un problema più grosso... Ci opprimeva di più».
Grazie al fatto di non dover assistere direttamente alla morte dei prigionieri nelle camere a gas, i medici potevano prendere una certa distanza verso quelle stesse uccisioni su cui pure esercitavano un attivo controllo. Questo atteggiamento di distacco era favorito anche dal fatto di avere assistito a quelli che ritenevano orrori peggiori – nei campi per prigionieri di guerra russi e in altri campi di concentramento –, cosa che permetteva loro di concludere che qui la situazione era molto migliore. Come continuò a spiegare il dottor B.: «Quel che rese particolarmente famigerata Auschwitz furono gli impianti del gas. Giusto? E questi impianti erano più o meno fuori del campo, e si poteva in realtà percepirne la presenza solo attraverso l’odore». Ma, come aveva lasciato intendere in precedenza, all’odore ci si abitua.
C’erano, inoltre, attività più «fondamentalmente discutibili» verso le quali le SS avevano maggiore avversione. Fra queste il dottor B. menzionò i metodi usati dalla Gestapo per strappare confessioni ai prigionieri, metodi sui quali «si avevano grandissime riserve». Una volta protetti i medici da un contatto diretto con le uccisioni, le selezioni poterono essere accettate come un’attività di routine e sembrare meno gravose di compiti speciali brutali (come la collaborazione dei medici alle torture per produrre confessioni) e di un confronto immediato con i prigionieri che morivano di fame. Si potrebbe però rovesciare questo argomento e dire che le selezioni erano così gravose, così associate a un male straordinario che i medici nazisti facevano ricorso a ogni possibile meccanismo per evitare di sobbarcarsi il carico psicologico di ciò che stavano facendo, invocando persino ogni forma di stordimento psicologico e di derealizzazione (vedi pp. 601-608). Perciò il dottor B., che assistette a molte selezioni senza parteciparvi, poté dire che «quel che rimane sono alcune impressioni personali, le quali non sono neppure, in se stesse, i fatti veramente crudeli. Se si tentasse di descrivere una selezione oggi, sarebbe quasi impossibile... perché essa è un processo tecnico... Io posso descrivere molte immagini isolate...; esse sono ancora presenti, ma occorre estrarle a forza dalla propria memoria». Questa difficoltà di ricordare le cose suggerisce che i medici nazisti non percepirono mai – ossia non sperimentarono sul piano emotivo – il loro atto originario nel compiere le selezioni.
I medici furono inoltre facilitati nel compiere le selezioni dalla sensazione condivisa che Auschwitz fosse moralmente separata dal resto del mondo, ossia, come si espresse il dottor B., che fosse «extraterritoriale».c Con questo termine egli non si riferiva tanto all’isolamento geografico di Auschwitz quanto alla sua esistenza come una sorta di speciale enclave di un Male bizzarro, che la esentava dalle regole di comportamento ordinarie. Secondo il dottor B. anche le sue contraddizioni estreme contribuivano a renderne possibile il funzionamento.
Per esempio, egli parlò di un’aura di élite e di professionismo militare molto distaccato da un lato, e di una corruzione onnipresente dall’altro. Disse che il professionismo militare, derivato sia dalle SS sia dall’anteriore tradizione prussiana, richiedeva portamento eretto, contegno e integrità, e una forma di autocontrollo che avrebbe reso «inconcepibile... parlare di sentimenti [interiori o intimi]». La corruzione sottostante faceva parte dei segreti aperti condivisi che implicavano tutti e che, in una certa misura, contribuivano alla coesione:
Ogni singolo appartenente alle SS aveva un così gran numero di possibilità di essere in qualche modo corrotto, che quasi tutti avevano «del fango sul bastone» (Dreck am Stecken). E ognuno sapeva delle attività non ineccepibili di ogni altro, che è il motivo per cui non fu mai preso alcun provvedimento: perché ognuno sapeva di ogni altro. Ecco perché il Kommando delle truppe delle SS presentò sempre una tale coesione, almeno all’esterno.
Per «fango» il dottor B. intendeva comportamenti come appropriarsi dell’oro e di altri oggetti di valore tolti agli ebrei prima di ucciderli anziché consegnarli allo Stato, o gli scambi o altri accordi con i prigionieri per mezzo dei quali il personale nazista, compresi i medici, si faceva consegnare oro o denaro. Egli proseguì sottolineando che, inoltre, le regole di Auschwitz erano tali che «nel momento stesso in cui [un medico SS] fraternizzava, stava... commettendo un crimine». Nel circolo vizioso della contraddizione e dell’illegalità che andò sviluppandosi, qualsiasi mezzo si adottasse per sottoporre a controllo attività illegali poteva di solito essere messo in atto solo per mezzo di altre illegalità: per frenare un eccessivo commercio di cibo o un eccessivo accumulo d’oro da parte di SS o di kapò corrotti si dovevano prendere speciali accordi (che erano essenzialmente forme di corruzione) con altre persone dotate di autorità. E poiché in una tale atmosfera tutto era lecito, era difficile separare i fatti dalle semplici voci o da quelle che il dottor B. chiamava le «chiacchiere da cesso». Com’egli dichiarò: «Persino nel caso di Rudolf Höss, certamente il comandante di campo più incorruttibile e più corretto che sia mai esistito..., circolava una voce... insistente... che avesse una relazione con una donna ebrea».d
La scarsità di cibo era una fonte perpetua di corruzione. Con le razioni già in origine al di sotto del livello di sussistenza, e per di più ulteriormente alleggerite in vari punti durante il percorso, il prigioniero comune non riceveva abbastanza cibo per sopravvivere a lungo. Tutti dovevano perciò «organizzarsi», secondo una parola molto in voga ad Auschwitz: ossia predisporre modi per procurarsi abbastanza cibo per sopravvivere e aiutare i propri amici a fare lo stesso. La corruzione, in questo caso, aiutava a conservare la vita, ma, come si espresse il dottor B.: «Tutti coloro che sopravvivevano ad Auschwitz lo dovevano a cibo che veniva tolto ad altri». Quel che il dottor B. non disse era che questa corruzione fondamentale che giocava sulla vita e sulla morte era imposta dalla politica delle SS, quale era praticata dalle autorità mediche e militari del campo. Le autorità si servivano di questa situazione per controllare, per mezzo di premi e di punizioni, i prigionieri, e spesso per ulteriori commerci che andavano a riempire le loro tasche.
La corruzione ultima era l’esistenza dell’eccidio di massa, attorno a cui essenzialmente ruotava la vita del campo. Poiché questo processo di sterminio dipendeva in grande misura dal coinvolgimento in esso di prigionieri, poteva essere mantenuto nel modo più efficace quando le condizioni del campo erano relativamente buone. In altri termini, tutto ciò che i medici nazisti poterono fare a favore della salute degli internati – come migliorare l’igiene dei campi, sviluppare le attrezzature mediche e aiutare i medici prigionieri – fu al servizio non solo della mano d’opera ma anche della macchina dello sterminio. Questo era il vero «fango» su tutti i loro «bastoni».
Eppure molti medici nazisti continuarono a premere per poter instaurare condizioni mediche migliori – cercando dappertutto attrezzature utili, accumulandole nei loro acquartieramenti, cercando di avere sale operatorie migliori –, ma si trovarono sempre di fronte a quella che il dottor B. chiamò la «barriera», la minaccia della morte per fame, cosicché le strutture mediche da loro costruite finirono col fare parte di una «finzione». Anche se si riusciva a «organizzare» abbastanza cibo per mantenere i pazienti in vita per un po’ di tempo, mancava il «fondamento primario, perché le quantità di cibo assegnate loro li condannavano in capo a un certo tempo alla morte per fame». E, possiamo aggiungere, perché gli stessi pazienti aiutati un giorno potevano essere mandati nella camera a gas un altro giorno, oppure essere utilizzati per mantenere funzionante la struttura dell’eccidio. Questa è quella che il dottor B. chiamò la «situazione schizofrenica», con la quale espressione egli volle significare gli sforzi sinceri di guarire e aiutare i malati, nel quadro della missione fondamentale di Auschwitz dell’eccidio di massa.
I medici nazisti, ci dice il dottor B., «vivevano come signori» perché «tutto quello che si poteva considerare lavoro concreto veniva svolto dai prigionieri». Questa «bella vita» dava loro ulteriore incentivo a partecipare alle selezioni, tanto più che l’alternativa, se avessero dovuto chiedere con decisione un trasferimento, era probabilmente quella di essere inviati sul fronte russo, dove la loro vita sarebbe stata esposta a estremi pericoli.
Quella «bella vita» comprendeva un aspetto elegante specialmente dal punto di vista dei prigionieri («I medici SS erano vestiti molto bene..., erano signori distaccati, che non toccavano un internato», secondo il medico prigioniero Henri Q.) e una presenza costante nel campo («Controllavano la situazione... all’infermeria... alle selezioni... alla stazione... ai crematori... Erano dappertutto»).
Questi legittimatori non solo della selezione «medica» nel senso del triage, ma anche dell’eccidio che si compiva ad Auschwitz sotto l’egida della medicina, erano alleviati nella loro funzione dalla convinzione che tutti gli ebrei fossero già condannati. Quel che Magda V. disse di Mengele si applica più in generale a tutti i medici SS: «Per lui non aveva alcuna importanza [se selezionasse qualcuno o no] perché pensava che prima o poi sarebbero finiti [nella camera a gas]... Penso che per lui... fossimo in un certo senso già morti». Un altro sopravvissuto definì similmente l’intero processo di selezione «solo un dramma»: ossia una rappresentazione teatrale in cui «noi tutti eravamo là per essere uccisi. Il problema era solo chi doveva essere ucciso per primo».
Per il medico SS l’efficienza nelle selezioni venne a essere messa sullo stesso piano delle disposizioni per l’isolamento e del miglioramento delle unità mediche reali, il tutto in vista dell’obiettivo di mantenere un numero sufficiente di prigionieri abili al lavoro e di prevenire la diffusione di epidemie nel campo. In un tale contesto, il medico SS veniva inevitabilmente a percepire che la sua funzione professionale non consisteva né solo nell’uccidere né solo nel guarire ma nel conseguire il necessario equilibrio. L’equilibrio fra guarigione e uccisione, secondo il medico SS Ernst B., era «il problema» che dovevano risolvere i medici di Auschwitz. Da quel punto di vista, com’egli spiegò ulteriormente, il problema di «sgomberare» un blocco in cui si era manifestata una diffusione della diarrea – mandando nelle camere a gas tutti coloro che vi erano alloggiati – poteva essere considerato «pseudo-etico» e «pseudo-idealistico». Il dottor B. intendeva dire che in tale ambiente una politica del genere poteva essere percepita dai medici stessi come etica e idealistica, in quanto essi assolvevano il loro compito al servizio dell’obiettivo superiore dell’equilibrio del campo.
A questo autoinganno contribuiva anche il linguaggio edulcorato che veniva usato. Come spiegò il dottor Jacob R., i medici SS erano senza dubbio crudeli nel mandare della gente nelle camere a gas, ma «non lo ammisero mai». «Essi lo chiamavano tornare al campo su un trasporto.» Un altro medico prigioniero mi spiegò fino a che punto questo tipo di eufemismo contribuiva a creare un’atmosfera molto diffusa di negazione:
Non potevo chiedere al [dottor Fritz] Klein: «Non mandi quest’uomo nella camera a gas» perché non sapevo che andava nella camera a gas. Vede, era un segreto. Tutti conoscono il segreto, ma era un segreto. Se gli avessi detto: «Dottor Klein, perché mai dovrebbe mandare quest’uomo nella camera a gas?», penso che mi avrebbe risposto: «Camera a gas? Che cosa intende dire?».
In parte per combattere la noia, ma anche per importanti ragioni psicologiche, tutti i medici nazisti si dedicavano a quelli che il dottor B. chiamava «svaghi». Questi svaghi potevano comprendere qualcosa di simile al vero lavoro medico e alla vera ricerca; o una collaborazione con medici prigionieri più esperti in varie attività mediche fra cui interventi chirurgici e studi sia clinici sia di laboratorio. In queste attività il medico nazista, nel suo rapporto col medico prigioniero, era a un tempo studente e arbitro della vita e della morte. Senza dubbio l’appassionata costruzione di unità ospedaliere ambiziose era un altro di questi svaghi. E la ragione per cui tutte queste attività si possono definire svaghi era che, come mi disse il dottor B., «Potevamo farle senza fretta o con l’atteggiamento di uno svago». O, per esprimerci in modo più semplice, la natura di Auschwitz era tale che tutto ciò che non avesse a che fare con le uccisioni – e, in misura minore, col lavoro produttivo – non era altro che uno svago.
Tutti quegli svaghi finivano col servire a un fine particolare, come si espresse significativamente il dottor B.: «Attraverso questi svaghi ci si poteva trovare, progettare, un lavoro. E in esso conseguire anche il successo. E in tal modo spazzare il problema [dell’eccidio di Auschwitz] sotto il tappeto». La costruzione di impianti medici serviva, quindi, lo scopo psicologico di evitare la consapevolezza della propria attività omicida e della morte degli altri. In un tale ambiente, come disse il dottor B., «un ospedale è una contradictio in adiecto [in quanto l’ospedale contraddice la funzione istituzionale del campo di sterminio]... I medici cercano scampo... nell’illusione».
Per i medici SS avevano un’importanza cruciale anche le alleanze personali. Ogni medico cercava di avere buoni rapporti con i membri della squadra di SS con cui lavorava sulla banchina. In modo diverso, il medico SS poteva derivare vari tipi di soddisfazione psicologica anche dai suoi contatti con medici prigionieri (argomento di cui ci occuperemo più avanti) e poteva sviluppare quelle che Ernst B. chiamò «piccole celle di comunicazione personale», le quali davano origine a loro volta a «molte, molte piccole isole di umanità». Per quanto precarie, queste «isole di umanità» permettevano ai medici SS di sentire che avrebbero potuto «fare davvero molto bene [alla gente]» e li aiutavano a chiudere fuori di sé il continente di disumanità omicida di Auschwitz.
Ai fini della capacità di eseguire la selezione, era determinante il rapporto di un medico con l’ideologia nazista. Importante, qui, era l’attrazione giovanile di fondo provata dalla maggior parte di questi medici per la promessa nazista di una risurrezione della Germania: un legame che poteva sostenerli nei periodi in cui sentivano più fortemente le riserve e lo sconforto: «Noi guardavamo ad essa [Auschwitz] come a una cosa del tutto sbagliata. [Ma], vede, non si poteva fare niente per cambiarla. È come in una democrazia, in cui si possono trovare molte cose che non vanno, ma non ci si può far niente. Perché si pensa che la democrazia sia meglio». Il forte sottinteso di questo discorso era che il nazismo, nonostante Auschwitz, fosse il migliore di tutti i mondi possibili.
Per quanto questa situazione possa apparire ironica, questi medici che partecipavano allo sterminio di massa continuavano a essere legati al regime che lo perpetrava dai princìpi di quelli che il dottor B., nella discussione sul senso personale che ognuno di loro aveva dell’impegno del movimento nazista nel venire a capo di imponenti problemi nazionali, chiamava la «comunità coerente» (zusammenhängende Gemeinschaft) e lo «sforzo comune» (allgemeine Anstrengung). Perciò il dottor B. poté parlare di una «fede» (Glaube) e, di più, di una «fede praticata» associata all’appartenenza a una comunità (Gemeinschaft); in tutto questo, «il ponte... è l’ideologia». E quel «ponte» poteva connettere i medici nazisti a un senso immediato dell’integrazione in una comunità e di uno scopo comune nel loro lavoro ad Auschwitz.
In tale ideologia era un ingrediente attivo l’antisemitismo. Pur esistendo differenze individuali, il dottor B. affermò che «tutti i medici erano assolutamente convinti che “gli ebrei erano la nostra disgrazia”»: l’espressione usata per la prima volta, come si ricorderà, da Heinrich von Treitschke, lo storico politico dell’Ottocento che aveva contribuito a diffondere la nozione che nell’essere antisemiti ci fosse «qualcosa di virtuoso» (vedi pp. 60-61).6 Quando menzionai l’espressione «appendice in cancrena» che un medico delle SS aveva usato in riferimento agli ebrei (vedi pp. 34-35), il dottor B. mi rispose prontamente che lo stato d’animo generale dei medici nazisti era: «La si voglia chiamare appendice [o no], essa dev’essere estirpata [ausgerottet, che significa anche “sterminata’’, “distrutta” o “eliminata”]». Egli si spinse sino a dire che la politica stessa di uccidere tutti gli ebrei era facilmente giustificabile da questa posizione «teorica e ideologica», cosicché «ovviamente essi la sostennero».
In un’altra occasione B. parlò in termini diversi, sottolineando che la maggior parte dei medici nazisti di Auschwitz non avevano una formazione ideologica. Fu però coerente nel sottolineare che si rendevano ben conto dell’esistenza di una «questione ebraica» e che tendevano a parlare secondo quelle che definì le frasi usuali della propaganda: «Che tutte le culture si sono rese conto che gli ebrei... devono essere mantenuti fuori dalla cultura normale... Che la cultura tedesca non può espandersi [sich ausbreiten: anche “propagarsi”, “dispiegarsi”] se è oggetto di infiltrazioni ebraiche o di qualcosa del genere».
Per eseguire le selezioni, però, il medico nazista (come spiegò Karl K.) doveva compiere il passaggio psichico dall’ideologia all’eccidio di massa vero e proprio:
In Germania o nel mondo intero non c’era nessuno che non avesse udito la proclamazione di Hitler e di Streicher che gli ebrei dovevano essere sterminati (vemichtet)... Tutti lo avevano udito. E tutti fecero finta di nulla (vorbeigehört), perché nessuno credeva che tale annuncio sarebbe stato messo in pratica... E d’improvviso ci si trova dinanzi al fatto che quelle che si era abituati a considerare semplici chiacchiere propagandistiche (Propagandageschwätz) sono ora del tutto, completamente, totalmente (ganz, ganz, ganz) fatti concreti (trocken) [letteralmente «aridi», «asciutti»] e strategicamente veri, che stanno per essere realizzati (verwirklicht) con una strategia al 100 per cento. Fu quello, soprattutto, che scosse la gente. Che non lo si prevedeva [ma]... lo si sapeva, e d’improvviso ci si trova di fronte a questa realtà. Lo si sapeva davvero?
Il passo è abbastanza chiaro per quanto concerne il confronto traumatico del medico con la realizzazione letterale delle proclamazioni di sterminio. Io credo però che esso suggerisca anche la diffusa resistenza psicologica dei tedeschi ad accettare la realtà del lato oscuro del nazismo quali che fossero le prove, sempre più estese, della sua esistenza: una forma di resistenza psicologica presente ancor oggi in molti medici tedeschi nonostante il fatto che essi siano stati esposti agli aspetti più foschi della realtà nazista, e forse proprio per questo.
I medici potevano invocare una versione nazista assolutizzata del Bene e del Male sia come giustificazione per ciò che stavano vedendo e facendo sia per scongiurarne ancor più la realtà psicologica (come spiegò Ernst B.):
Proprio perché erano convinti della sua giustezza... o del fatto che il nazionalsocialismo apportava la «felicità al mondo» (Weltbeglückung) e che gli ebrei sono il male radicale (Grundübel) del mondo, proprio perché ne erano così convinti, credevano o erano rafforzati [nella loro convinzione] che gli ebrei dovessero essere annientati proprio sul piano esistenziale, e quindi in senso assoluto (die Juden eben existentiell, also absolut vernichtet werden müssen).
E benché «non tutti approvassero le gassificazioni» e «molte teorie fossero discusse», si doveva ammettere che la gassificazione era un miglioramento rispetto all’inefficienza di metodi anteriori:
L’argomento principale a favore della gassificazione era che, quando si tentava di creare dei ghetti..., questi non duravano più di una o due generazioni. E allora il ghetto – diciamo – diventava permeabile (undicht [perdeva la sua ermeticità]). Questo era l’argomento principale a favore della gassificazione. Contro la gassificazione c’era tutta una serie di assurde speculazioni... la sterilizzazione forzata e via dicendo... Si faceva un gran teorizzare.
Ora era disponibile un approccio più efficace alla «questione ebraica» e, come aggiunse il dottor B., «un mezzo per confermare» tale successo.
Parlando di questi argomenti, egli non rispose mai direttamente a una domanda che gli posi varie volte: se i medici fossero in disaccordo fra loro sulla necessità di uccidere tutti gli ebrei, o se fossero d’accordo su questo punto e dissentissero solo sui mezzi. Io credo che l’ambiguità abbia un significato psicologico che andava oltre la sua costante evasività su questo punto. Sulla base di ciò che hanno detto il dottor B. e altri osservatori, è probabilmente giusto dire che la maggior parte dei medici nazisti ad Auschwitz credevano che si dovesse eliminare qualcosa che essi percepivano come «ebraicità», sia che ciò significasse deportare tutti gli ebrei nel Madagascar, costringere tutti gli ebrei ad abbandonare la Germania, permettendo al tempo stesso a una piccola minoranza ben affermata di rimanere e venire completamente assimilata, o addirittura ucciderli tutti fino all’ultimo. Aggrappandosi a quest’ambiguità, i medici nazisti disponevano di un altro mezzo per evitare la realtà psicologica di dover decidere a favore dell’eccidio di massa e della sua attuazione. E considerando l’intera questione come un problema che doveva essere «risolto», con qualsiasi mezzo, quel fine pragmatico poteva diventare l’unico obiettivo su cui concentrarsi. Il termine stesso Endlösung, o «Soluzione finale», serviva a entrambi i fini psicologici: esso significava lo sterminio di massa senza dire espressamente nulla di simile, e conservava il centro dell’interesse sul problema della soluzione. Così, dato un minimo accordo sulla necessità di risolvere la «questione ebraica», i medici e altri nazisti potevano giungere ad accettare, o addirittura a preferire, il progetto dell’eccidio di massa, perché esso solo prometteva una soluzione genuina, il disbrigo della cosa una volta per tutte e una soluzione finale, definitiva.
C’erano però diverse combinazioni di ideologia e atteggiamento. Persino i medici più anziani – per esempio Hans Wilhelm König – potevano essere d’accordo con i princìpi delle SS ma conservare una certa misura di umanità, cosicché (come si espresse il dottor Jacob R.) «finché si permette a una persona di restare in vita, la si potrebbe trattare come una persona». Fu König a fare amicizia con un’artista prigioniera (pp. 321-322); e il dottor R. disse che, durante la marcia forzata da Auschwitz, König gli aveva salvato la vita, sorreggendolo quando non riusciva più a camminare e c’era il pericolo che le SS gli sparassero.
Friedrich Entress, di contro, fu sempre considerato dai prigionieri un uomo brutale. Secondo il dottor R., «era interessato solo al sistema e non aveva alcun interesse per i pazienti; per lui i medici ebrei non erano neppure persone». I prigionieri polacchi avevano le loro buone ragioni per essere terrorizzati da Entress (vedi pp. 358-361).
Per la dottoressa Lottie M., invece, «il fanatico era Klein». Fu lui ad affermare che era necessario mantenere la separazione fra i blocchi medici degli ariani e quelli degli ebrei, a considerare gli ebrei un’«appendice in cancrena» da asportare e ad accettare senza riserve il processo delle selezioni. «Sentiva che la cosa giusta da fare era quella di uccidere quelle persone..., [che] era giusto farlo», affermò la dottoressa M., la quale sembrava ancora nutrire un certo grado di incredulità. Più in generale i medici nazisti, come osservò un medico cecoslovacco, Erich G., trattavano «gli ebrei come se avessero una forma umana ma non una qualità umana» e come «potenziali inquinatori della razza tedesca»: era questa la ragione per cui un medico nazista «diventava un uccisore anziché un terapeuta», un fenomeno «cui assistevo quotidianamente».
Preoccupazioni di carriera si intrecciavano con l’ideologia in modi che si rinforzavano reciprocamente. Dal punto di vista della carriera l’assegnazione ad Auschwitz aveva un valore che non era né decisamente positivo né altrettanto nettamente negativo. Il suo vantaggio consisteva nella probabilità di un riconoscimento ufficiale, fra cui una promozione e futuri vantaggi, per l’assolvimento di un compito difficile, tanto più per un medico che si fosse distinto come efficiente e zelante nel suo lavoro. Ma dal punto di vista dell’esperienza medica, un tipo di esperienza che è sempre importante per la carriera di un medico, Auschwitz offriva pochissimo. La dottoressa Lottie M. osservò che i medici nazisti volevano sempre avere professionalmente «il controllo di tutto ciò che stava accadendo», così che se dicevano: «No, no, non va bene», intendevano dire che qualcosa «non andava bene perché pregiudicava la loro carriera».
I medici nazisti non ricordavano di essere stati specificamente consapevoli ad Auschwitz del loro giuramento ippocratico e – cosa che del resto non può sorprendere – provavano disagio a discuterne con me. Vari di loro mi dissero apertamente che, in effetti, il giuramento di fedeltà che avevano prestato a Hitler come ufficiali delle SS era per loro molto più reale di un vago rituale cui si erano sottoposti quando avevano conseguito la laurea in medicina (vedi anche pp. 590-591). Il giuramento a Hitler aveva un potere enorme, come appresi da un medico che, pur essendo diventato da molto tempo antinazista, verso la fine della guerra si rifiutava ancora di ascoltare Radio Londra proprio a causa di quel giuramento di fedeltà al Führer. (Un giuramento, specialmente nel caso dei tedeschi, può essere sperimentato come un impegno assoluto a un principio immortalizzante, un’associazione del sé con una moralità trascendente.) Lottie pensava però che il giuramento ippocratico fosse sempre presente, in qualche senso, ai medici tedeschi, in antagonismo con legami di lealtà più immediati e col giuramento a Hitler. E questa dottoressa prigioniera pensava che il giuramento ippocratico, per quanto offuscato a livello cosciente, rimanesse un fattore importante in certe situazioni, come quando qualche medico nazista si diede da fare per migliorare le condizioni dei prigionieri o quando, per esempio, König sostenne che «le donne gravide non possono essere tenute in un campo di concentramento».e Nonostante la partecipazione dei medici SS allo sterminio, l’influenza in essi persistente di un residuo di fedeltà al giuramento ippocratico faceva di loro, secondo un eminente prigioniero e capo della resistenza non ebreo, «l’anello più debole nella catena delle SS». Ma il giuramento di fedeltà a Hitler conservava nondimeno il legame dei medici SS con le finalità del movimento nazista.
Il dottor B. sottolineò il carattere assoluto della situazione, il bisogno di decidere immediatamente perché «hai ricevuto l’ordine di andare [là] – e ci andrai! – senza più alcuna possibilità di discussione». E quell’assolutezza era in accordo con l’appartenenza all’élite militare delle SS. Come aveva sottolineato il dottor B.: «Il medico SS era diverso fin dal principio da ogni altro medico militare», nel senso che solo lui portava una pistola; era inoltre convinzione comune che, «in caso di bisogno, egli diventa un soldato come tutti gli altri». Inoltre, attraverso i messaggi di Himmler, quello status speciale era particolarmente associato al servizio prestato nei lager: «Himmler ci chiarì sempre che questo compito di personale del campo di concentramento era particolarmente importante (wichtig)..., una questione del massimo livello..., alta ed elevata..., cosicché era esclusa (abgeschnitten) qualsiasi cosa del genere [qualsiasi conflitto o qualsiasi espressione di avversione]». Il dottor B. credeva che i medici sentissero «sicuramente» l’influenza del messaggio di Himmler perché esso intensificava ancor più l’idea degli ufficiali e dei soldati delle SS che il fatto di lavorare in un campo di concentramento facesse di loro una speciale élite, e ancor più la sensazione che avevano i medici di essere un’élite all’interno di quell’élite.
Quello speciale riconoscimento, connesso al fatto di partecipare allo sterminio, contribuiva a trasformare i conflitti interiori dei medici in conflitti di organizzazione interna: a convertirli in questioni di lealtà verso il medico capo o verso il comandante del campo, e in problemi generali connessi al proprio «senso del dovere come funzionario civile», o almeno al suo equivalente militare. Per queste e altre ragioni, Ernst B. poté dire di non aver visto espressioni dirette di avversione verso le selezioni, anche se si chiese sempre perché fosse così. Una risposta parziale è che una combinazione di ideologia e di distacco cinico divenne una posizione psicologica molto più confortevole; questa posizione è descritta qui di seguito dallo scienziato non medico prigioniero che osservò molto da vicino alcuni medici nazisti e lesse alcune delle loro annotazioni:
Essi ritenevano di stare eseguendo la Therapia magna auschwitzciense. Usavano addirittura le iniziali T.M. Dapprima lo facevano con intenti canzonatori e ironici, ma un po’ per volta cominciarono a usarle semplicemente per indicare le camere a gas. Così, ogni volta che si vedevano le iniziali T.M., questo era il loro significato. L’espressione fu inventata da Schumann, che si riteneva un intellettuale accademico fra l’intellighenzia dei medici di Auschwitz. Con tale espressione essi intendevano, per esempio, salvare delle persone dall’epidemia di tifo. Essi pensavano di far loro un favore. E pensavano anche che in ciò che stavano facendo ci fosse un metodo umanitario... Una seconda parte del concetto di Therapia magna era quella di fare delle cose per la scienza, imparare cose per la scienza ecc.
Come pochi altri medici che opposero resistenza alle selezioni, il dottor B. tentò senza successo di cercare di capire quali fossero le loro ragioni. La sua conclusione fu che, dopo avere «assistito all’intero procedimento sin dall’inizio... l’unica risposta emotiva che si riesca a dare è che: “È impossibile!”. Io non ho nessuna spiegazione in proposito». (Finora, a quanto sappiamo, soltanto un medico SS – lo stesso dottor B. – riuscì a rifiutarsi di prestare tale servizio e a persistere nel suo rifiuto, anche se con l’aiuto di uno speciale rapporto con alti livelli della gerarchia; e anche un altro medico SS – Hans Delmotte – ci tentò, per un po’ di tempo.)
Quelle stesse contraddizioni e complessità concernenti il viluppo di uccisione e terapia che indussero il dottor B. a parlare di una situazione schizofrenica ostacolarono anche la resistenza a quel tempo, e la comprensione in seguito. Nel tentativo di spiegare Auschwitz scrivendo su questa situazione schizofrenica, il dottor B. disse: «Per me è impossibile perché... se si prende l’avvio da un punto, subentrano subito [gli infiniti] problemi [di sfumature e di spiegazione] e perché non c’è niente di concreto».
Quel che divenne infine chiaro fu il potere dell’ambiente di Auschwitz, come ricordò anni dopo un medico delle SS: «Ad Auschwitz si poteva reagire come esseri umani normali solo nelle prime ore. Dopo che vi si era trascorso un po’ di tempo, era impossibile reagire in modo normale. In quella situazione tutti erano macchiati». E i medici SS, come aggiunse un sopravvissuto, stavano «facendo quel che la società voleva che facessero».
Il dottor Henri Q., notando con indignazione che, mentre i medici «dovrebbero curare i malati», i medici SS parteciparono «a un tale massacro senza opporre alcuna resistenza», sottolineò che solo un medico SS (sul quale c’è in realtà qualche dubbio) chiese di essere invece mandato sul fronte russo. Il dottor Q. contrappose a tale comportamento dei medici SS la resistenza costante dei medici prigionieri, i quali rischiavano la vita modificando elenchi di persone e proteggendo in vari modi i prigionieri dalle selezioni. E osservò con molta attenzione il rapporto fra abitudine ed estremo offuscamento morale: il modo «rilassato» di «persone distinte che andavano e venivano» descritto nel brano citato in epigrafe a questo capitolo. E la dottoressa prigioniera Magda V. sottolineò (così come il medico delle SS Ernst B.) che, quale che fosse la differenza di atteggiamento fra i vari medici nazisti verso le selezioni, essi le facevano comunque come «parte del loro lavoro», con una tale cooperazione che «io penso che quei bastardi sapessero bene che cosa stavano facendo».
La dottoressa V. notò nondimeno che i medici potevano comportarsi diversamente l’uno dall’altro. Un fattore era la paura. Del dottor König disse che selezionava dai blocchi medici più persone di quanto fosse necessario «perché era spaventato», e aggiunse: «[Fra i medici SS non c’erano] là... molti uomini coraggiosi... Non c’era di sicuro il meglio dell’umanità».
Il comportamento dei medici risentì anche della prospettiva dell’incombente sconfitta tedesca. Alcuni divennero considerevolmente più cordiali e disposti ad aiutare, in previsione del sostegno da parte dei prigionieri liberati di cui sapevano che avrebbero avuto presto bisogno. Altri ebbero invece una reazione inversa, selezionando con tanto maggiore energia le persone da avviare alla camera a gas; come osservò Lottie M., «sembrava che avessero un maggior bisogno di credere che [erano] nel giusto... Si aveva quasi l’impressione che dicessero a se stessi: “Abbiamo ancora ragione”». Anche gli atteggiamenti psicologici individuali verso le donne e gli uomini potevano essere importanti, in modi che prenderemo in considerazione in seguito. La dottoressa M. mi disse, per esempio, che Rohde era relativamente cortese verso le dottoresse prigioniere – e in verità fu particolarmente attivo anche nel far rilasciare dal campo le internate non ebree incinte (cosa resa possibile da regolamenti introdotti in un secondo tempo ad Auschwitz) –, ma nello stesso tempo era «un uomo terribile verso gli uomini».
Un altro elemento da prendere in considerazione era la loro istruzione e cultura generale. Il medico polacco Tadeusz S. sottolineò che non erano «medici istruiti», che «non capivano né gli esseri umani né la medicina» e che qualche volta assomigliavano a studenti di medicina che potevano pensare a «esperimenti fantastici» solo in conseguenza della loro fondamentale ignoranza, tanto più quando si combinava all’ideologia nazista. Questa ignoranza era massima nei medici SS anziani che erano stati fra i nazisti della prima ora, la versione medica dei «veterani». Ma il dottor S. si riferiva più specificamente al danno generale arrecato dal nazismo alla professione medica, e alla versione medica dello pseudointellettuale nazista: il visionario semi-istruito altamente ideologizzato, intellettualmente indisciplinato e fondamentalmente antintellettuale, insicuro e radicalmente arrogante.
Sul comportamento dei medici SS incideva anche una forte chiusura deliberata all’empatia e alla compassione per i pazienti. Vari medici nazisti sottolinearono l’assenza di un qualsiasi principio di empatia nella loro formazione medica; e benché l’emergere di medici con scarsa empatia sia un fenomeno diffuso in tutto il mondo, è probabilmente giusto dire che ciò vale specialmente per la medicina tedesca, indipendentemente dal nazismo. I nazisti accentuarono ovviamente questo modello, coltivando versioni mediche del loro principio di durezza, le quali raggiunsero un estremo difficilmente superabile di brutale cinismo nel commento di un medico nazista al Desinfektor del servizio sanitario incaricato di aprire il gas: «Andiamo a dar da mangiare agli ebrei».7
Il medico SS era profondamente avviluppato nelle forti contraddizioni della «situazione schizofrenica» che Ernst B. considerava la chiave della comprensione di Auschwitz: io vedo in tale situazione schizofrenica anche un’ulteriore espressione di «extraterritorialità», ossia della convinzione che ciò che accadeva nel campo non contasse per il mondo esterno. Il nucleo centrale di quella schizofrenia per i medici risiedeva nell’idea di fare del lavoro medico costruttivo in un «mattatoio». Una dimensione della schizofrenia connessa a questa idea, come spiegò B., era la «situazione scissa» fra l’idealismo di un grande Stato tedesco che avrebbe migliorato il mondo – congiuntamente alla specifica «felicità» (Weltbeglückung) che sarebbe stata apportata al mondo dal nazismo – e quella che egli (ancora riluttante a parlare direttamente di sterminio di massa) chiamava «l’altra situazione, quella che lavorava con quei... metodi».
La dottoressa Magda V. era impressionata dalla differenza di comportamento manifestata da alcuni medici quando compivano le selezioni: «Era... una persona diversa..., che faceva cose diverse. Le sto dicendo che... erano schizoidi». Voleva dire che sembravano persone diverse dal loro solito. Rohde, per esempio, quando faceva le selezioni, era «a disagio..., probabilmente... urlava di più, certamente era più sgarbato». Tadeusz S. ricordò che una volta Rohde, quando «vide entrare nella camera a gas le persone che vi aveva mandato», sparò un colpo di pistola in aria per «un misto di rabbia, di ebbrezza e di ansia: un problema di coscienza». Nondimeno, Rohde «faceva esattamente le stesse cose degli altri».
C’erano sfumature di comportamento diverse, dipendenti dall’atteggiamento del singolo medico verso le selezioni: Rohde, secondo la dottoressa V., «le odiava» e beveva molto; König «era estremamente disciplinato... le considerava un dovere»; Mengele «era distaccato... come se sterminasse dei parassiti»; e Klein «ci provava gusto, il bastardo». Tadeusz S. descrisse Horst Fischer e Friedrich Entress come «i peggiori assassini..., [che] avevano facce da preti... ma erano molto freddi». Ma la divisione interna presente nella maggior parte di loro era evidenziata dal fatto che tendevano ad allontanarsi subito dopo le selezioni e a scaricare ogni incombenza sui loro subordinati (come se, per usare le parole della dottoressa V., «essi stessi non... facessero niente»): ossia come un modo di dissociarsi da ciò che avevano in realtà fatto.
Il dottor Peter D. fece un commento su questa divisione interna a proposito del dottor Horst Fischer (che aveva appoggiato il suo lavoro in otolaringologia): «Le sue maniere erano umane... quando era solo con me; [ma, quanto alle selezioni,] non ebbe mai una parola di pentimento per quanto aveva fatto». Il dottor D. «si chiese come potesse... continuare a farlo [cioè a compiere le selezioni]».
Un altro modo in cui i medici nazisti riuscivano a far fronte ai loro compiti ad Auschwitz era quello di condurre una doppia vita che rifletteva e acuiva il loro sdoppiamento psicologico. Così, essi trascorrevano la maggior parte del loro tempo nel campo (eccezion fatta per occasionali viaggi professionali o di piacere in aree vicine), ma continuavano a prendersi qualche giorno di vacanza a mesi alterni per poter passare un po’ di tempo, di solito in Germania, con moglie e figli. Essi avevano un’acuta consapevolezza della separazione dei due mondi. La moglie, i figli, i genitori vennero a rappresentare la purezza, in contrapposizione a un senso interiore della sporcizia di Auschwitz. Ernst B., per esempio, riusciva ad andare a casa per una settimana circa ogni due o tre mesi, ma era fortemente contrario all’idea che sua moglie gli facesse visita ad Auschwitz: «Non avrei mai potuto sopportare che mia moglie vedesse da vicino quelle cose... Non riesco neppure a esprimermi in modo appropriato, [ma] il pensiero che lei venisse là [mi] avrebbe suscitato una grande resistenza [interiore]. Un’eventualità del genere era letteralmente impensabile».f
Il dottor B. osservò che ogni medico SS poteva fare appello a due distinte costellazioni psicologiche nel suo sé: una fondata su «valori generalmente accettati» e sull’educazione di una «persona normale»; l’altra fondata su «questa ideologia [nazista di Auschwitz], con valori del tutto diversi da quelli generalmente accettati». La prima tendenza poteva essere presente un giorno, la seconda il giorno seguente, ed era difficile sapere quale ci si doveva attendere in un’occasione data o se ci sarebbe stato un misto di entrambe.
Soltanto una forma di dissociazione o di sdoppiamento può spiegare le polarità di crudeltà e di cortesia in cui ci si poteva imbattere nello stesso medico delle SS. Klein ci fornisce forse in proposito l’esempio migliore. Questo razzista crudele e fanatico era considerato dalla dottoressa Magda V. un uomo profondamente ipocrita e semplicemente «malvagio» e da un’altra dottoressa prigioniera, Olga Lengyel, «uno dei ferventi zelanti» che portarono avanti il progetto nazista di annientamento. Eppure la Lengyel parlò di lui anche come di una persona capace di gentilezza, come quando le portò delle medicine per i suoi pazienti e la protesse dalla crudeltà di alcuni appartenenti alle SS (vedi pp. 313-314); egli fu, disse la Lengyel, «l’unico tedesco ad Auschwitz che non gridò mai».8
Anche un altro prigioniero ebbe un’esperienza sorprendentemente positiva con Klein: quest’uomo ebbe l’ardire – cosa estremamente insolita e pericolosa – di avvicinare direttamente il medico delle SS mentre camminava nel campo, per chiedergli di trasferire sua moglie da un posto di lavoro in un sottotetto, dove la presenza di una grande quantità di segatura la faceva tossire incessantemente, in un blocco medico in cui aveva già lavorato in passato. Anziché dire: «Toglietemi di torno questo tizio!», come tutti pensavano che avrebbe fatto, Klein ascoltò la sua richiesta. Questo sopravvissuto commentò: «Queste cose sono così intrecciate: da un lato le uccisioni e lo sterminio, e dall’altro i particolari minimi in cui si poteva ottenere qualcosa». Egli proseguì così le sue riflessioni:
Quando dico queste cose... trentacinque anni dopo, penso: Come fu possibile tutto ciò?... Che si potesse influire su questo dio e far sì che un uomo... che sterminava migliaia di persone... avesse interesse per una ragazza prigioniera e la salvasse... Sono cose che accadono nella natura umana... che neppure un esperto analista può capire... Questa dissociazione... può essere molto delicata... Forse in relazione a queste piccole cose [positive], nel caso di Klein, permaneva in loro... qualcosa della tradizione medica. Ma, in generale, io credo che essi non fossero più medici. Erano ufficiali delle SS. In queste cose lo spirito di gruppo è migliaia di volte più potente dello spirito individuale.
Questo sopravvissuto intendeva dire che Klein operava primariamente in relazione all’ethos collettivo delle SS, o di quello che io chiamo il «sé di Auschwitz», ma che in lui esisteva anche una dimensione umana del sé che in certi momenti poteva ancora emergere.
La persistenza di tale elemento umano del sé potrebbe, di fatto, aver contribuito addirittura ad acuire la crudeltà di Klein e di altri medici nazisti. Per esempio, quando i medici SS chiedevano alle donne incinte di fare un passo avanti per poter ricevere una doppia razione di cibo – ma in realtà solo per mandarle il giorno dopo nella camera a gas – può darsi che un barlume di «coscienza medica» (l’esigenza di assicurare a donne incinte una dieta migliore) contribuisse alla capacità psicologica dei medici di mettere in atto il loro ripugnante inganno.
Nelle mie interviste con Lottie M., questa sollevò vari interrogativi che mi chiese di esplorare con i medici nazisti: in quale misura essi considerarono tutto ciò che avveniva ad Auschwitz come «un esperimento su quanto una persona può sopportare?». In quale misura furono in grado di riconoscere «l’irrazionalità... della teoria razziale?». In quale momento «cominciarono a temere la fine?». Ma ciò che la incuriosiva di più era «questo problema della lealtà dissociata»: dei giuramenti in conflitto fra loro, delle contraddizioni fra crudeltà omicida e cortesia momentanea che i medici SS parvero manifestare di continuo durante il tempo da loro trascorso ad Auschwitz.
La scissione, infatti, non presentava alcuna tendenza a risolversi. La sua persistenza si inquadrava in quell’equilibrio psicologico complessivo che permetteva al medico delle SS di compiere il suo mortale lavoro. Il medico si integrava in un grande sistema, caratterizzato da brutalità e da grande funzionalità. Così il dottor Q. poté raccomandarmi saggiamente di concentrarmi sul rapporto del medico nazista col suo sistema piuttosto che su un singolo individuo famigerato come Mengele: «Quel che mi impressionò fu il fatto che Auschwitz era uno sforzo collettivo. Non era un solo individuo, bensì molti. E la cosa che disturbava di più era che non si trattava di qualcosa di emotivo. Era qualcosa di calmo: non c’era niente di emotivo ad Auschwitz».
Il dottor Jacob R., parlando delle funzioni dei medici nazisti, sottolineò «la questione del potere, di avere un potere incontrastato su tutti». E a proposito del cattivo uso di quel potere, il dottor Tadeusz S. riferì che il dottor Fischer gli aveva detto: «Noi [nazisti] ci siamo spinti così avanti che non abbiamo più alcuna via d’uscita». Qui ci sono due implicazioni possibili: il principio morale che non è possibile far sì che il male compiuto non sia avvenuto; e il principio psicologico che, avendo mantenuto in funzione per un certo periodo di tempo una fabbrica della morte, ci si sentiva costretti a continuare a farla funzionare. Il nodo psicologico è che l’atrocità genera atrocità: diventa psicologicamente necessario continuare a uccidere per giustificare le uccisioni e per considerarle diverse da ciò che sono.
Tale dinamica della convivenza con la dissociazione e l’ottundimento morale si rivelò anche in quelli che, secondo il dottor S., furono i posteriori atteggiamenti dei medici nazisti: «Oh, essi sono ancora vivi, in diversi paesi del mondo. Non hanno un problema morale. L’unica cosa che li rende infelici è di aver perso la guerra».
Queste ultime osservazioni di medici prigionieri suggeriscono che il processo collettivo delle uccisioni sotto l’egida della medicina tendeva, psicologicamente e tecnicamente, ad autoperpetuarsi; e che i medici nazisti trovarono un modo per impegnarsi nel processo – la dissociazione cui ho accennato, e di cui ci occuperemo più diffusamente – con un distacco sufficiente a minimizzare il disagio psicologico e il senso di responsabilità, allora e nel corso del tempo seguente.
a. I medici SS condividevano a modo loro l’atteggiamento dei soldati dello stesso corpo descritto da Konrad Morgen (vedi pp. 197-198) quando, recatosi a ispezionare un corpo di guardia delle SS, lungi dal trovarvi una sobrietà spartana, vi trovò uomini delle SS che, sdraiati qua e là «con occhi inespressivi», si facevano servire «come pascià» da belle prigioniere ebree. L’accompagnatore di Morgen (probabilmente un ufficiale), avendo notato la costernazione del giudice, «si limitò a scrollare le spalle e disse: “Questi uomini hanno avuto una notte piuttosto dura, hanno dovuto andare ad accogliere vari trasporti”».1 Anche quell’ufficiale credeva che i suoi uomini avessero il diritto di comportarsi in quel modo.
b. Il dottor K., pur essendo molto preciso nel fornire particolari su Auschwitz, tendeva a volte, come qui, a sottolineare il comportamento abbrutito dei prigionieri, minimizzando invece le brutalità delle SS.
c. La parola si riferisce a un’area o a un’istituzione che si trovi fuori dei confini di un territorio e, in un senso storico moderno, è usata con speciale riferimento ad aree in cui i cittadini di un paese occidentale dominante erano sottratti alla giurisdizione legale di un paese più debole (colonizzato o in qualche modo minacciato o controllato) in cui risiedevano.
d. Tipicamente, questa voce era in parte vera (Höss ebbe una relazione con una prigioniera, Eleonore Hodys) e in parte falsa (la donna non era ebrea) e sotto quest’ultimo aspetto era più scandalosa della verità. Ma nella presunta incorruttibilità di Höss c’era molto altro di discutibile: in realtà egli tentò di uccidere la Hodys quando essa rimase incinta.5
e. König intendeva dire che le donne non ebree gravide dovevano essere liberate.
f. Ci furono delle eccezioni: la famiglia di Höss visse con lui ad Auschwitz, così come le mogli o le famiglie di altri comandanti; e, fra i medici, visse per qualche tempo ad Auschwitz la famiglia di Wirths, così come vi vissero, periodicamente o per periodi di tempo più brevi, la moglie o la famiglia di altri. Persino in quei casi, però, questi uomini parvero sforzarsi di mantenere una netta separazione fra il mondo dell’eccidio di Auschwitz e la loro vita familiare (vedi anche a p. 434).
Gli ufficiali delle SS ebbero anche opportunità di contatti sociali e sessuali con donne tedesche, per lo più civili, che facevano lavoro d’ufficio in vicine aree del comando o, in alcuni casi, nel campo stesso.
XI
Mi trattavano quasi come un essere umano,
ma continuava nondimeno a esserci la realtà del campo.
Un medico prigioniero ad Auschwitz
Per i medici prigionieri rimanere terapeuti era un’impresa profondamente eroica e non meno paradossale: eroica nella loro lotta contro lo schiacciante meccanismo della morte ad Auschwitz e paradossale per il fatto di dover dipendere da coloro che avevano abbandonato la terapia per l’eccidio: i medici nazisti. E prima di poter essere ammessi a praticare il loro lavoro ad Auschwitz, i medici prigionieri dovevano riuscire nel compito molto difficile di sopravvivere, mentalmente oltre che fisicamente.
Solo a partire dagli ultimi mesi del 1942 si permise a un numero significativo di medici prigionieri di lavorare nei blocchi ospedalieri, spesso dapprima solo come attendenti o infermieri anziché come medici. In precedenza c’era stato un disinteresse pressoché totale per il malato: un pugno di medici internati (per lo più polacchi; e nel campo delle donne anche tedeschi e poi ebrei cecoslovacchi) non avevano praticamente alcuna medicina o alcuna forma di trattamento da offrire al numero grandissimo di pazienti moribondi. I malati erano ulteriormente vittimizzati dal personale delle SS e dagli stessi kapò prigionieri che erano ignoranti in medicina, spesso sadici e inclini a cimentarsi in procedimenti medici (un famigerato ex fabbro, per esempio, si gloriava di avere eseguito molte amputazioni).
A partire dalla fine del 1942 o dall’inizio del 1943, i medici ebrei che arrivavano come prigionieri non solo venivano lasciati in vita ma erano ammessi in una categoria di prigionieri privilegiata. In essi rimase nondimeno il terrore per ciò di cui avevano avuto esperienza nel campo. E abbiamo visto come un trattamento privilegiato ricevuto da un medico potesse essere accompagnato da dolore e senso di colpa in conseguenza dell’uccisione, nel campo stesso, di membri della propria famiglia (vedi pp. 234-236).
Fino al periodo in cui si cominciarono a utilizzare le loro capacità professionali, i medici arrivati al campo di concentramento erano stati selezionati per la camera a gas e sottoposti a brutalità di vario genere e a umiliazioni estreme, esattamente come gli altri internati, e a volte anche di più. Il dottor Alexander O. mi raccontò di quando, assegnato per la prima volta, assieme a una dozzina di altri medici, a un Kommando incaricato di lavori di demolizione, venne a trovarsi col suo gruppo di lavoro davanti a un grande fosso che era stato usato come gabinetto ed era pieno di materia fecale: «Come medici, era nostro speciale privilegio svuotare questo enorme fosso, demolire la baracca del gabinetto e ripulire il tutto, ma si doveva fare questo lavoro nello stile del campo: ossia non con attrezzature di pompaggio bensì con le mani». Altri, pur prestando servizio ufficialmente come medici del blocco dei prigionieri, si videro assegnare, come una delle loro principali funzioni, «il trasporto nel deposito dei cadaveri dei corpi delle persone morte durante la notte: ogni mattina ce n’erano dieci, venti, trenta davanti a ciascuna baracca».1
Il miglioramento introdotto dal nuovo capo medico, Eduard Wirths, comprendeva l’utilizzazione di prigionieri politici che in qualche caso avessero fatto esperienza del lavoro medico a Dachau e in altri campi, ma anche un contingente medico delle SS più professionale: i soldati del servizio sanitario e, fra loro, i Desinfektoren, che erano stati addestrati sia a guarire sia a uccidere. Come aiuto per combattere le epidemie fu introdotto ad Auschwitz press’a poco a quel tempo l’Istituto di Igiene (vedi pp. 414-416) e furono offerte opportunità di lavoro ai medici prigionieri capaci: «C’erano molti professori famosi di Praga, di Budapest e di ogni dove», come si espresse il medico SS Ernst B.
Ma il numero maggiore di medici prigionieri dovette lavorare nei blocchi dell’ospedale, dove, sotto il controllo di medici SS, potevano più facilmente essere coinvolti nelle selezioni.
Alcuni medici arrivarono dapprima in ospedale come pazienti e appresero rapidamente tutto quel che c’era da sapere sulle selezioni mediche, a volte per essere stati sottoposti a esse. Ma anche quando venivano mandati a lavorare in ospedale come medici, venivano registrati tecnicamente come pazienti, cosicché la I.G. Farben poteva evitare di pagarli come lavoratori. E l’ammissione nel blocco medico, quando vi si veniva registrati come pazienti, poteva assumere le caratteristiche di un rito di iniziazione del medico prigioniero. Il medico cecoslovacco Jacob R. mi disse: «Dalla stanza di riunione dei pazienti, vidi caricare i cadaveri nel sotterraneo dell’ospedale: venivano trattati come se fossero dei tronchi d’albero. [Fu] la mia prima impressione di quel che era realmente Auschwitz».
L’assegnazione di un posto di lavoro, specialmente a un internato ebreo, poteva letteralmente elevare una persona dalla condizione più miserabile a una situazione di speciale privilegio. Il dottor Michael Z., che per due mesi fece parte di un Kommando che trasportava avanti e indietro terriccio nelle tasche della giacca («Sempre di corsa, e per tutto il tempo c’erano kapò che ci colpivano»), fu trasferito a un nuovo blocco, che «era riservato alla Prominenz» (le “celebrità”), le persone importanti, i kapò e i capi dei blocchi». Quando il dottor Z. si ammalò di tifo, per un po’ di tempo fu protetto dalle selezioni da un collega; e persino quando questo espediente fallì ed egli fu «messo su un autocarro diretto verso la camera a gas», fu salvato da un capo di blocco polacco, che era stato da lui curato in precedenza.
Inoltre, ci si poteva infine adoperare attivamente per la propria sopravvivenza o per quella di altri; e a volte ci si poteva servire della propria influenza per farsi trasferire in una situazione migliore o meno pericolosa, per avere un accesso speciale al cibo nei blocchi medici o addirittura per fare alterare certi documenti.
Ma un medico prigioniero non impiegava molto tempo a rendersi conto della serie di falsificazioni che erano alla base della struttura medica. Fra queste c’erano elaborate falsificazioni delle cause di morte, non solo nel caso dei prigionieri selezionati per le iniezioni di fenolo o per le camere a gas, ma persino nei casi di esecuzioni speciali ordinate dalla Sezione politica ed eseguite nei blocchi medici per mezzo delle consuete iniezioni di fenolo. In questi ultimi casi poteva esserci una prassi simile a quella seguita nel progetto di «eutanasia», come chiarì il dottor Jan W.: «Telegrammi..., moduli ufficiali, comunicazioni alla famiglia: il tempo esatto della morte in ore e minuti, anche se la vittima era morta quattro giorni prima..., la causa del decesso... questa o quella, per esempio polmonite». Per quanto inorriditi dal mondo dei medici delle SS, i medici prigionieri non avevano altra scelta che adattarsi a esso.
Per il dottor Henri Q., quel che facevano i medici nazisti era «una degradazione» della medicina da parte di «uomini che erano stati formati per guarire, aiutare, alleviare le sofferenze e prolungare la vita, e che facevano invece tutto l’opposto». Uno dei medici internati, rendendosi conto di quanto poco si potesse fare in quella situazione, poteva sentirsi (come si espresse la dottoressa Gerda N.) come «un prigioniero in un campo [che], pur avendo una laurea [in medicina], non faceva in realtà il lavoro di un medico». I medici prigionieri dovevano venire a patti col rovesciamento medico, proprio di Auschwitz, di terapia e uccisione, anche se lottavano per attenuarne i termini.
Per quanto privilegiata potesse essere la loro condizione rispetto a quella degli altri internati, i medici prigionieri si vedevano richiamare di continuo alla memoria le verità di Auschwitz e l’estremo pericolo che si celava dietro ogni apparente sicurezza. Il dottor Q., per esempio, ricordò una domenica mattina:
Avevamo visto per tre ore sfilare delle donne deportate [donne internate]. Esse andavano dai crematori alla stazione. Ogni donna spingeva un carrozzino per neonati..., gli stessi carrozzini nei quali i loro figli erano stati portati nelle camere a gas. Li riportavano alla stazione perché i tedeschi potessero inviarli in Germania, dove sarebbero stati riutilizzati. Noi comprendevamo..., ma persino noi ci rifiutavamo di credere a quell’immagine concreta.a
I medici SS esercitavano pressioni considerevoli sui medici prigionieri per coinvolgerli nel sistema complessivo di Auschwitz, avendo bisogno per molti versi della loro collaborazione. Da un lato, poiché solo i medici prigionieri erano in contatto diretto con i prigionieri malati, specialmente con i casi di tifo, la loro cooperazione era necessaria per controllare le epidemie nel campo. Come spiegò Ernst B., prima della metà del 1942 se in un’area particolare del campo si verificavano vari casi di tifo, «essa veniva chiusa... Tutti gli internati venivano gassati (anche se non presentavano alcun sintomo di tifo)... Poi si procedeva alla disinfezione, e si sperava che funzionasse». Ma il dottor B. sapeva che i medici prigionieri usavano «ogni mezzo disponibile per impedire al medico SS di riconoscere... un’epidemia» e che nascondevano i casi di tifo o falsificavano le diagnosi.
A volte i medici SS procedevano a una sorta di reclutamento dei medici prigionieri che pensavano potessero essere loro utili. Per esempio, la dottoressa Magda V., pur essendo molto giovane e priva di esperienza quando arrivò ad Auschwitz nel 1942, era molto abile e impressionò un medico SS che le vide eseguire una tracheotomia di emergenza; essa fu perciò nominata quasi subito medico capo fra i medici prigionieri, posizione di autorità che conservò per tutto il suo soggiorno ad Auschwitz.
Similmente, il dottor Peter D., un bravo otorinolaringoiatra che lavorava in un piccolo lager periferico, salvò la vita a un prigioniero diagnosticandone la condizione come una mastoidite acuta con ascesso extradurale (esterno alla membrana cerebrale, la dura madre) e lo operò con utensili da carpentiere, gli unici strumenti disponibili. Questa, ad Auschwitz, era un’azione pericolosamente illegale. Nondimeno, quando il medico SS responsabile del campo, Horst Fischer, ne venne a conoscenza, fece trasferire immediatamente il dottor D. in un grande ospedale a Monowitz e gli fece assegnare uno speciale reparto di quindici letti per consentirgli di lavorare sulla patologia delle orecchie, del naso e della gola con strumenti chirurgici appropriati.
Questi medici prigionieri venivano reclutati, prima di tutto, perché il medico delle SS aveva bisogno di mantenere servizi medici effettivi nel campo. Inoltre, molti fra i medici prigionieri sapevano il tedesco e le loro conoscenze erano utili per certi tipi di relazioni e documenti, spesso falsi, che potevano essere più importanti del trattamento medico reale. Il loro reclutamento poteva dipendere persino dall’ordine con cui erano in grado di eseguire certi lavori. Un medico prigioniero, per esempio, fu provato dal medico SS Bruno Weber, capo dell’Istituto di Igiene, per vedere se fosse capace di preparare un grafico ordinato, ben fatto, sulla base di valori numerici forniti dal lavoro di laboratorio. Questo medico prigioniero fu ispirato a fare qualcosa di vicino alla perfezione dal ricordo di «un giovane francese», sottoposto prima di lui alla stessa prova, il cui grafico era risultato «un po’ confuso e con qualche traccia di cancellature», cosa che aveva condotto al suo rifiuto. Alcuni mesi dopo era ridotto alla condizione di un Muselmann.2
Ma il procedimento di reclutamento più notevole di tutti fu quello usato nel caso della dottoressa Wanda J., la cui abilità come chirurga ginecologa e come organizzatrice di ospedale fu riconosciuta mentre era prigioniera in un altro campo. Il dottor Enno Lolling, capo generale dei servizi medici nei campi di concentramento, informato delle capacità della dottoressa, si recò da lei e le disse che sarebbe stata trasferita ad Auschwitz con condizioni senza precedenti: non le sarebbero stati rasati i capelli e non le sarebbe stato tatuato un numero sul braccio (in realtà le fu dato un numero per ariani anziché uno per ebrei). Risultò che c’era bisogno di lei per fornire cure mediche effettive a donne nel famigerato Blocco 10, dove venivano eseguiti vari esperimenti.
Poiché il lavoro medico reale ad Auschwitz – la cura degli internati malati – era inseparabile dalle selezioni, quando i medici SS coinvolgevano medici prigionieri nella terapia li portavano fino alla soglia delle selezioni. Così facendo, i medici SS tentavano di evitare di riconoscere le proprie colpe portando i medici prigionieri il più possibile vicini al più sporco di tutti i lavori medici. Nella misura in cui riuscivano a contaminare i medici prigionieri, si sentivano meno macchiati a loro volta. In tal modo riuscivano a offuscare, almeno per proprio uso, le distinzioni fra carnefici e vittime, fra medici carcerieri e medici prigionieri.
Parlando di questi argomenti, il dottor B. tornò a esprimere questa opinione, sottolineando di nuovo il suo convincimento, già menzionato, che «tutti coloro che sopravvissero ad Auschwitz furono mantenuti in vita da cibo che era stato sottratto ad altri».
L’adattamento dei medici prigionieri implicò quindi in definitiva un quid pro quo, ossia un baratto: si dava «qualcosa in cambio di qualcos’altro». Il «qualcosa» che le SS davano ai medici prigionieri attraverso i medici SS era, innanzitutto, la sopravvivenza. E non solo la propria sopravvivenza, ma anche la possibilità di contribuire alla sopravvivenza di altri. I medici prigionieri avevano le idee molto chiare sul rapporto fra la loro professione e l’opportunità di restare in vita: «Se non fossi in ospedale [come medico], anch’io sarei morto»; o «Il fatto di essere medico mi ha salvato la vita»; o ancora «Siamo sopravvissuti grazie alla nostra professione».
Un medico internato parlò in termini concreti della verità di tale affermazione:
Il pane era... la moneta principale, il simbolo del potere e dello status... Mi resi conto che, in quanto medico-infermiere, ero una sorta di appartenente all’alta borghesia nella società del lager: quanto meglio nutrito sembravo, tanto maggiore autorità sembravo avere. Come membro del personale [medico] ricevevo una doppia razione di brodo e a volte anche del pane extra. Era importante amministrare con economia le proprie energie. Seguendo l’esempio del mio collega, che aveva una maggiore anzianità, dopo il pasto riuscivo a schiacciare un pisolino in un angolo.3
Un modo in cui i medici prigionieri riuscivano a superare questo potenziale senso di colpa nei confronti degli altri prigionieri consisteva nell’aiutarli.
Il «qualcosa» che i medici SS riuscivano a ottenere in cambio dai medici prigionieri implicava il lavoro nel campo, lavoro che li portava fino alla soglia delle selezioni, come disse con grande sofferenza un altro medico prigioniero quando dichiarò: «Noi facevamo il lavoro. Loro ci davano qualcosa di extra, del cibo in più... Ma [dicevano]: “Dovete aiutarci. Dovete fare voi il lavoro”. Sono molto astuti. Sanno molto sulla psicologia umana».
In ciò che facevano i medici prigionieri c’erano altri paradossi. Molti di coloro che lavoravano a stretto contatto con i medici SS, e che sembravano collaborare attivamente alle selezioni, si servivano in realtà della loro posizione per salvare il maggior numero possibile di persone. E coloro che si espressero con veemenza, allora e in seguito, contro una qualsiasi cooperazione con i medici SS, tendevano ad avere un proprio adattamento, un proprio quid pro quo, che doveva comunque includere una qualche misura di cooperazione.
Il paradosso estremo dell’uccisione come terapia, all’interno del quale i medici prigionieri erano costretti a vivere, era il loro riconoscimento, a un qualche livello di coscienza, che al crescere della loro capacità di guarire i malati (col generale miglioramento delle condizioni igieniche e di vita ad Auschwitz), le camere a gas e i crematori stavano conseguendo la loro massima efficienza. Il dottor Jacob R. aveva in mente questo paradosso quando paragonò (nell’epigrafe a questo capitolo) il trattamento relativamente favorevole che gli era stato riservato («quasi come un essere umano») con la «realtà del campo». Benché egli stesso, secondo una testimonianza posteriore, avesse aiutato, sul piano medico come su quello spirituale, molti compagni di prigionia, espresse nondimeno il dilemma morale dei medici prigionieri. A un certo punto disse: «Potevamo conservare i nostri valori – valori fondamentali – i nostri valori medici», ma in un altro momento riconobbe: «L’intero complesso dei valori [per i medici prigionieri] era completamente mutato. Non si sapeva più veramente che cosa fosse giusto o sbagliato». In gradi diversi e in vario modo le sue osservazioni erano entrambe vere.
Il dottor Ernst B. espresse il punto di vista dei medici SS, i quali pensavano di aver bisogno dell’aiuto dei medici prigionieri anche per eseguire «buone selezioni» (ossia per uccidere i deboli e per conservare gli individui relativamente robusti per il lavoro): «Egli [il medico SS] non curava personalmente nessun malato... Come poteva sapere se conduceva la selezione correttamente? Non lo sapeva. Perciò dipendeva dal capo dei medici prigionieri».
Un medico SS che «voleva facilitarsi il lavoro», continuò a spiegare il dottor B., diceva al capo dei medici prigionieri: «Ho bisogno di un elenco di cento persone per domani». Un medico prigioniero riluttante veniva incoraggiato dal medico SS a passare la sua richiesta a un collega prigioniero come lui, oppure il medico SS poteva rivolgersi personalmente a un altro medico prigioniero di cui gli era nota la maggiore condiscendenza. Se pensava di aver ricevuto un «buon elenco», così che, vedendo quegli uomini sfilare davanti a lui, poteva dire: «Sono davvero i peggiori», continuava a procedere nello stesso modo. Se invece pensava di aver ricevuto un «cattivo elenco», o si rivolgeva a un altro medico prigioniero oppure si riprometteva di far da sé la volta seguente.
Un altro tipo di medico SS – descritto dal dottor B. come il «tipo di SS sicuro di sé, responsabile, ideologicamente ineccepibile» – controllava la documentazione dei pazienti, voleva vederli e si assumeva l’intera responsabilità della selezione. Ma era probabile che persino quel tipo di medico SS coinvolgesse in qualche misura nel processo i medici prigionieri, chiedendo loro informazioni sulle condizioni fisiche dei pazienti. In pratica i medici SS potevano affrontare i problemi in modo un po’ più indiretto, cercando il massimo di cooperazione possibile dai medici prigionieri nell’individuare i pazienti più deboli e nel prendere decisioni. I medici prigionieri potevano a loro volta trovare modi indiretti per resistere ad alcune di queste pressioni, evitando al tempo stesso la posizione pericolosa di diventare un bersaglio specifico della collera di un medico delle SS. Un uomo di coscienza, il dottor Jacob R., era così turbato che si chiese: «Si dovrebbe continuare a lavorare e ad aiutare [a facilitare le selezioni in quel modo]... oppure si dovrebbe rinunciare [farsi trasferire a un Kommando di lavoro] e sapere che un altro... [al nostro posto sarebbe] peggio?».
Gli internati, specialmente se ebrei, si resero conto ben presto di quanto fosse pericoloso il blocco medico. Una donna cecoslovacca sopravvissuta, per esempio, ricordò con gratitudine il primo consiglio che le fu dato quando arrivò ad Auschwitz: «Sta’ alla larga dall’ospedale» e parlò di due forme di suicidio nel campo: «Avventarsi contro i fili spinati [percorsi dalla corrente elettrica] o andare volontariamente in ospedale». Di contro, per un internato l’assegnazione al lavoro ospedaliero era ideale: era un lavoro leggero, al coperto, in luogo dei lavori estenuanti che si facevano all’esterno, e inoltre permetteva di avere più cibo e anche di usare una certa influenza. I prigionieri che lavoravano in ospedale cercavano sia di aiutare gli altri sia di consolidare la propria posizione.
Ma quando le strutture mediche furono sottoposte a una pressione eccessiva, questi prigionieri privilegiati vennero talvolta a sentire questa situazione come del tutto insostenibile, e alcuni medici prigionieri (come mi spiegò Ernst B.) «erano dell’opinione che, se una selezione è fatta bene, è meglio per coloro che vi sono coinvolti [ossia che vengono selezionati] che non restare a morire di fame nel lager». Pur riconoscendo di nuovo l’aspetto di autogiustificazione insito in una tale affermazione da parte di un medico SS, la dottoressa prigioniera Lottie M., che si dedicava senza dubbio con abnegazione al proprio lavoro, confermò il principio generale:
Li vedevamo arrivare... La fila passava accanto al nostro campo, alla nostra infermeria... e io dicevo [a me stessa]: «Verranno nel campo o andranno alla camera a gas? Se vengono al campo sarà una cosa terribile. Non abbiamo letti, né lenzuola, né cibo, niente di niente. Questa situazione peggiorerà sempre di più». Non è così? Non potevamo farvi fronte. Dicevamo sempre: «Oh se potessimo restare quanti siamo adesso..., sarebbe una cosa tollerabile. Ma uno di più è già troppo per noi». Così, nello stesso tempo si spera che non vengano qui, anche se si sa che, se non verranno qui..., non c’è alcun’altra alternativa oltre alla camera a gas... E io dico che questo è il grande problema [in rapporto a posteriori]... sensi di colpa.
Queste parole erano una confessione personale di una donna di considerevole franchezza e integrità. Il fatto che i medici prigionieri potessero sperimentare quest’ambivalenza serviva ad accrescere l’accettazione, da parte dei medici SS, della propria scissione profonda.
La dottoressa Magda V. espresse così il misto di impotenza e di acquiescenza riluttante del medico prigioniero, costretto in qualche modo a partecipare al triage:
Chiesi alle altre ragazze [dottoresse] com’era la situazione... Sa, dicevamo: quanti stanno morendo? Beh, così sapevamo grosso modo che cosa potevamo mostrar loro [ai medici SS]. Agli altri malati... dicevamo solo di mostrare un aspetto sano... o di alzarsi in piedi o di fare qualcosa, sa, di darsi un po’ di tono. Essi [i moribondi] sarebbero morti comunque. Non c’era nessuna possibilità di salvarli, assolutamente nessuna... Se li si selezionava... succedeva solo che morissero un giorno prima o un paio di ore prima. Quel grado di cooperazione poteva salvare la vita almeno dei pazienti relativamente sani.
Ma il problema era allora, come si espresse il dottor Jacob R., la preoccupazione di non «diventare parte del sistema: questa era la cosa che ci turbava di più». Dedito com’era alla sua missione di cercare di aiutare le persone, mi parlò con caratteristica tristezza e sincerità della «pratica che mi ossessiona sempre – e di cui non ho mai parlato – ... la pratica delle selezioni dei... prigionieri... inabili al lavoro». Continuò descrivendo come certi pazienti fossero molto deboli e non mostrassero alcun miglioramento dopo giorni e giorni di degenza: «Prima o poi sarebbero stati [riconosciuti] inabili al lavoro, e noi non potevamo aiutarli. Così venivano avviati... alle camere a gas, controllati [selezionati] dai medici SS. E noi dovevamo decidere chi fargli vedere [al medico SS]».
Il dilemma per i medici prigionieri era in quale misura diventare parte del sistema (per usare l’espressione del dottor R.); in quale misura cooperare alle selezioni. Quando i medici SS chiedevano o ordinavano di fare elenchi di pazienti, i medici prigionieri si consultavano spesso fra loro per cercare di adottare una posizione comune: di solito un compromesso in cui si accordavano su una cooperazione limitata (l’elencazione di pazienti visibilmente allo stremo delle forze), allo scopo di fare il possibile per salvare altri in condizioni fisiche migliori.
A volte si verificavano situazioni di disaccordo sulle quali, secondo la dottoressa Lottie M., poteva essere difficile discutere francamente a causa dei sentimenti di dolore, di conflitto e di rabbia l’uno verso l’altro che ne scaturivano. Così i medici prigionieri venivano costretti dai medici nazisti in un dilemma morale che, comunque venisse risolto, aveva come conseguenza un senso di colpa: si potevano salvare delle vite solo contribuendo alla politica delle selezioni di Auschwitz; si poteva evitare tale coinvolgimento solo rifiutandosi di esercitare la propria capacità di salvare delle vite.
Le pressioni esercitate dai medici nazisti potevano avere l’effetto di modificare il comportamento reciproco dei medici prigionieri dalla solidarietà al silenzio alla discordia. La situazione poteva diventare così ingarbugliata che il fatto che un medico prigioniero non desse il suo aiuto in una selezione poteva essere sentito da un altro come una forma di tradimento. La dottoressa Gerda N., per esempio, mi disse di aver prestato servizio assieme a una collega e amica alle dipendenze di una dottoressa ebrea loro amica e superiore, che in generale proteggeva le sue due colleghe più giovani. Esse, a loro volta, cooperavano con lei quando trasmetteva loro gli ordini di Mengele per l’identificazione dei pazienti malati: «Cercavamo di selezionare quelli che sarebbero probabilmente morti in capo a uno o due giorni». In un’occasione, però, la loro superiore era particolarmente agitata e disse loro: «Avete tempo fino a questa sera per darmi... venticinque persone che devono essere selezionate», perché Mengele glielo aveva chiesto. «E se non lo fate, ha detto che ci farà fucilare.» A quel punto la dottoressa N. e la sua amica ebbero una crisi e «decidemmo di smettere [la loro cooperazione]» e si nascosero fin molto tempo dopo la scadenza del termine. La dottoressa N. non seppe dirmi in modo chiaro perché si fossero comportate in quel modo, ma lo avevano fatto con un misto di timore e di risentimento nei confronti della loro collega più anziana («[Lei aveva tutti i] vantaggi [di status e di autorità]. Doveva farsele da sé [le selezioni]») e, ancora una volta, con un senso di frustrazione per il fatto di vedersi assegnare quella «responsabilità», mentre l’aspetto medico della loro professione veniva crudelmente distrutto («Non eravamo affatto medici... Non avevamo diritti... né medicine..., niente... Eravamo come burattini»).
Quando la loro collega più anziana riuscì infine a scovarle, disse la dottoressa N., «Era molto irritata... per il fatto che l’avevamo lasciata a fare quella cosa da sola, e [disse]: “Pensate che sia da colleghe farmi una cosa del genere?”».
I medici prigionieri sfruttavano i loro rapporti con i medici SS per mettere in atto ogni possibile espediente che permettesse loro di salvare persone dalle selezioni. Un medico prigioniero riuscì a darmi un’idea di come si combinassero, nella loro condizione, un’ingegnosa dedizione al loro lavoro di medici («Riuscivamo a nascondere documenti essenziali e dicevamo ai pazienti di andare ai lavatoi») e qualcosa di molto vicino all’inanità («Così, anche se non potevamo fare moltissimo, essi avevano forse una possibilità, o almeno potevano morire di una morte più o meno naturale»).
Si potevano coltivare rapporti amichevoli anche con certi sottufficiali del servizio sanitario, alcuni dei quali erano stati studenti di medicina e di teologia. Un medico prigioniero mi parlò di uno di questi sottufficiali che veniva considerato particolarmente perbene e che diceva tranquillamente: «È probabile che vengano domani [per le selezioni]». Altri potevano essere convinti mediante bustarelle a modificare il numero delle persone che dovevano venire selezionate.
Il dottor Henri Q. sottolineò l’importanza del buon umore, parlandomi di un dentista ebreo francese di mezza età che era solito «fare scherzi, ridere e raccontarci storielle»: «Pensavo che doveva essere completamente pazzo». Egli diceva al dottor Q. cose come: «Caro marchese, alle cinque dobbiamo prendere un tè assieme», tanto che Q. giunse a chiedersi se «non si rendesse conto di che cosa stesse accadendo» attorno a loro. Considerando le cose retrospettivamente, Q. si convinse però che le storielle del dentista ebreo furono d’aiuto ai medici prigionieri, creando un’alternativa costante, per quanto irreale, alla terribile realtà che stavano vivendo.
I medici prigionieri vivevano in un mare di morte di cui è difficile dare un’idea adeguata. Oltre alle selezioni costanti c’erano, specialmente nei primi tempi, degli appelli punitivi nei blocchi medici: in quelle occasioni tutti i pazienti, quale che fosse la gravità della loro malattia, erano costretti a uscire davanti al blocco e a stare sull’attenti o, se non ci riuscivano, a stare sdraiati sul terreno. Anche quando faceva freddo indossavano solo biancheria intima, e a volte venivano annaffiati con acqua gelida, cosicché molti ne morivano. Si doveva tirare avanti come se la vita potesse continuare: «È strano come tutti conoscessero e non conoscessero l’onnipresente vicinanza della morte».4 Assieme alla routine quotidiana c’erano i discorsi (e le prove) costanti del «passare per il camino». Persino quando si impegnavano nella lotta per la vita, i medici prigionieri potevano credere, come Gerda N., «che la sentenza di morte fosse stata pronunciata per tutti noi... [fosse per]... oggi o domani».
Minacce e pressioni da parte dei medici SS potevano far sentire la condanna a morte come imminente. Un medico prigioniero raccontò che il medico delle SS Fritz Klein continuava a chiedere un maggior numero di informazioni sui pazienti malati per poterne mandare di più nella camera a gas, e aggiunse, nel suo tono tipicamente dolente: «Non è leale nella vita chiedere a un uomo cose del genere. Forse si dev’essere un santo per dire di no. Io non sono ottimista sul mio comportamento, vede. Eppure non sono cattivo. Davvero no. Ma la vita mi chiede: “Tu o lui?” e io dico: “Io”».
A parte le selezioni, i medici prigionieri dovevano mettere in atto un certo triage (in questo caso di tipo veramente medico) per loro proprio conto. Per esempio, quando Jan W., un giovane medico polacco, riuscì a procurarsi dai suoi contatti clandestini una quantità limitata di prezioso vaccino antitifico, non lo dispensò semplicemente a chi arrivava per primo. Egli evitò di somministrarlo a prigionieri che considerava «troppo deboli per potersi riprendere» o che in generale erano troppo anziani e infermi (proprio le persone alle quali si sarebbe somministrato il vaccino in condizioni normali), scegliendo invece «persone giovani che avrebbero potuto trarne giovamento». Inoltre, il dottor W. favorì la propria «rete di conoscenti», ossia prigionieri polacchi come lui: «Un mio amico di scuola di Cracovia... mi sta molto più a cuore di un ebreo olandese che vedo per la prima volta nella mia vita».
Un altro medico, un ebreo olandese, aveva la stessa inclinazione a favorire i suoi connazionali. Egli disse di aver dato tutt’e venti le compresse di sulfamidici che possedeva a un uomo affetto da erisipela e di avere in tal modo guarito almeno una persona. Ma, aggiunse questo medico: «Ovviamente, era un olandese. Era più facile per me e per lui. Potevamo parlarci e ci capivamo. Se fosse stato un polacco, non so».
A prescindere dalla questione del proprio gruppo di appartenenza, c’era il costante problema morale e medico se disperdere le venti o trenta compresse di sulfamidici o di altri farmaci fra dieci persone, e consumare in un giorno tutta la propria dotazione senza alcun beneficio, o somministrarle a due o tre persone, dando forse a ciascuna di loro una dose completa per un giorno solo e poi basta, o ancora se concentrarle su una persona sola, che avrebbe potuto essere curata efficacemente per i vari giorni necessari. Come mi disse il dottor Erich G.: «Questo era il dilemma che i medici dovevano affrontare... ogni giorno».
C’erano almeno tre tipi di situazione in cui i medici prigionieri ritenevano necessario partecipare alle uccisioni. Innanzitutto l’uccisione nei blocchi medici di kapò che avevano ucciso o percosso altri prigionieri, come abbiamo visto nella descrizione del dottor Fejkiel (pp. 259-261). Tali uccisioni salvavano molte vite umane, ma erano nondimeno delle uccisioni: qualcuno, di solito un capo o un gruppo della resistenza, doveva decidere che un particolare kapò era «pericoloso», e mettersi d’accordo con altri sulla necessità di ucciderlo; e qualcuno doveva poi assumersi l’incarico di ucciderlo: di solito questo compito veniva svolto in cooperazione da un medico prigioniero e da altri internati che lavoravano nel blocco medico.b
In secondo luogo, c’erano situazioni in cui i medici prigionieri pensavano che certi pazienti dovessero essere uccisi. Il dottor Elie Cohen, in un libro che ha come sottotitolo A Confession, ci dice che, quando aveva la responsabilità di una «stanza di matti», uno di loro fuggì nel campo e causò scompiglio, cosicché il comandante delle SS emanò una diffida in cui diceva che era meglio che cose del genere non si ripetessero. La reazione di Cohen – condivisa da un altro medico prigioniero che lavorava con lui – fu che, se non fossero riusciti a garantire una situazione tranquilla in corsia, «siamo destinati tutti alla camera a gas». Poiché quel paziente psichiatrico era estremamente difficile da controllare, l’amico rispose che non si potevano «sacrificare seicento persone per un matto!». I due cooperarono all’uccisione del malato iniettandogli una dose eccessiva di insulina, e Cohen scrisse in seguito:
In quell’occasione io..., sì, infransi la norma etica che si è medici non per uccidere persone ma per tentare di mantenerle in vita, per tentare di curarle, di aiutarle. E... è sempre il primo passo quello che conta. Alcune settimane dopo, infatti, la cosa si ripeté. Quella volta, però, ebbi molto meno scrupoli morali nel salire di nuovo la scala e dire a V... «Ci risiamo. Dobbiamo rifarlo».
E lo facemmo, e anche quell’uomo morì.
Non c’era alcun problema nel riferire sul decesso:
Era semplicissimo, ovviamente, trattandosi solo di stilare una breve nota sulle cartelle del deceduto. Polmonite... quello che si voleva. In quella stanza era infatti tutta una farsa. Io tenevo un grafico molto ordinato per ogni paziente, in cui annotavo le temperature e persino le medicine che gli somministravamo. O che non gli somministravamo, anche se risultavano sulla sua cartella clinica.5
Auschwitz poté così imporre a certi medici prigionieri una parte degli elementi del programma di uccisione medica diretta, o «eutanasia», di cui ci siamo occupati nella Parte Prima.
Cohen e altri medici prigionieri lottarono contro l’abbrutimento generale di un ambiente in cui, come mi disse tranquillamente un ex prigioniero, «la corruzione di ogni norma umanitaria ed etica avveniva così rapidamente... che si doveva essere molto decisi per impedire che i prigionieri più forti affrettassero la morte dei loro compagni più deboli». L’esempio estremo fu il comportamento di psicopatici criminali incalliti che si univano alle SS nell’uccisione di persone che facevano parte di Kommandos di lavoro, dopo di che si mandavano fuori dei prigionieri a recuperare i cadaveri per colmare i vuoti nelle «righe di cinque», per far tornare i conti all’appello: tutto questo avveniva a volte mentre l’orchestra dei prigionieri suonava la canzone menzionata in precedenza So leben wir alle Tage (Questa è la nostra vita tutti i giorni).6
C’era una terza forma di uccisione praticata da certi medici prigionieri: aborti procurati in varie fasi della gravidanza, e l’uccisione di neonati dopo parti clandestini. Questi aborti e infanticidi, praticati clandestinamente, si dovevano al fatto che per le donne (specialmente ebree) il fatto di essere gravide o di aver partorito comportava una condanna a morte automatica. Ci sono state molte relazioni su questi aborti e infanticidi clandestini. La dottoressa Gerda N., per esempio, mi parlò di una coraggiosa dottoressa prigioniera che essa considerava un’«eroina degli aborti».
In un’occasione la stessa dottoressa N. fu presente quando la dottoressa ungherese indusse le doglie in una donna che non era lontana dal parto.c Come disse la dottoressa N., l’intento della dottoressa ungherese era quello di «salvare la vita della donna» e «lo faceva a rischio della propria vita», dipendendo dal fatto che «nessuno parlasse: c’era una... cospirazione muta». La dottoressa N. mi parlò delle sofferenze psicologiche di tutte le donne coinvolte in tale situazione: «Per la madre [era] qualcosa di terribile. Ma era abbastanza strano: le donne alla fine accettavano. Alcune dicevano: “No, non voglio”. Esse preferivano morire col proprio figlio. Ma alla fine accettavano tutte. Qualcuna di noi diceva: “Potrete avere un altro figlio [in futuro], e cose simili”».
Ci sono altre testimonianze di neonati lasciati nel blocco a morire e di altri che furono strangolati o soffocati per evitare di essere scoperte. Come infatti sottolineò la dottoressa N., se le SS avessero trovato le prove di tale attività medica, avrebbero accusato di «assassinio» la dottoressa ungherese e le sue aiutanti.
La dottoressa Olga Lengyel ha trattato questi argomenti in modo molto incisivo nel libro Five Chimneys (1947), in cui racconta che, quando nascevano dei bambini nel blocco medico, era necessario «farli passare per nati morti». La Lengyel narra di aver nascosto una donna nel blocco medico per farla partorire. «[Poi] serrammo con le dita le narici di quel piccolo intruso e quando aprì la bocca per respirare gli somministrammo una dose di un prodotto letale. Un’iniezione... avrebbe lasciato una traccia». Del senso di colpa che le rimase dentro, la dottoressa Lengyel dice: «Eppure cerco invano di farmi assolvere dalla mia coscienza. Vedo ancora i bambini uscire dalle loro madri. Sento ancora il tepore del loro piccolo corpo mentre lo tengo fra le mani. Mi meraviglio dell’abisso di abiezione in cui questi tedeschi ci hanno fatto scendere!». E chi può liberarsi dell’ossessione del suo ultimo terribile commento: «Così, i tedeschi riuscirono a trasformare persino noi in assassini»?7
Il dottor Cohen, nella sua «confessione», commentò più in generale: «Da studenti, da medici..., avevamo avuto in mente cose molto diverse».8
a. Da questa descrizione non è chiaro in quale misura le madri si rendessero conto della morte dei loro figli, o se le madri stesse fossero destinate alla camera a gas in accordo con la politica di uccidere le madri con i loro figli, o ancora se quest’episodio si sia verificato in un periodo in cui si lasciavano sopravvivere le madri.
b. Ad Auschwitz ci furono reti della resistenza, fra cui quella più importante era a direzione comunista. (Vedi pp. 528-531.)
c. La dottoressa N. non era sicura del metodo usato («Penso che essa somministrasse alla partoriente un qualche [tipo di] iniezione»), ma le vide usare un cavalletto portatile «simile a un piccolo tavolo operatorio» e «un piccolo strumento... molto primitivo».
XII
Un giorno ruppi la siringa. Ero terrorizzato. Rompere una siringa era un crimine molto peggiore che uccidere un uomo. Una siringa valeva più di una vita umana.
Un medico prigioniero ad Auschwitz
Il nostro orgoglio – il mio orgoglio – è quello di essere riuscito a rimanere un essere umano... Io credo che rimanevamo medici nello spirito nonostante tutto.
Un medico prigioniero ad Auschwitz
Eppure l’impulso dei medici prigionieri a curare i malati persisteva in una misura impressionante. Fu, in effetti, proprio tale impulso a legarli ai medici SS e a creare fra i due gruppi strani rapporti, contraddittori e nondimeno importanti. Come mi disse il medico delle SS Ernst B., i regolamenti di Auschwitz proibivano rigorosamente di «fraternizzare» con i prigionieri; ma, com’egli aggiunse, «la realtà psicologica è che degli uomini non possono vivere assieme senza fraternizzare». Vivere assieme in questo senso significa dover lavorare assieme avendo almeno qualche obiettivo in comune.
Il dottor B. disse anche che «i medici desideravano un maggior numero di edifici ospedalieri; gli altri [il comando delle SS] dicevano che ne dovevano avere di meno e che si dovevano far funzionare di più i forni». Quali che fossero le contraddizioni dei medici SS su questo argomento, il principio di maggiori attrezzature ospedaliere e di una maggiore attività terapeutica diceva molto al loro senso di se stessi come medici persino quando venne a trovarsi in accordo con la politica ufficiale. E ci furono occasioni in cui i medici SS si coalizzarono con i medici prigionieri contro rappresentanti del comando. Per esempio, Olga Lengyel disse che il dottor Fritz Klein fece amicizia con lei per il fatto che entrambi parlavano il romeno ed erano originari della Transilvania, e la difese contro le minacce dell’ispettrice del campo, notoriamente crudele, Irma Grese. Ci fu persino uno scontro fra i due ufficiali delle SS quando, una domenica, Klein esentò la dottoressa Lengyel da un appello punitivo per farle somministrare delle medicine ai pazienti, e riuscì nel suo intento nonostante l’irosa dichiarazione della Grese: «Non dimentichi, dottore, che gli ordini qui li do io!».1 Eppure Klein era quello stesso ideologo medico nazista che aveva paragonato l’uccisione di ebrei all’asportazione di un’appendice incancrenita (vedi pp. 34-35).
Ci fu un altro membro delle SS degno di nota – non un medico, ma un sottufficiale del servizio sanitario, Wilhelm Flagge – che fu associato dai prigionieri solo alla terapia. Flagge era sempre gentile con i pazienti e pronto ad aiutarli, contrastando di continuo l’influenza di una crudele capo sorvegliante, Hanna Bormann (la quale sosteneva che si fingevano malati per evitare il lavoro). Contro la Bormann, Flagge sosteneva l’autonomia della divisione medica (come ricorda la dottoressa Lottie M.): «Lei non ha alcuna autorità qui dentro. Questa è un’area di mia competenza. E io dico che devono stare qui». Il fatto che altri membri del servizio sanitario svolgessero funzioni nelle camere a gas e praticassero le iniezioni di fenolo accresceva la gratitudine degli internati verso Flagge.
Nella loro situazione di degradazione, i medici prigionieri potevano essere straordinariamente toccati dalla benché minima espressione di umanità che potesse emanare dai loro padroni nazisti, e specialmente dai medici nazisti. Il dottor Erich G. ricordò con un’intensità quasi mitica il breve incontro con un medico tedesco nel campo: «Mi strinse la mano. Fu veramente cordiale». E la dottoressa Gerda N. parlò similmente del caro ricordo di un medico tedesco «giovanissimo» che aveva conosciuto dopo essere stata trasferita da Auschwitz in un altro lager e che aveva chiesto di vedere i bambini malati nel suo reparto: «Vidi d’improvviso nei suoi occhi... una grandissima pietà... Egli commiserava quei bambini, così malati e senza cure, e commiserava anche me».
Gli aspetti di insegnamento e apprendimento della medicina fornirono alcuni fra i caratteri più paradossali di questo rapporto, in cui i veri maestri erano gli schiavi prigionieri – medici internati ebrei, polacchi e tedeschi – e in cui gli allievi erano i loro carcerieri. Per esempio, quando il medico delle SS Horst Fischer, impressionato dalle capacità chirurgiche del dottor Peter D., decise di trasferirlo al grande ospedale di Monowitz e di fornirgli strumenti e letti per i suoi pazienti, gli impose la condizione di informarlo ogni volta che si proponeva di compiere un intervento, perché desiderava esser presente e assistere all’operazione come membro dell’équipe chirurgica. Il dottor D. ricordava Fischer come «un medico che voleva imparare... [ed] era interessato... a tutto [ciò che concerneva il caso]».a
Peter D. e altri medici prigionieri raccontarono che Fischer era interessato anche all’apprendimento della psichiatria. Un professore di psichiatria polacco, esperto nell’elettroshockterapia, che era allora un procedimento piuttosto nuovo, fece una dimostrazione dinanzi a Fischer di un’apparecchiatura da lui costruita con l’aiuto della sezione elettrica del lager di Monowitz. Fischer dispose che donne considerate bisognose di terapia (essendo «pazze» o sotto qualche aspetto emotivamente disturbate) venissero condotte dal professore per essere sottoposte alla terapia elettroconvulsivante. Anche in questo caso Fischer si rivelò uno studente coscienzioso, assistendo alla maggior parte – o alla totalità – delle sessioni di terapia condotte dal professore, mentre gli altri medici prigionieri dell’ospedale assistettero solo alle prime due (vedi pp. 408-409).
Benché gli sforzi di collaborazione come questi fossero insoliti, il tipo di legame medico che essi suggerivano era abbastanza comune. E benché questi legami fossero macchiati dall’esistenza delle selezioni, essi significavano molto per i medici prigionieri e svolgevano una funzione anche per i medici nazisti.
A volte sembrava addirittura che quel legame fosse intensificato dal fatto di essere riusciti a sopravvivere insieme alla sgradevole esperienza del procedimento delle selezioni. Un medico prigioniero mi disse di aver conosciuto il dottor Klein, che eseguiva selezioni ogni due settimane ma «era molto gentile», e sottolineò il legame che essi contrassero: «Se si vede un uomo ogni settimana, e specialmente nei momenti delle selezioni», si giunge a conoscerlo «molto, molto bene». La dottoressa Magda V. chiarì ancor meglio questa situazione: «Era un po’ come ciò che si legge sui sentimenti che le vittime dei terroristi possono provare per coloro che le tengono prigioniere». Quel legame, in altri termini, è formato da un grado estremo di coercizione e comprende in qualche misura la sensazione di condividere una sorte comune, almeno temporaneamente.b
Il legame richiedeva che i medici prigionieri entrassero nei regni di ottundimento morale e di perdita di contatto con la realtà in cui vivevano abitualmente i medici SS. La dottoressa Magda V., per esempio, dimostrò un’abilità considerevole sia nel suo campo professionale sia nel destreggiarsi nei confronti delle pressioni esercitate su di lei dai medici nazisti; ma quando le chiesi se fosse al corrente delle iniezioni di fenolo (vedi cap. XIV), mi disse che aveva la mente «così offuscata» che non riusciva a «capire i particolari... Qualcuno diceva qualcosa, ma sembrava tutto... così irreale». Similmente, sulle selezioni e su altri aspetti dell’esperienza di Auschwitz: «Era tutto estremamente irreale... e sono sicura che non sono l’unica ad avere avuto la sensazione di trovarmi in una sorta di torre d’avorio e che tutto ciò non stesse accadendo realmente».
Il dottor Jacob R., il quale disse che i medici tedeschi erano talvolta «a un certo livello buoni colleghi», mi spiegò anche che, per lui e per altri medici prigionieri, «era impossibile vivere ad Auschwitz senza una sorta di anestesia affettiva». Solo una ventina di anni dopo, quando fu chiamato a testimoniare a un processo che si celebrava in Inghilterra, riuscì a superare quell’anestesia: «Fu uno shock terribile trovarsi di fronte [alle vittime di Auschwitz]..., alla storia della loro vita..., agli esperimenti... [A quel tempo] avevo riacquistato la mia sensibilità».
Il dottor Erich G. parlò di una «reazione immunitaria psichica», in qualche misura simile al fatto di «portare una tuta di amianto, cosicché se scoppia un incendio il fuoco non può arrecarti danno». Inoltre, «chi non riusciva a sviluppare questa [reazione immunitaria] moriva». Nessuno, quando veniva posto di fronte alle selezioni, riusciva a rinunciare a quel legame con i medici nazisti che era così necessario ai fini della propria sopravvivenza e della propria capacità di salvare altre persone.
Benché il legame fosse estremamente precario, e i medici prigionieri non smettessero mai di vedere in tutti i nazisti di Auschwitz degli assassini, si sviluppò anche qualche rapporto estremamente positivo: per esempio fra alcuni medici prigionieri e due medici SS nell’Istituto di Igiene di Auschwitz, Ernst B. e Delmotte G. Vari medici sopravvissuti mi dissero che questi due medici SS erano genuinamente cortesi con loro, li aiutarono a organizzare incontri illegali con le mogli o con altri membri della loro famiglia nel lager ed erano degni di confidenze personali. Ma persino in quei casi insoliti, i medici prigionieri non potevano essere completamente tranquilli.
A volte un medico nazista usava rapporti di tal genere per una sorta di catarsi, per esprimere (anche se non certo per affrontarli) i suoi sensi di colpa derivati dalla partecipazione alle selezioni. Il dottor Jan W., il medico prigioniero polacco di cui ci siamo già occupati, descrisse Werner Rohde (che vari internati consideravano abbastanza gentile) come una «sorta di Boschc tedesco..., più socievole [di altri medici nazisti]», un uomo che trattava i medici prigionieri «più come colleghi che come prigionieri». Inoltre,
a volte parlava addirittura dei sogni che aveva fatto la notte prima. Voglio raccontarle uno di quei sogni. Un giorno entrò e ci disse: «Che sogno ho fatto la notte scorsa. Un sogno terribile. Sognai [di vedere] delle teste di ebrei fritte: teste di ebrei in padella». Questo accadde subito dopo una selezione in cui un gran numero di ebrei furono gassati e bruciati.
Il sogno di Rohde rifletteva probabilmente una combinazione di senso di colpa, angoscia di morte e un certo grado di sadismo. Una confessione del genere poteva essere fatta solo a medici polacchi o forse a medici tedeschi prigionieri. Ma questa apparente liberalità non significava che essi potessero permettersi di prendere alla leggera la risposta da darsi alla catarsi del medico SS.
La presunta colleganza col medico SS poteva essere percepita dai medici prigionieri come un modo per prenderli in trappola. Un medico prigioniero disse che Klein gli si rivolgeva chiamandolo Herr Kollege o Herr Doktor Kollege, che era «amichevole» e «molto gentile», e che Fischer, Klein e Rohde «erano normalissimi nei nostri confronti» e «parlavano di medicina con noi». Quest’uomo voleva spiegare in che modo lui e gli altri medici prigionieri venissero manipolati e sfruttati nel loro rapporto con i medici nazisti:
Non ci trattavano male. Per nulla. Non c’era alcun bisogno che lo facessero perché eravamo molto obbedienti. Eravamo schiavi. Si stava sempre sull’attenti [a questo punto batté i talloni e si mise sull’attenti per dimostrare questo servilismo militare]... Eravamo noi a fare il lavoro... In questo modo è possibile controllare un intero paese con pochissimi uomini. Basta mettere gli uomini giusti al posto giusto.
Il dottor Peter D. attribuiva al rapporto un valore più positivo: Fischer divenne «un amico e collega tanto che non avrebbe mai preso nessuno che lavorasse per me per mandarlo al campo [non lo avrebbe mai selezionato per la camera a gas]». La dottoressa Magda V. fu colpita dall’uso di tali rapporti per «condividere in un certo senso la responsabilità», in una situazione in cui «ognuno cerca di addossare la responsabilità a qualcun altro». Ma per i medici SS c’era anche il principio menzionato dal dottor B.: il bisogno di «rifugiarsi in quest’illusione..., di stare facendo un buon lavoro professionale in medicina».
I rapporti dei medici SS con le dottoresse prigioniere erano complessi e potevano comprendere elementi di «cavalleria» e a volte persino di affetto, ma anche inganno e pericolo. Rohde, in particolare, come si espresse la dottoressa Lottie M., poteva considerare il lager una «guerra di tedeschi contro ebrei... [ma] in qualche misura aiutava le donne e le proteggeva».2 La dottoressa M. e altre riferirono che egli «era molto innamorato di una dottoressa ebrea che era il nostro medico capo... [e] la teneva in grandissima considerazione», tanto che essa fu in grado di esercitare una grande influenza su di lui. La dottoressa M. descrisse la dottoressa V. come una «donna di bell’aspetto e molto intelligente» e fra gli internati circolava la voce che essa fosse diventata l’amante di Rohde. Alcuni internati attribuirono a questo fatto lo status apparentemente privilegiato di Magda V., e questo fu uno degli elementi su cui si fondarono talune accuse contro di lei in Cecoslovacchia dopo la fine della guerra. Sulla base della sua stretta collaborazione con i medici SS, con i quali fu anche vista in giro per il lager, essa fu accusata di complicità nelle selezioni, un’accusa considerata «semplicemente folle» dalla dottoressa M., perché, come questa sottolineò, la dottoressa V. fece realmente tutto il possibile per salvare il maggior numero di vite umane.
Lottie M. e Magda V., durante interviste separate con me, espressero dispiacere per il fatto che Rohde fosse stato impiccato subito dopo la guerra poiché lo consideravano, rispettivamente, «meglio» di altri medici nazisti e «a modo suo un tipo molto perbene». La dottoressa V. magnificò forse un po’ troppo le virtù di Rohde, cercando di avvalorare l’impressione (contraria alla realtà dei fatti) che egli «si rifiutò di compiere le selezioni e andò sul fronte russo». Disse anche di averlo rimproverato per avere espresso opinioni, presumibilmente negative, sugli ebrei senza averne conosciuto nessuno: «Come può parlare degli ebrei?». Nello stesso tempo, Magda V. fece dell’ironia sulle accuse sia di collaborazionismo sia di essere stata l’amante di Rohde, insistendo sul principio nazista della Rassenschande (onta o infamia razziale) che colpiva i rapporti sessuali con una persona di razza ebraica: «Io ero solo un Häftling [detenuto], per potermi lamentare a voce troppo alta!» e «Lei deve cercare di capire in modo chiaro la situazione». Mi parve chiaro che la dottoressa V. non era stata né collaborazionista né amante. Ma nel parlare di come i medici nazisti guardassero con approvazione al suo equilibrio e alle sue abilità linguistiche e mediche e di come la considerassero «leale» e «brava nel lavoro», essa rivelò ancora una volta la potenziale contaminazione presente in ogni rapporto di un medico prigioniero con i medici SS. Un’altra dottoressa prigioniera caratterizzò forse nel modo più esatto questo rapporto quando parlò della dottoressa V. come di una «madreconfessore per Rohde».
La dottoressa Lottie M. dovette la vita a Rohde. Quando si ammalò gravemente di tifo, Rohde annunciò ai medici prigionieri che si occupavano di lei: «Non voglio che muoia» e fece in modo che ricevesse buone cure e cibo nutriente. Egli giunse al punto di portarle prima un vestito e poi, su sua richiesta, un reggiseno, perché potesse scendere dal letto. Tutto questo non sfuggì ai kapò e al personale delle SS, i quali «pensarono che fosse protetta da lui... e che non si dovesse interferire». L’atteggiamento amichevole di Rohde verso di lei cominciò quando egli apprese che aveva fatto l’università e studiato medicina nella stessa città in cui aveva studiato lui, e in risposta egli rievocò in modo entusiastico quel tempo felice, rivolgendole domande sui professori, sui ristoranti e sui negozi. A quanto pare Rohde trovò la dottoressa M. anche brillante e attraente cosicché, com’essa si espresse, «io non sentii alcuna affinità con lui, ma lui la sentì con me». Essa non aveva un grande rispetto per lui, e lo descrisse come «sciocco..., un tipo sportivo di bell’aspetto... senza idee brillanti»; ma essa aveva un’altra ragione ancora per essergli grata: «La cosa buffa è che cercò sempre di farmi liberare». Rohde pensava che, in quanto tedesca non ebrea, la si doveva aiutare a lasciare Auschwitz, e con quest’idea in mente riuscì persino a procurarle un abboccamento con un nuovo comandante. Quando essa tornò da quel colloquio scoraggiata, spiegando a Rohde che il nuovo comandante del lager (una sezione del campo di concentramento di Auschwitz) «sembra essere un grande antisemita» [essa era stata arrestata anche per avere aiutato degli ebrei], Rohde rispose: «Beh, tutti noi siamo antisemiti». La dottoressa M. gli disse di non avere avuto la stessa impressione di lui, al che egli replicò: «Beh, nel campo la situazione è diversa». Egli intendeva dire – in un’ulteriore manifestazione della schizofrenia del binomio terapia-uccisione di Auschwitz – che il carattere «informale» della vita nel lager permetteva di avere un rapporto più disteso con singoli ebrei (come quello che egli aveva con la dottoressa V.), persino quando li si sottoponeva all’eccidio di massa come gruppo.
Rohde tentò di far capire alla dottoressa M. la sua riluttanza a compiere le selezioni e il suo bisogno di bere per poterle eseguire. Pur avendo un atteggiamento protettivo verso le dottoresse prigioniere per le quali aveva maggiore simpatia, come Lottie M. e Magda V., sembrava che volesse renderle partecipi dell’ottundimento morale che poteva indurre in se stesso con l’alcol. Così una volta, quando ci fu la chiusura di un blocco (Blocksperre) per le selezioni, Rohde vide la dottoressa M. intenta a guardare da uno spiraglio i prigionieri che venivano trascinati via e fatti salire sugli autocarri per essere portati a morire; egli le disse allora con agitazione: «Perché guarda queste cose? Non è abbastanza fortunata da non doverle guardare? È meglio non guardare».
Il dottor Klein – che, come mi disse la dottoressa Ella Lingens-Reiner, era un «vero» antisemita – fu deliziato nello scoprire che essa non era ebrea ma tedesca. Poiché la cercava e «gli piaceva parlare con me», anche in questo caso fra i prigionieri ci furono voci su una relazione fra loro. In realtà la dottoressa Lingens-Reiner pensava di dover usare ogni riguardo con lui per non irritarlo. Ma si sentiva abbastanza a suo agio con lui (come sottolineò il dottor B.) per potergli fare la domanda che suscitò la sua osservazione dell’«appendice incancrenita»:
Klein era presente quando le camere a gas lavoravano... a pieno ritmo... Noi vedevamo il crematorio. Vedevamo il fumo nero e il fuoco, persino il fuoco che usciva dai giganteschi camini. E io ero là in piedi e guardavo il crematorio, quando Klein mi si avvicinò. Io gli dissi: «Mi chiedo, dottor Klein, come lei possa fare questa cosa. Non le viene mai in mente il giuramento ippocratico?». Egli mi rispose: «Il mio giuramento ippocratico mi dice di asportare dal corpo umano un’appendice incancrenita. Gli ebrei sono l’appendice incancrenita dell’umanità. Ecco perché io li elimino».d
In realtà l’interesse romantico di Klein si concentrò su un’attraente giovane dottoressa polacca, con cui cinque dottoresse prigioniere dividevano una stanza. Benché (secondo la dottoressa Lottie M.) non ci sia stata alcuna relazione fisica neppure in questo caso, Klein prese l’abitudine di comparire nella loro camera la domenica mattina presto, quando le donne erano ancora a letto, per «flirtare» con l’attraente dottoressa polacca, per lo più descrivendole diffusamente le sue idee politiche («La sua... idea era che i polacchi dovessero unirsi con i tedeschi nella lotta contro i russi»). E la dottoressa M. continuò a spiegare, in un modo che diceva qualcosa sulla natura fondamentale di questi rapporti: «Noi non volevamo morire, cosicché stavamo a letto finché non aveva finito il suo flirt con questa signora». Dopo che un sottufficiale del servizio sanitario era capitato nella stanza una domenica mattina, nell’ora di una delle visite del dottor Klein, questi fu trasferito in un altro campo. Il sottufficiale infatti, come si espresse la dottoressa M., aveva informato il «comandante del... campo che questo dottor Klein è in rapporti troppo buoni con dei prigionieri».
Eva C., un’artista che quando arrivò ad Auschwitz aveva meno di vent’anni e che era anche lei molto attraente, parla di una relazione con un altro medico delle SS, Hans Wilhelm König, che salvò la vita non solo a lei, ma anche a sua madre. Essa descrisse, non senza affetto, la prima impressione che ebbe di König come di SS nebisha [parola yiddish per «poco appariscente» o «nullità»], «di aspetto simile a un don Chisciotte, con maniche troppo corte» e raccontò come egli prendesse l’abitudine di farsi vedere ogni giorno nel piccolo ufficio in cui essa faceva i suoi disegni di medicina, chiacchierando piacevolmente con lei su qualsiasi cosa tranne che su «argomenti concernenti il campo: quello era un argomento proibito».
All’inizio del 1944 Eva C. venne a sapere (attraverso un prigioniero suo conoscente che era l’anziano del blocco) del piano di gassare l’intero lager delle famiglie cecoslovacche di cui essi facevano parte, e comunicò questa notizia a König quando questi tornò al campo dopo due settimane di assenza. Poco tempo dopo, quasi certamente su richiesta di König, essa fu convocata dinanzi a Mengele, così che il suo numero potesse essere incluso fra quelli dei pochissimi che dovevano essere lasciati sopravvivere. La sua lagnanza insistente di non voler «restare in vita da sola» fu chiarita a Mengele da un medico prigioniero, il quale gli disse che nel campo c’era anche la madre della ragazza, una donna ancora giovane e robusta e in grado di lavorare; e Mengele, dopo aver prima protestato, cedette e si annotò anche il numero della madre. E alla seconda selezione, quella che poco tempo dopo liquidò definitivamente il lager delle famiglie cecoslovacche, König non solo fece in modo che figlia e madre sopravvivessero ancora una volta ma, quando le prigioniere furono costrette a marciare nude davanti ai medici SS, con grande umiliazione di Eva C. (tanto più che essa li conosceva), la giovane artista poté «intravedere gli occhi [di König] che guardavano dritto nei miei e in nessun altro posto, e gliene fui molto grata». Essa sentì che König stava rassicurandola che «sarebbe andato tutto bene, che egli era un amico»: «Sentii che gli importava di me».
Ma la valutazione da lei data dell’atteggiamento di König fu: «Egli fece di me una sorta di animaletto di compagnia... e nelle feste delle SS, a cui partecipavano la bassa forza e anche SS di grado più elevato, e in cui si facevano scherzi, König veniva punzecchiato perché portava sempre regali – sigarette, cibi e via dicendo – alla “bella artista”». La persistente ambivalenza di Eva C. nella valutazione del loro rapporto emerse in quella che per un sopravvissuto è una questione di importanza suprema: «Egli mi salvò. Ma a volte io mi chiedo, se avessi avuto una possibilità di salvargli la vita, se lo avrei fatto».
In questi rapporti, le dottoresse prigioniere potevano scoprire residui di umanità in medici nazisti, cosa che consentiva loro di salvare delle vite umane. A volte riuscivano in questo intento per mezzo di un atteggiamento psicologico calcolato. La dottoressa Lottie M., per esempio, che aveva studiato con August Eichhorn, uno dei primi psicoanalisti, tentò di applicare agli uomini delle SS, e persino ai medici nazisti, quelli che Eichhorn aveva raccomandato come i migliori atteggiamenti con cui accostarsi ai giovani delinquenti:
Occorre dire qualcosa il cui senso sia molto severo, ma dirlo in modo amichevole, oppure [qualcosa di amichevole] ma in modo severo... Così [Eichhorn] disse: «Consideriamo il caso di questo bambino. Puoi dirgli: “Beh, Franchino [con tono severo], questa è l’ultima volta che ti aiuto a venire fuori da questo pasticcio”. Oppure puoi dirgli [in tono più dolce]: “Franco, sai che ti voglio bene – penso che tu sia un bambino simpatico e intelligente –, ma ciò che hai fatto adesso è intollerabile e devo punirti”»... E io pensavo: poiché tutte le SS sono così, la cosa migliore sarebbe trattarle in quel modo.
Lottie combinò tali approcci con moti occasionali di sorpresa, schiettezza e persino senso dell’umorismo. (Quando un medico delle SS sentì che essa si riferiva a lui in modo spregiativo in francese – lingua che Lottie pensava non capisse – e le disse con un tono di minaccia: «Ha finito di lagnarsi di me?», essa rispose: «No, non ho finito, ma se vuole posso interrompermi e chiudere il becco», al che egli la guardò stupito e se ne andò via sbattendo la porta.) Essa riconobbe: «Occorreva essere in una certa posizione» per potersi comportare in modo così audace (essa era tedesca e non-ebrea, e aveva inoltre una posizione medica importante), ma aveva imparato a usare tali atteggiamenti, aggiunse, non solo da Eichhorn ma anche da Magda V., una dottoressa prigioniera ebrea che era notevolmente equilibrata nei suoi rapporti con medici SS.
La stessa Magda V., continuando a parlare di Rohde, fece un’osservazione sull’influenza psicologica: «Potrei avere influito su Rohde senza saperlo... Può darsi che io abbia inibito Rohde... È molto, molto difficile uccidere qualcuno che si conosce da cinque anni o... da cinque giorni... Si sviluppa una certa associazione». Dovette ammettere però che salvare vite era estremamente difficile: «Tutto si svolgeva davvero molto rapidamente... Venivano selezionati e mezz’ora dopo erano ridotti in fumo».
L’inganno e l’ipocrisia dei medici SS erano onnipresenti. La dottoressa V. mi disse che Klein «faceva mostra di cordialità» ed era «l’immagine stessa del medico di famiglia..., piccolino, rotondetto... un tipo simpatico di medico di famiglia, che si preoccupa molto della tua salute». E quando una donna con una figlia di quindici anni si lamentò una volta con lui per non essere stata curata dalla stessa dottoressa V., Klein batté una pacca sulla testa della ragazza e disse alla madre: «Mia cara, non si preoccupi... Vi manderò in infermeria. Io stesso verrò a vedervi». Ma V. sapeva «che cosa significasse ciò: la camera a gas per entrambe». Essa gli chiese allora: «Come può un medico, che ha studiato per salvare vite umane, fare questo?».
La sequenza da lei percepita, a un qualsiasi livello di coscienza, era qualcosa del genere. Lui e io siamo medici, impegnati tutt’e due nella missione di curare; egli non solo viola il nostro giuramento, ma lo fa fingendo di essere un medico premuroso; io devo dipendere da lui per poter sopravvivere e restare un vero medico, ma non posso ottenere questo risultato senza restare coinvolta in ciò che egli sta facendo e senza correre il rischio di diventare simile a lui.
Qui un tema chiave nella lotta dei medici prigionieri era quello che il dottor Jacob R. chiamava la «conservazione dei propri valori medici» come mezzo per «rimanere vivi come esseri umani» e per «resistere all’accettazione dei valori del lager». Si poteva combinare un certo ottundimento con un’attività in tono minore, cosicché per questo medico «non era... tanto importante essere una personalità di primo piano» ma era preferibile piuttosto concentrarsi sull’attività di aiutare quietamente i pazienti e «fare tutto ciò che si poteva in quelle circostanze generali».
La difficoltà consisteva nel fatto di dover lavorare all’interno di una struttura medica che faceva parte del piano generale di sterminio e che, nello stesso tempo, era costruita sugli inganni della situazione medica «come se». Come si espresse il dottor Henri Q.:
Nell’ospedale che i tedeschi hanno finalmente creato per i prigionieri..., un grafico delle temperature, una scheda di osservazione è molto più importante di una vita umana. Non è necessario trattare bene un paziente, ma nel modulo di osservazione [cartella clinica] si deve menzionare che ha ricevuto tutti i farmaci richiesti dal suo stato, così che i tedeschi possano in seguito dimostrare al mondo, nero su bianco, che se i malati sono morti è stato solo perché erano deboli e non in conseguenza della cattiva qualità del trattamento cui sono stati sottoposti.
I medici prigionieri furono particolarmente sensibili all’illusione dell’autenticità della loro attività medica nelle loro connessioni con i medici nazisti, come ha chiarito la dottoressa M. descrivendo i suoi rapporti di lavoro con Mengele:
Lavoravo come se mi trovassi in un normale ospedale, anche se sapevo che non era così. Ma... quando Mengele entrava nel blocco gli dicevo: «Posso mostrarle questa paziente?... Potrei portarla al campo degli uomini per un’operazione chirurgica, dato che qui non abbiamo attrezzature chirurgiche mentre il campo maschile le ha...?». Gli mostravo dieci di queste pazienti. Egli diceva sì o no e se ne andava. E tutto questo aveva l’apparenza di una normale visita del medico capo.
Lottie M. aveva un certo rango in quanto tedesca non ebrea. La dottoressa ebrea Gerda N. mi parlò delle proprie sofferenze in relazione a questioni di «responsabilità» e descrisse come una «farsa» i tentativi suoi e di altre prigioniere di svolgere lavoro medico. Non disponendo virtualmente di alcuna medicina («Ricevevamo dieci aspirine al giorno per un blocco di migliaia di persone»), ci si attendeva che curassero solo le pazienti con i sintomi più gravi e debilitanti. Il senso di impotenza che ne risultava era accentuato, e frammisto a sensi di colpa e di frustrazione, in conseguenza di attese che non potevano venir soddisfatte: «Che cosa può fare un medico... che non disponga di nulla?... Non c’era nemmeno acqua... ma noi dovevamo lo stesso lavorare come se fossimo responsabili di qualcosa... Essere responsabili di qualcosa di cui non ci si può assumere la responsabilità... è una sorta di... schizofrenia».
Come il dottor Ernst B., la dottoressa N. usò il termine «schizofrenia» per descrivere i rovesciamenti e le confusioni di terapia e uccisione, dei tentativi di praticare la prima al cospetto della seconda. Essa si spinse però più avanti nel rivelare le terribili conseguenze psicologiche di quei paradossi della terapia-uccisione per un medico prigioniero che rimaneva fedele a un senso di responsabilità medica. Senza dirlo direttamente, essa soffriva per la sinistra estensione dell’idea di responsabilità da parte dei medici nazisti per includervi la colpa e il biasimo: essi accusavano i medici prigionieri di essere «responsabili» della morte di pazienti come modo per scagionare se stessi e altre autorità del lager. Quest’uso di «colpevolizzare la vittima» (in questo caso il medico-terapeuta-vittima) era, come vedremo, psicologicamente importante per i medici nazisti; ma qui possiamo rilevare il suo impatto psicologico potenzialmente devastante sui medici prigionieri, persino quando questi erano perfettamente coscienti dell’assurdità dell’accusa.
Una contraddizione connessa a questa era l’esperienza di fornire cure, con l’incoraggiamento dei medici SS, a numerosi pazienti che spesso guarivano solo per essere poi avviati alle camere a gas. Il dottor Henri Q. mi parlò di casi di «fratture esposte complesse, di apparecchiature per la riduzione di fratture complesse e di osteosintesi [interventi chirurgici per unire le estremità fratturate di un osso]», in cui il trattamento era complesso e minuzioso: «E quando guarivano venivano uccisi, perché erano deboli». E il dottor Jan W. mi descrisse una situazione simile, in cui un medico prigioniero polacco insegnò a Friedrich Entress, famoso per il suo zelo nell’eseguire le selezioni, un procedimento chirurgico che il medico delle SS eseguiva poi a sua volta su pazienti. Ma
se il trattamento doveva protrarsi oltre una breve convalescenza, persino dopo un’operazione coronata da successo, egli [Entress] considerava il paziente un onere per l’ospedale, di cui veniva a intralciare il normale ricambio di pazienti. Così, anche dopo avere eseguito lui stesso l’intervento, questo medico delle SS, che imparava l’arte in questo modo, non aveva alcuna esitazione a mandare il paziente nella camera a gas o a praticargli un’iniezione di fenolo.
Questa contraddizione schizofrenica fra terapia e uccisione si perpetuò sino alla fine. Come mi disse Jacob R.:
Il mio ultimo compito ad Auschwitz [prima di essere trasferito alla Buna]... fu tipico dell’atteggiamento di negazione della realtà, atteggiamento proprio dei prigionieri ma anche delle SS. I russi erano sempre più vicini. [Eppure] noi preparavamo un corso di lezioni per i medici del lager [per insegnare loro come] essere medici prigionieri migliori. Era il settembre del 1944... L’ordine era venuto dai medici SS, contro l’idea [opposizione] degli attendenti che prestavano servizio in infermeria. Era una questione di posizione di potere.
Era anche un modo per conservare la situazione medica «come se» di Auschwitz, un inganno in cui ai medici prigionieri si chiedeva di essere figure chiave. L’osservazione del dottor Erich G. che i medici nazisti «non potevano sopprimere tutta l’umanità» poteva avere una doppia verità: essi non potevano sopprimere tutta la loro umanità, e tanto meno potevano sopprimere quella dei medici prigionieri loro schiavi.
La maggior parte dei medici prigionieri si sforzavano di cooperare fra loro in modi tali da contribuire validamente alla conservazione di vite umane. Oltre alle «riunioni» per concordare linee comuni da adottare verso le selezioni, «essi soffrivano... la fame..., la sete... ed erano esposti», per quanto in modi diversi, «alla minaccia di essere mandati a morte esattamente come tutti gli altri, ma nondimeno si adoperavano [per aiutare gli altri]», come disse la dottoressa Gerda N. riferendosi ai suoi contatti con altre dottoresse.
Benché sia accaduto talvolta a qualcuno di loro di essere salvato da un paziente grato, i medici prigionieri si salvavano molto più spesso fra loro. Il dottor Erich G. disse di un collega, ora docente di biologia nell’Europa orientale, che quando si trovava ad Auschwitz aveva perso ogni voglia di vivere e sarebbe certamente morto senza due interventi da parte di colleghi prigionieri. In un’occasione lo stesso G. afferrò e trattenne l’amico dopo averlo visto avviarsi verso il filo spinato percorso dalla corrente elettrica ad alta tensione; e un’altra volta un altro collega lo tolse da un elenco di persone selezionate per la camera a gas (l’uomo, depresso, aveva fatto di tutto per essere selezionato), «gli diede uno schiaffo in faccia..., lo trascinò via ed egli sopravvisse». Quella reciproca speranza di sostegno poté persistere anche dopo Auschwitz, nel dopoguerra, come nel caso di un altro collega che G. contribuì a salvare dopo che la sua salute si era deteriorata al punto che sembrava quasi un Muselmann. Vari anni dopo quest’uomo, che era malato e che lavorava nella stessa sezione medica di G., andò da lui e gli disse: «Ti prego, salvami la vita come hai fatto ad Auschwitz».
Un altro aspetto dell’attività terapeutica ad Auschwitz era la necessità, per i medici prigionieri, di falsificare diagnosi per impedire che certi pazienti venissero selezionati per la camera a gas. Il dottor Michael Z., per esempio, mi disse che, mentre lavorava nel laboratorio batteriologico dell’Istituto di Igiene, «spesso fornii risultati volutamente erronei perché c’erano casi di bacilli di Koch..., di tubercolosi..., [o] di malaria; [se io non avessi fornito] risultati negativi..., era automatico l’invio alla camera a gas... [Così], quando sapevo che si trattava di un internato, mi prendevo la responsabilità di dare un risultato che non danneggiasse». Di nuovo, Z. e altri medici prigionieri seppero sfruttare l’ignoranza e il disgusto dei medici SS per i malati. Per esempio, i medici prigionieri (quando lavoravano nel blocco dell’ospedale) diagnosticavano autentici casi di tifo come influenza sapendo che questi pazienti erano «sporchi... e pieni di ferite, di piaghe» e che i medici SS non si sarebbero avvicinati loro: «Era facile allora raccontare loro [ai medici SS] delle storie».
Altre volte, invece, la capacità di salvare delle vite dipendeva dal massimo impegno per formulare la diagnosi corretta, come quando i medici SS diagnosticavano il tifo in persone la cui febbre era dovuta in realtà alla polmonite. Il dottor Rudolf Vitec testimoniò su una di queste situazioni, nella quale non riuscì a impedire che pazienti la cui malattia era stata diagnosticata erroneamente venissero mandati nella camera a gas, e fu lui stesso trasferito in un distaccamento per il trasporto dei cadaveri per aver fatto le sue rimostranze presso i medici SS.3
I medici prigionieri dovevano inoltre imparare a opporsi a certe richieste, oltre che il modo giusto per opporsi. Il dottor Z. resistette alla minaccia più grave alla sua identità di terapeuta: le pressioni da parte di un funzionario prigioniero di somministrare le letali iniezioni di fenolo. Il dottor Z. insistette: «Non so come fare... e ciò che non so come fare non posso farlo». Egli aveva a quanto pare percepito (correttamente) che quando si voleva opporre resistenza senza andare incontro a conseguenze molto sgradevoli si doveva addurre la propria incapacità e non la propria opposizione.
Per poter continuare a praticare la medicina, i medici prigionieri dovevano sfruttare gli antagonismi e le rivalità fra i medici SS. La dottoressa Wanda J. ritenne di essere riuscita a costituire buone attrezzature ospedaliere al famigerato Blocco 10 (il blocco sperimentale) «perché era tutto sossopra» e «perché essi si odiavano fra loro... [Wirths] odiava il professor Clauberg... Il professor Clauberg odiava lui. Egli odiava Höss. Höss odiava lui. E così è tutta una farsa».
La dottoressa J. ebbe una speciale opportunità di sfruttare la situazione quando, dopo un aborto al quarto mese di gravidanza, fu accettata al blocco medico, con la tubercolosi dell’anca, l’amante di Höss (vedi p. 279). La dottoressa J. comunicò subito questa informazione a Wirths, perché «ero la donna di Wirths» (essa lavorava sotto la sua autorità, ed egli si diede molto da fare per proteggerla) e perché «il movimento clandestino del campo [di cui essa faceva parte] viveva sull’odio fra Höss e Wirths». Essa apprese dalla segretaria prigioniera di Wirths, che faceva parte anche lei del movimento clandestino del lager, che Wirths aveva subito chiamato Berlino per servirsi di quell’informazione; e, senza conoscerne le conseguenze, sentì che «era una fortuna per noi che essi stessero lottando fra loro».
Quando un medico SS relativamente amico come Rohde, come si espresse il dottor Jan W., permetteva che ci fosse «ben poca distanza fra lui e i medici prigionieri... e [favoriva l’instaurarsi di uno] spirito di cooperazione fra colleghi», i medici prigionieri dovevano sfruttare quello spirito e al tempo stesso entro certi limiti mantenerlo per rimanere estranei alle selezioni e per continuare a compiere il loro lavoro di medici. Come spiegò il dottor Henri Q.: «Soffrivamo e agivamo nei limiti del possibile... I medici fornivano qualche conforto, credo. C’era il conforto per il paziente e il fatto che egli non era solo, che qualcuno capiva e si sforzava di fare qualcosa per lui, e questo era già molto... Eravamo un gruppo, non solo i [singoli] medici del nostro blocco». Egli poté allora concludere (come nell’epigrafe a questo capitolo) che lui e i suoi amici «rimanevano medici... nonostante tutto».
Gli aiuti dati ai bambini potevano dare un grande contributo alla lotta dei medici prigionieri per mantenere la loro identità di terapeuti. Il dottor Henri Q., per esempio, mi parlò dell’importanza che aveva avuto per lui un bambino ebreo di nove anni proveniente da un ghetto in Polonia, il quale «fece un tale chiasso sull’autocarro che doveva portarlo alla camera a gas che le SS lo salvarono» e lo usarono da allora in poi per le piccole commissioni. Il medico aggiunse orgogliosamente che il bambino era stato nel suo blocco ed «è ancora vivo e ci vediamo spesso... a Parigi». Egli parlò con simpatia persino maggiore di un bambino russo ancora più piccolo («una cosa rara nel campo»), che una volta egli condusse in ambulatorio:
Passai davanti a tutti i blocchi e mi accorsi che tutti gli uomini, più di diecimila, stavano guardando questo bambino. Ero molto orgoglioso di camminare con lui... come se stessi camminando col presidente della Repubblica. C’è un solo presidente e c’era solo un bambino.
a. Ma il dottor D. doveva usare il massimo riguardo verso il suo assistente: una volta, mentre si congratulava con Fischer, che aveva appena compiuto il suo primo intervento alla mastoide sotto gli occhi del maestro, Fischer rispose con irritazione: «Lei si sta prendendo gioco di me come se fossi solo uno studente». E D. commentò con me: «Devo dire che, se si prescinde dal suo aspetto di SS, era veramente un essere umano».
b. Magda V. si riferisce qui al tipo di legame – noto come «sindrome di Stoccolma» – che è stato osservato svilupparsi fra rapitori e ostaggi, un legame in cui può essere un fattore centrale l’incontro condiviso con la morte.
c. Bosch [dal francese boche, crucco] era un termine spregiativo della Prima guerra mondiale per indicare un tedesco, ma qui suggerisce anche una persona alla buona, spontanea.
d. Questa è la versione della conversazione nel ricordo della dottoressa LingensReiner, che la cita anche nel suo libro (vedi pp. 34-35).
XIII
Accettavamo di essere maltrattati da fabbri, barbieri, criminali comuni ecc..., ma che un medico [prigioniero] di cinquant’anni potesse colpire colleghi più giovani nel modo più brutale, e che li mandasse nella camera a gas, questo ci sembrava una mostruosità.
Un medico prigioniero ad Auschwitz
Alcuni medici prigionieri vennero a identificarsi con i medici nazisti e con le autorità del campo in modo abbastanza stretto da essere considerati dei collaborazionisti. Una tale collaborazione poteva essere connessa all’antisemitismo di vari gruppi nazionali e all’antagonismo fra criminali comuni e prigionieri politici, e fra gli stessi ebrei.
Particolarmente forte era il tradizionale antisemitismo polacco. Il dottor Jacob R., un ebreo che conosceva bene gli altri gruppi, mi parlò dei medici polacchi «nazionalisti e antisemiti» e degli inservienti d’ospedale prigionieri, ancora peggiori di loro; questi due gruppi «trattavano molto male gli ebrei..., causando loro grandi sofferenze e persino la morte». Benché qualche ebreo avesse a sua volta avversione per i polacchi, furono i polacchi ad arrivare per primi ad Auschwitz e a occupare posizioni di relativa autorità fra i prigionieri, anche nei blocchi medici. Sebbene i polacchi fossero esposti a gravi sofferenze, anche in considerazione del fatto che i loro intellettuali erano un particolare bersaglio della politica di sterminio, diretta e indiretta, dei nazisti, essi erano «ariani» (anche se slavi) e certamente non erano un’antirazza come gli ebrei. Alcuni polacchi poterono far causa comune con le autorità naziste nell’essere (come si espresse un medico prigioniero) «così antisemiti da non preoccuparsi affatto che degli ebrei venissero gassati o ricevessero delle iniezioni [mortali]», atteggiamento derivante loro dal fatto di «sentirsi una sorta di esseri superiori», rispetto agli ebrei. Perciò molti prigionieri polacchi si inquadrarono senza difficoltà nel clima di violenza contro gli ebrei vigente ad Auschwitz – sotto forma di percosse (a volte mortali) – e alcuni medici polacchi presero l’abitudine di schiaffeggiare o colpire con pugni altri prigionieri, fra cui anche medici ebrei. Anche ebrei in posizioni di autorità potevano a volte «schiaffeggiarsi fra loro»; ma (come si espresse il dottor Erich G.) «per i polacchi o per altri colpire un ebreo non era un problema». Persino quando i loro colleghi polacchi si comportavano «in un modo molto corretto» (come spiegò una sopravvissuta cecoslovacca), i medici ebrei potevano percepire nei loro modi una certa condiscendenza: «Sapevamo che erano antisemiti».
L’intera struttura di Auschwitz – con la sua condanna a morte per gli ebrei – contribuì a una mortale crudeltà verso gli ebrei, come spiegò un sopravvissuto polacco che lavorava in un blocco medico, esprimendosi in parte in difesa dei medici polacchi:
Consideriamo la situazione di un giovane medico o studente di medicina [polacco]. Egli sa che prima o poi il 90 per cento degli ebrei saranno uccisi, e che la stessa percentuale si applica anche ai Muselmänner [in generale]. Egli ha delle quote da rispettare. Se si rifiutasse, non potrebbe aiutare nessuno e dovrebbe morire lui stesso, e un’altra persona verrebbe messa immediatamente al suo posto a fare ciò che egli si è rifiutato di fare... Si diventa indifferenti a certe cose. Come il medico che fa a pezzi un cadavere [che esegue un’autopsia], anche lui finisce con lo sviluppare una certa resistenza.
Questo marchio mortale di Auschwitz intensificò molto il preesistente antagonismo di alcuni medici polacchi verso tutti gli ebrei, compresi i pazienti; e corse spesso voce di polacchi che si diedero da fare per far trasferire i medici ebrei dai blocchi medici in posti, nel lager, dove era probabile che trovassero la morte. Benché questi tentativi abbiano in generale avuto successo, qualche volta furono frustrati da appelli ad altri prigionieri influenti e, almeno in un’occasione, allo stesso dottor Wirths.
A volte un medico ebreo dotato di una certa autorità, come Magda V., poteva parlare francamente a colleghi polacchi: «Guardate, qui siamo tutti uguali... Qui non posso permettermelo [di avere atteggiamenti antisemiti]... Qui siamo tutti nella stessa barca». Come mi spiegò: «[Sapevano che] mi sarei prodigata per i polacchi nello stesso modo che... per gli ebrei, e glielo dissi». E sottolineò che molti colleghi polacchi erano «come si deve», e alcuni addirittura «fantastici», quando si trattava di aiutare qualcuno. Altri medici ebrei dissero che la loro vita era stata salvata da interventi energici da parte di colleghi polacchi. Per lo più però gli ebrei, compresi i medici ebrei, dovettero stare in guardia nei confronti di polacchi dotati di qualche autorità, e badare al diffuso antisemitismo di medici e funzionari polacchi, che contribuì in vari modi a uccisioni di ebrei.
Le lotte fra polacchi ed ebrei si intrecciarono con conflitti profondi fra prigionieri politici e criminali comuni. Questi ultimi causarono molte sofferenze e morti, finché i prigionieri politici non riuscirono gradualmente a prendere il sopravvento (il contingente medico dei prigionieri politici era guidato da un gruppo di comunisti tedeschi trasferiti ad Auschwitz da Dachau, dove avevano avuto stretti rapporti con Wirths, un contatto efficace che riuscirono a mantenere anche ad Auschwitz). La lotta poté diventare violenta, comprendendo accordi in aree mediche del campo (come si espresse il dottor Tadeusz S.) «per mandare... a morte» kapò criminali che avevano ucciso e percosso prigionieri. Col tempo i medici SS presero a favorire i prigionieri politici, in quanto questi contribuivano a mantenere un’attività medica più efficace e in generale un’organizzazione migliore.
Alcuni medici ebrei ebbero dei conflitti fra loro: per esempio, dottoresse più esperte si risentirono quando alla dottoressa V., al suo arrivo ad Auschwitz, fu attribuita un’autorità considerevole, benché avesse completato solo da poco gli studi. Altre capirono (come spiegò la dottoressa Lottie M.) che «questa non è una normale attività medica... e che essa è una buona organizzatrice e [si adopera] in un modo molto abile», utile anche ad altre dottoresse prigioniere. Ci furono anche altri antagonismi fra medici ebrei di nazionalità diverse – i medici francesi, per esempio, sostennero che a loro come gruppo doveva competere la responsabilità di un blocco medico – e casi di risentimento, come quando un medico di un gruppo pensava che un medico di un altro gruppo lo stesse minacciando grazie ai suoi rapporti diretti con Mengele, ossia che tentasse di sfruttare uno stretto rapporto con un medico SS per migliorare la propria posizione.
I medici ebrei erano soggetti a improvvise umiliazioni: Michael Z. fu assegnato al lager degli zingari ma «vi rimase [solo] per un tempo brevissimo perché un decreto emanato proprio allora stabiliva che gli ebrei non avevano il diritto di curare zingari». Inoltre, in certe circostanze (in certi blocchi particolari, e in uno dei primi periodi di Auschwitz) i medici ebrei potevano correre pericoli considerevoli da parte dei loro pazienti «di élite», kapò polacchi e tedeschi. «A volte ci davano una razione quotidiana di botte [come]... ringraziamento per le nostre cure», osservò il dottor Z.; e si chiese: «Quanti professori universitari [ebrei] medici abbiamo visto massacrare dai loro pazienti?».
I medici ebrei dovevano far fronte anche al risentimento dei prigionieri ebrei comuni, che si lagnavano dell’atteggiamento superiore o «impersonale» di alcuni medici ebrei e della loro tendenza a dare ordini bruschi invece di essere un po’ più riguardosi o addirittura qualche volta di sorridere. («Di solito non fucilano nessuno per un sorriso.») E una sopravvissuta ebrea mi disse che un suo figlio piccolo, un gemello, si ammalò. Avendo sentito dire che nel lager c’era un «famoso professore dell’Europa orientale, attraversò il campo col bambino malato ma non riuscì a convincere il luminare a esaminarlo e il bambino morì («Non dico che avrebbe potuto salvarlo, ma non ci provò neppure... Ignorò la sua responsabilità come medico»).
Pur godendo di una posizione privilegiata rispetto agli altri prigionieri ebrei, i medici ebrei condividevano però spesso con loro la sensazione di essere sempre esposti a gravi pericoli, e praticamente da parte di chiunque. Un medico prigioniero riconobbe che fra i polacchi «c’era della brava gente», ma in generale pensava che «i polacchi erano antisemiti, tutti i polacchi», e raccontò di aver loro sentito dire, all’arrivo di trasporti di ebrei: «Per noi polacchi, Hitler ha qualcosa di buono: ci sta liberando dagli ebrei». Pur sapendo che nella resistenza c’erano persone meravigliose provenienti «da tutt’Europa», era convinto che tutti i «prigionieri non ebrei erano antisemiti... solo con sfumature diverse».
Era inevitabile che almeno qualche medico prigioniero varcasse il confine verso quella che era percepita dagli altri come un’attiva collaborazione con le SS. Ci occuperemo di quattro di loro – tre polacchi e un ebreo tedesco –, ciascuno dei quali si identifica con una forma particolare di collaborazione. Le quattro forme di collaborazione cui mi riferisco sono le seguenti: selezioni, interventi chirurgici sperimentali, violenza fisica e «collaborazione da parte di ebrei». Queste quattro forme di collaborazione ci dicono molto non solo sugli uomini stessi ma anche sui medici nazisti che orchestrarono tale cooperazione e sull’ambiente di Auschwitz in cui essa si verificò.
Tutt’e quattro i collaborazionisti di cui ci occuperemo furono uomini, probabilmente per varie ragioni: il maggior numero dei maschi fra i medici prigionieri, la maggiore autorità conferita loro in generale rispetto alle donne, e forse la maggiore capacità delle dottoresse – in quanto donne – di adattarsi in modo più flessibile ad Auschwitz e, specificamente, ai medici SS senza soccombere (o almeno soccombendo in modo meno estremo e meno sovente) alla lusinga di una «posizione di potere» nella gerarchia di Auschwitz.
Adam T. era l’unico fra i quattro medici collaborazionisti ancora in vita. Lo trovai non in Polonia ma in Germania, dove viveva dalla fine della guerra, dopo avere germanizzato persino il suo nome. Il dottor Jacob R. fece eco alle informazioni che mi erano già state fornite su di lui descrivendolo come «un opportunista... e un antisemita», giudizio che R. moderò in una certa misura aggiungendo: «Noi tutti preferivamo aiutare i nostri [il nostro popolo]». Anche il dottor Peter D. considerava Adam T. un antisemita oltre che un uomo «troppo zelante», che «voleva stare dalla parte favorevole del medico [SS] per avere in tal modo una migliore probabilità, come cristiano, di uscire vivo dal lager». Ma, aggiunse: «Con me fu molto cordiale». Un ex prigioniero non ebreo che ebbe modo di osservarlo molto da vicino collocò Adam T. fra quei medici prigionieri «che selezionavano più persone di quante non ne avrebbero selezionato neppure i medici SS». E lo scienziato non medico di cui abbiamo già parlato, anche lui attento osservatore, sintetizzò così: «Adam T. era un nazionalista polacco antisemita rabbioso, con un cattivo carattere. Si irritava molto facilmente. Poteva passare dalla crudeltà alla gentilezza o dalla gentilezza alla crudeltà. Era imprevedibile».
Dopo essere stato ricevuto dalla maggior parte dei sopravvissuti con la cordialità e la simpatia di colleghi interessati al mio lavoro, fui colpito dalla reazione di disagio di Adam T. nell’incontrarmi («Sono cose di tanto tempo fa. Non mi piace parlarne. Ormai sono un vecchio») e dal suo misto di cautela e di atteggiamenti difensivi. Mi trovai dinanzi a un uomo vestito con eleganza che mi riceveva in una casa arredata lussuosamente e che accennò ben presto alla sua grande clinica e alla sua residenza estiva sul Mediterraneo.
Ma mi mostrò anche il numero tatuato sul braccio e mi fece notare quanto fosse basso, volendo significare che era stato deportato ad Auschwitz molto presto e vi era rimasto molto a lungo: ben quattro anni. Mi disse che, membro di un gruppo di resistenza polacco, era stato arrestato essendo stato sorpreso ad ascoltare stazioni radio alleate, che era stato sottoposto a sei mesi di maltrattamenti brutali in una prigione di Cracovia («Ti aspetti sempre... che ogni momento vengano a prenderti per fucilarti»), che al suo arrivo ad Auschwitz le SS lo avevano percosso selvaggiamente sulle mani (procurandogli una frattura a un braccio) e che poco tempo dopo si era ammalato gravemente di tifo. Ricoverato al blocco medico, aveva osservato «il modo di procedere delle SS» (la somministrazione di iniezioni di fenolo e la rimozione dei cadaveri, che poi venivano trasportati via con autocarri); il giorno dopo la sua dimissione, «tutti i pazienti ricoverati in ospedale furono mandati nella camera a gas». Benché egli sottolineasse queste cose a sua discolpa, non c’era alcun dubbio sulla sua iniziazione violenta non solo ad Auschwitz (benché vi avesse lavorato per un po’ anche come manovale) ma anche all’essenza della «medicina» di Auschwitz.
Egli ricordò con una partecipazione emotiva ancora intensa il terrore del periodo iniziale ad Auschwitz: come un gran numero di polacchi morissero ogni giorno in conseguenza di varie forme di brutalità e come ciò fosse in accordo col progetto nazista generale di distruggere l’intellighenzia polacca. Aggiunse poi, in un modo che mi parve strano: «Per la loro strategia, poteva essere una cosa giusta»: strano perché egli sembrava manifestare un’empatia insolita per «la loro strategia».
La sua situazione migliorò molto quando gli fu permesso di lavorare come medico e poi di dirigere un grande blocco medico in uno dei lager principali di Auschwitz. Là egli disse di essere stato assillato da prigionieri politici da lui descritti come «vecchi comunisti tedeschi», «comunisti ebrei», e «comunisti ebrei tedeschi», i quali, a quanto disse, gli procuravano continuamente fastidi tramando contro di lui. Egli sottolineò che alcune di quelle persone stavano ancora accusandolo di cose che non aveva mai commesso (egli si riferiva non solo ad atteggiamenti tenuti nei suoi confronti, ma anche a minacce di portarlo in tribunale).
Jacob R. mi diede un quadro senza dubbio accurato della situazione cui si riferiva il dottor T. Un prigioniero comunista ebreo, che era un funzionario importante in ospedale, disse al dottor R., quando arrivò al blocco, che T. era un antisemita e un fascista e che occorreva contrastarlo, mentre T. si spinse allora molto oltre confidando a R. che era necessario «eliminare certi comunisti» e che, una volta che ci si fosse sbarazzati del funzionario incomodo, il suo lavoro avrebbe potuto passare a lui. Jacob R. ebbe l’impressione che il turbamento da lui manifestato nel rifiutare quella proposta venisse giudicato da Adam T. «molto stupido», che il dottor T. avesse adottato i costumi di Auschwitz in una misura insolita, che «si considerasse come un dio nell’ospedale» e che accettasse senza alcuna riserva «il suo potere assoluto» e ciò che esso comportava. T. non si differenziò molto dai medici nazisti nel compiere interventi chirurgici su prigionieri ebrei «solo per imparare la tecnica operatoria», insistendo per avere l’assistenza di un chirurgo esperto; a parte questo, aveva ben poco interesse per i pazienti e per lui gli ebrei era «come se non esistessero». Per T. «la cosa più importante era che il sistema funzionasse senza intoppi» e che egli potesse conservare il suo potere e i suoi privilegi.
Parlandomi dei medici SS, Adam T. si espresse dapprima in tono spregiativo dicendo che erano «solo grandi nazisti» e che non avevano «alcuna idea della medicina». Nel corso della nostra intervista, però, i suoi accenni nei loro confronti manifestarono una simpatia sempre crescente. Egli raccontò di come lo avessero aiutato a sostituire persone che non avevano alcuna conoscenza della medicina con «veri medici», ma come in seguito uno di loro, assieme a un sottufficiale delle SS, fosse stato ingiustamente arrestato. Parlando con simpatia dei medici SS egli stava in effetti difendendo il proprio comportamento. Per esempio, sostenne di aver detto ai medici SS durante una selezione che «certe persone saranno in grado di lavorare fra due settimane» ed essi avrebbero risposto: «Bene, allora possono restare». Il medico SS «diceva sempre sì» a tali richieste del dottor T. Inoltre, non era il medico SS bensì il comandante del campo, insistette T., a richiedere le selezioni, e «il principale responsabile delle uccisioni era la Sezione politica [che non aveva] niente a che fare con i medici [SS]». I medici SS, egli sostenne, «erano molto cordiali [e] discorrevano tranquillamente con noi» e, lungi dall’esercitare pressioni sui medici prigionieri per coinvolgerli nelle uccisioni, erano orgogliosi del miglioramento delle attrezzature mediche e delle statistiche mediche nei loro lager. In ogni caso, le «liquidazioni» venivano eseguite da personale non medico e «i medici non vi avevano molto a che fare». Inoltre, i medici SS erano sottoposti a pressioni perché si uniformassero alle direttive: «Le SS potevano uccidere anche delle altre SS» e «io dico sempre che non è facile essere un eroe».
In questo modo Adam T. mescolò verità, semiverità e falsità nel presentare una giustificazione dei medici SS e dei medici prigionieri che cooperarono con loro. Questa difesa comprese anche elementi di critica nei confronti delle vittime: Adam T. sottolineò infatti la difficile «situazione psicologica» degli ebrei che, avendo condotto in precedenza una vita confortevole, sviluppavano ora una «nevrosi da carcere» e, infine disperando, commettevano suicidio lanciandosi contro i fili spinati e facendosi sparare addosso dalle sentinelle sulle torri di guardia.
T. tentava di presentarsi come un terapeuta, come qualcuno che assolveva la missione di «mantenere in vita la gente» in quel mare di morte, e che cooperava strettamente con i colleghi prigionieri per improvvisare attrezzature e fare tutto il possibile per i pazienti.
Egli lasciò però trasparire uno stato di tensione quando passammo a parlare delle selezioni; e spiegando come i pazienti venissero mandati via quando il suo ospedale diventava sovraffollato, usò un eufemismo per le camere a gas che non avevo mai udito prima: «l’ospedale centrale». Egli usò quell’eufemismo in un modo che tendeva a giustificare le selezioni, mettendole sullo stesso piano – com’era stato detto di fare ai medici SS – del triage medico che si fa al fronte, la selezione che il medico militare era costretto a operare in situazioni di emergenza, trascurando i feriti più gravi a vantaggio di quelli che avevano qualche speranza di poter essere recuperati. T. parlò della situazione straordinaria che si verificò nell’unica occasione in cui il campo era stato bombardato, quando cinquecento persone morirono e un migliaio rimasero ferite:
I feriti affluivano al nostro ospedale. Alcuni stavano molto male. Le SS dicevano: «Non è possibile guarire queste persone. Dovete trasferirle all’ospedale centrale». Per le SS non c’era alcun problema. Era la stessa situazione che si verificava al fronte. Se un soldato tedesco aveva una frattura esposta, una gamba amputata, se guariva in tre o quattro settimane veniva mandato a lavorare in un ufficio. Ma nei casi in cui non si poteva far niente per loro, dovevano morire. Le SS si comportavano così con i loro stessi soldati. Era la guerra: una situazione molto difficile.a
Oltre all’esagerazione e alle probabili falsità contenute in questo racconto, esso ci presenta le autorità di Auschwitz come un gruppo sottoposto a pressioni di ogni genere, che tentava di fare del proprio meglio in una «durissima» situazione del tempo di guerra. Il dottor T. poté così aggiungere l’affermazione altrettanto dubbia che «di solito, se qualcuno veniva mandato nelle camere a gas, era molto malato... e non aveva alcuna possibilità di vivere nel campo».
Nonostante la sua generale simpatia per i medici SS, il dottor T. condannava Wirths, ritenendolo in gran parte «responsabile dell’intera situazione catastrofica... [in cui] essi condussero questo sterminio dal punto di vista medico». La sua irritazione rifletteva probabilmente sia un residuo di timore nei confronti dei medici SS («La sera [potevano] mandare in ufficio un pezzo di carta in cui si diceva che [qualcuno] doveva essere ucciso il giorno dopo») sia, fatto più importante, il suo ricordo dei legami di Wirths col gruppo dei prigionieri politici comunisti che egli considerava suoi nemici. A un certo punto, però, parlando di Wirths egli si addolcì notevolmente, dandomi l’impressione che stesse associando inconsciamente il medico capo delle SS al proprio dilemma morale: «Io mi chiedo, perché Wirths stava ad Auschwitz? Poteva andarsene. Avrebbe potuto chiedere di andare al fronte. Ovviamente il comandante avrebbe potuto rispondergli: “Non ho nessun altro. Ho bisogno di lei”».
Il dottor T. sottolineò i suoi frequenti contatti con ebrei nelle città tedesche in cui era vissuto dopo la fine della guerra. Un medico prigioniero, commentando gli estesi contatti di T. con la comunità ebraica, disse con una punta di garbato sarcasmo: «Ho sentito dire che è diventato uno Tzodik», la parola ebraica per «santo». Questo voltafaccia, assai poco convincente per gli ebrei sopravvissuti, si inquadrava nell’adattamento di T. dopo la guerra.
Un altro superstite ebreo, Isaac K., che aveva lavorato con funzioni non mediche nello stesso ospedale, confermò il chiaro antisemitismo di Adam T., ma riconobbe che a volte, quando gli era stato richiesto, aveva aiutato a salvare la vita di qualche prigioniero ebreo, anche se di solito lo aveva fatto in cambio di un compenso (cibo, denaro, indumenti o qualsiasi altra cosa). K. biasimò T. per avere eseguito selezioni – cosa che fece a quanto pare in casi in cui il sottufficiale delle SS si sottrasse a questo compito –, pur aggiungendo che, all’interno della struttura di Auschwitz, «qualcuno doveva pur fare le selezioni a causa del sovraffollamento dell’ospedale». K. voleva dire che T. si era spinto oltre ciò che si chiedeva a un medico prigioniero, persino ad Auschwitz. K. fece un’accusa ancora più grave: «Abbiamo le prove che egli collaborò con le SS» riferendo su un tentativo di fuga di tre prigionieri ebrei, che furono ben presto catturati e, secondo l’uso dominante ad Auschwitz, impiccati pubblicamente. K. proseguì dicendo che T. aveva imparato tecniche chirurgiche da medici ebrei, e aggiunse che «trattava i medici con grande cordialità» e che lui stesso era rimasto in rapporti molto amichevoli con T.: «[Egli poteva essere] molto, molto cordiale... ma io sentii fin dal principio che non potevo fidarmi di lui».
Le parole di K. suggeriscono che nel dottor T. fosse presente il tipo di sdoppiamento che io ho identificato nei medici nazisti (e di cui ci occuperemo più avanti in particolare). Il misto, presente in Adam T., di nazionalismo polacco di destra e di antisemitismo, congiuntamente al suo atteggiamento di onnipotenza in risposta alla sua opprimente angoscia di morte, lo condusse a sviluppare un «sé di Auschwitz molto simile a quello di un medico SS. Il dottor R. mi fece osservare che non si trattava tanto di «identificazione con l’aggressore» (nella terminologia psicoanalitica) quanto di identificazione con la struttura generale di autorità di Auschwitz, un’identificazione che il dottor T. riuscì per metà a mantenere e per metà a rovesciare negli anni successivi alla guerra. Ad Auschwitz, però, tale forma di adattamento gli permise di entrare direttamente nel rovesciamento di terapia-uccisione compendiato dalle selezioni.
Il secondo dei tre medici polacchi, Władysław Dering, eseguì crudeli interventi chirurgici sperimentali su internati ebrei, interventi che divennero molto noti per il fatto che Dering divenne il querelante in uno straordinario processo per calunnia che fu celebrato a Londra nel 1964.1
Dering, che era stato arrestato a causa delle sue attività nel movimento clandestino polacco, arrivò ad Auschwitz molto presto (il 15 agosto 1940) e fu duramente malmenato dalla Gestapo. Ad Auschwitz fece dapprima un lavoro fisico molto duro, dopo di che divenne infermiere, prima di affermarsi come uno dei principali medici polacchi, che godette «inizialmente di buona fama» fra i prigionieri.2 Durante questa prima fase egli aiutò molte persone, specialmente suoi connazionali, e fu riconosciuto dai prigionieri e dai medici SS come un chirurgo insolitamente abile.
In un primo caso importante, un medico tedesco gli disse di praticare a un paziente un’iniezione di fenolo. Nella versione da lui fornita in seguito al processo sostenne che, avendo scoperto la natura della sostanza contenuta nella siringa, si rifiutò di fare l’iniezione. Un medico prigioniero testimoniò però, in seguito, che Dering praticò effettivamente l’iniezione su ordine del dottor Entress, senza però sapere che cosa stava iniettando. Vedendo il prigioniero morire quasi subito, Dering «si spaventò e dichiarò che non avrebbe mai più fatto iniezioni».3 Comunque stiano le cose (io sono incline a credere alla seconda versione), Dering rimase senza dubbio confuso e atterrito da quell’esperienza, la quale potrebbe nondimeno essergli servita per varcare la soglia che immetteva nel mondo dell’atrocità.
Nel 1943 egli ricevette un’autorità senza precedenti per un medico prigioniero quando Wirths lo nominò anziano del blocco nell’ambulatorio, facendo di lui non solo il medico prigioniero capo, ma anche uno dei principali kapò. Durante questo periodo, egli fu chiamato da Horst Schumann (con l’aiuto di Wirths) a compiere interventi chirurgici in connessione con esperimenti di sterilizzazione. Dering asportò ovaie e testicoli a circa duecento prigionieri ebrei dopo che questi organi erano stati sottoposti a radiazioni, mettendoli a disposizione del patologo per accertare se la radiazione fosse stata efficace. Egli somministrò l’anestesia spinale in modo rozzo e doloroso (anziché seguire il procedimento usuale di anestetizzare prima il punto in cui si praticava l’iniezione principale), su pazienti spesso immobilizzati a forza. Le operazioni venivano eseguite senza adottare alcuna misura di sterilizzazione per le mani e gli strumenti, erano condotte con grande celerità e seguite poi da un procedimento di sutura frettoloso e rozzo. L’intero intervento durava circa dieci minuti. (La dottoressa Wanda J. ricordò che – quando si era opposta alla richiesta di Schumann di compiere le stesse operazioni, adducendo come pretesto la mancanza delle attrezzature chirurgiche – il medico nazista le aveva detto: «Le mostrerò un chirurgo che le farà in dieci minuti ciascuna».)
Benché la dottoressa J., che aveva conosciuto Dering ai tempi in cui entrambi studiavano medicina in Polonia, sapesse che egli «non aveva molta simpatia... per gli ebrei», si rallegrò dapprima nell’apprendere che egli era l’anziano del blocco dell’ambulatorio, pensando «Mi aiuterà». Ma Dering respinse la sua richiesta di cibo per pazienti molto malati perché pensava – secondo lei – che «noi [ebrei] siamo condannati a morire».
Essendole stato chiesto di tranquillizzare le giovani donne che dovevano essere operate da Dering, la dottoressa J. ebbe modo di assistere a molto di ciò che accadde. Essa mi raccontò con una certa amarezza che, durante un’operazione, aveva chiesto a Dering in polacco: «Si rende conto di quel che sta facendo?». Dering le rispose: «Certo, devo asportare le ovaie... perché, sa, c’è qui Schumann». La dottoressa J. aggiunse che «egli faceva dieci ragazze in un giorno... un pomeriggio», in condizioni che erano semplicemente «settiche» (cioè infette e non asettiche). Occupandosi successivamente della terapia di queste donne, essa osservò l’estesa distruzione di tessuto e l’infezione conseguente alla combinazione di raggi X profondi, una rozza tecnica chirurgica e le condizioni generali di Auschwitz. Essa dovette quindi lottare non solo per mantenere in vita queste pazienti, ma anche per trovare modi per proteggerle da accurati esami ufficiali giacché, essendo esse «portatrici di segreti» (Geheimnisträger: in questo caso segreti concernenti gli esperimenti chirurgici), erano sempre esposte al pericolo di essere inviate nelle camere a gas.
Altri medici prigionieri furono testimoni del crescente abbrutimento di Dering. Il dottor Jacob R. raccontò che una volta, mentre facevano assieme il giro di visite, Dering guardò una paziente da lui operata e osservò: «Grande sterilizzazione»: un doppio senso intenzionale, giacché la stessa espressione si riferiva, in medicina, alla scoperta di procedimenti sterili per prevenire le infezioni. Dering si fece anche una borsa per il tabacco con lo scroto tolto a uno dei prigionieri ebrei da lui operati, e a volte lo mostrò ad altri internati.4
A proposito dell’antisemitismo di Dering, il dottor R. riferì che, nello stesso giorno in cui fecero il giro in corsia assieme, Dering gli disse: «Vede che quel che si sta facendo agli ebrei non è molto estetico, ma è l’unico modo, l’unica soluzione».
Si pensava che Dering avesse comunicato alla Sezione politica informazioni su altri prigionieri. Egli si servì della sua influenza per far mandare nella camera a gas, senza passare neppure per la formalità di una selezione, certi prigionieri ebrei che non gli piacevano, fra cui almeno un medico e un’infermiera.
In premio per la sua collaborazione, Dering fu rimesso in libertà, e passò poi a lavorare nella clinica di Carl Clauberg (l’altro medico di Auschwitz impegnato nella sterilizzazione sperimentale) in Germania. La dottoressa Wanda J. vide partire Dering, che portava con sé due valigie e sembrava in buona forma. Come essa disse: «Era in qualche modo una specie di tedesco, un Volksdeutsch [tedesco etnico]».b
Dopo la guerra Dering tornò in Polonia, ma ben presto fuggì in Inghilterra temendo di poter essere trascinato in tribunale per i suoi trascorsi ad Auschwitz. Arrestato, fu detenuto per diciannove mesi in una prigione britannica, finché fu presa la decisione di non estradarlo o deportarlo. Lavorò in Africa per dieci anni come medico nel British Colonial Medical Service, dopo di che tornò a Londra, dove praticò la professione nell’ambito del National Health Service.5
La sua tranquilla vita di medico fu interrotta in modo clamoroso nel 1959 dalla pubblicazione del romanzo Exodus dello scrittore ebreo americano Leon Uris. Uris parlò del Blocco 10 di Auschwitz, dove i medici nazisti «usavano donne come cavie e dove il dottor Schumann sterilizzava per mezzo della castrazione e dei raggi X e Clauberg asportava ovaie, e il dottor Dehring [sic] eseguì 17.000 “esperimenti” chirurgici senza anestesia».6 Sentendo il bisogno di discolparsi agli occhi di suo figlio e della sua seconda moglie (si diceva che la prima avesse divorziato da lui dopo avere appreso ciò che egli aveva fatto ad Auschwitz), Dering fece causa per calunnia a Uris e all’editore e allo stampatore britannici del romanzo. Ne seguì un processo straordinario in cui gli esperimenti nazisti di sterilizzazione e il rapporto avuto con essi da Dering furono rivelati da tre fra le principali dottoresse prigioniere ad Auschwitz, due delle quali ebree, oltre che da vittime sopravvissute a tali operazioni, fatte venire a Londra a testimoniare. Le dottoresse prigioniere ebbero una parte importante nel dibattimento: oltre a fornire una testimonianza sui crimini di Dering, esse presero infatti contatti con donne che erano state operate e le indussero a partecipare al processo, e si adoperarono inoltre per rendere possibile l’invio a Londra di documenti chirurgici conservati nel Museo di Auschwitz. Questi documenti, in conformità con la passione dei tedeschi per l’ordine, contenevano (secondo una di queste dottoresse) «il numero delle giovani donne... operate da lui [Dering]... [che cosa] egli fece loro, e il numero dei soggetti di sesso maschile: in questo libro non mancava proprio nulla».
Al processo, due medici polacchi che erano stati prigionieri ad Auschwitz testimoniarono a favore di Dering, parlando soprattutto degli sforzi che egli aveva fatto per salvare la vita a loro e ad altri durante i primi anni di Auschwitz. Un altro medico polacco prigioniero ad Auschwitz testimoniò contro di lui. Ma la testimonianza delle tre dottoresse, e ancor più quella delle vittime dei suoi interventi chirurgici, fu schiacciante e decisiva. Il verdetto fu tecnicamente favorevole a Dering come querelante a causa delle imprecisioni contenute nel romanzo di Uris circa il numero delle operazionic e l’uso dell’anestesia. Ma, al modo dei britannici, egli ottenne solo un risarcimento di «mezzo penny», equivalente a una grave condanna morale. Non molto tempo dopo il processo, Dering si ammalò e morì.7
Con riferimento al comportamento generale di Dering nel campo, Jacob R., nella sua qualità di medico prigioniero ebreo, fece un’osservazione semplice e precisa: «All’inizio del 1943 egli era ancora molto sottomesso. Era un Häftling [detenuto] servile. Ma... cambiò: divenne sempre più un camerata con i medici SS».
Dering passò così dal terrore al servilismo, e infine all’identificazione con l’ambiente di Auschwitz e specialmente col potere dei medici sulla vita e la morte: un passaggio possibile per lo più solo a non-ebrei, specialmente se erano fortemente antisemiti, e ancor più se erano tedeschi etnici.
Zenon Zenkteller era un medico prigioniero polacco che divenne tristemente famoso per le violenze perpetrate sui medici prigionieri ebrei che lavoravano sotto di lui. Zenkteller, che fu l’unico di questo gruppo a essere processato dopo la guerra, fu riconosciuto colpevole e condannato al carcere.
Alexander O., un medico ebreo che aveva lavorato sotto di lui, chiarì che fra loro «non ci fu mai alcun rapporto fra colleghi» e che «egli era un nemico, un nemico congenito», e continuò dicendo, con uno humour opportunamente caustico:
Ad alcuni... piacciono gli insetti. A me piacciono i cacti. A lui [piaceva] picchiare... Il dottor A. viveva – userò l’espressione tedesca – wie Gott in Frankreich [come Dio in Francia, ossia faceva una vita da papa], ma orinava ogni ora. Noi [un gruppo di medici che dovevano fare un duro lavoro manuale] eravamo inginocchiati o seduti perché non riuscivamo più a stare in piedi, stremati per la fame e deboli com’eravamo... Egli andava a orinare fuori, sul muro del blocco, di solito a sinistra... Orinava fuori perché, ogni volta che andava fuori, noi stavamo lavorando, seduti o inginocchiati, e quindi poteva darci delle pedate nel sedere. Mentre usciva e rientrava, distribuiva calci nella schiena. Ma quelli che erano un po’ fuori dal suo percorso non ricevevano calci perché egli non voleva allungare il suo cammino. Per poter rifilare un calcio era disposto a fare solo due o tre passi. Quando uno di noi era troppo lontano, si limitava a rivolgergli complimenti come: «Buco di culo!, Maiale di merda!»... Non ho mai visto Zenkteller andare a orinare senza tirar calci nella schiena a tutti coloro che si trovavano nel suo raggio d’azione.
Il giudizio di questo medico ebreo era molto chiaro (Zenkteller «era l’unico medico [prigioniero] che picchiasse, insultasse senza ragione..., l’unico medico che eliminasse, perseguitasse, facesse il male per il male») e la rabbia di O. era tale che, incontrando il dottor Zenkteller subito dopo la liberazione in un ospedale, considerò seriamente l’opportunità di ucciderlo («Le assicuro che fui trattenuto dallo strozzarlo solo dal timore di essere sorpreso e licenziato»).
Altri medici prigionieri concordarono essenzialmente con questo giudizio. Essi si resero conto anche che Zenkteller aveva delle turbe psichiche: egli era, come si espresse un medico prigioniero, «strano» e «altamente instabile», e la sua abitudine di percuotere colleghi e pazienti era un aspetto dei suoi «episodi di violenza». Quest’instabilità era in parte l’inevitabile distorsione o contraddizione intrinseca alla vita ad Auschwitz: nel suo caso questa contraddizione si esprimeva in un’alternanza di violenza e di comportamento rispettabile. Quando un altro medico prigioniero si ammalò gravemente di tifo, il dottor Zenkteller fu il primo a tentare di farlo ricoverare in un blocco «ariano», dove aveva migliori probabilità di sopravvivere; anche se il tentativo fallì, il fatto che il malato fosse stato portato in quel blocco gli valse una migliore considerazione, cosa che gli permise di non essere mandato nella camera a gas in occasione di una successiva selezione.
Fondamentalmente, però, come continuò a dire l’altro medico prigioniero, Zenkteller «fu un fedele servitore dei medici SS». Benché lo stesso Zenkteller «fosse abbastanza potente per poter decidere sulla vita e sulla morte di ogni internato, persino dei principali fra i medici prigionieri», verso i medici SS «la sua sottomissione era del cento per cento».
La storia di Zenkteller assomiglia, sotto molti aspetti, a quelle di Adam T. e di Władysław Dering: una combinazione di nazionalismo polacco e di antisemitismo; il terrore iniziale e il quasi cedimento fisico e mentale in risposta al trattamento brutale subito; l’adattamento per mezzo di un atteggiamento servile alla gerarchia nazista e al comportamento omicida dei nazisti verso i prigionieri; e poi lo sviluppo di una serie di mezzi strutturali e psicologici per perpetuare il proprio potere personale e la propria onnipotenza. Zenkteller si differenzia però dagli altri due collaborazionisti per le sue frequenti manifestazioni di violenza fisica e per il suo comportamento generalmente sadico. Vedremo più avanti che un tale sadismo è inseparabile da un senso di onnipotenza e ha a che fare col superamento delle proprie lotte col timore della morte e della mutilazione. Ma comunque vogliamo intendere queste correnti psicologiche e sociali, dobbiamo però riconoscere la misura in cui l’ambiente di Auschwitz favorì la loro fusione in un processo autonomo che trasformò almeno qualcuno dei medici prigionieri in attivisti al servizio dei medici nazisti nella pratica dello sterminio.
L’unico medico ebreo che, a quanto mi consta, possa essere incluso in questa categoria è Maximilian Samuel, un distinto ginecologo accademico a Colonia.8 Egli era stato anche un ardente nazionalista tedesco, insignito della Croce di Ferro al merito militare nella Prima guerra mondiale e aveva operato in un movimento contro l’Occupazione francese a Colonia. Probabilmente per queste ragioni, era arrivato ad Auschwitz assieme a istruzioni di riservargli una speciale considerazione; e pur avendo sessantadue anni, non fu selezionato per la camera a gas.
Lavorò prima alla Buna, dove almeno un medico prigioniero che si era ammalato ricorda di avere ricevuto da lui premurose cure mediche. Poco dopo, però, fu trasferito nel Blocco 10, dove, al crescere del suo coinvolgimento negli esperimenti su donne colà condotte, ebbe modo di trarre vantaggio dalla sua competenza come ginecologo. Una delle sue attività principali fu l’asportazione chirurgica della cervice uterina in un numero considerevole di donne che facevano parte del «progetto di ricerca» su escrescenze precancerose condotto da Eduard Wirths (vedi pp. 532-533). Alcune prigioniere sostennero che egli era un po’ più riguardoso dei medici nazisti che eseguivano la stessa operazione, in quanto asportava una parte minore della cervice, ma la maggioranza dei medici prigionieri fu impressionata dall’estrema «diligenza» di Samuel nel collaborare strettamente con i nazisti. Inoltre, egli denunciò ai medici nazisti un altro medico prigioniero che si era rifiutato di continuare a praticare l’anestesia per le sue operazioni. Secondo un’altra testimonianza, Samuel avrebbe riferito su prigionieri alla famigerata Sezione politica.
Fra le persone da me intervistate che conobbero Samuel, soltanto una fece un commento positivo. Una donna che era stata sottoposta a procedimenti di sterilizzazione nel Blocco 10 ricordò che era stato «gentile con noi», che aveva parlato cortesemente con le vittime ebraiche e che aveva tentato di rendere il meno possibile dolorosi tutti i procedimenti che lui e altri eseguivano su di loro. Può darsi però che essa avesse desiderato di vedere un medico ebreo in una luce così favorevole. Senza dubbio la maggior parte degli ex internati ad Auschwitz con cui io ebbi modo di parlare, ebrei e no, ricordavano Samuel come arrogante o patetico, o l’una e l’altra cosa assieme.
Essi riconobbero anche che era un uomo distrutto. Sua moglie era stata uccisa quando erano arrivati ad Auschwitz. E la loro figlia diciannovenne era stata, invece, selezionata per il lavoro; era convinzione diffusa che le attività di Samuel facessero parte dei suoi sforzi disperati per salvarle la vita. Egli giunse al punto di scrivere una lettera dal lager allo stesso Himmler, richiamandone l’attenzione sui meriti da lui conseguiti nella Prima guerra mondiale e chiedendo che venisse risparmiata sua figlia. (La lettera era stata lasciata aperta nell’ufficio del blocco, dove era stata vista da un altro medico prigioniero.)
Poi, a metà degli esperimenti, Samuel fu improvvisamente messo a morte. Le congetture fatte dai sopravvissuti sulla causa della sua uccisione furono molto diverse fra loro. Alcuni sottolinearono che le estese lesioni della pelle o eczemi da lui sviluppati (attribuite da alcuni sopravvissuti alla sua condizione di estrema tensione e paura) lo avevano reso troppo malato per poter essere ancora utile, o che avevano reso la sua faccia «repellente» per le SS. Altri sopravvissuti parlarono della sua litigiosità e dei suoi conflitti con Clauberg; altri ancora pensavano che, con l’arrivo di una dottoressa ebrea più giovane, Wanda J., che aveva assunto la direzione del Blocco 10, egli era diventato superfluo. Soprattutto, però, i prigionieri ritennero che egli avesse visto e avesse fatto tanto da aver raggiunto la condizione pericolosa di «portatore di segreti». «Doveva sapere troppo, o forse aveva parlato con qualcuno con cui non avrebbe dovuto parlare»: così si espresse un altro medico prigioniero.
Con considerevole sofferenza personale, Hermann Langbein ha raccontato ancora un altro episodio:
Un giorno il medico dirigente mi aveva chiesto quale fosse la mia opinione su Samuel. Già in precedenza il dottor Wirths mi aveva chiesto alcuni pareri in merito a funzionari dell’ospedale senza indicarmi il motivo della sua richiesta. Potei constatare a posteriori che voleva conoscere la mia opinione ogni volta che aveva sott’occhio qualcuno cui intendeva conferire una funzione direttiva. Dato che, con tutto quello che sapevo su Samuel, avevo delle remore ad aiutarlo a raggiungere una posizione influente, io avevo risposto in modo assai riservato. Il dottor Wirths mi disse che neanche lui aveva una migliore opinione di Samuel e poi andò avanti a dettare qualcos’altro. Poco tempo dopo il dottor Samuel venne condotto a Birkenau dal sergente che era agli ordini del medico dirigente, Friedrich Ontl. Alla segreteria fu ordinato di compilare il suo avviso di decesso.
Langbein affermò: «[Dopo altre riflessioni], arrivo alla conclusione che non avrei potuto reagire in altro modo». Egli continuò nondimeno a chiedersi «se involontariamente sono stato corresponsabile della morte di quest’uomo».9
Continuò caratterizzando Samuel come il tipo di prigioniero ad Auschwitz, comune specialmente fra i prigionieri più anziani, che «nonostante la sua grande intelligenza ed esperienza di vita, nonostante la conoscenza della macchina di sterminio di Auschwitz, si rifiutò di accettare la realtà e... nutrì la folle speranza di riuscire a creare un’eccezione per se stesso».10 L’eccezione, come sappiamo, concerneva la sopravvivenza della figlia. Molta importanza aveva però anche il forte senso che Samuel aveva di se stesso come tedesco e, in quanto tale, come connazionale dei nazisti e collega dei medici SS: un’identità cui egli poté appellarsi ad Auschwitz nel tentativo di salvare sua figlia (che fu uccisa anch’essa) e anche di salvare se stesso.
Se c’è da dire un’ultima parola sui medici prigionieri che collaborarono con i nazisti, la cosa migliore è quella di lasciar parlare Jan W. La risposta prudente di questo medico polacco, quando gli fu chiesto di esprimere un’opinione sulle azioni di Dering e di Samuel, riuscì a trasmettere in parte la complessità delle verità morali di Auschwitz, assieme al senso della propria considerevole umanità:
È difficile esprimere un giudizio sul comportamento degli internati. È difficile accusare gli ebrei del Sonderkommando di avere aiutato a uccidere i loro confratelli ebrei spingendoli nelle camere a gas. Essi fecero queste cose in condizioni di pressione che li privavano della loro volontà. Ci furono però occasioni in cui qualcuno si spinse oltre il limite di ciò che ci si poteva attendere da lui – in cui fece più di quanto gli veniva domandato o richiesto –, in cui eseguì determinate funzioni con una soddisfazione sadica o fece addirittura certe cose prima di avere ricevuto alcun ordine, prevenendo in tal modo i nazisti. Queste cose possiamo considerarle crimini...
Forse il caso del medico è un po’ diverso perché i medici hanno un’etica professionale da rispettare, e perché i medici hanno avuto un’istruzione superiore. Ma i casi di Dering e di Samuel sono diversi... Dering ottenne una certa posizione nel campo... Da Dering ci si potrebbe attendere una certa capacità di manovra che gli consentisse di non farsi coinvolgere in certi tipi di operazioni... Quanto a Samuel, era un ebreo, cosa che nel lager significava una persona condannata a morte al 100 per cento. Perciò egli aveva il diritto di prolungare la sua vita: una settimana dopo l’altra, un mese dopo l’altro.
a. A proposito dell’«eutanasia» praticata sui soldati tedeschi, vedi p. 203.
b. Sono venuto a conoscenza solo di un altro caso di un medico prigioniero, anche lui polacco, che sia stato liberato da Auschwitz. Per poter essere liberati era evidentemente indispensabile identificarsi come tedeschi etnici.
c. Il numero totale di 17.000 interventi chirurgici citato nel romanzo era stato riferito a quanto pare da un medico prigioniero che aveva sentito Dering vantarsi di aver compiuto quel numero di interventi ad Auschwitz, per lo più non connessi alla sterilizzazione sperimentale. Possiamo quindi congetturare che l’estrema imprecisione di questo numero fosse conseguenza a un tempo della vanagloria di Dering e di un ambiente così duro come quello di Auschwitz, in cui qualsiasi numero di atti delittuosi, di uccisioni o di operazioni criminali poteva sembrare plausibile.
XIV
Ma invece di farle a fini medici, era per uccidere... Era qualcosa di molto simile a una cerimonia medica... Mettevano una cura grandissima nel mantenere tutta la precisione di un procedimento medico, ma con lo scopo di uccidere. Questo era ciò che turbava di più.
Un medico prigioniero ad Auschwitz
Fra i metodi di uccisione praticati ad Auschwitz quello più vicino alla medicina era l’iniezione di fenolo, che vi fu istituzionalizzata abbastanza presto. Un paziente veniva condotto in una stanza per la terapia, dove un medico o (nella maggior parte dei casi) un suo assistente, che indossava un camice bianco, gli somministrava un farmaco usando ago e siringa per l’iniezione. Nel gergo del campo c’erano il verbo attivo spritzen (iniettare [einspritzen], spruzzare) e il participio passato usato in senso passivo abgespritzt, per indicare coloro che avevano subìto l’iniezione, e forme sostantivate equivalenti nel significato di «siringazione» e «fenolizzazione».1
Le iniezioni di fenolo furono associate, nella loro prima fase, all’uccisione medica diretta del progetto «eutanasia». Così il dottor Friedrich Entress, che organizzò le iniezioni ad Auschwitz, testimoniò nel 1947 di aver ricevuto quello che chiamò un «ordine sull’eutanasia» dal dottor Enno Lolling, capo del Servizio medico delle SS per i campi di concentramento, in cui si affermava che «i malati mentali inguaribili, i pazienti di tubercolosi incurabili e le persone permanentemente inabili al lavoro» dovevano essere uccisi. In seguito tale ordine fu esteso a comprendere i «prigionieri malati di cui non era possibile il recupero in quattro settimane». L’ordine arrivò probabilmente alla metà o verso la fine del 1941, quando i nazisti erano alla ricerca di metodi di uccisione efficaci: all’inizio del 1942 almeno duecento prigionieri affetti da tubercolosi erano stati uccisi col fenolo per ordine di Entress.2a
Fu questo, press’a poco, il periodo dell’estensione nei campi di concentramento del programma di «eutanasia» 14f13, e le iniezioni di fenolo erano un mezzo per procedere all’uccisione «in casa», nello stesso luogo in cui erano condotte le selezioni, anziché trasferire le vittime nei centri di uccisione, istituiti per lo più per i malati di mente, in Germania e in Austria. Come nel progetto di «eutanasia» originario, l’uccisione delle persone gravemente malate venne estesa praticamente a tutti coloro di cui si desiderava la morte. In pratica i prigionieri «ariani» ricevevano di solito iniezioni di fenolo solo quando erano gravemente debilitati (ovviamente ci furono delle eccezioni), mentre i prigionieri ebrei erano soggetti a esse già per il semplice fatto di trovarsi nel blocco ospedaliero.
Le iniezioni di fenolo, quindi, precorsero il pieno sviluppo delle camere a gas e furono usate congiuntamente a esse quando, dovendosi uccidere solo un numero relativamente piccolo di persone, la gassificazione era considerata non economica. Per esempio, due ebrei olandesi ai quali era stato iniettato sangue estratto da pazienti malati di tifo, in esperimenti miranti a determinare per quanto tempo i malati di tifo restassero infetti, furono uccisi con iniezioni di fenolo.3 E il dottor Władysław Fejkiel descrisse l’uccisione in questo modo di due giovani zingari ordinata da Mengele, forse perché si trattava di due gemelli di cui gli premeva eseguire l’autopsia.4 Ma l’uccisione di persone ad Auschwitz non era certo sottoposta a regole ferree; e persino quando un piccolo numero di persone erano state scelte per ricevere l’iniezione di fenolo, «se per caso c’era un trasporto che stava andando alla camera a gas, venivano inviate anche loro alle camere a gas».
A partire dal gennaio 1943 aumentarono sempre più le uccisioni di bambini per mezzo di iniezioni di fenolo. All’inizio di quell’anno ben centoventi ragazzi di età compresa fra i tredici e i diciassette anni, provenienti dalla città polacca di Zamość – descritti come bambini i cui genitori erano stati uccisi – furono sottoposti a iniezioni letali di fenolo.b I ragazzi avevano fatto una profonda impressione sui prigionieri, che diedero loro «il meglio di tutto ciò che avevano», riuscendo addirittura a trovare per loro un pallone, finché un giorno venne ordinato loro di spogliarsi nei lavatoi, e si udirono grida come «Perché mi uccide?», seguite dal «tonfo smorzato» di piccoli corpi che cadevano sul pavimento.5
Le iniezioni di fenolo divennero un procedimento standard anche per assassinii politici segreti, fra le cui vittime c’erano internati di Auschwitz come pure persone portate dall’esterno per essere uccise in questo modo. Come si espresse il dottor Jan W.: «La Sezione politica poteva emanare ordini per prigionieri [appartenenti a entrambe le categorie precedenti], da eseguirsi negli impianti ospedalieri, e la responsabilità dell’esecuzione dell’ordine ricadeva sui medici SS».
L’uccisione medica per mezzo di iniezioni non fu affatto limitata ad Auschwitz e, in un certo senso, risaliva alle iniezioni di morfina e suoi derivati nell’«eutanasia» di bambini e in seguito nell’«eutanasia selvaggia» di adulti. Iniezioni di fenolo e di altre sostanze letali erano diffuse anche in altri campi. L’inizio della sperimentazione col fenolo a Buchenwald era stata ordinata da Mrugowsky, il direttore generale dell’Istituto di Igiene delle SS a Berlino, dopo che era stato notato che piccole percentuali di acido carbolico (fenolo) usato come sostanza conservante nel siero avevano causato la morte accidentale di vari soldati tedeschi. Erwin Schuler (alias Ding), medico nel lager di Buchenwald, il quale spiegò che «né lui né Mrugowsky avevano mai visto un caso di morte da fenolo», continuò gli esperimenti, considerati «urgenti per le truppe combattenti».6 Ma anche a Buchenwald il fenolo fu usato principalmente per uccidere prigionieri malati, benché sia stato usato anche per eliminare vari tipi di prigionieri politici. Il dottor Waldemar Hoven testimoniò di essere stato osservato una volta mentre praticava le iniezioni dal collega Schuler: «Egli disse che non le stavo eseguendo correttamente [e] perciò... ne fece alcune lui stesso».7c Sembrerebbe esserci un certo significato psicologico nella progressione dalle presunte richieste militari tedesche (di vita-morte) all’eccidio in massa di membri di un gruppo, o «razza», «pericoloso».
Ad Auschwitz, a partire dal settembre 1941 circa, le iniezioni di fenolo servirono principalmente come punto finale delle selezioni. Quando dei pazienti erano debilitati o un blocco medico era considerato sovraffollato, il medico delle SS che dirigeva il blocco «selezionava un certo numero di prigionieri che venivano... uccisi immediatamente per mezzo di iniezioni di fenolo». Coloro che si trovavano nel blocco medico da un periodo di tempo relativamente lungo erano i più esposti al pericolo, così come i pazienti affetti da tubercolosi (in conformità con l’ordine di Lolling). L’eufemismo «eutanasia» o «uccisione pietosa» si combinava col principio della medicina preventiva, e gli «ebrei sospetti di [diffondere] epidemie» (seuchenverdächtige Juden) dovevano essere distrutti, come disse Rudolf Höss. Un medico prigioniero mi disse che «il dottor Entress decise di combattere il tifo per mezzo di iniezioni di fenolo»; un medico delle SS «decideva se il paziente doveva essere ammesso all’infermeria, se doveva ricevere un’iniezione di fenolo o se doveva essere rimandato nel campo».8 Un altro medico prigioniero mi disse che il medico del lager osservava un gruppo di prigionieri emaciati e prendeva una «decisione fulminea», collocando la scheda del paziente in uno di due gruppi distinti.
Ma più che controllare le epidemie, il diffondersi dell’uso delle iniezioni di fenolo ebbe l’effetto opposto. Hermann Langbein, che lavorava come segretario di Wirths, mi raccontò di avere informato il medico capo di Auschwitz che «la maggior parte di coloro che vengono nell’ospedale non vengono guariti bensì “iniettati” [gespritzt]». Perciò, spiegò Langbein, «se uno ha mal di testa e la febbre [i primi sintomi del tifo] fa tutto il possibile per non dover andare in ospedale... Ecco perché il tifo persiste nel campo». Langbein sapeva che sarebbe stato ascoltato perché conosceva bene la determinazione di Wirths nel combattere l’epidemia di tifo, in seguito a un ordine esplicito in tal senso venuto da Berlino. A Langbein Wirths parve sorpreso e contrariato dalle sue informazioni e quando chiese spiegazioni a Entress, il medico responsabile delle iniezioni di fenolo, ricevette la risposta che le iniezioni venivano somministrate solo a pazienti di tubercolosi incurabili, menzogna che Wirths fu evidentemente disposto ad accettare sulla base della direttiva da Berlino. Infine Langbein riuscì però a dimostrare a Wirths la verità di quanto andava asserendo e in conseguenza di ciò, secondo Langbein, le iniezioni di fenolo diminuirono sensibilmente e infine cessarono del tutto (vedi p. 526).9
Altri sopravvissuti hanno contestato, durante interviste concessemi, l’influenza che possono avere avuto queste conversazioni fra Langbein e Wirths. A quel tempo (verso la fine del 1942) il ritmo delle uccisioni era stato allentato per mantenere al lavoro il maggior numero possibile di prigionieri; e la crescente disponibilità delle camere a gas e dei crematori aveva soppiantato in gran parte le iniezioni di fenolo nelle uccisioni in massa.10 Pur essendo impossibile stimare con precisione l’esatta incidenza di questi vari fattori, possiamo supporre che Langbein abbia avuto una certa influenza proprio perché il suo messaggio a Wirths (di fare qualcosa per metter fine alle iniezioni di fenolo se voleva metter fine all’epidemia di tifo) coincise con la missione di Wirths. (Avremo modo di dire altre cose sulle contraddizioni del medico capo sul tema delle contraddizioni fra terapia e uccisioni nel cap. XVIII.)
La scelta della sostanza letale e della tecnica dell’iniezione ebbe uno sviluppo specifico ad Auschwitz. Qui ci fu anche una considerevole sperimentazione con altre sostanze – benzina, acqua ossigenata, Evipan, acido prussico (cianuro) e aria –, tutte iniettate in vena. Il patologo prigioniero dottor Miklos Nyiszli (vedi pp. 476-478) pensò di avere scoperto del cloroformio nelle sue autopsie di quattro coppie di gemelli fatti uccidere da Mengele, e ritenne che tale sostanza fosse stata iniettata nel cuore.11
In principio il fenolo veniva iniettato in vena, massimizzando in tal modo l’aura medica che circondava l’intero procedimento. Un medico prigioniero polacco non ebreo, Marek P., descrisse vividamente come iniezioni mortali venissero praticate nella stessa stanza di ospedale dov’egli partecipava normalmente a interventi chirurgici:
Questa volta c’era un tavolo preparato con siringhe. Il fenolo era in una bottiglia. C’era del cotone: tutto ciò che serviva per fare un’iniezione. C’era anche dell’alcol, come nelle comuni iniezioni, e lacci emostatici di gomma. C’era solo un tavolo... e la mano destra [della vittima] fu posata su una sorta di tavolo di sostegno [per tener fermo il braccio], come nel caso di una normale iniezione endovenosa; il laccio emostatico fu stretto attorno al braccio per rendere la vena ben visibile, il tutto nel modo solito... Mengele [che eseguiva quest’uccisione] sfregò allora l’alcol sul punto, subito sotto il gomito, da lui usato per l’iniezione, e poi iniettò il fenolo... Lo fece come se stesse eseguendo una normale attività medica.
Non molto tempo dopo la tecnica fu modificata e si passò a iniettare il fenolo direttamente nel cuore. Qualche testimone pensava che il mutamento fosse stato determinato dalla difficoltà in cui ci si imbatteva talvolta nel trovare le vene, ma pare che la vera ragione fosse l’efficacia molto maggiore di un’iniezione intracardiaca diretta. I pazienti che ricevevano l’iniezione in vena potevano rimanere in vita per minuti o persino per un’ora o più. «Per uccidere con iniezioni endovenose ci voleva molto tempo, cosicché inventarono un metodo più veloce»: così si espresse il dottor P. (Secondo qualche testimonianza, molte donne prigioniere continuarono a ricevere l’iniezione in vena, dopo che fu loro detto che avrebbero ricevuto «un’inoculazione».)
Poi si decise la scelta del posto, la «Stanza 1», che divenne tristemente famosa; e in seguito, come mi disse un prigioniero polacco, si passò a usare una stanza dall’aspetto innocuo, usata come laboratorio dall’Istituto di Igiene («Non era una stanza speciale di cui i prigionieri che stavano per ricevere l’iniezione avessero motivo di sospettare»).
«La soluzione acquosa concentrata di fenolo» che fu sviluppata si dimostrò «economica, facile da usare e assolutamente efficace quando veniva introdotta nel ventricolo cardiaco», tanto che un’iniezione di dieci-quindici centimetri cubici nel cuore causava la morte entro quindici secondi. La soluzione veniva messa in una bottiglia simile a un thermos, e colui che eseguiva le iniezioni la versava in una tazzina da cui riempiva la siringa ipodermica. Per queste iniezioni si usava una grande siringa con un lungo ago, e l’esecuzione veniva compiuta «spingendo il lungo ago nel quinto spazio [fra le costole]».12
Al processo celebrato a Francoforte, il dottor Klodziński rievocò la scena: «A volte era ancora mattina, a volte era mezzogiorno quando le persone selezionate venivano portate al Blocco 20. Le persone, che indossavano una camicia, erano avvolte in una coperta e avevano degli zoccoli ai piedi, venivano introdotte nel Blocco 20 da una porta laterale. Quelli che non erano più in grado di camminare venivano trasportati con una barella. Essi venivano messi in un corridoio». Poi veniva dato l’ordine di chiudere il blocco (Blocksperre) e sul blocco stesso scendeva un «silenzio di morte»: «Tutti i pazienti nel blocco sapevano che cosa stava accadendo». Benché Klodziński abbia affermato che «la maggior parte delle persone selezionate non sapessero che cosa le attendeva»,d molti devono aver capito, almeno in parte. Poi l’SDG apriva la Stanza 1:
una stanza che normalmente veniva tenuta chiusa a chiave e le cui finestre erano state dipinte di bianco. A sinistra della porta c’era un piccolo tavolo; su di esso c’era una serie di aghi e siringhe per iniezioni; accanto a questi una bottiglia contenente un liquido giallo-rosato: il fenolo. Nella stanza c’erano anche due sedie, [e] sulla parete [c’era] un gancio a cui era appeso un grembiule di gomma.14
A quel punto due aiutanti ebrei prigionieri introducevano nella stanza una vittima (a volte le vittime venivano introdotte due per volta) e la sistemavano su uno sgabello, di solito in modo che il braccio destro le coprisse gli occhi e il braccio sinistro fosse sollevato di lato in una posizione orizzontale. A volte si metteva la mano destra della vittima dietro la nuca e la sinistra dietro la scapola, e alcune vittime venivano bendate con un asciugamano. Lo scopo era quello di far sì che la vittima stesse col petto in fuori, in modo da garantire la massima accessibilità dell’area cardiaca per l’iniezione mortale, e da non farle vedere che cosa stesse accadendo. (Qualcuno ha detto anche che a volte la vittima doveva mettere la mano destra non sugli occhi, ma in bocca, in modo da soffocare le proprie grida.) La persona che praticava le iniezioni – per lo più l’SDG Josef Klehr – riempiva la siringa dalla bottiglia e poi spingeva l’ago direttamente nel cuore del prigioniero seduto, svuotandovi il contenuto della siringa.15 La maggior parte dei prigionieri cadevano morti quasi immediatamente, ma c’era chi viveva per qualche secondo o addirittura per minuti:
I boia erano soliti gloriarsi delle loro prestazioni: «Tre in un minuto»... E non aspettavano neppure che lo sventurato fosse effettivamente morto. Ancora agonizzante, la vittima veniva presa ai due lati sotto le ascelle e gettata in un mucchio di cadaveri in un’altra stanza di fronte. E la prossima vittima prendeva posto sullo sgabello.
Infine, come osservò il dottor Klodziński: «I cadaveri delle persone uccise col fenolo assumevano poco dopo un colore rosato livido, piccole emorragie si verificavano sotto la pelle, la congiuntiva [la superficie esposta dell’occhio] era iniettata di sangue. La rigidità cadaverica aveva inizio con un ritardo di varie ore».16
Uno degli aiutanti ebrei, Jean Weiss, descrisse la sequenza forse più intollerabile in cui io mi sia mai imbattuto:
Accadde il 28 settembre 1942. Non so quante persone fossero in fila davanti a mio padre. La porta si aprì e mio padre entrò con un altro prigioniero. Klehr parlò a mio padre, dicendogli: «Lei riceverà un’iniezione antitifica». Poi io piansi e dovetti portare fuori mio padre. Klehr aveva molta fretta. Faceva le iniezioni a due prigionieri per volta perché voleva tornare dai suoi conigli [che allevava per hobby].
Il giorno seguente Klehr chiese a Weiss perché avesse pianto, e Weiss glielo disse. Klehr gli rispose che, se lo avesse saputo, «lo avrei lasciato vivere». Quando un giudice, molto tempo dopo, chiese a Weiss perché non lo avesse detto all’SDG, Weiss rispose: «Temevo che Klehr mi facesse sedere accanto a lui [a suo padre] e che ci uccidesse tutt’e due».17
Le scorte di fenolo venivano custodite, come quelle di altri farmaci, nella farmacia di Auschwitz e venivano ottenute nello stesso modo di tutti gli altri materiali medici, per mezzo di richieste a Berlino. Secondo un sopravvissuto che lavorava nella farmacia, la richiesta suonava «Phenol pro injectione (fenolo per iniezione)».
In principio le quantità di fenolo ordinate erano relativamente piccole; in seguito, però, i quantitativi aumentarono a due-cinque chilogrammi al mese. Il farmacista capo, dottor Viktor Capesius, spiegava ai suoi dipendenti che il fenolo doveva essere usato in gocce auricolari in combinazione con la glicerina, un preparato medico legittimo. Come osservò un giudice nel processo di Auschwitz a Francoforte: «Con quella quantità [di fenolo] si sarebbero potute curare le orecchie di interi eserciti».18 La finzione medica, pur non essendo affatto convincente, era nondimeno psicologicamente necessaria e fu mantenuta sino alla fine.
L’uccisione dei prigionieri col fenolo trasformò l’ospedale in un luogo per lo sterminio in massa. La stima di Klodziński che nel lager principale di Auschwitz (dove si verificò la maggior parte delle uccisioni col fenolo) siano state uccise ventimila persone è particolarmente impressionante se si pensa che queste uccisioni ebbero luogo in venti mesi, dall’agosto 1941 all’aprile 1943, ossia in poco più di cinquecento giorni, se si tiene conto del fatto che di solito non si praticavano iniezioni di domenica o nei giorni festivi. Furono quindi eseguite in media da trenta a sessanta uccisioni al giorno, anche se qualche volta il numero poteva salire sino a duecento.
Per un medico le iniezioni di fenolo erano l’esempio più letterale dell’intero rovesciamento terapia-uccisione. Benché la maggior parte delle iniezioni venissero praticate da non medici, esse furono iniziate ad Auschwitz dai medici SS, che conservarono la responsabilità per la loro somministrazione e a volte continuarono a eseguirle personalmente.
Fra i primi a praticare le iniezioni di fenolo fu il dottor Franz von Bodman, descritto da Langbein come un uomo che manifestò una «iniziativa» considerevole in questo tipo di omicidio. Pur essendo rimasto ad Auschwitz solo per breve tempo, Bodman riuscì, come medico capo della guarnigione (Standortarzt), nell’estate del 1942, a fare iniezioni endovenose a molti prigionieri, la cui morte fu lenta e dolorosa. Una volta furono portate al blocco medico due ragazze che erano state ferite con colpi di fucile dalle SS, una allo stomaco e l’altra alla coscia: Bodman proibì a chiunque di curarne le ferite e iniettò personalmente alle ragazze il fenolo.19 È probabile che lo zelo di quest’uomo nell’uccidere col fenolo fosse connesso sia a un impegno particolarmente forte nell’ideologia nazista sia a inclinazioni psicologiche all’onnipotenza e al sadismo.
Anche Josef Mengele praticò in varie occasioni iniezioni di fenolo – per quanto non così regolarmente come Bodman –, col suo misto caratteristico di distacco e di sensibilità (come vedremo alle pp. 472-473). Ma il medico più strettamente associato alle iniezioni di fenolo ad Auschwitz fu Friedrich Entress. Entress era un tedesco etnico polacco (proveniente dai territori orientali perduti dalla Germania a favore della Polonia dopo la Prima guerra mondiale), che aveva studiato in scuole elementari e secondarie tedesche ed era entrato a far parte di gruppi studenteschi filotedeschi e filonazisti all’Università di Poznań. Entrato ben presto nelle SS, subito dopo il completamento dei suoi studi di medicina (in realtà ancor prima di scrivere la tesi di laurea) fu introdotto nel sistema dei campi di concentramento, prima a Gross-Rosen e poi ad Auschwitz, nel dicembre 1941, all’età di ventisette anni. Langbein, con considerevoli giustificazioni, descrisse Entress come «il più famigerato fra tutti i medici dei campi di concentramento».20 Nell’avviare gli esperimenti con varie sostanze che condussero infine alle iniezioni di fenolo, prima in vena e poi nel cuore, Entress massimizzò gli elementi omicidi presenti nelle direttive centrali da lui ricevute. La sua interpretazione di tali direttive seguì in generale quella della Sezione politica, ed egli fu legato personalmente al capo, straordinariamente brutale, di tale sezione, Maximilian Grabner. Come Grabner, Entress fu in conflitto con Eduard Wirths, che arrivò ad Auschwitz nel settembre 1942 e fu favorevole a un’interpretazione meno draconiana di tali direttive.
Per esempio, Wirths poté accettare la direttiva che i pazienti affetti da tubercolosi dovessero essere sottoposti a «trattamento speciale» per il fatto di costituire un pericolo per gli altri e di non poter essere curati ad Auschwitz, ma voleva limitare la politica dell’eliminazione a questi pazienti, mentre Entress e Grabner «interpretarono l’ordine di Berlino come un permesso illimitato a sottoporre a iniezioni tutti i Muselmänner e i pazienti che era improbabile potessero tornare presto al lavoro». Ricordiamo il tentativo di Entress di ingannare Wirths con l’affermazione che il gran numero di pazienti che erano stati sottoposti a iniezioni di fenolo avevano sofferto tutti di tubercolosi. Il 29 agosto 1942 Entress condusse anche una delle massime selezioni che abbiano mai avuto luogo nel blocco medico di Auschwitz: egli inviò nelle camere a gas non solo pazienti malati di tifo ma anche convalescenti, e anche medici prigionieri e altro personale medico che non erano affetti da alcuna malattia.21 Il dottor Jan W. mi disse che «in quel giorno memorabile, Entress liquidò a causa del tifo quasi tutti i pazienti del Blocco 20, oltre a pazienti gravemente malati di altri blocchi – pazienti affetti da diarrea, o che provenivano da chirurgia o dal blocco di medicina interna – e a persone già convalescenti. Questo era il suo... metodo per estirpare il tifo dal campo... Entress fece tutto personalmente, con l’aiuto di inservienti delle SS».
Secondo la stima del dottor W., Entress potrebbe aver selezionato quel giorno un totale di mille-milleduecento persone, di nuovo con un’autorizzazione di Berlino interpretata nel modo più letale possibile. Uno fra i prigionieri uccisi, fra i pazienti convalescenti, era il dottor Bujalski, ex direttore del ministero della Sanità polacco. Il dottor Bujalski aveva chiesto di rimanere nel blocco medico per lavorarvi e, a quanto si racconta, quel giorno Entress gli disse che lo avrebbe mandato in un reparto di convalescenza o in una clinica, e che non si preoccupasse per lo stetoscopio che si era accorto di aver dimenticato mentre saliva sull’autocarro avviato alla camera a gas, perché, una volta arrivato a destinazione, gliene avrebbero dato un altro.22 Si sapeva che Entress non solo era particolarmente «radicale» nel suo comportamento alle selezioni, ma che era coinvolto anche in esperimenti in cui si iniettava a prigionieri sangue estratto a malati di tifo per fare osservazioni mediche sulla trasmissibilità della malattia.23
Entress era spietato nel suo sforzo per accumulare esperienza medica. Egli istituì un reparto per tubercolotici per apprendere, sotto la guida di Władysław Tondos, un medico prigioniero polacco specialista nelle malattie polmonari, la tecnica della collassoterapia (la terapia col pneumotorace artificiale, consistente nell’introduzione d’aria nella cavità pleurica per ottenere il collasso di un polmone affetto da tubercolosi). Solo dopo aver praticato questa tecnica per qualche tempo, Entress ordinò iniezioni di fenolo per l’intero reparto. Si sforzò di acquisire anche esperienza chirurgica sotto la guida di chirurghi polacchi prigionieri, causando danni e morte a vari pazienti. Si legò particolarmente al dottor Władisław Dering, esperto chirurgo e tedesco etnico polacco come lui, e «fece pratica» con Dering durante l’ablazione a opera di quest’ultimo di ovaie e testicoli a prigionieri ebrei nel quadro dell’esperimento di sterilizzazione e castrazione (vedi pp. 339-341).24
Il progetto delle iniezioni di fenolo divenne uno degli sbocchi maggiori del «radicalismo» medico di Entress. Per lo più egli controllò minuziosamente l’esecuzione del progetto. In qualche caso eseguì iniezioni lui stesso; ma l’impressione generale fu che, diversamente da Bodman e, a volte, da Mengele, Entress preferisse delegare ad altri la funzione dell’uccisione diretta.
I medici prigionieri polacchi hanno fornito un ritratto coerente di Entress (per la maggior parte del periodo in cui egli fu ad Auschwitz [1941-1943] ai medici polacchi non veniva ancora permesso di lavorare nei blocchi medici). Un medico polacco parlò di lui come di «una persona molto fredda..., senza espressione. Per esempio, non lo vidi mai ridere... Per me egli è in realtà uno dei medici più crudeli in cui mi sia mai imbattuto in tutta la mia vita».
Anche il dottor Tadeusz sottolineò l’estrema freddezza e l’estremo distacco di Entress («Non mi vedeva neppure. Io ero per lui come l’aria, non una persona») oltre che il pericolo che emanava da lui («Ero estremamente spaventato da lui»).
Jan W. sottolineò l’intensità dell’impegno di Entress nell’ideologia nazista e il suo bisogno di «chiudersi completamente a ogni influenza polacca». Questa combinazione produsse quello «zelo eccessivo» con cui egli trattò i medici prigionieri e altri prigionieri: «Nel campo si trovò faccia a faccia con vecchi amici: polacchi che ora erano prigionieri. Egli non li aiutò né parlò con loro in polacco... e sosteneva di non sapere il polacco. Era freddo persino con colleghi che si erano laureati nella sua stessa università. Voleva finirla il più presto possibile con i suoi vecchi amici».
Il dottor W. pensava che Entress dovesse «presentare questa personalità ferrea» per non prestare il fianco ad alcun sospetto di partigianeria verso i polacchi, e che, se avesse parlato in polacco, «avrebbe potuto apparire troppo amichevole». Questo giovane prigioniero polacco vide in Entress un uomo «troppo totalmente ligio alla sua ideologia», con un atteggiamento di estremo rigore e «senza alcuno scrupolo psicologico» verso i polacchi, i quali «o dovevano essere abbastanza robusti per poter lavorare, oppure dovevano essere liquidati subito».
Per il dottor W., Entress era «un nazista particolarmente fanatico, con lo zelo del neofita», un uomo convinto che il nazismo «fosse l’unica via, e che per quella via fosse necessario sacrificare la vita di altri popoli»; «Egli considerava i tedeschi Übermenschen (superuomini), i polacchi Untermenschen (subumani) e gli ebrei come semplicemente non umani».
Langbein suggerì che «l’aspetto decisamente poco atletico, la natura malaticcia» di Entress potessero aver contribuito al suo bisogno di essere «“più duro”, più crudele, di altri». E il dottor W. credeva che la condizione di Entress come tedesco etnico gli imponesse di «compensare tale carenza con uno zelo omicida esagerato». I giudizi di Langbein e del dottor W. mi parvero psicologicamente esatti. Per un uomo come Entress, l’accettazione del germanesimo e del nazismo possono diventare così intensi e disperati da essere percepiti come l’unica via verso la vita stessa: nel suo caso anche verso la vita come medico. Inoltre, egli non aveva conosciuto alcun’altra possibilità come medico oltre al compito omicida del medico del campo di concentramento. Egli combinò l’assoluta passione ideologica del rovesciamento terapia-uccisione con quello che è probabilmente il caso estremo di ottundimento e di sdoppiamento fra tutti i medici SS. Può darsi che egli abbia creduto coscientemente che il suo comportamento ad Auschwitz fosse l’espressione suprema del vero medico nazista. Nel 1946 Entress fu processato e condannato a morte da un tribunale degli Stati Uniti. La sentenza fu eseguita mediante impiccagione.
I prigionieri abbrutiti e gli uomini delle SS che eseguirono la maggior parte delle iniezioni presentarono la tendenza a mantenere l’aura medica che avvolgeva l’intera operazione di sterminio, e di fatto a vedere se stessi come medici.
Ci fu un’intera gerarchia fra gli iniettatori di fenolo, da un prigioniero politico tedesco di nome Peter Welsch a quattro prigionieri polacchi, a Josef Klehr, del Servizio Sanitario, che eseguì la maggior parte delle iniezioni, ad altri due della sua unità. Coloro che, in questa sequenza, svolsero con più entusiasmo questo compito, stavano probabilmente «giocando a fare il medico». Un prigioniero politico che lavorava in ospedale, Mieczysław Pańszczyk, per esempio, che «si vantava di aver ucciso con le sue mani più di 120.000 uomini», non solo eseguiva iniezioni, ma «amava anche, benché non avesse alcuna preparazione medica, praticare piccoli interventi chirurgici e non si preoccupava affatto se, incidendo degli ascessi, recideva anche vasi sanguigni e legamenti dei tendini».25
Altri prigionieri, non senza ragione, ritenevano che questi uomini manifestassero, nella loro gioia di uccidere, stati psichici patologici. Essi, come chiarì un medico polacco prigioniero, traevano inoltre vantaggi personali da ciò che facevano: avevano un lavoro «sicuro», non dovevano certo faticare come altri, ricevevano cibo migliore e avevano in generale un trattamento preferenziale. L’iniettatore «era sotto la protezione della Sezione politica..., della Gestapo del campo», e «gli altri prigionieri lo temevano».
Il dottor W. mi parlò di un iniettatore polacco, dicendomi che si identificava strettamente con l’antisemitismo nazista e che «desiderava che i prigionieri lo temessero quanto temevano le SS». Una mattina quest’uomo disse al dottor W.: «Ho fatto un sogno interessante: ho sognato che dopo morto vivrò in un posto speciale dove governerò, dove mi saranno mandate migliaia di persone da uccidere personalmente con iniezioni di fenolo. È stato un sogno meraviglioso». Jan W. commentò che il sognatore considerava «un sogno molto positivo l’uccisione di persone» e che quel compito «non era una cosa che gli venisse imposta» ma «una sua scelta, da cui traeva piacere». Questo sogno compendia la visione ultima di Auschwitz: l’ascesa alla condizione dell’immortalità e a un’assoluta onnipotenza attraverso la pratica costante dell’uccisione, eseguita in un contesto istituzionale e medico (il sogno menzionava solo iniezioni di fenolo).
C’erano prigionieri polacchi che eseguivano le iniezioni ma avevano scrupoli: un uomo si rifiutò di uccidere un gruppo di bambini e salvò vari malati dalle iniezioni prima di praticarle lui stesso; e un altro, pur eseguendo le iniezioni, continuò a salvare vite umane servendosi anche del suo potere di boia col fenolo per eliminare informatori pericolosi.26
Pare che, oltre a Dering, altri medici prigionieri abbiano a volte eseguito iniezioni. Anche se per lo più il compito di praticare le iniezioni di fenolo veniva assegnato a prigionieri tedeschi o polacchi, a volte venne chiesto di eseguirle anche a medici prigionieri ebrei. Una delle fonti di Langbein accenna a un certo dottor Landau, probabilmente un ebreo, che avrebbe praticato iniezioni.27 Inoltre, un medico prigioniero iniettò dell’insulina a malati di mente (vedi pp. 310-311) – una situazione in verità molto diversa, la quale si inquadra però anch’essa nella situazione delle uccisioni sotto l’egida della medicina ad Auschwitz – e probabilmente non fu l’unico. Ricordiamo anche il rifiuto del dottor Michael Z. di eseguire iniezioni intracardiache col pretesto della propria incapacità tecnica, e Langbein cita un episodio simile implicante un certo dottor Mikuláš Korn, che, «sebbene come ebreo dovesse temere le conseguenze del suo rifiuto più di qualsiasi “ariano”», non fu punito.28 Il dottor Jan W. mi parlò anche di un medico polacco che poté rifiutarsi e «riuscì a farla franca».
Nel periodo in cui usarono prigionieri per questo compito, a quanto pare i nazisti non fecero ricorso a pressioni su quelli che erano riluttanti, ma preferirono cercare persone che, per le loro inclinazioni psicologiche e ideologiche, fossero disposte ad assumerlo o ne fossero addirittura entusiaste.
Nel corso del 1942 il compito di uccidere prigionieri per mezzo di iniezioni di fenolo fu ripreso essenzialmente da Josef Klehr, che operò come sostituto di medici nazisti: «[Entress] lasciò questo lavoro a Klehr e poi se ne andò da Auschwitz».29 Manovale semianalfabeta e inserviente medico dell’Alta Slesia, Klehr si impegnò nelle uccisioni presentandosi nelle vesti del medico: «Klehr indossò il camice di medico e disse alla ragazza: “Lei è malata di cuore”. Poi le fece l’iniezione».30 Lo chiamavano «professore» ed egli non si identificava solo col ruolo del medico, bensì specificamente col suo ruolo nell’eccidio ad Auschwitz. A volte Klehr eseguì persino delle selezioni e alla vigilia di Natale del 1942, quando gli dissero che il medico del lager non sarebbe venuto, rispose subito: «Oggi il medico del lager sono io».31
Klehr era orgoglioso delle sue capacità mediche. Si dice che abbia cominciato a praticare le iniezioni di fenolo quando uno dei prigionieri che le eseguivano ruppe un ago. Egli escogitò modi efficaci per mettere in posizione i prigionieri per l’iniezione al cuore, ed era orgoglioso della sua rapidità nell’uccidere persone, anche due o tre al minuto. Cominciò a eseguire anche punture lombari: un procedimento impegnativo in cui si tratta di inserire un lungo ago fra le vertebre. Di solito eseguiva esperimenti su prigionieri su cui si accingeva a iniettare il fenolo, e se la vittima gridava (egli non prendeva alcuna misura per evitare loro il dolore), «lo picchiava prima che morisse».32
Klehr fu la caricatura estrema del medico onnipotente di Auschwitz. Secondo una testimonianza su una speciale esecuzione di un «commissario politico sovietico», la vittima, «coperta di sangue», era tenuta giù da quattro prigionieri, mentre «Klehr... [era in piedi] accanto a lui in camice bianco, tenendo in mano una siringa ipodermica, pronto a uccidere». Ci sono descrizioni simili di Klehr in camice bianco o con un «grembiule di gomma rosa», con le maniche arrotolate e guanti di gomma, contro lo sfondo di un cumulo di cadaveri, mentre si dispone a iniettare di nuovo: ha in mano «una siringa ipodermica di 20 cc con un lungo ago».33
Quando non era presente alcun medico SS, Klehr combinava la sua immagine di sé come medico con quella di un potentato orientale:
Per prima cosa un internato doveva subito provvedere a pulire la sua moto con la quale solitamente arrivava. Poi lui si recava in una stanza di qualche medico, si faceva togliere gli stivali da un internato e si faceva lavare i piedi. Contemporaneamente un altro internato doveva spazzolargli e limargli le unghie. Poi si sedeva al centro della stanza, fumava la sua pipa tenendo i piedi in una tinozza e talvolta si faceva servire da sette o otto prigionieri che dovevano leggergli negli occhi qualsiasi desiderio. Si comportava davvero come un pascià. Ad esempio, un internato che faceva il sarto doveva venire a prendergli le misure. Poi dettava qualcosa a qualche altro prigioniero. Contemporaneamente, il capo lager dell’ospedale degli internati doveva presentarsi a riferire sugli avvenimenti nell’ospedale. Il farmacista degli internati doveva portargli medicinali che poi lui prendeva per sé... Tutto questo lo faceva però soltanto quando non c’era il medico del lager.34
Non meno sorprendente di qualsiasi altro aspetto del suo comportamento fu la trasformazione da lui manifestata in occasione del suo trasferimento, nell’estate del 1944, nel lager esterno di Gleiwitz, dove lavorò in un blocco medico senza più fare iniezioni. Un internato cecoslovacco osservò che «Klehr mutò considerevolmente. Egli non si rese più responsabile di brutalità e in generale tenne un comportamento abbastanza cortese». Lo stesso prigioniero ebbe modo di ascoltare furtivamente una conversazione fra Klehr e sua moglie nella quale, in risposta alla domanda della moglie se fosse stato coinvolto in qualcuna delle cose terribili che continuavano ad accadere ad Auschwitz, egli rispose: «Io faccio parte del servizio sanitario. Io qui curo e non uccido».35 Dopo la visita di sua moglie, si dice che egli sia diventato ancora più insistente sulla necessità di migliorare le condizioni di vita dei prigionieri nel lager. Questo stesso prigioniero cecoslovacco fu impressionato anche dalla moglie e dai figli di Klehr (cui fu permesso, per un certo periodo di tempo, di vivere nelle vicinanze) e gli sembrava impossibile che Klehr potesse avere una famiglia del genere.36 Si ritiene che egli abbia ucciso per mezzo di iniezioni migliaia di prigionieri.
Come i veri medici, egli poté passare rapidamente, almeno per un po’ di tempo, dal ruolo di assassino a quello di terapeuta, con l’aiuto dell’influenza della sua famiglia, e specialmente di sua moglie (che a Gleiwitz poteva fargli visita più spesso). In questo suo mutamento potrebbe avere avuto una parte anche il deteriorarsi della situazione al fronte, ossia il timore di trovarsi un giorno di fronte alla giustizia del nemico. Nel modo in cui si presentò in seguito al processo, Klehr fece pensare però all’opposto del pentimento, e in tribunale parve che fosse presente ben poco di lui come terapeuta. Nel processo di Auschwitz celebrato a Francoforte, egli fu dichiarato colpevole e condannato all’ergastolo, con l’aggiunta di quindici anni di lavoro forzato.37 (Nel capitolo XX prenderemo in esame questo tipo di comportamento contraddittorio in connessione col «sé di Auschwitz» dei medici nazisti.)
Si stimò che Klehr avesse partecipato all’assassinio di un numero di persone compreso fra 10.000 e 30.000 (attraverso la selezione o per mezzo di iniezioni). Poterono essere provati direttamente solo 475 casi, più la sua complicità in altre 2000 uccisioni. La sua condanna per 475 capi d’accusa, per delitti commessi «con zelo (Eifer) e con particolare malvagità (Heimtücke)», fu il massimo della pena inflitta al processo di Auschwitz a Francoforte. Quando furono lette le sentenze, solo Klehr si alzò immediatamente a parlare e disse che non accettava il verdetto; gli altri imputati tacquero. Nella sua dichiarazione conclusiva, Klehr sostenne di non avere avuto niente a che fare con le gassificazioni e di non avere mai fatto selezioni autonomamente: essendo «un uomo di scarsa importanza ad Auschwitz» o «un soldato soggetto agli ordini», si era «limitato a eseguire gli ordini dei medici e solo con una profonda riluttanza interiore».38
In sintesi, Klehr portò ad Auschwitz un enorme potenziale psicopatico, che l’ambiente stimolò prontamente (come avvenne anche nel caso di alcuni prigionieri che iniettavano regolarmente fenolo). Ogni società possiede una riserva di Klehr cui attingere per compiti di tale genere, e la dimensione medica diede la sua impronta particolare alla combinazione estrema, propria di Klehr, di senso di onnipotenza, di sadismo paranoico e di ottundimento schizoide. (Come si espresse un prigioniero: «[Klehr] poteva uccidere qualche centinaio di persone con lo stesso distacco con cui un calzolaio toglie una suola rotta da una scarpa».) Klehr trovò ad Auschwitz un métier che soddisfaceva il suo desiderio di potere: mentre altri uomini delle SS di ritorno da una licenza si lagnavano di dover tornare in «questa tana di assassini (Mörderhöhle)», Klehr sembrava a suo agio nel campo e non aveva problemi nello svolgere il lavoro che gli si richiedeva.39
Il Klehr di Auschwitz fu in misura considerevole una creatura dei medici SS, e in particolare di Entress: egli era il loro delegato psicologico, in grado di compiere le azioni omicide da loro iniziate. Grazie al fatto che le sue mani erano così sporche, i medici SS potevano quasi – ma solo quasi – sentire pulite le proprie.
Altri due appartenenti al servizio sanitario, Herbert Scherpe ed Emil Hantl, praticavano le iniezioni al fenolo, ma erano considerati dai prigionieri molto diversi da Klehr, assassini più o meno «perbene». Come si espresse un ex infermiere internato, «rispetto a Klehr si comportavano come santi. Non picchiarono mai nessuno... Agivano con cortesia. E, soprattutto, dicevano “Buon giorno” quando arrivavano e “Arrivederci” quando se ne andavano. Per noi, che eravamo stati degradati all’estremo, questi erano piccoli segni di umanità».40
A questi uomini fu affidata l’uccisione dei 120 ragazzi polacchi di Zamość fra il 23 febbraio e il 1° marzo. Completato l’eccidio, Hantl ne uscì del tutto sotto choc; «era completamente a pezzi, imprecava contro la guerra» e perse il suo portamento da SS. Mentre i prigionieri rimasero impressionati per il suo crollo, uno di loro commentò che era stato «troppo vile per rifiutarsi di eseguire gli ordini omicidi».41
Scherpe reagì ancor prima, e uscì dalla stanza a metà della strage mormorando: «Non ce la faccio più». Per il lager circolò la voce che fosse «crollato» anche lui. Qualcuno lo vide, «pallido e agitato», mentre diceva al medico capo che non poteva ammazzare dei bambini, e fu prontamente trasferito a un lager esterno, e addirittura promosso.42
Eppure Scherpe e Hantl uccisero moltissime persone: al processo, Scherpe fu dichiarato colpevole di complicità in almeno 200 occasioni, nelle quali furono uccise almeno 900 persone; e Hantl di complicità in almeno 42 occasioni, nelle quali furono uccise almeno 380 persone. La corte tenne conto della loro relativa riluttanza a partecipare alle uccisioni e dei loro atteggiamenti di amicizia verso i prigionieri e inflisse loro condanne sorprendentemente lievi: Scherpe fu condannato a quattro anni e mezzo e Hantl a tre e mezzo (già scontati in attesa di processo) di lavori forzati.43
Una manifestazione di ripugnanza, persino fra coloro che eseguirono un gran numero di uccisioni, aveva molta importanza ad Auschwitz, così come il seppur minimo riconoscimento dell’umanità dei prigionieri. Ma il punto psicologico importante è che anche uomini molto più normali di Klehr – uomini senza il suo misto di onnipotenza, di sadismo e di ottundimento – poterono essere attratti nel meccanismo delle uccisioni col fenolo. Questi uomini erano, ovviamente, più soggetti a crollare, specialmente quando si trattava di uccidere bambini o ragazzi (in questo caso il loro compito era simile a quello degli assassini delle Einsatzgruppen). L’uccisore col fenolo – che doveva eseguire l’uccisione direttamente – aveva molta più difficoltà a reggere il suo lavoro, qualora non avesse chiare distorsioni psicopatologiche della personalità, del medico nazista «perbene», la cui responsabilità era sicuramente altrettanto grande ma che poteva interporre una certa distanza fra se stesso e il cadavere delle sue vittime. Ma il fatto che potessero esserci uccisori «perbene» – ossia uomini relativamente normali, con sentimenti anche di simpatia verso le loro vittime, che uccidevano per mezzo di iniezioni – ci dice molto sul carattere maligno dell’ambiente di Auschwitz e sulla vasta predisposizione di uomini in apparenza del tutto comuni a diventare assassini.
a. Entress ricordò che il primo ordine era arrivato nel maggio 1942, ma Langbein è convinto che egli fosse in errore a proposito della data, giacché uccisioni con fenolo erano già state praticate nell’autunno del 1941. Il dottor Jan W. mi disse che «ogni giorno, nel 1942, da venti a trenta persone o più venivano uccise con questo metodo». La maggior parte delle vittime erano ebrei, ma anche altri prigionieri furono uccisi col fenolo.
b. C’è qualche dissenso sul numero. In una fonte, il dottor Stanislaw Klodziński menziona due eventi separati – 39 ragazzi uccisi il 23 febbraio e 80 il 1° marzo – che potrebbero spiegare in parte le divergenze sui numeri. Alcuni potrebbero essere stati ragazzi ebrei che in precedenza erano riusciti a nascondersi.
c. Hoven tentò di lasciar intendere che le uniche iniezioni di fenolo fatte da lui siano state eseguite su richiesta di prigionieri che gli chiedevano di eliminare degli internati pericolosi. A Buchenwald ci furono uccisioni del genere, connesse alle lotte fra prigionieri politici e criminali e fra varie altre fazioni. È chiaro però che Hoven e altri medici delle SS praticarono la maggior parte delle loro uccisioni mediche dirette (con fenolo o con Evipan [esobarbital] sodico) su internati malati, fra cui tubercolotici. Lo stesso Hoven fu arrestato da ufficiali delle SS che investigavano su casi di corruzione a Buchenwald, fra l’altro per avere avvelenato un testimone importante contro il precedente comandante del campo.
d. Queste persone non sapevano che cosa stesse accadendo perché «il fenolo era... un segreto dell’ospedale del campo» e chi lo avesse rivelato avrebbe rischiato la vita; perché i prigionieri che lavoravano nell’ospedale si rendevano conto che dicendo la verità alle persone condannate avrebbero causato loro una sofferenza maggiore, e perciò contribuivano a conservare l’illusione che l’iniezione fosse un «qualche normale procedimento amministrativo e medico»; e anche a causa del bisogno psicologico universale di rifiutarsi «di accettare l’idea che la vita stia per finire». Si poteva persistere in tale negazione proprio perché «tutti per anni [prima di Auschwitz] avevano collegato l’idea di ospedale, di medici, infermiere, iniezioni, trattamento medico con la lotta per la vita, e non con l’assassinio».13
XV
Non ho parole. Pensavo che eravamo esseri umani. Eravamo creature vive. Come potevano farci cose del genere?
Un sopravvissuto di Auschwitz
I medici nazisti sono tristemente famosi per i loro crudeli esperimenti medici. E la cosa non sorprende: nel corso di quegli esperimenti essi uccisero e mutilarono: trattandosi di crimini medici tangibili, ebbero un grande rilievo al Processo dei Medici a Norimberga. Eppure questi esperimenti furono solo una piccola parte nell’esteso e sistematico programma di uccisioni condotto sotto l’egida della medicina. Ed è a questo aspetto degli esperimenti – il loro rapporto con la visione biomedica nazista – che rivolgerò qui principalmente la mia attenzione.
Gli esperimenti medici nazisti si suddividono in generale in due categorie: quelli patrocinati dal regime in vista di un fine ideologico e militare specifico, e quelli eseguiti in funzione di un presunto interesse scientifico per opera di singoli medici SS.
Per esempio, gli estesi esperimenti di sterilizzazione e castrazione eseguiti ad Auschwitz e diretti principalmente dai medici Carl Clauberg e Horst Schumann furono incoraggiati ufficialmente come espressione diretta di una teoria e politica razziali; gli esperimenti sul contagio col tifo (mediante iniezione nei soggetti di sangue estratto da persone affette da tifo attivo) e sull’efficacia di vari preparati sotto forma di sieri (nel trattamento di casi di tifo indotti sperimentalmente) furono connessi a preoccupazioni militari sulle epidemie di tifo fra le truppe tedesche e il personale nell’Est;a mentre lo studio di condizioni precancerose della cervice uterina rifletté un interesse scientifico del dottor Eduard Wirths, il medico capo delle SS ad Auschwitz e di suo fratello, il ginecologo Helmut Wirths. Ma le varie categorie presentavano sovrapposizioni più o meno estese. (La ricerca di Mengele sui gemelli, di cui ci occuperemo nel cap. XVII, nacque dai suoi interessi scientifici, ma risentì anche fortemente dell’ideologia nazista.) Qui ci occuperemo soprattutto degli estesi esperimenti di sterilizzazione e di castrazione, in cui i medici di Auschwitz furono più o meno specializzati e che furono un’estensione diretta della visione biomedica, ma menzioneremo anche altre forme di sperimentazione e di iniziativa scientifica, compresa la creazione di una collezione di crani di ebrei forniti da Auschwitz per un museo.
Il centro in cui furono messi in atto questi progetti sperimentali fu il famigerato Blocco 10, un luogo che potrebbe essere considerato l’essenza di Auschwitz. Composto principalmente da prigioniere, era situato nel lager maschile, e le comunicazioni con l’esterno erano del tutto impedite dalle imposte delle finestre permanentemente chiuse o da tavole inchiodate sulle finestre stesse. Una dottoressa prigioniera che vi trascorse un anno descrisse come, sin dalla prima notte, ebbe l’impressione, destinata poi a consolidarsi, di essere stata trasferita in un «luogo degli orrori», che assomigliava simultaneamente all’inferno e a un ospedale psichiatrico. E quando era possibile gettare uno sguardo all’esterno attraverso uno spiraglio si assisteva a esecuzioni, a fucilazioni di prigionieri nel cortile del famigerato Blocco 11.
Al tempo stesso le internate nel blocco erano totalmente soggette a visite e controlli di vario genere da parte dei medici SS e, a volte, anche di ufficiali non medici: «C’era un andirivieni continuo di SS... [cosicché] non ci sentivamo mai sicure». Qualsiasi visita poteva infatti significare un nuovo pericolo, e perciò le internate «attendevano con impazienza... la sera, quando venivano chiuse dentro come animali in gabbia ma... nondimeno ci sentivamo più libere».1
Un’altra dottoressa prigioniera, Adelaide Hautval, mi parlò delle cinquecento donne «cavia», tutte ebree, provenienti da vari paesi d’Europa, le quali venivano di solito selezionate direttamente all’arrivo dei trasporti, secondo i bisogni degli sperimentatori medici nazisti: «Alcuni chiedevano donne sposate, altri ragazze giovani, altri ancora un misto di tutte le categorie». Le condizioni generali nel Blocco 10 erano migliori di quelle vigenti nel lager delle donne, perché altrimenti le «cavie... sarebbero morte prima che si potessero valutare i risultati degli esperimenti». Le donne ricoverate soffrivano però la fame ed erano travagliate dalla costante incertezza su che cosa si preparasse per loro; esse si erano infatti rese conto subito che ad Auschwitz vigeva il principio che tutto è permesso. Al tempo stesso, avevano il profondo timore di essere trasferite a Birkenau, dove sapevano che la morte era più probabile, perché nel Blocco 10 c’era almeno una speranza che «forse dopo questo ci lasceranno vivere», anche se erano in poche a crederci.2
Il blocco era diviso in aree di ricerca separate: quelle del professor Clauberg, del professor Schumann (entrambi sterilizzatori), del dottor Wirths e di suo fratello (che studiavano le proliferazioni precancerose del collo dell’utero) e un’area speciale per studi condotti dall’Istituto di Igiene.
Inevitabilmente, c’era anche qui una dimensione della schizofrenia di Auschwitz: in questo caso le ventidue prostitute – per lo più tedesche, polacche e russe –, le uniche residenti non ebree del Blocco 10. Per ordine di Himmler, le SS aprirono bordelli ad Auschwitz e in altri campi. Disponibili ai prigionieri di élite, per lo più tedeschi, le prostitute dovevano essere un incentivo per il lavoro, oltre ad avere lo scopo di contribuire a diminuire la diffusa omosessualità fra i prigionieri maschi (di tanto in tanto delle prostitute venivano assegnate a tale scopo a omosessuali noti, con risultati prevedibili).3 La ginecologa Wanda J. mi disse che le prostitute avevano ricevuto istruzioni di recarsi da lei se avessero notato qualche segno di malattie veneree. I comandanti di campo venivano spesso al Blocco 10 per scegliere particolari prostitute per i loro lager. Come si espresse la dottoressa J. parlando delle prostitute: «Esse entravano in ogni cosa».
In tutto il campo si sparsero voci di cose atroci che avvenivano nel Blocco 10. I prigionieri lo consideravano un «luogo sinistro». Si diceva che Clauberg stesse facendo esperimenti di inseminazione artificiale e le donne erano terrorizzate dall’idea che venissero impiantati «mostri» nel loro utero. Alcune sopravvissute con cui ebbi modo di parlare erano convinte che tali esperimenti fossero stati effettivamente realizzati. Secondo un’altra testimonianza, Clauberg avrebbe espresso l’intenzione di eseguire esperimenti di inseminazione artificiale in futuro. Si parlava anche della creazione di un «museo» al Blocco 10: «Crani, parti del corpo, persino mummie»; e una sopravvissuta insistette: «Una mia amica... vide... il nostro insegnante del Gymnasium imbalsamato [mummificato] nel Blocco 10». Ancora una volta, tutto era possibile, e tutto ciò che accadeva era probabilmente una manifestazione degli atteggiamenti razziali del nazismo.
Il Blocco 10 era noto anche come «il blocco di Clauberg», essendo stato creato per lui e per i suoi sforzi sperimentali in vista della messa a punto di un metodo economico ed efficace di sterilizzazione di massa. Clauberg era la figura di massima autorità nel Blocco 10, «l’uomo principale per la sterilizzazione», come si espresse la dottoressa J., e quello che aveva «il meglio come apparecchiature e come spazio»; oltre alle corsie, aveva una complessa apparecchiatura per radiografie e quattro speciali stanze sperimentali, una delle quali fungeva anche da camera oscura per lo sviluppo di lastre. Da civile, Clauberg abitava ad Auschwitz e aveva già condotto ricerche prendendo a prestito apparecchiature, materiali di ricerca e persino medici prigionieri dalle SS. Era un personaggio potente, avendo il grado di Gruppenführer (caposquadra) delle SS nella riserva. Höss e tutti gli altri si resero conto che Himmler era interessato a quelle ricerche e che era stato lui a dare l’ordine che aveva portato Clauberg ad Auschwitz. Clauberg iniziò nel dicembre 1942 a Birkenau il lavoro che avrebbe poi proseguito ad Auschwitz e, dopo aver convinto le autorità che la sua importante ricerca richiedeva un blocco speciale, nell’aprile 1943 trasferì le sue attrezzature sperimentali nel Blocco 10 ad Auschwitz.
Il suo metodo consisteva nell’iniettare una sostanza caustica nella cervice uterina per ostruire le tube di Falloppio. Egli scelse come soggetti sperimentali donne sposate di età compresa fra i venti e i quarant’anni, preferibilmente fra quelle che avevano avuto figli. Dapprima iniettava in esse del liquido opaco per accertare radiograficamente che non sussistessero ostruzioni o menomazioni. Egli aveva sperimentato con diverse sostanze, ma fu molto reticente circa la natura esatta di quella infine prescelta, forse nell’intento di proteggere le sue eventuali «scoperte mediche» da ricercatori concorrenti. Persino il comandante del campo, Rudolf Höss, che aveva un grande interesse per le sue ricerche e che assistette a varie iniezioni, scrisse in seguito: «Clauberg mi informava nei particolari sul suo lavoro, ma non mi rivelò mai l’esatta composizione chimica della sostanza da lui usata». Oggi si ritiene che tale sostanza fosse la formalina, da lui iniettata talvolta assieme alla novocaina.4b
L’iniezione veniva eseguita in tre fasi nell’arco di alcuni mesi, anche se alcune donne parlarono di quattro o cinque iniezioni. L’intento dell’iniezione della sostanza caustica era quello di creare nelle tube di Falloppio delle aderenze che ne causassero l’ostruzione in un periodo di circa sei settimane, come avrebbero dimostrato successive radiografie. Clauberg incaricò un’infermiera prigioniera, Sylvia Friedmann, di osservare le donne dopo l’iniezione alla ricerca di sintomi di qualsiasi genere.
Nonostante il terrore indotto da questi esperimenti nelle donne che ne erano vittime, una dottoressa prigioniera francese, Marie L., sostenne che molte temevano a tal punto di essere rimandate a Birkenau (dove «si rimaneva in attesa della morte stando in piedi al gelo, nel fango e nelle paludi... senz’acqua o assistenza») che potevano considerare il Blocco 10 «una fortuna e la possibilità di sopravvivere». Lo stesso Clauberg incoraggiava questa speranza dicendo alle sue pazienti che non intendeva rimandarle a Birkenau (che significava la camera a gas) ma che aveva in animo di portarle nella sua clinica di ricerca privata a Königshütte, a soli pochi chilometri di distanza da Auschwitz. E poteva anche esser vero: Höss riferì infatti l’intenzione di Clauberg di eseguire un test pratico del suo metodo di sterilizzazione sottoponendo tutte le donne prigioniere, «un anno dopo la riuscita dell’esperimento... a rapporti sessuali con un prigioniero maschio scelto appositamente per questo scopo». Questo test, però, non fu mai eseguito «a causa del corso assunto dalla guerra».5
Clauberg ebbe infine sotto il suo controllo, al Blocco 10, sino a trecento donne. Gli esperimenti avrebbero dovuto essere segretissimi, e ci fu persino un tentativo di isolare le donne che avevano subito l’iniezione da quelle che non erano state sottoposte a essa. Le testimonianze circa la sorte delle donne su cui erano stati eseguiti gli esperimenti variano. Quelle che si rifiutarono di accettare l’esperimento, o che per qualche ragione furono considerate non idonee, furono rimandate a Birkenau e di solito gassate, come avveniva per quelle più debilitate. La maggior parte delle donne su cui furono condotti gli esperimenti rimasero al Blocco 10, anche se moltissime di loro presentarono febbre e varie forme di infezione peritoneale.
Fra le donne era diffuso il timore costante di essere uccise perché sapevano troppe cose. Esse temevano inoltre sia la sterilizzazione sia l’inseminazione artificiale. Clauberg, a quanto ci viene riferito, avrebbe detto alle prigioniere di avere pianificato esperimenti di inseminazione artificiale, e secondo una testimonianza avrebbe detto a due assistenti che aveva dei progetti per esperimenti di inseminazione sia naturale sia artificiale.
Le testimonianze di alcune delle donne su cui Clauberg sperimentò cominciano a dirci in termini umani che cosa Clauberg avesse realmente in animo. Un’ebrea cecoslovacca, Margita Neumann, disse di essere stata portata in una camera buia dove c’era un grande apparecchio per radiografie:
Il dottor Clauberg mi ordinò di sdraiarmi sul tavolo ginecologico e io potei osservare Sylvia Friedmann che preparava una siringa per iniezione con un lungo ago. Il dottor Clauberg usò quest’ago per farmi un’iniezione nell’utero. Ebbi la sensazione che il ventre mi scoppiasse per il dolore. Cominciai a gridare con tanta forza che potevano sentirmi per tutto il blocco. Il dottor Clauberg mi disse bruscamente di smettere subito di gridare, altrimenti sarei stata riportata nel campo di concentramento di Birkenau... Dopo quest’esperimento ebbi un’infiammazione alle ovaie.
Essa continuò a descrivere come, ogni volta che Clauberg appariva in reparto, le donne fossero «in preda all’ansia e al terrore» poiché «consideravano ciò che il dottor Clauberg stava facendo le azioni di un assassino».6
Le sopravvissute menzionarono anche i suoi «scherzi» rozzi e cinici, oltre che il risentimento verso di lui delle altre autorità naziste del campo, le quali avrebbero voluto farla finita col Blocco 10, dato che la sua protezione dei soggetti sperimentali era vista come un modo per conservare una sua sfera di autonomia.
La dottoressa L., che per qualche tempo assistette le donne nel campo 10, osservò molto da vicino Clauberg e lo descrisse come «piccolo, calvo e antipatico». Egli aveva in effetti una statura di circa un metro e mezzo e varie internate parlavano di lui come di una sorta di «caricatura». Inoltre aveva dei precedenti di atti di violenza: prima da studente, poi verso sua moglie e in un’altra occasione ancora verso un’amante. Come disse, minimizzando, Marie L.: «Penso che in lui ci fosse qualcosa di squilibrato». Similmente, il dottor Tadeusz S. citò Clauberg come prova del suo principio che «i massimi assassini erano i più grandi codardi» e lo descrisse come «grasso e di aspetto sgradevole... una persona piccola, brutta, buffa, più o meno deforme. Voleva imitare gli ufficiali prussiani ma aveva l’aspetto di un bottegaio con un cappello da generale... Era assurdo».
Clauberg era però anche un professore e ricercatore ginecologico e professionista di considerevole reputazione. Associato per molto tempo all’Università di Kiel, le sue ricerche in ginecologia gli fruttarono l’abilitazione alla libera docenza nel 1937, all’età di trentanove anni. I preparati ormonali Progynon e Proluton da lui elaborati per curare la sterilità sono usati ancor oggi (in una lettera scritta già nel giugno 1935, Clauberg discusse il primo dichiarando che era utile sia per conservare sia per portare a termine la gravidanza),7 come pure il «test di Clauberg» per misurare l’azione del progesterone.
La storia personale e ideologica di Clauberg, però, seguì un percorso abbastanza comune. Figlio maggiore di un artigiano rurale che in seguito fondò un’azienda di armi, Clauberg fu arruolato nel 1916 e inviato in Francia, e trascorse l’ultima parte della guerra come prigioniero degli inglesi. Entrato nel Partito nazista nel 1933, divenne un nazista impegnato ricevendo il distintivo aureo del partito per meriti – mentre rimaneva personalmente e professionalmente molto ambizioso – e nel 1940 raggiunse il grado di GruppenFührer (caposquadra) delle SS nella riserva.8
Lo stesso anno un colloquio con Himmler, organizzato da un ufficiale delle SS suo conoscente, segnò l’inizio di un rapporto fondato su una maligna miscela di ideologie biomediche e politico-razziali: un rapporto in cui l’iniziativa fu presa ora dal medico ora dal capo delle SS, culminando nella creazione del «blocco di Clauberg» ad Auschwitz, In quel colloquio Clauberg parlò a Himmler della sua intenzione di fondare un istituto di ricerca per la biologia della riproduzione, nel quale investigare sia le cause e il trattamento della sterilità sia lo sviluppo di mezzi di sterilizzazione non chirurgici. Himmler era venuto a conoscenza per la prima volta delle ricerche di Clauberg attraverso il riuscito trattamento di un caso di sterilità nella persona della moglie di un ufficiale delle SS di grado elevato. Quando Clauberg spiegò al Reichsführer che tale trattamento richiedeva un preparato in grado di rendere pervie le tube di Falloppio ammorbidendo ogni aderenza o sostanza che potesse impedirne l’accesso, Himmler, il cui vero interesse andava alla sterilizzazione, avrebbe suggerito l’opportunità di rovesciare quel procedimento, usando agenti che potessero produrre l’ostruzione delle tube. Dopo tale conversazione (a prescindere dall’esatto corso del ragionamento e da chi abbia suggerito la soluzione del problema), Clauberg diresse di nuovo le sue energie di ricerca verso l’obiettivo esplicito di trovare un metodo efficace di sterilizzazione di massa.
Col sostegno finanziario predisposto da Himmler, Clauberg cominciò a compiere esperimenti su animali; egli trovò che una soluzione al 5-10 per cento di formalina poteva produrre l’infiammazione desiderata e la successiva ostruzione; ricercò poi il liquido altamente viscoso che, mescolato a formalina, potesse consentire a questa di restare nelle tube ovariche dopo essere stata introdotta nell’utero; e lavorò su tecniche di visualizzazione con i raggi X per controllare gli effetti.9
Un anno dopo Himmler convocò Clauberg e gli suggerì di condurre esperimenti sulla sterilizzazione nel campo di concentramento di Ravensbrück. Con l’aiuto di Grawitz, il medico capo delle SS ora coinvolto nel progetto, Clauberg riuscì infine a convincere Himmler che Auschwitz sarebbe stata una soluzione più pratica grazie alla sua vicinanza a Königshütte, dove Clauberg aveva già le sue attrezzature cliniche. Il 30 maggio 1942, tre giorni dopo il loro secondo incontro, Clauberg scrisse una lettera a Himmler la quale è degna di nota per l’espressione in essa contenuta dell’impegno attivo, e in effetti risoluto, di Clauberg nel contribuire ai mortali obiettivi della visione biomedica nazista.
Clauberg rende abilmente omaggio non solo all’autorità generale di Himmler, ma anche ai suoi interessi «scientifici», dichiarando che gli era stato detto che «l’unica persona in Germania oggi che sia particolarmente interessata a questi argomenti e che potrebbe aiutarmi è Lei, onorevolissimo Reichsführer». Menzionando la ricerca proposta sulla «politica demografica positiva», Clauberg allude acutamente alla dimensione agricola così cara a Himmler («L’importanza finale, o estremamente probabile, dell’agricoltura per la capacità femminile di riproduzione richiede di essere chiarita») e poi passa al punto reale: la questione della «politica demografica negativa», sulla quale egli fa la proposta di grande effetto che, avendo dimostrato la possibilità della sterilizzazione senza interventi chirurgici sulla base di esperimenti su animali, «dobbiamo ora procedere ai primi esperimenti su esseri umani». La lettera prosegue poi con lo stesso misto di adulazione, di lustro scientifico ipocrita, di progettazione complessa di ricerche (un laboratorio per esperimenti su animali, una fattoria sperimentale per investigare questioni di «agricoltura e fertilità» eccetera) e di un onnipresente interesse medico («Il centro da cui emanano tutte le idee, da cui tutti i problemi prendono l’avvio... e sono infine tradotti nell’uso pratico è e rimane la clinica»): il tutto conduce infine al piano di «valutare il metodo di sterilizzazione senza interventi chirurgici... su donne indegne di riprodursi, e di usare continuamente questo metodo una volta che ne sia stata finalmente dimostrata l’efficacia». Clauberg chiarisce che Auschwitz è il luogo ideale «per il materiale umano richiesto» e propone addirittura che l’Istituto prenda il nome da Himmler: «Istituto di Ricerca dell’SS Reichsführer per la Riproduzione Biologica». Tutta la lettera di Clauberg traspira gran parte dell’ethos e della corruzione del ricercatore medico all’interno della visione biomedica nazista.10
Dopo una raffica di altri mutamenti in cui ebbero parte aiutanti di Himmler e altri medici SS, e dopo un’altra visita allo stesso Reichsführer, il piano di Clauberg per le ricerche ad Auschwitz fu approvato in una lettera in cui Himmler (attraverso il suo assistente Rudolf Brandt) esprimeva il suo interesse «a sapere... quanto tempo sarebbe occorso per sterilizzare un migliaio di ebree», faceva qualche altro suggerimento sul metodo e infine propugnava come test «un esperimento pratico... consistente nel rinchiudere un’ebrea e un ebreo assieme per un certo periodo di tempo e poi vedere quali risultati ne emergano».11
L’entusiasmo di Himmler per il progetto di Clauberg era stato alimentato indipendentemente da un altro medico suo corrispondente, il dottor Adolf Pokorny, un ceco tedesco etnico che era andato in pensione con un grado elevato dopo una carriera di medico militare. Nell’ottobre 1941 Pokorny scrisse una lettera a Himmler che potrebbe essere considerata un documento fondamentale della corruzione ideologica del medico. Pokorny scrisse in risposta all’idea «che il nemico debba non solo essere sconfitto ma anche distrutto»; egli sentiva l’obbligo di mettere Himmler al corrente di una ricerca recente sulla «sterilizzazione medica» in cui la linfa di una particolare pianta (contenente Caladium seguinum) produceva «sterilità permanente» in animali sia maschio sia femmina; e sosteneva la necessità di condurre «ricerche immediate su esseri umani (criminali!)» oltre che di passare a una coltivazione molto estesa di tale pianta, conservando in proposito il più assoluto segreto. Pokorny si compiaceva della visione di «una nuova potente arma a nostra disposizione»: «Il solo pensiero che i tre milioni di bolscevichi attualmente prigionieri della Germania potrebbero essere sterilizzati in modo da poter essere usati come lavoratori, senza avere la possibilità di riprodursi, dischiuse prospettive di portata grandissima».12c
Il farmaco si rivelò del tutto inadatto per la sterilizzazione di esseri umani, ma Himmler fece intendere che considerava tale ricerca sperimentale della massima importanza. Egli cominciò a sviluppare un archivio su quella che chiamò «sterilizzazione per mezzo di farmaci» e un archivio separato sulla sterilizzazione di massa per mezzo di raggi X (possibilità che avrebbe esaminato ben presto in connessione con Schumann). Il progetto di Clauberg poté quindi essere visto da Himmler come un nuovo approccio scientifico, messo in atto da un famoso professore, alla «sterilizzazione per mezzo di farmaci».
Ma, nonostante i suoi appoggi autorevoli, l’entusiastico sostegno e coinvolgimento di Höss e il patrocinio richiesto di Wirths, Clauberg ad Auschwitz si imbatté in difficoltà. Egli dovette affrontare conflitti personali considerevoli con molti altri medici, e fu ostacolato da ritardi nell’acquisto delle apparecchiature radiologiche avanzate di cui pensava di aver bisogno. Soprattutto, però, finì col restare preso nelle sue stesse contraddizioni a proposito dell’efficacia del suo metodo di sterilizzazione. Clauberg ne aveva sempre magnificato l’efficacia in modo eccessivo, spinto sia dall’ambizione sia anche dalle pressioni di Himmler a produrre, e produrre rapidamente, questo contributo razziale rivoluzionario al progetto nazista. Il 7 giugno 1943 Clauberg scrisse a Himmler tentando di giustificare la lentezza dei suoi progressi, che attribuì a «difficoltà temporanee» fra cui la lunga attesa di un apparecchio per radiografie, dopo di che si impegnò in un discorso di un’ambiguità monumentale: il suo metodo era ormai «perfettamente sviluppato» (so gut wie fertig ausgearbeitet) ma richiedeva qualche «perfezionamento» (Verfeinerung), cosicché «già oggi potrebbe essere applicato... [per] una regolare sterilizzazione eugenica»; in effetti, egli era ora in grado di rispondere alla «domanda che Lei, Reichsführer, mi rivolse un anno fa: ossia quanto tempo si richiederebbe per sterilizzare mille donne con questo metodo?». C’erano ancora delle limitazioni («Se le mie ricerche continueranno ad avere gli stessi risultati... non è molto lontano il momento in cui potrò dirlo») e infine la dichiarazione, in calando (con virgolette e corsivi suoi): «Un medico preparato in modo adeguato, in un luogo sufficientemente attrezzato, con forse dieci assistenti (il numero di assistenti dev’essere conforme alla rapidità desiderata) sarà molto probabilmente in grado di trattare varie centinaia se non mille [donne] al giorno».14
Quest’affermazione era ancora quanto meno molto vaga, e risultò che «la ragione principale» che aveva indotto Clauberg a scrivere questa lettera era quella di chiedere certe nuove disposizioni (che non risultano chiare dalla lettera ma che hanno probabilmente a che fare con la «corsa alla sterilizzazione» di Clauberg in gara con Schumann) e un altro apparecchio per raggi X che egli aveva trovato a Berlino ma per il quale aveva bisogno dell’approvazione di Himmler. Il significato che si coglie dietro questa lettera è che la combinazione delle ideologie politica e biomedica naziste, e il loro trasferimento sul piano medico, comportavano contraddizioni e inconvenienti: si potrebbe dire addirittura insuccessi inevitabili. Queste contraddizioni, assieme alla generale instabilità caratteriale o ai «complessi» di Clauberg, erano destinate a esigere il loro tributo. Il medico capo Wirths, a quanto mi è stato riferito, avrebbe detto che Clauberg era «andato completamente a puttane», che si era dato massicciamente all’alcol e che aveva un «carattere del tutto privo di scrupoli». E il fratello di Wirths, anche lui medico, disse di Clauberg che era «una delle persone dal carattere peggiore in cui mi sia mai imbattuto».d
L’assistente di Clauberg ad Auschwitz, il dottor Johannes Goebel, lavorava alla produzione della sostanza caustica necessaria, oltre che a un materiale tracciante per raggi X migliorato e, pur non essendo un medico, ebbe la prerogativa di eseguire molte delle iniezioni.15 Il numero di donne che questi due uomini avrebbero sterilizzato in questo modo è stato stimato fra settecento e «varie migliaia».16 Secondo l’infermiera Sylvia Friedmann, quando una donna moriva dopo un’iniezione, Clauberg non manifestava assolutamente alcun interesse, alcuna reazione, come se la cosa non avesse assolutamente alcuna importanza per lui. Ci furono un certo numero di tali casi di morte.17
All’approssimarsi delle truppe russe a Königshütte, Clauberg fuggì a Ravensbrück e fece in modo che alcuni dei suoi soggetti sperimentali fossero inviati alla sua nuova destinazione; nonostante il caos estremo, egli proseguì i suoi esperimenti di sterilizzazione. Nell’imminenza dell’arrivo delle forze alleate, tre mesi dopo, egli fuggì di nuovo, questa volta nello Schleswig-Holstein, nel tentativo di unirsi all’ultimo gruppo di capi delle SS fedeli attorno a Himmler (Clauberg fu l’unico medico di Auschwitz a comportarsi in questo modo). Ma Himmler fu preso e si suicidò; e anche Clauberg fu catturato dai russi, l’8 giugno 1945. Detenuto in Unione Sovietica per tre anni prima del processo, fu giudicato colpevole di crimini di guerra e condannato a venticinque anni di carcere. Dopo la morte di Stalin (nel 1953) e dopo vari accordi diplomatici, Clauberg fu rimpatriato assieme ad altri tedeschi nell’ottobre 1955. Non solo egli non si pentì del suo operato ma manifestò mania di grandezza e un comportamento stravagante: non si fece scrupolo a elencare nel suo curriculum varie organizzazioni mediche naziste, compresa la «Città delle Madri» da lui diretta nel quadro del suo impegno nel programma di «eugenica positiva», e pubblicò un’inserzione a suo nome per la ricerca di una segretaria. Intervistato dai giornalisti, parlò con orgoglio del suo lavoro a Königshütte e ad Auschwitz e dichiarò: «Riuscii a realizzare un metodo di sterilizzazione assolutamente nuovo... [che] potrebbe essere molto utile oggi in certi casi».18
In seguito a varie pressioni da parte di gruppi di sopravvissuti e di altre persone, Clauberg fu arrestato nel novembre 1955; per molto tempo, però, la Camera della Medicina tedesca, il corpo ufficiale della professione medica, si oppose alle azioni intraprese contro di lui per privarlo del titolo di dottore in medicina. Un gruppo di ex medici prigionieri di Auschwitz rilasciò una dichiarazione impressionante nella quale si condannava l’operato di Clauberg ad Auschwitz definendolo «in totale disaccordo col dovere giurato di ogni medico» e deplorando amaramente il fatto che «quei medici che... si misero al servizio del nazionalsocialismo per distruggere vite umane... possono oggi tornare a praticare quella professione che hanno profanato in modo così scandaloso».19 La Camera della Medicina tedesca si decise infine a togliere a Clauberg la licenza di professare. Quando Clauberg morì, d’improvviso e misteriosamente, nella sua cella il 9 agosto 1957, era convinzione generale che egli si apprestasse a fare nomi di personaggi al vertice della gerarchia medica tedesca, cosicché appare probabile che dei colleghi medici abbiano contribuito alla sua morte.20
Sarebbe troppo facile attribuire il comportamento medico criminale di Clauberg al suo aspetto fisico e ai «complessi» conseguenti. Anche se egli potrebbe figurare benissimo come un caso classico di quella che Alfred Adler definì una ricerca di forme estreme di comportamento capaci di compensare sentimenti profondi di inferiorità corporea,21 io sottolineerei anche il suo intenso rapporto con l’ideologia nazista (derivante da un’esperienza storica più o meno tipica iniziata con la Prima guerra mondiale), assieme alla sua straordinaria ambizione all’interno del sistema nazista. Un suo ex allievo mi disse che Clauberg, pur essendo un «nano spaventosamente brutto» e «pieno di complessi», aveva nondimeno un atteggiamento amichevole verso gli studenti e li portava a fare viaggi per il fine settimana, e aggiunse: «Allora mi piaceva molto». Nonostante le sue aberrazioni psicologiche, quindi, sotto un regime diverso Clauberg avrebbe potuto trovare un modello di vita con un misto più moderato di risultati positivi, di arroganza e di corruzione. O, per esprimerci in modo diverso, come sono sempre disponibili dei Klehr per l’uccisione diretta, così sono sempre disponibili dei Clauberg per criminalità e omicidio ideologici e professionali. Le istituzioni naziste fornirono il clima ideale per alimentare la mania di grandezza e le tendenze psicopatiche compensatrici di Clauberg. Auschwitz attinse inoltre al suo talento di ricercatore, che venne radicalmente corrotto al servizio dell’«eugenica negativa» della visione biomedica.
Horst Schumann differì da Clauberg per il fatto di non essere uno specialista famoso bensì un fidato «medico nazista veterano» (entrato nel Partito nazista e nelle SA nel 1930), disponibile per imprese mediche spietate. Schumann era stato una delle figure mediche principali nel programma di «eutanasia» come direttore del centro della morte di Grafeneck. Quando quel centro chiuse i battenti, egli assunse la direzione di quello di Sonnenstein, e successivamente operò nel programma 14f13 come membro della commissione che visitava i campi di concentramento, e in questa veste si recò ad Auschwitz il 28 agosto 1941, partecipandovi alla selezione di 575 prigionieri da inviare al centro della morte di Sonnenstein (vedi pp. 202-203). Le sue competenze per il lavoro di castrazione con i raggi X erano più politiche che mediche.
Nel suo caso Himmler svolse un ruolo ancora maggiore nella formulazione degli esperimenti, assieme a Viktor Brack, il funzionario della Cancelleria attivo sia nel progetto di «eutanasia» sia nella fondazione dei campi della morte. All’inizio del 1941, Himmler e Brack stavano già scambiandosi promemoria in cui condividevano la visione di un programma di «sterilizzazione o castrazione... per mezzo di raggi Röntgen» su scala massiccia (vedi p. 377). In seguito Brack affermò che l’idea di applicare questa tecnica alla popolazione ebraica, specialmente in Polonia, venne a Himmler, e chiamò in causa anche Reinhard Heydrich, la voce più spietata nell’entourage del Reichsführer, ammettendo però al tempo stesso che le parole di Himmler «fecero una grande impressione su di me». Brack estese in ogni caso la fantasia comune escogitando un impianto di sterilizzazione tipo catena di montaggio, operante «in modo del tutto impercettibile» da dietro un banco. Alla vittima ignara si doveva chiedere di riempire dei moduli, operazione destinata a durare per due o tre minuti:
Il funzionario seduto dietro il banco può mettere in funzione l’installazione ruotando un interruttore che attiva simultaneamente le due valvole (poiché l’irradiazione deve operare da entrambi i lati). Con un’installazione a due valvole potrebbero essere sterilizzate circa 150-200 persone al giorno e quindi, con venti di tali installazioni, sino a 3000-4000 persone al giorno... Quanto alle spese per un tale sistema a due valvole, posso dare solo una stima approssimativa di circa 20.000-30.000 RM (Reichsmark).22
L’idea era in accordo non solo con la più generale visione biomedica nazista, ma anche con le caratteristiche specifiche del pensiero di Heinrich Himmler. Himmler, come ha notato con precisione Joachim Fest, desiderava vedere in se stesso «non un assassino bensì un patrono della scienza».23 Egli era, inoltre, un patrono che prendeva attivamente parte alla determinazione dei concetti e dei metodi di imprese scientifiche condotte sotto i suoi auspici. Nel movimento nazista, era lo scienziato pseudo-medico per eccellenza, l’epitome personale e ideologica del rovesciamento terapia-uccisione.e Formato inizialmente nell’agricoltura, combinò un misticismo della natura con una sorta di biomeccanica e fantasticò di essere una sorta di visionario medico. Egli combinò la visione razziale di Rosenberg col misticismo agricolo di Walther Darré: si ritiene che sia stato quest’ultimo «a raccomandare a Himmler di trasferire la sua attenzione dagli incroci di erbe e dall’allevamento dei polli agli esseri umani».25f E la moglie di Himmler, Margarete, che era infermiera, avrebbe suscitato in lui un interesse per «l’omeopatia, il mesmerismo, i bagni di paglia d’avena e l’erboristeria». Come spiega Joachim Fest, il linguaggio di Himmler era costantemente biomedico: «Si parlava di “campi di esperimento razziale’’, di “nordificazione’’, di “aiuti alla procreazione”, di “fondamenti del nostro sangue”, di “leggi biologiche fondamentall’’, di “rovina del nostro sangue”, di “creazione di un nuovo tipo umano” o dell’“orto botanico del sangue tedesco”: davvero le visioni di un pollicoltore proveniente da Waltrudering!».26
Subalterni come Brack e medici come Clauberg suggerirono progetti che sapevano essere in accordo con le idee e con la politica di Himmler. Anche la passione di Brack per la sterilizzazione e la castrazione potrebbe essere riferita alla propria esperienza di paziente; dopo essere stato sottoposto a röntgenterapia, egli aveva consultato un’autorità medica per dissolvere i suoi timori che il trattamento potesse avergli procurato danni corporei, specificamente ai genitali. Brack era inoltre figlio di un ginecologo, e studente di medicina fallito con aspirazioni mediche personali. Nel giugno 1942, al culmine della penetrazione militare tedesca in Russia, Brack divenne molto più specifico e programmatico. Riferendosi a consultazioni col suo superiore e col capo del territorio polacco in cui era concentrato il massimo numero di ebrei, egli parlò della necessità di portare a compimento «l’intera azione ebraica [la Soluzione finale]» ma stimò che da due a tre dei dieci milioni di ebrei presenti in Europa erano in condizioni fisiche abbastanza buone da poter lavorare e dovevano quindi essere «preservati», ma al tempo stesso «resi incapaci di riprodursi». I metodi di sterilizzazione usuali nel caso di malattie infettive avrebbero richiesto troppo tempo e sarebbero stati troppo costosi, ma «la castrazione per mezzo di raggi Röntgen... non solo è relativamente economica, ma può essere eseguita su molte migliaia di persone nel più breve tempo». Egli si riferì a «esperimenti completati»g e si dichiarò pronto, e persino ansioso, di dare l’avvio a un tale progetto. Ma Himmler, che era sempre lo scienziato, insistette che «la sterilizzazione con i raggi Röntgen... [venisse] provata almeno una volta in un lager in una serie di esperimenti».28 La scelta per questo compito cadde su Schumann e, verso la fine del 1942, questi cominciò a lavorare alla castrazione per mezzo di raggi X al Blocco 30 a Birkenau.
Schumann non aveva ad Auschwitz una reputazione così alta come quella di Clauberg, ma i suoi esperimenti furono, se possibile, ancora più sinistri. Confrontando il comportamento dei due medici, il dottor Tadeusz Z. si rese conto che a Schumann era stato «ordinato da qualcuno di fare... esperimenti... non originali. Clauberg era l’unico ad avere idee proprie... Schumann era ispirato da... ideologi». La dottoressa Marie L. si spinse ancor oltre, dichiarando che «il modo di procedere [di Schumann] rivelava una totale ignoranza dell’anatomia ginecologica».
Anche l’aspetto di Schumann era l’opposto di quello di Clauberg: alto, dalle spalle larghe, elegante nella sua uniforme della Luftwaffe, il volto descritto da alcuni come bello e da altri come «brutale», rappresentava secondo la dottoressa L. «il nuovo ideale razzista tedesco». Alcuni prigionieri lo descrissero come «corretto», ma una segretaria prigioniera aggiunse che era «freddo» e «non rivelava alcun sentimento di umanità verso i prigionieri».29 Soprattutto, queste descrizioni suggeriscono una versione sommessa, priva di alcuna distinzione, di alterezza in stile nazista, assieme a un atteggiamento di distacco e di mancanza di interesse per le persone. Il modo in cui egli conduceva i suoi esperimenti era brutale e senza freni. Egli lavorava al Blocco 30, nell’ospedale femminile a Birkenau, in una grande stanza contenente due grandi apparecchiature per la röntgenterapia e una piccola cabina per lui, la quale aveva una finestra per l’osservazione ed era, ovviamente, isolata con lastre di piombo per proteggerlo dalle radiazioni.
I soggetti sperimentali – maschi giovani abbastanza sani e ragazze di età di poco inferiore o di poco superiore a vent’anni, arrivati dai lager in seguito a un ordine emanato il giorno prima – venivano allineati in una sala d’attesa e introdotti uno per uno, spesso completamente all’oscuro di ciò che si stava preparando per loro. Le ragazze venivano poste fra lastre che comprimevano loro l’addome e il dorso; gli uomini poggiavano il pene e i testicoli su una lastra speciale. Lo stesso Schumann azionava poi le macchine, che emettevano un forte ronzio; ogni «trattamento» durava «vari minuti» secondo il dottor Stanisław Klodziński, «da cinque a otto minuti» secondo la dottoressa prigioniera Alina Brewda. Molte donne uscirono dall’applicazione di raggi X con quelle che Marie L. definì «ustioni considerevoli», le quali potevano infettarsi e impiegare molto tempo a guarire; e molte svilupparono sintomi di peritonite, fra cui febbre, forti dolori e vomito. Non molto tempo dopo l’applicazione dei raggi X le ovaie delle donne venivano asportate chirurgicamente, di solito nel corso di due interventi distinti. Queste operazioni venivano eseguite di solito da Dering (vedi pp. 339-343) e il metodo spesso usato – un’incisione orizzontale al di sopra dell’area pubica in contrapposizione a una laparotomia mediana (apertura dell’addome in posizione centrale) – era quello che comportava il rischio maggiore di infezione. Le ovaie venivano inviate in laboratorio per accertare se i raggi X fossero stati o no efficaci nella distruzione dei tessuti.30
Come scrisse la dottoressa L.: «Ci furono decessi, complicazioni, aggravamenti di casi di tubercolosi polmonare, data l’assenza di esami preliminari. Si verificarono casi di pleurite, lunghe suppurazioni senza fine». Essa osservò anche che le operazioni venivano compiute «a un ritmo sempre più accelerato», cosicché Dering riusciva infine a eseguirne dieci in due ore.31
La dottoressa Wanda J. ricevette l’ordine di confortare le giovani donne greche che dovevano essere operate («bambine greche, dato che avevano da sedici a diciotto anni... [già] ridotte a scheletri») una dopo l’altra; le ragazze gridavano e piangevano («Mi chiamavano mamma [e] pensavano che le avrei salvate, ma non potevo») mentre venivano eseguiti su di loro la rozza puntura lombare e il grossolano intervento chirurgico di dieci minuti; la patetica vittima infantile veniva poi portata fuori in barella mentre veniva introdotta la successiva per la puntura lombare. La dottoressa J. sottolineò che Dering trascurava di prendere la comune misura obbligatoria di applicare una parte del peritoneo (la membrana che riveste la cavità addominale) come un lembo di pelle per coprire e proteggere il «troncone» della tuba da cui era stata asportata l’ovaia, contribuendo in tal modo a successive complicanze di emorragia e infezioni gravi: «Esse dovevano stare poi nove mesi a letto. Dovetti sempre vestirle io, e non posso dirle che odore emanavano. Erano in una grande stanza: solo... otto, perché due morirono».
In questa fase Schumann aveva perduto ogni interesse per loro (non c’era nient’altro da imparare sulla castrazione-sterilizzazione), ma la dottoressa J. doveva fare sforzi considerevoli per tenerle più o meno nascoste, «perché se Schumann avesse saputo che [erano] vive... al Blocco 10, le avrebbe subito uccise». Esse erano note come le «ragazze di Schumann».
La profondità del senso di violazione e di mutilazione provato dalle vittime di questi esperimenti risultò evidente nel corso di interviste che potei fare ad alcune di loro trentacinque anni dopo. Una donna ebrea greca mi descrisse il suo terrore quando vide in un’immagine riflessa «sgorgare il sangue quando mi aprirono il ventre»; e poi, dopo le due operazioni, «pus, che schizzava come un nocciolo da una ferita infetta, e la febbre alta... polmonite. Il mio corpo gonfiò, e quando mi premevo il braccio mi restavano segni (edema). Mi diedero delle medicine. Ero paralizzata... Non riuscivo a muovermi. Ero gonfia dappertutto». Inoltre: «Sapevamo di essere come un albero senza frutti... L’esperimento consisteva nel distruggere i nostri organi... Piangevamo insieme per questo»; e «presero noi perché non avevano conigli».
Gli esperimenti di Schumann sugli uomini seguirono un corso parallelo, che fu descritto dal dottor Michael Z. in una relazione scritta: prima la voce che «degli ebrei venivano sterilizzati con i raggi Röntgen» da «un tenente medico della Luftwaffe»; poi una visita di Schumann in un reparto medico maschile, durante la quale ordinò di preparare quaranta prigionieri su cui si sarebbero dovute tenere cartelle di osservazione medica regolarmente compilate; il ritorno delle vittime sperimentali con eritemi da scottatura [aree arrossate] attorno allo scroto («Dalla loro descrizione, riconoscemmo l’apparecchiatura per la röntgenterapia»); i posteriori racconti delle vittime della raccolta del loro sperma, del brutale massaggio della loro prostata per mezzo di pezzi di legno introdotti nel retto; l’intervento chirurgico, con asportazione di un testicolo o di entrambi, e in alcuni casi una seconda operazione di asportazione del testicolo restante (condotta con una «notevole brutalità» e una limitata anestesia; le grida dei pazienti «erano spaventose a udirsi»); sviluppi postoperatori «disastrosi» comprendenti emorragie, setticemia, assenza di tono muscolare conseguente alle ferite, cosicché «molti... morivano rapidamente, indeboliti nello spirito e nel corpo» e altri venivano mandati a fare un lavoro «che li avrebbe finiti». Ma «la loro morte aveva ben poca importanza, dato che queste cavie avevano già svolto la funzione che ci si attendeva da loro».
Il dottor Erich G. mi parlò della sofferenza psicologica delle vittime sperimentali e delle domande che gli facevano («Potrò mai essere padre? Potrò avere rapporti con donne?»), ma ammise che quello non era a quel tempo lo stress emotivo maggiore («Sopravvivere era più importante del fatto di essere mutilati o addirittura castrati»), e il timore era che le vittime degli esperimenti venissero uccise («Era impossibile pensare che permettessero a qualcuno di vivere e di poter testimoniare dopo la guerra»).
La crudeltà di Schumann si rifletté (come ci dice il dottor Tadeusz) nel «piccolo dispositivo» da lui costruito per introdurlo nel retto allo scopo di stimolare la prostata e produrre l’eiaculazione, apparecchio che era «doloroso e... umiliante, cosicché i pazienti soffrivano molto». Esso produceva inoltre «terribili infezioni»: «Per Schumann non era nulla... Egli stava verificando i risultati della sua ricerca».
Una delle sue vittime maschili mi parlò della sequenza dai raggi X («Il mio organo genitale, assieme allo scroto, su una macchina... il rumore di un motore... da cinque a otto minuti», dopo di che provò «una sensazione generale di malessere»); alla raccolta dello sperma («Il dottor Dering venne con una specie di bastone e me lo infilò nel retto... Dal mio membro venne fuori qualche goccia»); ai primi tentativi per l’operazione («Dissi: “Perché mi state operando? Non... sono malato”. [E Dering] rispose: “Se non ti tolgo il testicolo, loro lo toglieranno a me”»); alla dolorosa anestesia lombare e all’operazione stessa («Dopo qualche minuto vidi il dottor Dering che aveva in mano il mio testicolo e lo mostrava al dottor Schumann, che era presente»). A un altro uomo che gli fece la stessa domanda prima dell’operazione, Dering rispose: «La smetta di abbaiare come un cane. Lei morirà comunque».32
L’abbrutimento di Schumann ad Auschwitz è rivelato da un progetto di ricerca minore da lui condotto su un’infezione fungina della faccia, una forma di tricofitosi presentata da un gran numero di uomini che si erano insaponati per la rasatura con lo stesso pennello. Benché l’esperienza avesse dimostrato che quella condizione poteva essere trattata facilmente con vari farmaci, Schumann colse l’occasione per sperimentare su di essa l’efficacia dei suoi raggi Röntgen. Questi causarono gravi eruzioni e infezioni della pelle, e in molte vittime provocarono danni alla funzionalità dei dotti salivari e lacrimali, assieme a paralisi della faccia e degli occhi; in conseguenza di ciò vari uomini furono avviati alla camera a gas.33
Oltre a questi ebrei, furono sottoposti all’esperimento di castrazione per mezzo di raggi X un gruppo di giovani polacchi sani. Essi ricevettero probabilmente una dose di radiazioni insolitamente elevata perché, come riferì l’inserviente in servizio a quel tempo: «I loro genitali cominciarono lentamente a marcire» e quegli uomini «spesso si rotolavano sul pavimento per il dolore». Si tentarono unguenti, ma gli uomini non migliorarono; e, dopo un lungo periodo di sofferenza, Thilo li fece mandare nella camera a gas.34
Il dottor Klodziński scrive che ben 200 uomini furono sottoposti alla castrazione per mezzo di raggi X e circa 180 subirono l’amputazione di almeno un testicolo: 90 di queste operazioni ebbero luogo in un sol giorno, il 16 dicembre 1942. Benché le statistiche generali siano incerte, la stima generale è che circa 1000 prigionieri, fra maschi e femmine, siano stati sottoposti all’ablazione chirurgica di testicoli o ovaie. Tutte le statistiche disponibili derivano dall’uso in vigore ad Auschwitz di tenere una documentazione chirurgica abbastanza accurata di questi esperimenti.35h
Come Clauberg, Schumann continuò i suoi esperimenti a Ravensbrück, dove vittimizzò zingare tredicenni.
Dopo la guerra Schumann riuscì a vivere nell’anonimato in Germania – pur essendo stato giudicato un criminale di guerra a Norimberga – finché la richiesta di una licenza per un fucile da caccia non condusse alla sua identificazione. Egli fuggì allora precipitosamente dalla Germania, viaggiò molto e infine si stabilì a Khartoum, nel Sudan, come direttore di un ospedale. Rimasto là per circa sette anni, divenne a quanto pare una sorta di buon samaritano, lavorando giorno e notte per curare africani e conducendo ricerche sulla malattia del sonno; a un giornalista che andò a intervistarlo disse di aver «trovato la serenità e la calma necessarie per l’equilibrio morale di un essere umano».37 Un sopravvissuto di Auschwitz lo riconobbe però attraverso la fotografia associata a tale articolo. Egli fuggì allora nel Ghana, dove (nel novembre 1966, dopo la morte di Kwame Nkrumah, che nella sua qualità di primo ministro lo aveva protetto per qualche tempo) fu infine consegnato a rappresentanti della Germania Federale. Era ormai un uomo indebolito da una malaria cronica e da altre malattie. Dopo vari anni di custodia preventiva fu giudicato colpevole di aver partecipato al programma di uccisione medica diretta o «eutanasia», ma a causa della sua malattia di cuore e del generale deterioramento delle sue condizioni di salute fu liberato senza essere sottoposto a processo per i suoi esperimenti di sterilizzazione e di castrazione.38 Morì a Francoforte nel 1983.
Secondo alcune testimonianze Schumann avrebbe espresso rammarico e persino pentimento, e avrebbe ammesso di essere stato implicato nelle attività di «eutanasia» a Grafeneck e di avere eseguito esperimenti ad Auschwitz, dicendo: «Quel che feci fu terribile».39 In altri momenti, però, in tribunale e altrove, non si rivelò molto pentito, difendendo o negando le azioni di cui era imputato. È dubbio che egli si sia mai confrontato moralmente col proprio passato, ma può darsi che il lavoro compiuto in Africa, benché intrapreso primariamente per evitare la giustizia, abbia svolto infine, in un senso psicologico parziale, la funzione di una forma di penitenza.
Schumann ha molta importanza per noi a causa di ciò che fece – una intensa implicazione sia nell’uccisione medica diretta sia in esperimenti insolitamente brutali ad Auschwitz – e di ciò che era: un uomo e medico comune, ma altamente nazificato.
Il Blocco 10 svolse una parte importante in una forma di «ricerca antropologica» che fu fra le espressioni più grottesche della visione biomedica nazista. La dottoressa Marie L. così si esprime sugli inizi di questa ricerca di Auschwitz:
[Al Blocco 10] apparve un nuovo protagonista di teorie razziali. Egli scelse i suoi materiali dopo avere fatto spogliare donne di ogni età e averle fatte sfilare nude... dinanzi a lui: voleva compiere misurazioni antropologiche... Fece prendere infinite misure di tutte le parti del corpo... Alle donne fu detto che avevano la fortuna straordinaria di essere scelte, che avrebbero lasciato Auschwitz per andare in un lager eccellente, da qualche parte in Germania [dove] sarebbero state trattate molto bene e dove sarebbero state felici.
La dottoressa L. aveva visto troppe cose di Auschwitz per non sospettare la terribile verità («Mi dissi immediatamente... “Stanno per andare in un museo”»), anche se, come altre, si astenne dal dirlo per «mancanza di coraggio» e anche perché pensava che fosse meglio conservare il silenzio per non indurre ulteriori sofferenze nelle probabili vittime, tanto più che non poteva avere la certezza che il suo sospetto fosse fondato.
Queste donne furono trasferite nel campo di concentramento di Natzweiler, nei pressi di Strasburgo, un campo che, pur non potendo essere designato come un campo di sterminio, possedeva nondimeno la sua camera a gas con le solite docce false e con in più uno specchio unidirezionale che permetteva a coloro che si trovavano all’esterno di vedere attraverso di esso che cosa accadesse all’interno. Questo specchio era stato installato in quanto la camera a gas stessa era stata costruita nell’ambito del necessario equipaggiamento di ricerca.
Un medico prigioniero riferì che il gruppo di donne di Auschwitz (che secondo altre fonti erano trentanove) erano state sottoposte a un esame fisico simulato nell’intento di rassicurarle, dopo di che erano state gassate, e che i corpi erano stati trasportati immediatamente al padiglione di anatomia dell’Ospedale Universitario di Strasburgo. Un prigioniero francese, che dovette assistere il direttore del progetto, il capitano delle SS dottor August Hirt, disse che «le operazioni di preservazione ebbero inizio immediatamente» all’arrivo dei corpi, «ancora caldi, con gli occhi... spalancati e luccicanti». Ci furono due arrivi successivi di uomini, privi del testicolo sinistro, che era stato asportato e inviato al laboratorio di anatomia di Hirt.40
Hirt, professore di anatomia, aveva preparato su ordine di Himmler i sali di cianuro usati per uccidere i prigionieri di Auschwitz in quello che fu l’uso inaugurale della nuova camera a gas. In un memorandum a Himmler, Hirt aveva caldeggiato l’opportunità di procurarsi crani di «commissari ebrei-bolscevichi». L’intento era quello di «acquisire un materiale di ricerca scientifica tangibile» che «rappresentasse... una specie di subumanità repellente ma tipica». Il memorandum raccomandava che «un medico subalterno aggregato alla Wehrmacht» scattasse prima delle fotografie ed eseguisse varie misurazioni e studi sui soggetti finché erano ancora in vita, si assicurasse che la testa non venisse danneggiata durante l’uccisione e poi prendesse altre misure specifiche per conservarla e inviarla all’istituto di ricerca designato dove si sarebbero potuti condurre vari studi sul cranio e sul cervello, fra cui quelli della «classificazione razziale» e dei «caratteri patologici nella morfologia del cranio». Nel localizzare nei membri di tale gruppo due mali estremi (l’ebraismo e il bolscevismo), e nel prevedere di trovare caratteri anatomici specifici nel loro cranio o nel loro cervello, i nazisti agivano in base a un’esasperata combinazione di ideologia razziale-biomedica e di ideologia politica.41
Ma nel procurarsi un numero adeguato di «commissari ebrei-bolscevichi» e forse anche nel mozzare teste dovevano esserci delle difficoltà, cosicché si decise di utilizzare scheletri interi anziché solo crani e di raccogliere gli esemplari nel luogo in cui un compito del genere potesse essere condotto a buon fine, ossia ad Auschwitz. Qualcuno disse che questo progetto aveva fatto 115 vittime, tutti ebrei (79 uomini, 30 donne) con le sole eccezioni di due polacchi e di quattro persone originarie dell’Asia centrale. L’importanza relativamente elevata del progetto è suggerita dal fatto che nei suoi preparativi ebbe parte Eichmann.42
L’intera impresa, bizzarra anche in relazione ai criteri nazisti, fu patrocinata dall’ufficio Ahnenerbe (eredità ancestrale) delle SS, che era stato creato nel 1939 da Himmler per sviluppare studi «storici» e «scientifici» sulla «razza nordica indo-germanica». L’Ahnenerbe introdusse nella scienza concetti mistici («l’unità di anima e corpo, di spirito e sangue») e combinò la missione della Gestapo di controllare la vita intellettuale della Germania con le idee visionarie di Himmler. Essa fornì sostegno a progetti archeologici, alla coscienza razziale tedesca fuori della Germania vera e propria e agli esperimenti medici nei campi di concentramento. Sotto gli ordini di Himmler, la Ahnenerbe patrocinò addirittura un programma di ricerca che avrebbe dovuto servirsi di matematici ebrei internati in campi di concentramento per elaborare i problemi teorici connessi alla produzione di razzi. Fra gli esperimenti nei lager da essa patrocinati ci furono la famigerata ricerca del dottor Sigmund Rascher a Dachau sugli effetti dell’alta quota, nel corso della quale fu provocata irresponsabilmente la morte di numerosi soggetti sperimentali; e le ricerche ancora più omicide di Schuler a Buchenwald sui vaccini antitifici, nel corso delle quali morirono seicento persone.43
Si dice che Hirt sia stato introdotto nella Ahnenerbe da un uomo che divenne suo assistente nel progetto di Strasburgo: Bruno Beger, ufficiale delle SS al servizio personale di Himmler, che era stato mandato a studiare antropologia a Berlino. Beger presentò la tendenza ad abbracciare le teorie più sfrenate di Himmler, e fu lui a organizzare in principio l’esecuzione del progetto ad Auschwitz e forse a scrivere sotto il nome di Hirt lo straordinario memorandum che ho appena citato.44
Un testimone che era stato un ardente nazista e che ricordava Hirt come un buon amico e collega al tempo in cui erano stati assieme giovani docenti in uno fra i principali centri medici tedeschi, lo descrisse come svizzero per origine ma naturalizzato tedesco, «un tipo nordico con occhi azzurri e capelli biondi», uomo stimato ed equilibrato anche se a volte «un po’ impulsivo», ed eccellente anatomista con una carriera accademica promettente. Un mio collega negli Stati Uniti che aveva studiato con Hirt lo ricordò invece come un nazista molto arrogante e minaccioso. In ogni caso non sussiste alcun dubbio né sul legame appassionato di Hirt col nazismo né sulla centralità della visione biomedica nazista nella sua partecipazione al progetto del «museo», anche se ne fu Beger la forza trainante. (Proprio questa centralità fu quel che il vecchio amico di Hirt voleva negare, per accreditare la tesi che l’intero comportamento di Hirt poteva essere compreso come un’espressione dell’insensibilità dell’anatomista.)
Verso la fine della guerra ci fu a quanto pare della confusione circa l’opportunità e la misura in cui portare avanti queste ricerche, e infine venne l’ordine di distruggere le prove. Prima però che questa distruzione potesse essere portata a compimento, le forze francesi che liberarono Strasburgo trovarono, nella stanza di dissezione di Hirt, «molti corpi non ancora sottoposti a lavorazione», molti «già sottoposti a un trattamento parziale» e alcuni altri che erano stati «scarnificati... verso la fine del 1944», con la testa bruciata per evitare ogni possibilità di identificazione: inoltre «era stata usata una speciale cura per eliminare il numero tatuato sull’avambraccio sinistro». Lo stesso Hirt scomparve a quell’epoca e oggi sappiamo che si suicidò poco dopo.45
Questo progetto di museo è degno di nota per la fusione della visione razziale di Himmler con la partecipazione pseudoscientifica altamente concreta di Beger (antropologia) e di Hirt (medicina): una conseguenza logica della mentalità biologica e politica nazista.46
Anche quelli che furono forse gli esperimenti più strani e più benigni ebbero luogo al Blocco 10, nella sezione riservata alle ricerche dell’Istituto d’Igiene: ma neppure questo Istituto riuscì a sottrarsi al male, dominante ad Auschwitz.
Il dottor Ernst B., che ho avuto spesso occasione di citare a proposito di avvenimenti e di atteggiamenti ad Auschwitz, suscitò confusione nei medici prigionieri con esperimenti miranti ad accertare la connessione fra infezioni dentarie e sintomi reumatici e di altro genere, esperimenti nel corso dei quali iniziò l’iniezione di vaccini prodotti con tali infezioni per sottoporre a test la sensibilità dei vari soggetti. Il dottor Michael Z. pensava che il dottor B. non avesse una sufficiente capacità di concentrarsi su una ricerca («Cominciava un progetto nuovo quasi ogni giorno») e lo criticò per avere estratto denti a persone come forma di trattamento sperimentale. Un altro medico prigioniero pensava similmente che il dottor B. si «divertisse» con questi esperimenti. Quanto alla dottoressa Wanda J., che poté osservare questi esperimenti da vicino grazie alla sua posizione nel Blocco 10, liquidò gli esperimenti del dottor B. come «stupidità insignificanti». E riferendosi a un altro aspetto dei suoi esperimenti, lo sfregamento di certe sostanze sulla pelle, sottolineò che non era difficile sostituire a tali sostanze dell’acqua. Fatto più importante, aggiunse, tali «esperimenti» le davano l’opportunità di «scegliere ragazze», che essa poteva così sottrarre agli esperimenti di Clauberg; e per dissipare i loro timori essa sfregava prima la sostanza (di solito solo acqua) su se stessa, «per mostrare alle ragazze che non è nulla».
Il dottor B. affermò esplicitamente che l’intendimento suo e del suo superiore, nel creare quegli esperimenti, era stato quello di salvare donne specifiche (di solito mogli e parenti di prigionieri che lavoravano nell’Istituto di Igiene) dall’unità di Clauberg, dove era probabile che subissero gravi danni dagli esperimenti e che venissero poi inviate nella camera a gas. Il Blocco 10 era in generale il regno di Clauberg; e per poter continuare ad occuparvi spazio, l’Istituto di Igiene doveva dimostrargli che stava conducendo «esperimenti seri». A tal fine il dottor B. riuscì a produrre per mezzo di iniezioni estese infiammazioni alle cosce di queste donne; egli fece del suo meglio per spiegare loro che si trattava di un’infezione benigna e necessaria, ma al tempo stesso si rendeva conto che «questo fatto creava nel lager l’impressione che io fossi impegnato in esperimenti pericolosi, che potevano minacciare la vita stessa dei soggetti». Egli confermò che gli esperimenti implicavano l’iniezione di vaccini ottenuti da infezioni dentarie (di altre persone) per verificare se ci fossero reazioni positive; e, quando ci si imbatteva in tali reazioni, per eseguire esami radiologici dentali nell’intento di trovare conferma dell’esistenza di infezioni dentarie. Il dottor B. sostenne che le donne venivano in seguito dichiarate morte e fatte uscire clandestinamente dal blocco con la connivenza del «kapò del bordello»; questi, in cambio di denaro, le lasciava aggregare al gruppo di prostitute che vivevano nel Blocco 10, quando uscivano quotidianamente per andare a lavorare in altri blocchi. Quando il dottor B. fu processato, le donne su cui egli aveva condotto i suoi esperimenti testimoniarono che aveva agito per salvare loro la vita, e la stessa testimonianza resero vari medici prigionieri, uomini e donne.
Eppure il dottor B. fu abbastanza schietto da descrivere, durante la nostra intervista, la molteplicità di elementi che lo motivavano a compiere i suoi esperimenti. C’era la soddisfazione di salvare singole persone strappandole al reparto di Clauberg, e quindi di «prendersi gioco di Clauberg [che tanto lui quanto il suo capo detestavano]». Ciò comportava però anche la possibilità di recare aiuto a «donne imparentate con i prigionieri dipendenti da me, che erano tutti miei buoni amici». Egli aveva sentito dire, inoltre, che fra le vittime sperimentali di Clauberg c’erano «dottoresse e [altre] donne altamente qualificate». La sua iniziativa gli permise, infine, di scoprire che il bordello poteva rendere «meno difficile del previsto [il compito di] condurle fuori».
Oltre a tutto questo, però, il dottor B. aveva un motivo simile a quelli di tutti gli altri che facevano esperimenti: «Questi esperimenti... mi interessavano». L’opportunità di disporre delle persone necessarie per tali esperimenti «sarebbe stata molto difficile... in qualsiasi altra circostanza». In altri termini, anch’egli si sentiva fortemente attratto dall’opportunità di sperimentare che gli offriva Auschwitz: un’ammissione confermata dal fatto di aver compiuto esperimenti con soggetti maschi, che non correvano alcun pericolo da parte di Clauberg.
Avremo modo di occuparci diffusamente del dottor B. nel capitolo XVI; per il momento possiamo dire che, per i medici nazisti ad Auschwitz e in altri campi, l’impulso alla sperimentazione era potente e multiforme; e l’atmosfera della sperimentazione umana era così diffusa che talune sue espressioni, del tutto o in parte simulate, potevano essere usate, almeno in qualche rara occasione, al fine specifico di salvare vite umane.
La piccola unità dell’Istituto di Igiene al Blocco 10 fu all’origine di un’altra contraddizione. Essa veniva considerata in generale un rifugio, in cui non si svolgevano selezioni, in cui vigevano condizioni di lavoro generalmente gradevoli e in cui si assolvevano vere funzioni mediche, che avevano attinenza con problemi batteriologici ed ematologici. In qualche misura quest’unità estese l’atmosfera generalmente benigna emanante dalla sede centrale dell’Istituto di Igiene di Auschwitz a Raisko, una cittadina alla periferia di Auschwitz. Così la dottoressa Marie L. poté elogiare «il personale medico molto competente, uomini e donne ebrei» che vi lavoravano, come «un grande aiuto per noi» perché erano «sempre pronti a compiere segretamente le analisi che ci occorrevano», parole con le quali essa si riferisce agli esiti di analisi, di solito negativi, che potevano essere esibiti a vantaggio dei pazienti. E nell’unità del Blocco 10 veniva compiuto un lavoro considerevole per mantenere alto il fabbisogno di personale: un numero grandissimo di analisi del sangue e di urine, colture di feci, saliva ed escreti della gola.
Ma vi si facevano anche esperimenti dannosi. Bruno Weber, il capo dell’Istituto di Igiene,i determinò i gruppi sanguigni di certi prigionieri e iniettò in alcuni di loro sangue di gruppi sanguigni diversi, allo scopo di studiare il grado della nefasta agglutinazione di cellule ematiche che ne risultava. Più gravi di questi risultati furono le conseguenze della raccolta di sangue, tanto per questo come per altri esperimenti o per usarlo in trasfusioni a personale tedesco. Non solo il sangue veniva a volte prelevato a prigionieri molto deboli, ma talora lo si estraeva con procedimenti crudeli o addirittura omicidi, perforando in alcuni prigionieri l’arteria carotide e causando loro un’emorragia mortale. Il dottor Michael Z. riferì che un sottufficiale delle SS, «di mestiere imbianchino, [prelevava] da ciascun paziente 700, 800 e a volte addirittura 1000 cc di sangue» e che un medico «aveva seri dubbi che qualcuno di questi pazienti fosse in grado di resistere a un tale salasso».
Il dottor B. spiegò, forse sinceramente, che l’intendimento era quello di prelevare il sangue necessario per produrre il siero per i vari gruppi sanguigni; e benché egli sembrasse difendere il suo capo, ammise che Weber aveva detto alle SS: «Andate al campo, procuratevi alcuni kapò grassi e spillateli (zapft)», col risultato che le SS non si limitarono ai prigionieri ben nutriti, ma «spillarono sangue dovunque riuscirono a procurarselo perché così dovevano faticare di meno».
I medici prigionieri scoprirono inoltre ben presto che l’Istituto di Igiene stava usando per i suoi terreni di coltura tessuto muscolare umano, e non animale. La dottoressa Marie L. raccontò che un giorno, sentendo il rumore delle esecuzioni attraverso il cortile («gli spari... smorzati erano un rumore a noi ben familiare»), lei e altri guardarono attraverso le fessure delle finestre del Blocco 10 e videro portar via i corpi di quattro donne; poi, circa mezz’ora dopo, «i corpi tornarono al loro posto, ma erano mutilati... Erano state asportate loro grandi aree, penetrando in profondità nella carne». La dottoressa poté così confermare ciò che i prigionieri che lavoravano in un laboratorio avevano già sospettato dopo avere notato «nei mezzi di coltura pezzi di carne con pelle senza pelo». La conclusione semplice era che «poiché le SS rubavano la carne che si usava di solito per produrre i terreni di coltura, il medico capo delle SS dell’Istituto di Igiene aveva trovato molto semplice sostituire tale carne con carne umana». Il dottor Michael Z. mi disse che lo stesso sottufficiale delle SS che estraeva brutalmente grandi quantità di sangue ai prigionieri accompagnava il dottor Weber alle esecuzioni e ne «tornava con casse piene di carne umana per preparare i terreni di coltura».
Ad Auschwitz, quindi, la carne umana era meno preziosa di quella animale; usarla poteva sembrare un’espressione accettabile, e persino «ragionevole», della «scienza medica» di Auschwitz.
Risultò che il dottor Weber era implicato in altri esperimenti mortali, che avevano attinenza con quello che il dottor B. descrisse come «lavaggio del cervello con sostanze chimiche». Egli spiegò che la Gestapo era insoddisfatta dei risultati ottenuti torturando gli internati nel lager, soprattutto polacchi, per strappare loro confessioni e informazioni sui loro compagni nella resistenza. «Ci si chiese allora: perché non facciamo come i russi, che sono riusciti a ottenere confessioni di colpevolezza nei loro processi-farsa?» Poiché si pensava che tali confessioni fossero state estorte per mezzo di farmaci, si diede al dottor Weber l’incarico di studiare il problema; e Weber, secondo il dottor B., «cooperò con loro [con la Gestapo]». Weber lavorò con Rohde e Capesius, il principale farmacista delle SS, provando vari barbiturici e derivati della morfina. In un’occasione essi furono visti somministrare una sostanza simile al caffè a quattro prigionieri, di almeno due dei quali si sa che morirono quella stessa notte, e gli altri due forse un po’ dopo. Alla notizia di questi decessi, Rohde avrebbe commentato che avevano fatto una morte piacevole: cosa che, in quel tempo e in quel contesto, un comune medico SS avrebbe ben potuto dire.48j
La reazione del dottor B., quando venne a conoscenza degli esperimenti del suo capo, ci dice molto sull’atmosfera di Auschwitz. Egli disse che il suo affetto e rispetto per Weber non cambiarono «affatto» perché, «nel contesto di Auschwitz,k che differenza facevano due o tre persone; persone che erano nelle mani della Gestapo, e quindi erano in ogni caso già morte?». Il dottor B. fornì una «spiegazione psicologica» del comportamento del suo capo, che era affetto da una grave malattia renale (di cui morì poco tempo dopo la fine della guerra): sentendosi condannato, la sua considerevole ambizione e la sua grande intelligenza lo spronavano a fare tutto il possibile subito. Il dottor B. aggiunse che Weber lavorò a stretto contatto con Mrugowsky, il medico capo dell’Istituto centrale di Igiene delle Waffen ss a Berlino: una collaborazione ideologica e medica da cui potrebbe essere scaturita l’influenza più importante. Mrugowsky fu infatti una figura chiave nella progettazione e nell’esecuzione di esperimenti medici distruttivi in molti campi di concentramento. Il Tribunale di Norimberga lo giudicò colpevole di aver progettato esperimenti mortali col vaccino del tifo a Buchenwald (eseguiti per lo più da Schuler); di aver condotto esperimenti mortali con «pallottole avvelenate» a Sachsenhausen (assieme a Schuler e al dottor Albert Widmann, il chimico delle SS implicato nella gassificazione col programma T4); di avere assistito Gebhardt in esperimenti mortali con sulfamidici a Ravensbrück, nei quali venivano indotte artificialmente delle infezioni; e di avere progettato e ordinato esperimenti di edemi per mezzo di gas, anche questi mortali, a Buchenwald, compresi ulteriori esperimenti con iniezioni di fenolo. Mrugowsky coordinò senza dubbio molti altri esperimenti nella sua qualità di direttore di tutti gli Istituti di Igiene. In questa veste egli fu inoltre una figura centrale nella conservazione e distribuzione dello Zyklon-B, da usarsi ad Auschwitz e altrove.49
L’Istituto di Igiene, che fu una fra le istituzioni più benigne di Auschwitz, risulta essere stato al tempo stesso la sede in cui non solo furono progettati esperimenti medici letali ma in cui fu sviluppata la tecnologia dell’eccidio di massa nei campi della morte. E persino al Blocco 10, quel piccolo laboratorio dell’Istituto di Igiene fu un luogo in cui si praticarono spesso uccisioni col fenolo (vedi cap. XIV).
L’Istituto di Igiene al Blocco 10 è un esempio particolarmente concreto di terapia e uccisione combinate. Lo stesso si può dire per gli esperimenti relativamente benigni e nondimeno pericolosi ivi condotti, di cui ci occuperemo nel capitolo XVIII. La cooperazione insolitamente costruttiva fra medici prigionieri e medici SS salvò molte vite, persino quando i perversi disegni centrali (di Himmler, Mrugowsky e Grawitz) si combinarono con l’autorità medica (di Wirths e Weber) in esperimenti letali e nel sostegno al progetto di sterminio.
Auschwitz applicò la maggior parte delle sue energie all’uccisione di persone, ma la sua disponibilità praticamente a ogni forma di manipolazione umana condusse inevitabilmente a una grande varietà di altri esperimenti. Eduard Wirths, in quanto medico capo, fu il patrono della maggior parte degli esperimenti che furono compiuti ad Auschwitz, in particolare di quelli a cui erano interessate le massime autorità a Berlino.
Un esempio in proposito ci è fornito dalla continua attività sperimentale del capitano delle SS dottor Helmuth Vetter, una figura chiave negli «esperimenti» farmacologici compiuti ad Auschwitz e altrove. Egli aveva lavorato per molti anni col Gruppo Bayer WII della I.G. Farben a Leverkusen e, ad Auschwitz, conservò i suoi legami con tale industria. Egli condusse esperimenti medici per la Bayer ad Auschwitz e a Mauthausen (e forse anche in altri campi) su vari agenti terapeutici, compresi sulfamidici e altri preparati il cui contenuto non è noto con precisione.l
Vetter faceva la spola fra Auschwitz e Mauthausen per sovrintendere allo studio degli effetti del «rutenolo» e del «3582» su molte condizioni mediche gravi (fra cui tifo, febbre tifoide, paratifo, diarrea, tubercolosi, erisipela e scarlattina); ma dei 150-250 pazienti a cui egli somministrò questi farmaci nel reparto infettivi ad Auschwitz, circa 50 erano malati di tifo. L’impressione dei medici prigionieri fu che queste sostanze non avessero alcuna utilità terapeutica, e pare che alcuni pazienti siano morti quasi subito dopo la somministrazione. Vetter fu riluttante ad accettare questi risultati negativi e insistette sempre che in altri campi erano stati ottenuti risultati migliori.50
Vetter coinvolse nella sua ricerca altri medici SS, fra cui Eduard Wirths. Quest’ultimo non solo divenne quello che un osservatore definì il «sostituto ufficiale» di Vetter ad Auschwitz, ma in seguito condusse personalmente esperimenti sulla terapia del tifo nel corso dei quali furono uccisi quattro prigionieri ebrei, contagiati artificialmente perché non erano più disponibili malati di tifo attivi. Questi esperimenti furono a quanto pare un’estensione delle ricerche di Vetter.
Vetter rappresenta il funzionario di ricerca nazista in cui comuni vanità mediche diventano mortali. Egli trovò ad Auschwitz un’area di sperimentazione in cui il ricercatore poteva operare liberamente, senza lasciarsi limitare da preoccupazioni di arrecar danno ai soggetti della ricerca, o addirittura di procurarne la morte, o da giudizi rigorosi sugli effetti terapeutici.
Lo stesso si potrebbe dire per il dottor Johann Paul Kremer, il quale aveva intensi obiettivi di carriera che tentò di realizzare ad Auschwitz. Aveva cinquantanove anni quando vi arrivò nell’agosto 1942, e apparteneva quindi a una generazione anteriore rispetto alla maggior parte dei medici del campo. Dal 1935 professore di anatomia all’Università di Münster, fu l’unico professore universitario a prestar servizio come medico SS in un lager.51
Kremer era interessato da molto tempo a ricerche sui problemi connessi alla morte per inedia, ricerche che perseguì ad Auschwitz cercando prigionieri debilitati selezionati per la morte, che egli definì in seguito «gli esemplari appropriati». Dopo aver fatto «mettere [un paziente] sul tavolo da dissezione», e avere annotato tutti i dati che gli interessavano, concentrandosi particolarmente sul peso e sulla perdita di peso, ordinava a un inserviente delle SS di iniettare fenolo nel cuore del soggetto: «Io me ne stavo a distanza dal tavolo per dissezione, e avevo pronti i barattoli per i segmenti [parti di organi] da prelevare immediatamente dopo la morte... segmenti del fegato, della milza e del pancreas».52 In qualche occasione Kremer prese disposizioni per esaminare questi pazienti o per farli fotografare prima della loro uccisione. Possiamo dire che fece un uso estremamente pragmatico della fabbrica della morte ai suoi fini scientifici. Il dottor Jan W. ci disse che, quando Kremer vedeva un prigioniero la cui forma del cranio gli sembrava insolita, o che gli interessava sotto qualche aspetto, lo faceva fotografare e gli faceva praticare un’iniezione di fenolo per poter accrescere la sua collezione di «campioni freschi di fegato e altri organi», e concluse che «Kremer considerava i prigionieri alla stregua di altrettanti conigli».
Il dottor Kremer divenne tristemente famoso per il suo diario (che fu infine scoperto e pubblicato). In esso erano contenute annotazioni come le seguenti:
4 settembre 1942... presente a un’azione [selezione] speciale nel lager femminile... Il più orribile degli orrori...
6 settembre... Oggi, domenica, un pranzo eccellente: brodo al pomodoro, mezzo pollo con patate e cavolo rosso (20 g di grasso), budino e splendido gelato alla vaniglia...
10 ottobre... Ho preso e preservato... materiale da cadaveri freschissimi, in particolare il fegato, la milza e il pancreas... 11 ottobre... Oggi, domenica, abbiamo avuto a pranzo un grosso pezzo di lepre arrosto con gnocchetti e cavolo rosso per 1,25 RM.53
Un altro tema nel diario di Kremer è la sensazione di essere trattato ingiustamente dalla «medicina ufficiale», che rifiutava le sue due teorie scientifiche preferite. Una di tali teorie era costruita attorno alla sua tesi di avere dimostrato l’ereditarietà di deformità acquisite in conseguenza di traumi, un’idea che non si conciliava, allora come oggi, con i dati scientifici, e che violava specificamente il dogma nazista dell’eredità pura. Egli era stato in effetti biasimato dal rettore della sua università per aver pubblicato un articolo intitolato Un contributo degno di nota al problema dell’eredità in deformazioni traumatiche. La sua seconda teoria comprendeva la tesi che i globuli bianchi del sangue e altri fagociti (cellule che assorbono e digeriscono corpi estranei) siano in realtà cellule tissutali (originarie di altri organi e aree del corpo) che hanno subito un processo di decadimento o «regressione». In questo contesto, egli considerò la sua ricerca ad Auschwitz particolarmente preziosa perché i «campioni freschi» da lui ottenuti (prelevati subito dopo la morte) gli consentivano di studiare effetti degenerativi che non potevano essere attribuiti a mutamenti post mortem.54
Benché Kremer fosse stato nominato professore titolare, non aveva mai avuto una vera cattedra e nel suo diario rimuginava sulla possibilità di «crearsi... a guerra finita... un piccolo laboratorio mio proprio... [perché] ho portato da Auschwitz dei materiali su cui si deve assolutamente lavorare». Auschwitz avrebbe dovuto offrirgli l’opportunità per un grande progresso scientifico e per una rivalsa; e tale previsione, assieme alla sua incondizionata adesione all’ideologia nazista e al suo misto di un’ambizione presuntuosa e di un talento limitato, contribuirono al suo grado di ottusa insensibilità, che fu straordinario anche per i medici di Auschwitz. Kremer fu detenuto per dieci anni in Polonia, e poi processato di nuovo a Münster, dove fu condannato ad altri dieci anni, considerati già scontati. Morì nel 1965.55
Entro l’area medica del lager principale fu creato anche, da una parte del Blocco 28, un blocco sperimentale maschile. Emil Kaschub, uno studente di medicina degli ultimi anni, fu anche lui patrocinato da Wirths, che lo portò al blocco e si informò sollecitamente di quali fossero le sue necessità per la ricerca. Prigionieri ebrei relativamente sani furono sottoposti allo sfregamento di sostanze tossiche sulle braccia e le gambe, cosa che causò loro gravi infezioni ed estesi ascessi. A quanto pare si volevano acquisire informazioni che permettessero di riconoscere chi, fra i civili tedeschi, si spacciasse per malato, provocandosi infezioni del genere per evitare il servizio militare.56 Un prigioniero che aveva lavorato come infermiere in questo blocco identificò alcuni dei materiali usati come «derivati del petrolio», che potevano essere iniettati oltre che sfregati sulla pelle, e davano origine a estese infiammazioni e ascessi contenenti un liquido nerastro, che «puzzava di petrolio» e che doveva essere drenato.
La seconda serie di esperimenti comportò applicazioni di acetato di piombo a varie parti del corpo, le quali causavano ustioni dolorose e varie forme di scolorazione. In tutt’e due le serie di esperimenti gli esemplari venivano inviati ai laboratori per esservi studiati, e si faceva un complesso lavoro fotografico per creare una documentazione delle condizioni causate. L’infermiere prigioniero mi parlò del grande «armadio nero» usato come parte dell’attrezzatura fotografica, in cui i soggetti sperimentali dovevano restare immobili in piedi per lunghi periodi di tempo, cosa che causava loro altre sofferenze, lamenti di dolore e quasi collassi: «Spesso dovetti riportare al loro letto persone che avevano perso conoscenza».57
Una terza serie di esperimenti richiedeva l’ingestione per bocca di una polvere, allo scopo di studiare i sintomi di danno al fegato che essa causava: nausea, perdita dell’appetito, ittero e orina scolorata. Si pensava che questa ricerca fosse una conseguenza dell’interesse espresso da Himmler per varie forme di malattie epatiche e itterizia a causa dei problemi che queste malattie creavano alla Wehrmacht.
Questa serie di esperimenti condotti al Blocco 28 rifletté quindi principalmente l’interesse ufficiale per condizioni che riguardavano le forze armate, ma implicavano probabilmente anche una certa «curiosità scientifica» dei singoli medici. Auschwitz fornì un laboratorio di ricerca relativamente tecnologizzato (per quanto concerneva le apparecchiature fotografiche), dove un giovane medico neofita era incoraggiato a servire la causa e a farsi un nome in medicina per mezzo di esperimenti.
Infine, in varie parti del campo furono condotte una serie di dimostrazioni chirurgiche.
Secondo una testimonianza, al Blocco 41 di Birkenau si presentarono «tre ben noti professori tedeschi» a compiere vivisezioni, consistenti nell’esporre i muscoli delle gambe e applicare poi su di essi vari farmaci.58 Secondo un’altra testimonianza, persino studenti di medicina avrebbero eseguito interventi chirurgici sperimentali in un blocco medico femminile: un giorno comparvero al blocco «molti giovani medici in camice bianco [identificati in seguito come studenti, i quali]... visitarono i reparti e ci osservarono tutte e, attraverso ordini dati al medico prigioniero, scelsero certe donne, applicarono su di esse delle maschere per anestesia e le fecero portare in un’area operatoria, dalla quale esse fecero poi ritorno per risvegliarsi nel loro letto, ciascuna con ferite diverse da quelle delle altre». Le donne conclusero che «ogni studente eseguiva come esperimento un’operazione in quella che era la sua specialità: gola, occhi, stomaco o ginecologia»: questo fu il caso, in particolare, della donna che prestò questa testimonianza, la quale scoprì solo molto tempo dopo che le erano stati tolti l’utero e le ovaie.59m
Conosciamo la tendenza dei medici SS ad acquisire esperienza chirurgica tentando varie operazioni, con o senza la supervisione di medici prigionieri ebrei o polacchi più esperti, e spesso su prigionieri che non avevano alcun reale bisogno di un intervento chirurgico. I medici SS alteravano sistematicamente documenti clinici o identificavano durante gli appelli certi prigionieri con malattie o storie di malattie di natura potenzialmente chirurgica – cistifellea, appendice, calcoli renali eccetera – e ordinavano loro di presentarsi all’ospedale. «Se, in un certo periodo, un medico stava studiando le operazioni alla cistifellea, i prigionieri che soffrivano di questa infermità venivano portati sul tavolo operatorio.»60
Qui, ancora una volta, Auschwitz diventa una caricatura medica: questa volta dei medici affamati di esperienza chirurgica. In assenza di limitazioni etiche si poteva predisporre esattamente il tipo di esperienza chirurgica che si ricercava, esattamente sui tipi di «casi» appropriati ed esattamente nel tempo voluto. Se poi si sentivano problemi di coscienza ippocratici, ci si poteva rassicurare senza grande sforzo con l’argomento che, essendo tutte quelle persone in ogni caso condannate a morte, non si stava in realtà procurando loro alcun danno. Se si riusciva a mettere da parte l’etica, e tralasciando qualche altro inconveniente, sarebbe stato difficile trovare un laboratorio chirurgico che offrisse condizioni altrettanto ideali.
Com’era inevitabile, i medici prigionieri furono attratti nel mondo sperimentale di Auschwitz. «Io non credo che ci sia stato un singolo medico SS che abbia fatto esperimenti senza l’aiuto, in un modo o nell’altro, di medici prigionieri, volenti o nolenti»: così si espresse il medico prigioniero francese dottor Frédéric E. Di solito tale impegno non si spingeva oltre le cure prestate ai soggetti sperimentali, «che dopo gli esperimenti stavano male», ma poteva estendersi anche all’esecuzione degli esperimenti o alla «ricerca».
In quest’ultimo caso c’erano importanti distinzioni da farsi per quanto concerneva il rapporto del medico prigioniero con la ricerca. Per esempio, la dottoressa Lottie M. riferì su un’antropologa polacca prigioniera, Teresa W., la quale eseguì misurazioni per Mengele nell’ambito del suo studio dei gemelli. Benché la dottoressa M. e altri avessero un’alta considerazione per questa donna, altri internati erano risentiti verso di lei perché Mengele la favoriva (concedendole una stanza a sé, cibo sufficiente, uno speciale trattamento quando si ammalava) e anche perché «faceva del vero lavoro»: ossia perché eseguiva misurazioni accurate in accordo con le richieste della sua professione. Di contro, la dottoressa M. spiega quale sia stata la propria reazione alla richiesta fattale dal dottor König di prelevare il sangue a un particolare paziente a intervalli di due ore durante la notte per poterne seguire la velocità di sedimentazione. Non avendo alcuna voglia di alzarsi ogni due ore e «non avendo alcun interesse al suo lavoro», la dottoressa M. si limitò a prelevare in una sola volta la quantità di sangue richiesto e lo distribuì in dodici flaconcini, dopo di che se ne andò tranquillamente a letto e il giorno seguente presentò il contenitore: «Non mi diedi alcun pensiero che questo modo di procedere non fosse [quello che mi era stato richiesto] e fosse... solo un sabotaggio». Il fatto che Teresa W. «non avesse questo atteggiamento» suggerisce un’integrità scientifica che può apparire problematica dal punto di vista morale. Va detto però che quando un prigioniero lavorava regolarmente con un medico SS (che poteva essere benissimo in grado di scoprire delle falsificazioni) era più probabile che cercasse di essere accurato, come fece quest’antropologa polacca, in quelle che sembravano attività relativamente innocue (e che quindi si prestavano di più a sollecitare la propria identità personale), come le misurazioni della W. Al tempo stesso, essa sostenne di non saper nulla di ciò che era invece ben noto a molti, ossia che di tanto in tanto Mengele faceva ammazzare uno dei due gemelli, o entrambi, per poter ottenere informazioni scientifiche dallo studio autoptico (vedi anche alle pp. 474-482). La posteriore riluttanza di Teresa W. a testimoniare contro Mengele ha attinenza non solo col fatto che Mengele le salvò la vita – che potrebbe già essere una ragione sufficiente – ma anche col suo bisogno di mantenere un atteggiamento distaccato e disimpegnato in relazione al progetto «scientifico» di cui essa fu parte.
A volte un medico prigioniero poteva aggrapparsi a una precisione scientifica suscettibile di accrescere la sua reputazione, anche a spese della vita di altri. Per esempio, un professore ebreo insistette nell’identificare come una speciale forma di tubercolosi una sindrome di infezione ossea in cui si era imbattuto ad Auschwitz e tentò (come mi spiegò il dottor Jacob R.) di convincere tutti ad accettare la sua idea, finché i colleghi non lo sottoposero a pressioni per desistere, essendo noto che «ad Auschwitz la diagnosi di tubercolosi significava la condanna a morte, almeno per gli ebrei».
Più usuale, fra i medici prigionieri, era la norma morale che, persino nel caso di semplici ricerche cliniche – come quelle che si svolgevano nei laboratori dell’Istituto di Igiene –, si doveva evitare di riferire risultati che potessero danneggiare i prigionieri. Nel caso della difterite, come ci dice il dottor Michael Z., un referto positivo avrebbe significato la selezione per le camere a gas e perciò la «firma dell’ordine di esecuzione». E aggiunse: «In quante decine di casi di campioni di espettorato in cui stavano nuotando bacilli di Koch [della tubercolosi] noi demmo un referto negativo?». Possiamo dire che il vero compito terapeutico del medico prigioniero ad Auschwitz sia stato quello di fare uso della sua conoscenza non solo della scienza medica ma anche dell’eccidio compiuto sotto l’egida della medicina per compilare referti e diagnosi che, esatti o falsi che fossero, potessero servire a conservare la vita dei prigionieri.
Tale principio fu oggetto di un’aspra discussione in uno dei molti esempi di «collaborazione di ricerca» fra medici SS e medici prigionieri ad Auschwitz.
Un medico prigioniero riferì che Mengele avvicinò il professor Berthold Epstein, un eminente pediatra prigioniero, proponendogli, in cambio di «un prolungamento della sua vita», di aiutarlo a preparare una ricerca che egli (Mengele) potesse pubblicare sotto il proprio nome. Mengele concesse a Epstein un giorno di tempo per riflettere sulla proposta. Epstein, un «vecchio» proveniente da un ambiente cecoebreo assimilato a Praga, che «aveva nozioni di onore stravaganti», era indignato che Mengele «volesse rubargli l’anima». I suoi colleghi lo convinsero però rapidamente che «un atteggiamento del genere a trecento metri di distanza da un crematorio era tutt’altro che realistico» e che, «sotto il pretesto della ricerca scientifica», i medici prigionieri potevano essere di grande utilità per altri internati, oltre a migliorare le proprie condizioni di vita.
Epstein propose allora una ricerca sul trattamento del noma, una grave condizione cancrenosa ulcerativa, a rapido sviluppo, della faccia e della bocca, che è spesso fatale e che era molto diffusa fra bambini e adolescenti zingari nel campo. Mengele accettò, e fu creata su due piedi una «sezione del noma» (Nomaabteilung), nella quale furono accolti da quarantacinque a settanta bambini, ai quali furono dati una dieta speciale, particolarmente nutriente, vitamine e sulfamidici, secondo la richiesta del professor Epstein e le disposizioni di Mengele. Il medico SS fece fotografare i bambini prima, durante e dopo il trattamento e invitò altri medici SS in reparto a osservare il lavoro. Un numero considerevole di bambini guarirono.61 Quand’anche non tutti i particolari di questa ricostruzione siano corretti,n essa dimostra che il medico SS poteva, per soddisfare la propria ambizione, permettere a medici prigionieri di compiere ricerche in una direzione genuinamente terapeutica (vedi anche pp. 490-491).
Ci siamo occupati di situazioni in cui dei medici prigionieri furono oggetto di pressioni per indurli a partecipare a esperimenti chiaramente dannosi che non potevano in alcun modo considerare ricerche legittime (cap. XII). Alcuni, come il dottor Samuel e il dottor Dering, cedettero a tali pressioni; altri medici prigionieri invece resistettero, spesso in modo indiretto e sempre cercando di agire con la massima prudenza.
La dottoressa Wanda J. si appellò al suo status con Wirths, che la rispettava e che aveva bisogno di lei al Blocco 10, per evitare di essere coinvolta nelle attività di Schumann e di Clauberg. A proposito di Schumann, mi disse: «Non che io fossi un’eroina, [ma] non ero una sua proprietà», cosa che le permise di affermare falsamente (e di ciò Schumann si rese probabilmente conto) di «non essere un chirurgo». Con Clauberg, come con Schumann, la dottoressa J. riuscì a limitare essenzialmente la sua partecipazione alla cura delle loro vittime. Con Wirths essa dovette essere più indiretta e persino più vaga, e quando egli le suggerì di asportare (come aveva fatto Samuel) la cervice uterina di donne che si riteneva avessero proliferazioni precancerose, essa titubò e insistette sul fatto che «prima di tutto io organizzavo l’ospedale» (vedi pp. 327-329).
Una dottoressa prigioniera francese con forti convinzioni protestanti divenne nota per la sua opposizione diretta a richieste naziste. Come ricordò la dottoressa Lottie M., la dottoressa Marie L. condivideva l’opinione generale che nessuno di loro sarebbe probabilmente sopravvissuto ad Auschwitz: «L’unica cosa... che ci rimane è quindi di comportarci per... il breve tempo restante come esseri umani». Quando Wirths fece pressioni su di lei perché eseguisse esami colposcopici del collo dell’utero (per scoprire alterazioni precancerose), la dottoressa L. in principio lo fece, ma riconoscendo innanzitutto che gli esami da lei fatti erano del tutto imprecisi, e in secondo luogo che quel lavoro aveva conseguenze potenzialmente dannose (l’ablazione chirurgica della cervice uterina), invocò una vecchia ferita a una gamba che disse le impediva di partecipare alla ricerca. Il timore non le consentì di opporre subito dopo un secondo rifiuto, cosicché accettò di eseguire un’anestesia per il dottor Samuel in un intervento chirurgico sperimentale (ablazione di un’ovaia) da lui eseguito per Schumann. Dopo quella singola esperienza, però, lei si rifiutò di farne altre.
Quando si trovò di fronte a Wirths, la dottoressa L. ebbe con lui uno scambio che ha assunto riverberi leggendari. Essa spiegò che tali attività erano «contrarie alle mie concezioni come medico». Wirths le chiese allora: «“Non si rende conto che queste persone sono diverse da lei?” E io gli risposi che c’erano varie altre persone diverse da me, a cominciare da lui!»
Essa oppose resistenza anche alle richieste del fratello di Wirths, Helmut, che partecipava alle ricerche del fratello; e quando Eduard Wirths le chiese in seguito che cosa pensasse della sterilizzazione: «Io risposi che mi opponevo in modo assoluto, che non avevamo alcun diritto di disporre in quel modo della vita della gente e di sterilizzarla». Essa fu allora rimandata dal Blocco 10 a Birkenau senza alcun’altra punizione, e alcuni prigionieri ben informati le consigliarono, data la precarietà della sua situazione, di cercare di dare il meno possibile nell’occhio. Essa respinse inoltre altre due esortazioni: una del dottor Samuel, che le consigliava di prendere parte agli esperimenti, in quanto «si stanno preparando delle esecuzioni», al che lei rispose: «Se lo facessi, dopo sarei costretta a suicidarmi». La seconda fu da parte di Mengele: «Ovviamente gli dissi che non volevo farlo»; in seguito, «egli disse ad altri che non poteva chiedermi di fare ciò che non volevo fare».
La sua resistenza agli esperimenti era stata insolitamente ferma; rafforzata dalle sue convinzioni religiose, lei era disposta a morire piuttosto che violare il suo codice etico. Anche se, senza dubbio, lei aveva più margine di un medico ebreo nell’esprimere questi princìpi, il suo coraggio non fu per questo meno notevole. Un elemento importante in questa situazione è rappresentato dalla disponibilità sia di Wirths sia di Mengele a lasciar correre piuttosto che punirla o ucciderla. A partire dalla fine del 1942 i medici SS ricevettero l’istruzione di mantenere in vita e far lavorare i medici prigionieri; e in ogni caso preferivano arruolare per i loro lavori sporchi coloro che erano più malleabili. Eppure anche la dottoressa L. dovette lottare con la paura, e neppure lei poté evitare di essere brevemente coinvolta negli esperimenti prima di riuscire a tirarsene fuori completamente.
I medici prigionieri ebbero talvolta la possibilità di avviare ricerche genuine, come il programma di elettroshockterapia sviluppato da un neurologo polacco. Un altro medico prigioniero che poté seguire da vicino questa situazione, Frédéric E., mi disse che prima della guerra quest’uomo era stato un distinto neurologo, e che la motivazione che lo indusse a compiere questa ricerca fu la consapevolezza generale del fatto che «i medici tedeschi amavano molto che nel loro lager accadessero cose straordinarie che potessero dare loro un considerevole prestigio personale» ed erano «molto compiaciuti quando medici prigionieri producevano qualcosa di scientificamente interessante», di cui potersi poi appropriare e pubblicare sotto il proprio nome. Ciò vale specialmente per il dottor Hans Wilhelm König, che accettò entusiasticamente questo piano, non solo disponendo che internati «schizoidi» maschi venissero portati nel blocco dell’ospedale per esservi sottoposti alla terapia elettroconvulsivante, ma adottando anche la misura insolita di far portare all’ospedale pazienti femmine dal lager di Birkenau, a sette o otto chilometri di distanza (vedi pp. 315-316).
König concepì in effetti un grande interesse per la ricerca e assistette regolarmente alle sessioni terapeutiche. Il dottor E., che fu anch’egli presente a qualche seduta, pensa che il procedimento sia stato genuinamente terapeutico, e che abbia contribuito a salvare delle vite umane: «Coloro che avevano turbe nervose non furono mai selezionati [per la camera a gas] da König perché egli era interessato a vedere quale effetto avesse su di loro l’elettroshockterapia». Inoltre, i pazienti diagnosticati come schizoidi venivano posti «sotto la protezione di Fischer e... di König... [e] di conseguenza... erano trattati... in un modo più favorevole»: essi venivano lasciati in ospedale o, se venivano rimandati ai lager, non venivano assegnati a lavori duri.
Ma nessuna ricerca o terapia poteva sottrarsi alla corruzione di Auschwitz. Un prigioniero che lavorò in un blocco a Birkenau testimoniò in seguito che «il dottor König fece esperimenti di elettroshockterapia su donne», e aggiunse: «Queste donne, in seguito, parlarono del trattamento che avevano subito. Io credo che il dottor König abbia eseguito gli esperimenti di elettroshock su donne malate due volte la settimana e che in seguito tali donne siano state gassate».
In altri termini l’elettroshockterapia potrebbe essere vista come un preludio alla camera a gas, e sulla base di tale testimonianza e di altre ricerche la Commissione Internazionale della Croce Rossa a Ginevra (in associazione con l’Internationaler Suchdienst – Servizio Internazionale di Ricerca – di Arolsen, nella Germania Federale) incluse questi «esperimenti di elettroshockterapia» nell’elenco degli «esperimenti pseudomedici» le cui vittime dovevano essere risarcite.63
Frédéric E. fu profondamente turbato da questa decisione, che considerò una sorta di mitologia sviluppatasi in conseguenza del fatto che le «violente convulsioni» implicate dalla terapia condussero alla diffusione di «voci che stava accadendo qualcosa di terribile». Egli avviò allora una corrispondenza con le autorità della Croce Rossa Internazionale, insistendo sulla tesi che il progetto era stato genuinamente terapeutico e chiedendo che si rivedesse la designazione di «esperimenti pseudo-medici». Le autorità risposero che l’elettroshockterapia era stata usata talvolta su persone che non avevano alcuna malattia mentale e che ciò era stato «fatto nel massimo segreto». Il dottor E. smise di protestare solo quando gli fu detto che la categoria di «esperimento pseudomedico» significava che i malati avrebbero potuto ricevere un risarcimento nel quadro dell’indennità che la Repubblica Federale Tedesca pagava al governo polacco. Nella sua ultima lettera il dottor E. chiarì che non intendeva negare a nessuno un tale risarcimento, ma insistette nondimeno nell’affermare che tale designazione era «un errore», che si sarebbe dovuto evitare in future pubblicazioni. Egli stava senza dubbio difendendo sia l’integrità di suoi colleghi sia la propria. Ma l’episodio nel suo complesso rivela una volta di più la tendenza dell’ambiente di Auschwitz ad asservire praticamente ogni sforzo medico alla sua incessante distruttività.
Esiste ancora un’altra sorta di ricerca, molto più rara, condotta esclusivamente da prigionieri come mezzo per investigare sui trattamenti a cui erano sottoposti, ossia come forma di testimonianza medica. Frédéric E. e un eminente medico prigioniero studiarono il sangue di altri ventisei internati di Auschwitz (Monowitz), suddivisi in cinque gruppi, dai nuovi arrivi in condizioni abbastanza buone a prigionieri in stati avanzati di emaciazione ed edema. Questi medici prepararono infine un rapporto medico accurato che fu pubblicato nel 1947 e che, come mi disse con orgoglio il dottor E., era «l’unica ricerca medica pubblicata compiuta [da internati] sotto i tedeschi».64 Il dottor E. e i suoi amici erano interessati alle carenze della dieta e agli effetti fisiologici di tali carenze: «Vede, eravamo nel 1944 e potevamo capire che i tedeschi stavano perdendo la guerra, e volevamo sapere che cosa ci davano da mangiare». Per ottenere l’approvazione di König, che era loro necessaria per poter compiere la ricerca, essi presentarono la loro ricerca come uno studio della «perdita di peso degli internati da un punto di vista medico», anziché ammettere che volevano valutare la dieta del lager.
È probabile che König abbia autorizzato la loro ricerca considerando la possibilità di pubblicare i risultati «sotto il proprio nome nella letteratura medica tedesca». «Sarebbe stato perfettamente possibile per lui omettere il fatto che la ricerca era stata compiuta ad Auschwitz... Dopo tutto c’è sempre gente che perde peso, che è in miseria.»
Subito prima dell’evacuazione di Auschwitz, il dottor E. preparò due copie di un diagramma che compendiava i risultati della ricerca, così che tanto lui quanto il suo collaboratore potessero portarne una con sé. La sua copia andò perduta nel corso di una perquisizione, ma il suo collaboratore riuscì a conservare l’altra copia. Ci fu poi una discussione con un medico dell’Istituto di Igiene di Buchenwald circa la possibilità di riprendere la ricerca là. Anche se il progetto non andò in porto, la considerazione di cui E. venne a godere semplicemente attraverso le discussioni col medico SS fu importante nell’evitargli di essere mandato altrove e «potrebbe avermi salvato la vita».
Nell’articolo infine pubblicato troviamo descrizioni in asciutta terminologia medica di «cachessia senza edema», «moderata emaciazione... con moderato edema» ed «edema esteso [con] diminuzione delle proteine e albumina totali del plasma». Dietro questi vocaboli tecnici c’è però un’espressione appassionata della missione del sopravvissuto di portare testimonianza e di dare un significato all’esperienza di Auschwitz, rivelandone alcune delle crudeli dimensioni mediche. Benché anche questi medici prigionieri possano avere avuto dei momenti di dubbio, chiedendosi se anch’essi non stessero trasformando altri internati in «cavie» (tanto più che la ricerca richiedeva l’approvazione di un medico SS), essi poterono vedere senza dubbio la loro ricerca primariamente come un contributo al compito di far conoscere al mondo la realtà di Auschwitz.
C’è un’altra funzione della ricerca ad Auschwitz: quella del campo come fonte costante di vittime per ricerche che venivano compiute quasi dappertutto. Oltre ai prigionieri di Auschwitz che furono portati a Strasburgo per arricchire la collezione di scheletri del professor Hirt, ci sono molti altri esempi: otto prigionieri di Auschwitz inviati a Sachsenhausen per esperimenti sull’epatite epidemica, in cui la possibile morte dei prigionieri era una parte del progetto accettata in anticipo; e la vicenda tristemente famosa di venti bambini ebrei, di età compresa fra i cinque e i dodici anni, trasferiti da Auschwitz a Neuengamme, ad Amburgo, dove furono sottoposti a iniezioni di siero tubercolare virulento e ad altri esperimenti, e assassinati segretamente subito prima dell’arrivo di truppe alleate.65 Auschwitz non fu solo una fabbrica della morte sotto la copertura della medicina, ma un serbatoio di «materia prima» per esperimenti medici mortali da chiunque e dovunque venissero eseguiti.
Vari medici prigionieri poterono esprimersi con amara precisione sul modo specifico in cui la loro umanità e quella di altri internati veniva negata dagli sperimentatori nazisti. Uno di loro osservò che «l’uomo era l’animale sperimentale che costava di meno... Meno di un ratto». Un altro dichiarò che gli esperimenti «non avevano alcuna base scientifica e... che l’interesse principale che avevano per quelli che li eseguivano era di dare a Berlino, nelle loro relazioni dettagliate, l’illusione che si compissero ricerche importanti e continue, consentendo così a questi bravi “ricercatori” di rimanersene lontani dal fronte in una posizione di sinecura».
Sappiamo che i medici nazisti giustificarono in parte gli esperimenti con la convinzione che gli ebrei fossero in ogni caso condannati. Benché i medici prigionieri non potessero usare questa giustificazione, anch’essi risentivano emotivamente della condanna a morte già pronunciata per gli ebrei. Il dottor Jacob R. ricordò di avere avuto il pensiero che «gli esperimenti erano considerevolmente meno importanti dell’intero inferno che avevo davanti agli occhi».
Gli esperimenti rappresentano, fra l’altro, un’abolizione dei limiti della medicina. Il comportamento medico comune è orientato a conservare la vita, e ad astenersi dall’uccisione o menomazione attuale o potenziale del proprio paziente nel nome della salvaguardia della vita del proprio gruppo o del proprio popolo. Paradossalmente, proprio quella visione medica della terapia sociale contribuì direttamente all’uso della medicina per uccidere o ferire. Di qui la serie di esperimenti condotti ad Auschwitz, e di quelli eseguiti altrove, comprendenti ustioni inflitte artificialmente con bombe incendiarie al fosforo; esperimenti sugli effetti del bere l’acqua di mare; esperimenti con varie forme di veleni, per ingestione ovvero attraverso ferite prodotte con pallottole o frecce; esperimenti diffusi sul tifo indotto artificialmente, oltre che sull’epatite epidemica e sulla malaria; esperimenti sull’immersione in acqua al punto di congelamento per determinare le reazioni e la vulnerabilità del corpo; esperimenti col gas iprite per studiare i tipi di lesione che può causare; esperimenti sulla rigenerazione di ossa, muscoli, tessuto nervoso e sul trapianto di ossa, implicanti il prelievo di varie ossa, muscoli e nervi da donne sane. Tutti gli esperimenti furono connessi alla visione biomedica nazista, sia che abbiano contribuito direttamente al genocidio di una cultura (come nel caso della sterilizzazione) sia che siano stati opera di medici tedeschi che si assunsero un ruolo guida nella purificazione biologica e genetica.
Negli esperimenti di sterilizzazione, ovviamente, la fonte ideologica dell’ispirazione e gli obiettivi sono chiari. Ma anche tutti gli altri esperimenti riflettono l’immagine nazista delle «vite indegne di vita», ossia di creature che, essendo subumane, possono essere alterate, manipolate, mutilate o uccise, al servizio della razza nordica e in definitiva di un rinnovamento dell’umanità. Si sperimenta senza limite al fine di «raccogliere assieme il sangue migliore» e di «generare ancora una volta, nel corso delle generazioni, il tipo puro del tedesco nordico».66 Il compito non è mai realizzato appieno, cosicché si deve continuare a sperimentare. L’intero sistema di Auschwitz diventa perciò non solo un vasto esperimento, ma un esperimento senza fine.
a. Gli esperimenti sul tifo furono condotti solo in una misura limitata ad Auschwitz, ma su una scala molto più vasta in altri campi di concentramento.
b. La formula fu sviluppata a quanto pare da Clauberg e dal suo assistente, il dottor Johannes Goebel, chimico capo della società farmaceutica Schering.
c. Questa lettera valse a Pokorny un posto sul banco degli imputati a Norimberga. Pokorny si difese sostenendo che il Caladium seguinum era così chiaramente inadatto alla sterilizzazione umana che egli aveva scritto a Himmler per distoglierlo dal considerare metodi più realizzabili. La corte sentenziò che la lettera, pur essendo «mostruosa e abietta come... [i suoi] suggerimenti», non giustificava una condanna, e concluse: «Riteniamo perciò che l’imputato debba essere assolto, non a causa, ma nonostante la difesa da lui messa in atto».13
d. E aggiunse: «Si diceva che egli [Clauberg] fosse egli stesso ebreo [ovviamente non lo era]; in ogni modo lo sembrava. [Anche] perché poneva un’attenzione estrema a non lasciare tracce».
e. La visione di Himmler ebbe gradazioni variabili di assurdità e di pseudoscienza. Per esempio, egli credette ardentemente (come Hitler e Göring) in espressioni di razzismo mistico come l’idea che il continente perduto di Atlantide fosse stato la patria d’origine degli ariani, e che questi non si fossero evoluti dalle scimmie come il resto dell’umanità bensì fossero discesi sulla Terra dal cielo, dove erano stati conservati nel ghiaccio dall’inizio del tempo. Himmler, in effetti, creò nel 1937 un settore della meteorologia dedicato alla Ahnenerbe ([eredità ancestrale], vedi pp. 389-392) per «dimostrare» questa storia del «ghiaccio cosmico», anche se ufficialmente lo scopo annunciato della nuova divisione fu lo sviluppo di nuove tecniche per la predizione del tempo a lungo termine. Himmler, che guardava con simpatia ai poteri di guarigione della natura ed era un critico ardente tanto del tradizionalismo quanto dei pregiudizi «cristiani» della medicina ufficiale, poté vedere la sperimentazione sull’uomo nei campi di concentramento come una forma di liberazione da queste costrizioni nel nome di audaci innovazioni scientifiche.24
f. Darré, il capo degli agricoltori del Reich e ministro del Reich per l’alimentazione, era un teorico ideologico del sangue e del suolo che glorificò il contadino tedesco come la forza motrice della storia.
g. Nella sua difesa, al processo di Norimberga, Brack sostenne, che, riferendosi a esperimenti inesistenti, intendeva sviare Himmler, tentando di indurlo a considerare un’alternativa alla Soluzione finale, come mezzo per bloccare l’intero progetto.27 Le prove disponibili suggeriscono che Brack stesse sì tentando di manovrare Himmler, ma nell’intento di procedere il più rapidamente possibile col progetto di castrazione e di sterilizzazione. Se egli avesse ammesso questo nucleo di verità, avrebbe forse potuto dare una maggiore credibilità alla sua falsa testimonianza.
h. Al processo a Dering, il registro chirurgico fu compendiato nel modo seguente: «C’era un elenco di 130 righe numerate, ciascuna delle quali recava una data compresa fra il 5 marzo 1943 e il 10 novembre dello stesso anno, numero e nome di un singolo prigioniero e la natura dell’intervento in latino, come castratio, sterilisatio, amputatio testis sin., amputatio testis dex., amputatio testis utriusque (bilaterale), ovariectomia sin. e ovariectomia dex.».36
i. Langbein ebbe «l’impressione che Weber fosse in realtà disgustato da quanto avveniva ad Auschwitz e tuttavia preferisse la permanenza in un campo di sterminio all’impiego al fronte. Si preoccupava costantemente di sottolineare l’importanza del suo Istituto e si impegnava con tutte le sue energie affinché venisse ampliato».47
j. Esperimenti affini condotti a Norimberga e altrove potrebbero avere implicato l’uso della mescalina.
k. Per tutta la durata delle nostre interviste egli usò ripetutamente quest’espressione – unter dem Aspekt von Auschwitz – per fare osservazioni simili.
l. Fra questi preparati c’erano quelli designati con i numeri 3582 (un preparato con nitroacridina), V1012 e il rutenolo (una combinazione del preparato 3582 e di acido arsenico).
m. Data l’atmosfera di Auschwitz, in cui ogni sorta di esperimento era considerato possibile, descrizioni come queste potrebbero comprendere imprecisioni o deformazioni, ma è molto probabile che sia accaduto realmente qualcosa di assai simile a ciò che è stato descritto.
n. Langbein conferma questo racconto, aggiungendo che il paziente che ottenne il risultato migliore fu una bambina di una decina di anni le cui guance, attraverso la cui ulcerazione si potevano già vedere i denti, si erano richiuse grazie alla crescita di tessuto cicatriziale. Egli riferì che, prima che il noma fosse stato ridotto sotto controllo, Mengele aveva fatto tagliare la testa di vari bambini morti di questa malattia e che conservava quei macabri esemplari in recipienti di vetro.62
XVI
La sua primissima visita al laboratorio del Blocco 10... fu una sorpresa straordinaria per noi. Egli venne in laboratorio da solo, a differenza delle altre ss, senza un cane (Weber veniva sempre con un cane lupo), chiuse a chiave la porta dietro di sé [in modo che il suo comportamento non potesse essere osservato da altre ss], disse «Buon giorno» e si presentò... offrendo la mano ai miei colleghi e a me... Da molto tempo... non eravamo più abituati a vedere qualcuno fra le autorità del lager che ci trattasse come persone uguali a lui.
Un sopravvissuto di Auschwitz
Avevo udito e letto molte cose su Ernst B. prima di conoscerlo e – cosa sorprendente nel caso di un medico nazista – si trattava sempre di giudizi positivi. I medici prigionieri, sia nei loro scritti sia nelle loro testimonianze orali, descrissero invariabilmente il dottor B. come un medico nazista unico ad Auschwitz: un uomo che aveva sempre trattato i prigionieri (specialmente i medici) come esseri umani e che aveva salvato molte vite umane; che si era rifiutato di fare selezioni ad Auschwitz; che era «Un essere umano in uniforme di SS». Il dottor B. era stato apprezzato a tal punto dai medici prigionieri che quando, dopo la guerra, fu processato la loro testimonianza a suo favore gli fruttò l’assoluzione.
Non dovetti fare molta fatica per entrare in contatto con lui, come con la maggior parte degli altri medici SS, ma gli fui presentato da un giudice tedesco che aveva ricevuto una sua deposizione nei procedimenti per l’estradizione di Mengele. Il dottor B. aveva anzi espresso entusiasmo all’idea di incontrarmi per discutere dettagliatamente con me le sue esperienze. Mi trovai di fronte un uomo ben vestito di circa sessantacinque anni, piccolo e minuto, di modi gentili, in generale simpatico. Egli fu in effetti così amabile da mettermi un po’ a disagio e io ricordai tacitamente a me stesso che, quali che fossero le sue virtù, era stato uno di loro: un medico nazista ad Auschwitz.
All’inizio della guerra, nel settembre 1939, il dottor B. era un giovane medico generico, laureato da pochi anni. L’anno seguente, anche in risposta all’entusiasmo patriottico nazionale suscitato dalle prime vittorie tedesche, egli cominciò a sentire un intenso desiderio di arruolarsi. Da giovane qual era, sentiva di dover partecipare, ma aveva difficoltà a realizzare il suo desiderio perché i pianificatori medici del tempo di guerra della sua regione lo avevano dichiarato essenziale, e quindi intoccabile. Poi, un giorno, egli incontrò per caso un amico degli anni di università, il quale gli disse: «Heydrich [il capo del Sicherheitdienst, il Servizio di Sicurezza del Reich] è un mio buon amico, lascia che ci pensi io». Il dottor B. mi disse che a quel tempo non faceva alcuna differenza fra le Waffen ss, in cui l’amico gli promise di farlo entrare, e l’esercito, ma che considerava le SS «come un buon club». Vari mesi dopo ricevette la cartolina precetto e fu sottoposto per un certo periodo a un addestramento di base, seguito da uno speciale corso di preparazione per ufficiali. Egli non diede molta importanza a questo periodo di formazione, considerandolo essenzialmente un programma di orientamento per ufficiali medici nelle Waffen ss, anche se riconobbe che ci furono discussioni dell’ideologia delle SS e una particolare insistenza sulle SS come gruppo di élite.
A causa della sua preparazione in batteriologia, fu assegnato a uno degli Istituti di Igiene, che erano considerati «un normale comando medico-militare all’interno delle Waffen ss». Da quel momento in poi, dopo una serie di colloqui nei quali furono sondate le sue opinioni ideologiche, fu trasferito alla speciale divisione dell’Istituto di Igiene dei campi di concentramento. Egli ebbe l’impressione che coloro che venivano scelti per incarichi del genere fossero considerati «ideologicamente saldi... [e] fidati». Nel suo incarico ebbe parte probabilmente anche il fatto di essere stato presentato da un amico di Heydrich; quando fu convocato per ricevere la sua assegnazione dal professor Mrugowsky, il direttore generale di tutti gli Istituti di Igiene delle SS: «Il mio rango era molto modesto, ma egli mi ricevette come uno della cerchia più interna... grazie a quella raccomandazione». Mrugowsky gli fece l’alto onore di assegnarlo ad Auschwitz, dicendogli quasi allegramente: «Là lei troverà un buon amico».
Benché Ernst B. avesse sentito parlare di Dachau «e forse di uno o due campi nella Germania settentrionale», affermò che a quel tempo non sapeva «niente di Auschwitz... e niente dello sterminio degli ebrei». Senza dubbio era del tutto impreparato a ciò in cui si imbatté quando arrivò ad Auschwitz alla metà del 1943, e il suo relativo candore è attestato dal fatto che aveva con sé la moglie (la quale lo aveva raggiunto nella sua precedente destinazione, non troppo lontana, prima del suo trasferimento ad Auschwitz). Quando attraversarono in macchina il lager su un veicolo aperto, furono turbati da ciò che videro: «Persone quasi morte di fame che lavoravano... in gran numero..., dappertutto sentinelle... Molto lontano si vedeva una grande recinzione... Uno spettacolo bruttissimo».
Furono condotti nell’ufficio di Bruno Weber, il «buon amico» che gli era stato promesso da Mrugowsky: un uomo che il dottor B. aveva amato e rispettato come suo superiore al primo Istituto di Igiene cui era stato assegnato. Dopo che lui e sua moglie ebbero espresso entrambi il loro orrore per ciò che avevano visto (sua moglie disse specificamente: «Questo non va bene per noi!»), Weber lo prese in disparte, gli disse di mandare a casa sua moglie e gli chiese come avesse potuto commettere l’errore così grave di portarla con sé al campo.
Parlando in privato con Weber, il dottor B. continuò a esprimere il suo desiderio di andarsene ma, nel suo disorientamento, si sentì «fortunato nell’avere [là] un amico come Weber». Questi gli consigliò di restare e di prestare servizio lì come gli era stato ordinato, sottolineando che andandosene avrebbe creato «complicazioni» imbarazzanti all’amico comune nelle SS che lo aveva raccomandato, oltre alle conseguenze imprevedibili che un gesto del genere avrebbe potuto avere per il proprio futuro.
Weber espose quindi a B., «quasi con ironia», la verità centrale di Auschwitz, citando l’espressione ufficiale «Soluzione finale della questione ebraica»: «Egli [Weber] disse: “Se vuol vedere come funziona, vada a guardar fuori dalla finestra. Vedrà... due grandi camini... Il tipo normale di produzione di questa macchina... è mille persone in ventiquattr’ore».
Weber aggiunse poi quella che il dottor B. definì «la cosa più importante per me»: una spiegazione di come l’autonomia dell’Istituto di Igiene dal campo e la sua gerarchia medica gli avrebbero permesso di tenere le mani pulite e di «restare fuori da tutta questa faccenda». Weber aggiunse che essi dovevano rispondere solo al loro capo a Berlino, Mrugowsky, il quale incoraggiava l’unità di Auschwitz a usare medici prigionieri capaci nei suoi laboratori per produrre ricerche che potessero essere pubblicate sotto il suo nome. Questo fatto, così come il ruolo dello stesso Istituto di Igiene nel combattere il pericolo delle epidemie di tifo, contribuirono a rendere privilegiata la situazione del gruppo. Weber aggiunse che, se B. fosse rimasto ad Auschwitz («Se lei e io potremo sostenerci a vicenda»), la posizione dell’Istituto sarebbe diventata ancora più forte. B. si lasciò convincere immediatamente e non fece altri sforzi per andarsene.
Nel passaggio dall’«udire... la storia di Auschwitz e vedere il fumo uscire dai camini da un lato, al trovarsi direttamente a confronto col meccanismo reale dall’altro», B. ebbe due lezioni illuminanti. La prima cominciò con una subitanea impressione visiva che egli ebbe nei primi giorni trascorsi al campo, un’immagine che non è ancora del tutto sicuro di come valutare. Egli osservò un gruppo di prigionieri di aspetto miserando appartenenti ai «Kommandos esterni» (Aussenkommandos), che tornavano dal lavoro, in fila per sei, camminando con un passo di una rapidità umiliante, tutti emaciati e vestiti con gli stessi indumenti di Auschwitz: «Poi d’improvviso... pensai – non so se fosse vero o se me lo fossi immaginato – non lo so ancora... pensai di aver visto un mio compagno di scuola... Subito dopo... ne parlai con Weber e gli dissi: “Sono sicuro che fosse Simon Cohen”».
Compagno di scuola ebreo di famiglia benestante, Simon Cohen era stato un buon amico di B. durante gli anni Trenta, quando l’antisemitismo era già diffuso in Germania. I due ragazzi erano attratti l’uno verso l’altro anche dalla comune mancanza di interesse per lo studio e facevano lunghe gite assieme in bicicletta. Nel 1933, di ritorno a casa dopo un’assenza di un anno trascorso all’estero, Ernst B. non trovò più il suo amico ebreo. E a volte si chiese che cosa gli fosse accaduto.
Quando B. si rivolse a Weber nel tentativo di accertare se avesse visto veramente il suo amico, si sentì rispondere che c’era un gran numero di Cohen, che in ogni caso i prigionieri erano registrati non sotto il loro nome ma sotto il loro numero e che semplicemente non c’era alcuna possibilità di trovarlo. Insistendo nella sua ricerca, B. si trovò davanti a un’evasività che gli parve kafkiana e sinistra; il soldato delle SS responsabile dell’edificio in cui B. aveva visto entrare il gruppo di prigionieri passò la domanda: «Avete un certo Simon Cohen?» al kapò, il quale parlò a sua volta con un altro prigioniero, il quale fece anche lui più o meno lo stesso, finché la questione stessa venne a dissolversi burocraticamente.
Il dottor B. cominciò a rendersi conto che tutti consideravano la sua domanda strana, del tutto fuori posto e forse pericolosa; i prigionieri temevano che quando un ufficiale delle SS cercava uno di loro «ciò non potesse significare niente di buono per quella persona». Per qualche giorno, però, egli fu ossessionato dall’idea di trovare Cohen e di «stabilire un qualche contatto umano». La sua ricerca non ebbe successo, ma nel corso di essa egli stabilì un contatto del genere con un altro ebreo. Michael Z., un ex medico prigioniero che lavorò nell’Istituto di Igiene, mi raccontò come fosse rimasto sorpreso quando Ernst B. fece irruzione in laboratorio «alla ricerca di un amico ebreo. Mi chiese, parlando a voce molto alta... “Lei conosce Cohen?” Io gli dissi: “[Prego] si calmi, lei non ha il diritto di parlare così”». Il dottor Z. mi spiegò perché avesse ritenuto necessario di proteggere il dottor B. dicendogli di calmarsi e, implicitamente, di proteggere anche se stesso. Egli disse a B. che «qui passano decine, migliaia di ebrei», che «molti di loro si chiamavano Cohen» e che sarebbe stato impossibile trovare una persona precisa. Al tempo stesso, però, Z. fu profondamente toccato dalla ricerca del medico SS: «Capii che era davvero un uomo che ragionava in modo diverso..., che era capace di sentimenti umani... Sì, la cosa mi impressionò... perché era inaudito trovare una SS pronunciare il nome di un amico ebreo».
Questo fatto fece capire a B. che ad Auschwitz si viveva «un’esistenza completamente diversa» e che egli doveva «capire la mentalità vigente in quel luogo». Subito dopo la vana ricerca, B. cominciò a fare sogni ricorrenti su Simon Cohen dapprima frequenti, poi sempre meno, durante il suo soggiorno ad Auschwitz; sogni che continuò però a fare qualche volta anche dopo la guerra, fino al tempo delle nostre interviste:
Era sempre stato un ragazzo molto attraente. E ora [nel sogno] era gravemente deperito... E mi guardava con un’espressione piena di rimprovero, supplichevole (vorwürfsvollen, bittenden Blick)... e sembrava [dirmi]: «Non può essere che tu sia qui e che io sia... [ridotto così]...» o, con un’espressione delusa: «Come puoi appartenere a quegli uomini? Non puoi essere tu (Wie kannst du zu denen gehören? Du bist dock der gar nicht)».
Il dottor B. continuò dicendomi: «Quanto più invecchio, tanto meno propendo a credere che fosse veramente Simon Cohen e tanto più credo di essere stato vittima di un miraggio..., di un parto... della mia immaginazione». Si chiese persino se «non l’avessi solo sognato»; anche se sappiamo, dalla testimonianza del medico prigioniero, che l’impressione era stata abbastanza forte da indurre B. a una vera ricerca. Possiamo dire che l’illusione (di questo si trattò con ogni probabilità) e il sogno furono asserzioni insistenti dell’umanitarismo di Ernst B. e del suo sconforto e senso di colpa per trovarsi a far parte del meccanismo di morte di Auschwitz. Nel mettere in discussione la sua realtà personale nel campo («Non può essere che tu sia qui... Come puoi appartenere a quegli uomini? Non puoi essere tu»), esse esprimevano la sua resistenza a soccombere, o almeno a soccombere completamente, a quella stessa «mentalità di Auschwitz che egli stava scoprendo. Al tempo stesso, esse registravano la sua transizione da uomo comune a medico di Auschwitz.
La sua seconda lezione fu il confronto diretto col modo di agire dei medici SS, o di quello che egli chiamò il «sistema di trattamento» di Auschwitz:
I medici SS... esercitavano una supervisione sul lavoro dei medici prigionieri... principalmente... controllando che il lavoro fosse eseguito economicamente. In altri termini, la persona... per la quale non ci si poteva attendere che svolgesse altro lavoro doveva essere selezionata per il crematorio. Fu per me un choc terribile vedere applicare questo procedimento... Ogni giorno, ogni volta che si attraversava il campo, si vedevano... gruppi che erano stati scelti [selezionati]... [e] che erano in attesa della partenza dell’autocarro [per il crematorio].
Il dottor B. mi chiarì che quelle due serie di immagini (di un Simon Cohen immolato, inghiottito dalla fabbrica della morte, e di gruppi di internati che erano stati selezionati da suoi colleghi e sottoposti alla stessa sorte) facevano parte di un profondo mutamento psicologico. La natura di tale mutamento, del periodo della transizione alla realtà di Auschwitz, trovò espressione nell’analogia da lui introdotta col mattatoio (in cui dapprima si prova orrore, ma dopo un po’ di tempo ci si adatta abbastanza da poter apprezzare le bistecche [p. 273]). Per lui, come per altri, l’alcol ebbe una funzione centrale nel processo di ottundimento morale; di solito B. beveva al Circolo ufficiali, dove Weber lo accompagnò regolarmente, presentandolo ad altri ufficiali «e soprattutto ai... medici con cui doveva lavorare». Sotto l’effetto della socializzazione favorita dall’alcol, il dottor B. poté esprimere i suoi dubbi su Auschwitz, dubbi a cui i suoi compagni di bevute rispondevano con affermazioni di non responsabilità e di rassegnazione (vedi pp. 272-273). I dubbi stessi, come continuò a spiegarmi B., venivano «espressi in un registro romantico [melodrammatico]» (mit Romantik überspielt): fantasie di fuga piuttosto che una seria discussione morale. Quando beveva molto, per esempio: «Non potevo pensare altro che: “Come ho potuto venire qui?... Come posso fare ad... andare in Svizzera con mia moglie e i miei quattro figli?”». Allora «si beveva ancora di più» fino a sprofondare in uno stato al di là di ogni pensiero: «E il giorno dopo si era molto sobri e si aveva un gran mal di testa, e ci si rendeva conto che ciò che si era pensato la notte prima era praticamente impossibile».
La sua transizione fu aiutata dal suo forte desiderio di cessare di essere un «estraneo» e di diventare, il più presto possibile, una persona «introdotta» nella vita di Auschwitz: un obiettivo che si doveva conseguire «armonizzando» con gli ufficiali e i soldati delle SS e anche con prigionieri significativi. Mentre la maggior parte degli altri medici SS gli parvero deludenti come persone (uomini molto meno di élite, come livello intellettuale e familiare, di quanto si fosse atteso), due di loro assunsero per lui uno speciale significato: Weber, sotto aspetti che sono già stati menzionati; e Josef Mengele, il cui nome il dottor B. introdusse spontaneamente come «il collega più perbene (anständigste Kollege) che conobbi [ad Auschwitz]»: un rapporto, quello fra Ernst B. e Mengele, su cui torneremo più avanti. B. fu impressionato anche da un ufficiale delle SS non medico, che dirigeva operazioni agricole ad Auschwitz in un modo che B. giudicò positivamente e che salvò delle vite umane, fornendogli un modello di come fosse possibile, ad Auschwitz, lavorare in modo costruttivo e «diverso» dalla maggior parte degli altri.a
Nell’intento di «introdursi» fra i medici prigionieri, B. fece sforzi sistematici per «istituire contatti, conoscere persone e superare la barriera» esistente fra loro e lui. Il suo metodo, com’è attestato dall’epigrafe a questo capitolo, fu nel contesto di Auschwitz del tutto sorprendente.
In poche settimane, egli sentì di essersi procurato la fiducia del suo gruppo di prigionieri, si sentì accettato dai colleghi delle SS e si trovò abbastanza a suo agio nel campo in generale. Quella situazione abbastanza accettabile fu però compromessa circa sei mesi dopo dalla richiesta di Wirths di cominciare a compiere selezioni. Wirths non poteva ordinarglielo («Io non ero un suo subordinato»), ma, in quanto medico capo, poteva esercitare, e in effetti esercitò, su di lui pressioni considerevoli per indurlo ad accondiscendere. Era l’estate del 1944, quando stava arrivando un numero enorme di ebrei ungheresi, rendendo virtualmente impossibile al numero relativamente piccolo dei medici del campo di fare tutte le selezioni. B. ebbe l’impressione che il comandante del campo avesse suggerito che la funzione delle selezioni fosse assunta in parte dai suoi ufficiali non medici, ma che Wirths insistesse perché il processo conservasse il suo carattere medico, rivolgendosi perciò all’Istituto di Igiene – che normalmente era sottratto alla sua giurisdizione – come unica altra fonte di medici disponibili. Wirths riuscì a convincere Weber a compiere le selezioni. B. rispose invece alle ripetute sollecitazioni di Wirths con rifiuti, motivati da una serie di ragioni: che aveva troppo lavoro, che trovava quel compito incompatibile con le sue mansioni e che semplicemente non poteva svolgerlo, ne era psicologicamente incapace. Egli illustrò l’ultima ragione dicendo a Wirths: «Ebbi modo di osservare [le selezioni] e... riuscii a resistere solo mezz’ora, [dopo di che] dovetti vomitare»; al che Wirths rispose: «Passerà. Capita a tutti... Non deve preoccuparsene eccessivamente».
Quando la pressione aumentò al punto che il dottor B. sentì di non poter resistere oltre, prese d’improvviso il direttissimo notturno per Berlino per andare a parlare con Mrugowsky, al quale disse che era semplicemente incapace di fare selezioni. B. così ricordò la risposta di Mrugowsky: «Non ho potuto farlo neppure io. Anch’io ho dei bambini». Poi il direttore degli Istituti di Igiene, indignato per il fatto che il «suo» medico fosse stato sottoposto a pressioni da parte di Wirths, fece le telefonate necessarie per riaffermare la propria autorità nel proteggere B. dalle selezioni: «In pochi minuti era tutto fatto». B. insistette nel dire che le azioni di Mrugowsky non furono semplici asserzioni di autorità: «Devo dire che fu anche una cosa umana (menschlich)»; e il suo ulteriore commento che quello era «lo stesso uomo che in seguito fu impiccato come criminale di guerra» suggerì che nel comportamento di Mrugowsky dovevano esserci state delle contraddizioni o forse che, nel giudizio di B., il verdetto di Norimberga fosse stato ingiusto.
Benché, dopo di allora, il dottor B. non fosse più stato sollecitato a compiere selezioni, l’episodio ebbe delle ramificazioni scomode per lui. Come soluzione di compromesso, Mrugowsky fornì un giovane medico, di nome Delmotte, il cui incarico ad Auschwitz specificava che sarebbe stato alle dipendenze dell’Istituto di Igiene solo per metà del suo tempo, mentre per l’altra metà sarebbe stato medico di lager: ciò significava, in pratica, che avrebbe fatto lui le selezioni al posto di Ernst B. Delmotte, un giovane di circa venticinque anni che era un membro ardente delle SS e che proveniva da una famiglia che aveva connessioni con gli alti vertici del nazismo, era appena uscito da una delle classi migliori di un corso speciale di formazione per i cadetti delle SS messo a disposizione dei medici; il suo desiderio era quello di essere mandato al fronte, ma aveva accettato di andare ad Auschwitz perché gli era stato promesso che avrebbe potuto scrivervi la sua tesi di laurea.
Alla prima selezione cui fu condotto, Delmotte rimase nauseato e tornò nella sua stanza completamente ubriaco; la cosa insolita, però, fu che la mattina seguente non uscì dalla sua camera. Il dottor B. sentì dire che Weber, andato da lui, lo aveva trovato «catatonico..., completamente bloccato»; dapprima Weber pensò che il giovane medico fosse stato colpito da una grave malattia, ma concluse che aveva semplicemente bevuto troppo. Quando infine Delmotte uscì dalla sua stanza in uno stato di agitazione, qualcuno gli sentì dire che «non voleva stare in un mattatoio» e preferiva andare al fronte, e che «come medico il suo compito era quello di aiutare le persone e non di ucciderle». Era un argomento, disse il dottor B., che «noi non usammo mai» ad Auschwitz: «Sarebbe stato del tutto inutile». In effetti, nessun altro medico di Auschwitz che io conobbi nel corso della mia ricerca espresse tale verità in modo così chiaro e fermo. B. pensava che Delmotte parlasse in quel modo solo a causa del «suo candore, della sua inesperienza giovanile, della sua totale ignoranza del lavoro sotto questo aspetto». B. sottolineò anche che Delmotte si accostava alla professione medica «con alti ideali e grande entusiasmo», che si era «formato in un campo di cadetti delle SS» ed era «deciso a non tradire i suoi ideali di SS», e che aveva dichiarato (anche se solo in stato di ubriachezza) che non si sarebbe mai arruolato fra le SS se avesse «saputo che esisteva una cosa come Auschwitz». Al centro della resistenza di Delmotte alle selezioni, in altri termini, c’era il suo idealismo di SS.b
Venuto a sapere che era stato mandato ad Auschwitz per sostituire Ernst B., che si era rifiutato di fare le selezioni, Delmotte lo affrontò irosamente, insinuando più o meno che fosse stato un ipocrita («Quali ragioni aveva [di comportarsi così]?»), e insistette: «Se lei non fa le selezioni, non le farò nemmeno io». B. «si sentì a disagio»: «Ovviamente non gli dissi della mia visita a Mrugowsky». Parlando del successivo risentimento e della successiva freddezza di Delmotte sia verso di lui sia verso Weber per non averlo aiutato, B. ammise che avrebbero potuto esserci dei mezzi per farlo: «Devo dirlo con mia vergogna».
Sottoponendo il suo caso al nuovo comandante, Arthur Liebehenschel (successore provvisorio di Höss),c Delmotte trovò in lui un atteggiamento «terapeutico» («Posso senza dubbio capire questa situazione. Innanzitutto ci si deve abituare a un nuovo ambiente»), secondo ciò che della conversazione fu riferito al dottor B. In effetti Liebehenschel – con la probabile cooperazione di Wirths, con cui era in buoni rapporti, e con quella di Weber – predispose un «programma terapeutico» articolato in tre componenti specifiche.
Innanzitutto, Delmotte fu assegnato alla tutela di Mengele. Questi, parlando da un punto di vista comune di un impegno di fedeltà alle SS e alla loro ideologia, poté trasmettergli il messaggio che, quand’anche si pensasse che lo sterminio del popolo ebraico fosse sbagliato, o che venisse condotto in modo sbagliato (Delmotte, secondo il dottor B., credeva che l’«influenza ebraica» dovesse essere combattuta, ma disapprovava il metodo di Auschwitz), «in quanto appartenenti alle SS si era tenuti a partecipare». Mengele poté affermare anche che, poiché i prigionieri si ammalavano e facevano morti atroci, era «più umano selezionarli». E poté infine far ricorso all’argomento combinato patriottico-nazionalistico-razziale e biomedico che, durante questa emergenza del tempo di guerra, non si doveva far nulla per interferire col grande obiettivo cui si puntava: «il trionfo della razza germanica». Mengele, in altri termini, poté appellarsi a quello stesso idealismo delle SS che aveva contribuito in origine al rifiuto di Delmotte e che, in capo a due settimane, lo condusse a compiere le selezioni.
In secondo luogo Weber, da «buono psicologo», prese disposizioni molto insolite perché la moglie di Delmotte potesse vivere insieme a lui ad Auschwitz. Era, secondo il dottor B., una donna straordinaria sia per la sua bellezza sia per la sua amoralità («senza cuore, senz’anima, senza niente»), e l’unico suo interesse discernibile ad Auschwitz era quello per due enormi cani danesi che teneva all’Istituto di Igiene e che vezzeggiava costantemente. Era implicito che rapporti sessuali regolari con lei rendessero Delmotte, come si espresse B., più «tranquillo».
Il terzo elemento fu quello di fornire a Delmotte come guida intellettuale (per le ricerche connesse alla sua tesi di laurea e per la stesura della stessa) un anziano medico prigioniero ebreo, professore e scienziato di grande fama che, secondo il dottor B., divenne per Delmotte una «figura paterna». I due uomini contrassero un rapporto molto stretto e secondo B. sarebbe stato addirittura il professore a consigliare a Delmotte di continuare le selezioni poiché, «se si fosse rifiutato, avrebbe corso il rischio di essere punito severamente». B. ebbe l’impressione che proprio il professore avesse «contribuito più di tutti ad aiutare Delmotte a uscirne [dalle sue difficoltà], diciamo a motivarlo». A causa dei propri bisogni psicologici, B. potrebbe però avere sopravvalutato il ruolo del professore nel problema delle selezioni – io propenderei ad attribuire un’importanza maggiore al ruolo di Mengele e a quello dell’ambiente generale di Auschwitz –, ma ho visto lettere del professore che confermano il suo stretto legame con Delmotte.
Delmotte fece selezioni senza ulteriori incidenti finché le selezioni stesse furono interrotte ad Auschwitz, nell’estate del 1944. Dopo l’evacuazione di Auschwitz, Ernst B. lo incontrò una volta fuggevolmente a Dachau, dopo di che non lo vide più. Delmotte cercò di fuggire nella sua regione di origine, ma fu ben presto catturato; preso in custodia (o sul punto di esserlo) da truppe americane, si uccise con un colpo di pistola.
Il dottor B. pensava che Delmotte si fosse ucciso per aver violato i propri princìpi medici nel compiere selezioni e perché in ogni caso si attendeva di essere condannato a morte dagli americani e voleva risparmiare a se stesso e alla sua famiglia il dolore e l’onta della condanna e dell’esecuzione. Ma che cosa fosse passato effettivamente per la mente di Delmotte continuò a restare «un problema chiave» inquietante per B., che sentiva il bisogno di «saperne di più». Egli svolse qualche indagine ma non giunse a capo di nulla. Aggiunse, con una qualità di sentimento in lui insolita: «Avevo... sperato di poterlo aiutare in qualche modo, perché avevo una cattiva coscienza verso di lui... Egli aveva dovuto assumersi il lavoro che io ero riuscito a evitare... Forse avrei potuto essere più onesto con lui, ma in quella situazione era molto difficile».
Chi era Ernst B., questo medico di Auschwitz insolito? Un uomo non molto fuori del comune, come suggerisce un’esplorazione del suo passato, ma con certe preoccupazioni e abilità che contribuirono al suo comportamento ad Auschwitz.
Ernst B. veniva da una famiglia di professionisti della borghesia medio-alta: suo padre era un professore universitario distintosi nel campo scientifico, un uomo con cui egli non ebbe «nessun contatto personale, nessun rapporto personale». Nondimeno B. aveva un grande rispetto per lui per la serietà del suo impegno e la sua integrità personale combinata con la tolleranza per le diverse idee dei figli. La madre era invece «tutto l’opposto»: molto affettuosa con lui, era inflessibile nel voler imporre le proprie opinioni e la fedeltà alle tradizioni della propria famiglia, che era fortemente nazionalistica, e di cui due membri erano medici molto stimati.
Fra i primi ricordi di B. c’erano immagini di fusione col paesaggio rurale, un estremo isolamento nei confronti di altri esseri umani e una paura, che era quasi terrore, per gli animali selvatici, alimentata in parte da racconti sulla foresta che gli narravano i suoi genitori. Egli associò il timore e l’isolamento alla Prima guerra mondiale sia per le condizioni di vita sempre più difficili causate dalla guerra sia per il successivo senso di umiliazione sperimentato dalla sua famiglia in un’area occupata dai francesi dopo la resa dei tedeschi (in quel periodo era un bambino piccolo).
Ma un particolare evento legato alla guerra assunse la forma di una tragedia: la morte di suo zio, che era stato gravemente ferito mentre prestava servizio come medico militare. Lo zio veniva descritto come dotato di qualità che si prestavano facilmente alla creazione di una leggenda: «medico modello», era anche dotato nelle arti, «un uomo che morì prima dei trent’anni ma che aveva già prodotto un’opera medica standard che è stimata ancor oggi».
Un tema centrale nell’infanzia di Ernst B., che lo accompagnò anche nell’adolescenza e nell’età adulta, furono i suoi sforzi per instaurare quello che egli definì sempre un «contatto» (Kontakt) con altre persone. Egli provava difficoltà a stabilire contatti con altri bambini, compresi la sorella più giovane e il fratello. Cercò un tale contatto in vaghi movimenti religiosi che avevano attinenza con quella che egli chiamò «comunicazione religiosa», qual si esemplificava a suo avviso nei sentimenti e sermoni natalizi «di armonia e di pace» e in una successiva convinzione che si doveva appartenere a una qualche religione: sentimenti che andavano oltre l’ateismo postprotestante di suo padre e la concessione di sua madre che c’era bisogno di una qualche religione, pur manifestando avversione tanto verso i cattolici quanto verso i protestanti. A scuola sentì un’attrazione simile verso il pensiero utopistico di Tommaso Moro e persino verso le idee comuniste degli anni Venti: per breve tempo «la connessione fondamentale per me fu quella fra cristianesimo primitivo e comunismo».
Entrato nell’adolescenza, fu però influenzato dall’opposizione violentemente nazionalistica della madre a tali idee e dalla sua adesione a gruppi antirivoluzionari di destra che propugnavano un’«attività nazionale e militare» ed erano «molto, molto emotivamente tedeschi». Il gruppo di appartenenza di sua madre, lo Jungdeutscher Orden (Ordine dei Giovani Tedeschi), attingeva all’anteriore movimento romantico giovanile di ritorno alla natura dei Wandervögel (letteralmente «uccelli migratori»), a cui sua madre era stata strettamente legata. B. si recò con lei a raduni politici, dove non apprezzò particolarmente la marcia, ma dove «le bevute che seguivano ad essa erano molto buone».
Il bere era diventato in effetti una cosa importante per Ernst B. a partire dall’età di circa quindici anni, «molto presto», a suo giudizio, «a paragone di altri», anche se non era un’età «davvero molto insolita». Egli beveva per «facilitare il contatto» con i suoi coetanei, in un periodo in cui la vita gli sembrava una serie di sconfitte. A scuola era «uno studente pessimo..., molto pigro». A casa era lontano emotivamente dal padre – e anche dalla madre, «che era esagerata nell’altra direzione» –, sentendosi al tempo stesso inadeguato rispetto all’«altissimo livello» di cultura, specialmente in campo musicale, della sua famiglia. «Così tutto ciò che potevo fare era bere con... altri ragazzi.» Di questo periodo della sua vita disse: «In generale avevo dei problemi a prendere contatto con la gente» e «se non bevevo qualche bicchiere di vino non riuscivo a instaurare un rapporto». Inoltre, il rifiuto con cui fu accolto dal suo primo amore lo fece sentire «come una merda!».
Prima che la sua vita conoscesse una svolta egli avrebbe dovuto sperimentare ancora un’altra sconfitta. Il giovane Ernst, che aveva interesse per l’arte e per la pittura, pensò che avrebbe «potuto diventare qualcuno», piuttosto della nullità che sentiva di essere, andando a studiare arte all’estero. Rimasto fuori per un anno, pur facendo un certo progresso nel suo lavoro si sentiva isolato, aveva molti problemi con la lingua straniera e cominciò a bere molto, ancora una volta alla ricerca di rapporti con gli altri. «Era semplicemente una difficoltà completamente primordiale di [prendere] contatto.»
Tornato in patria, era pronto ad assumersi un nuovo impegno: «Vidi molto chiaramente... che dovevo diventare un medico». In effetti i suoi genitori, sulla base della tradizione della famiglia, qual era rappresentata specialmente dallo zio medico morto nella Prima guerra mondiale, «avevano questa idea fin da quando ero bambino». Il padre gli si rivolse ora socraticamente chiedendogli se pensava di poter diventare «uno dei dieci pittori più importanti» della Germania (come sarebbe stato necessario per potersi mantenere). Per Ernst B. fu «un’illuminazione» (eine Erleuchtung) e «tutto mi divenne chiaro». Irritato con se stesso per non averci pensato prima, tornò a immergersi nello studio, superò l’Abitur (l’esame di maturità) e rinunciò alla pittura per lo studio della medicina.
Tenuto a stecchetto dal padre («Temeva che potessi ricominciare a bere») e avendo bisogno di soldi, Ernst B. sentì dire che si cercavano persone capaci di far da guide a studenti stranieri e che i candidati sarebbero stati sottoposti a un colloquio per accertare la loro conoscenza in settori culturali come il teatro e l’opera. Non sapendo niente di quest’ultima, adottò il «trucco» di andare in biblioteca a leggersi con cura in tutti i quotidiani le critiche delle rappresentazioni recenti di tutte le opere principali, cosicché, quando fu esaminato, poté rispondere: «Sì, ma la rappresentazione di Amburgo fu un totale insuccesso a causa della particolare concezione del regista, che ecc. ecc.», dando l’impressione di possedere una completa padronanza in un campo su cui sapeva in realtà assai poco. La natura del lavoro lo aiutò a risolvere il suo vecchio problema: gli «studenti [per lo più] americani erano interessati a prendere contatto solo durante le bevute di birra», le quali entrarono quindi anch’esse a far parte delle sue «competenze». Quell’esperienza gli fornì, inoltre, una grande «fiducia in me stesso» e la convinzione che «ero del tutto all’altezza di cavarmela (ganz lebenstüchtig)».
Egli continuò a dimostrare l’adattabilità così acquisita entrando a far parte dell’organizzazione studentesca nazista nei primissimi tempi del regime (quando solo il 20 per cento circa degli studenti erano iscritti a essa), non appena si rese conto che doveva farlo se voleva conservare il proprio lavoro. Ritenne necessario tener nascosta la sua appartenenza a quest’organizzazione alla madre, la quale era ardentemente antinazista. In principio, in effetti, i suoi familiari ebbero una opinione molto negativa dei nazisti, considerandoli i peggiori elementi della società. Alla metà degli anni Trenta, però, gli spettacolari successi economici del regime, assieme all’emergente «entusiasmo... dei giovani», cominciarono a modificare tale impressione. Suo padre passò controvoglia a un atteggiamento più positivo verso Hitler in un modo tortuoso, tipicamente tedesco, chiedendosi: «Com’è possibile che un uomo così rozzo abbia potuto raggiungere una posizione tanto influente?», e concludendo: «Può darsi che non sia così primitivo ma finga solo di esserlo». Lo stesso Ernst B. reagì in modo parallelo: pur avendo avuto un atteggiamento sempre molto antagonistico, e nondimeno rispettoso, per la cultura militare prussiana, fu colpito dal fatto che «i militari prussiani, conservatori, specialmente i giovani, cominciavano a diventare molto nazionalsocialisti»; cosa che lo condusse a pensare che «in esso [nel nazionalsocialismo] ci dev’essere di più... qualcosa di più».
Egli avrebbe però sviluppato un legame molto più forte con i nazisti, in un modo che fu a un tempo fortuito e calcolato. Mentre stava completando lo studio della medicina, nella seconda metà degli anni Trenta, ebbe l’impressione che fosse necessario far parte di un’organizzazione che avesse un patrocinio ufficiale. Volendo evitare le organizzazioni paramilitari, entrò a far parte di una «società scientifica» studentesca. Fu allora attratto immediatamente in una gara patrocinata dal gruppo per trovare un prodotto tedesco (in grado di sostituire un prodotto di importazione) da usarsi come terreno di coltura nelle ricerche batteriologiche. Forse anche grazie alla sua conoscenza della natura, B. «ebbe una buona idea», individuò un prodotto indigeno adatto e venne a trovarsi d’improvviso nella situazione straordinaria di «uno studente che ha a sua disposizione un laboratorio, due assistenti e un premio». Ora era «uno scienziato che riceveva grandi elogi dal partito», un uomo che aveva compiuto «un primo passo importante» e che aveva «la buona sorte di poter contare su un sostegno politico, anche se il mio campo... non era politico». Ora si trovava nella condizione «non solo di ricevere ordini» ma di assumere la direzione di gruppi di consulenza scientifica su ciò che si potesse coltivare in certe foreste della Baviera, e su che cosa si dovesse eliminare per fare spazio a tali colture. Egli ricevette un altro premio in una cerimonia allargata a un pubblico più vasto, cosa che gli causò un solo problema: la sua futura moglie pensò che egli fosse un «nazista importante», cosicché per qualche tempo lo evitò. Egli portò a termine a gonfie vele gli studi di medicina, orgoglioso che la sua tesi sulla “sua” scoperta del terreno di coltura indigeno fosse «una bella cosa... una ventina di righe, penso, non di più».
Questa speciale esperienza (Erlebnis – egli usò questo termine in riferimento all’intera sequenza di eventi) influì senza dubbio sulla sua decisione di iscriversi a quel tempo al partito: «Non solo perché in un senso pratico dovevo [essere iscritto per avere un posto di assistente in una clinica], ma con un sentimento positivo... [e senza] alcun obbligo, alcuna costrizione». Egli ottenne in effetti un posto ambito di assistente e un buon rapporto di lavoro con un ospedale, conservando al tempo stesso la sua posizione nel dipartimento di batteriologia e ricevendo addirittura, nel 1939, una borsa di studio per due anni per compiere studi all’estero, opportunità che fu frustrata solo dallo scoppio della guerra.
In due anni di successivo lavoro medico cominciò a osservare caratteri meno positivi nel regime: posizioni mediche importanti vennero a essere «occupate da persone politiche», e neppure l’alto livello professionale di suo padre fu sufficiente a proteggerlo da un severo esame da parte di assistenti designati dai nazisti per accertare eventuali deviazioni politiche.
Il dottor B. non si considerava un ideologo nazista ma, come molti tedeschi a quel tempo, aveva «un atteggiamento positivo verso i successi economici [conseguiti dai nazisti] e verso la possibilità di riforma [della società]». Quel che lo faceva sentire a disagio era l’idea di poter essere considerato qualcuno che aveva fatto carriera per aver «cooperato [politicamente]», ed egli profuse un particolare impegno nel tentativo di convincere sua madre e la sua futura moglie che non era così. Quando scoppiò la guerra, il conflitto contribuì a creare in lui un senso di vergogna – acuito a volte da osservazioni occasionali fatte dalla gente – per il fatto che un uomo giovane come lui non fosse «fra i soldati» che combattevano per il loro paese.
Superata la crisi suscitata in lui dalla richiesta di compiere selezioni, il dottor B. non dovette affrontare altre difficoltà degne di nota ad Auschwitz. Egli consolidò una rete notevole di rapporti con medici prigionieri, un centinaio dei quali furono assegnati all’Istituto di Igiene. Benché la loro situazione fosse relativamente favorevole rispetto alla situazione generale di Auschwitz anche prima del suo arrivo, egli superò ogni altro nel preoccuparsi del loro benessere. Quando si ammalavano provvedeva perché potessero avere i farmaci necessari e perché venisse prestata loro l’assistenza del caso e li visitava egli stesso. Li aiutò a mandare messaggi a mogli e amici in altre parti del campo, e ne favorì gli incontri. Contribuì alla loro sopravvivenza tenendoli informati sui vari punti di vista e sui vari progetti di cui si parlava fra le autorità ad Auschwitz. E salvò direttamente vite umane in altri modi: proteggendo i medici prigionieri dalle selezioni, trovandoli e salvandoli dalla camera a gas dopo che erano già stati selezionati e sottoponendoli ai benigni esperimenti di cui ci siamo occupati nel capitolo XV.
I medici prigionieri vennero a considerarlo un personaggio molto speciale – «forse l’unico», secondo il dottor Erich G., che fosse «coscientemente contrario [ad Auschwitz e ai nazisti]..., l’unico che si comportò realmente in modo amichevole verso i medici». Un altro medico prigioniero pensava che il dottor B. fosse «stranamente fuori posto fra le SS», e rimase commosso sia dalla preoccupazione dimostrata dal dottor B. quando egli si ammalò gravemente, sia dalla sua successiva insistenza perché non tornasse troppo presto al lavoro, ma «se ne stesse fuori a riposo sdraiato al sole». Mentre un terzo medico giudicò il dottor B. «un ricercatore colto», un quarto pensava che fosse «un uomo molto gentile» ma non particolarmente brillante: «Decidemmo che... era stupido... dato che era così simpatico con noi».
Secondo un medico, il fatto che il dottor B. fosse una persona «perbene» ebbe un effetto molto profondo sugli internati («Chi non ha mai sperimentato la vita nel lager non può sapere quanto valore reale tali cose abbiano per il morale»). E vedendo in Ernst B. un uomo fuori posto ad Auschwitz e fra le SS in generale, cercarono di spiegarsi perché mai egli facesse parte di entrambe quelle realtà. Pure essendo ragionevolmente nel vero quando pensava che si trovasse ad Auschwitz in seguito a un ordine delle SS (come affermò il dottor Tadeusz S.), il medico appena citato continuò dicendo: «Egli stesso... ripeté non di rado di non essersi arruolato volontariamente nelle SS, ma solo sotto coercizione, cosa che nel 1944 era possibile». E un terzo medico disse analogamente: «Egli mi confidò di non essere considerato puro dalle SS [poiché sua moglie era imparentata con un ufficiale tedesco che aveva disertato passando a una nazione degli Alleati], e che questa era la ragione per cui lo avevano messo nella sua posizione all’Istituto di Igiene... dove potevano tenerlo sotto stretto controllo». Io sospetto che queste falsità (B. era stato infatti ansioso di entrare nelle Waffen ss e non ebbe alcuna difficoltà a riconoscere con me di esservi entrato volontariamente) fossero state architettate da B. soprattutto per farsi meglio accettare dai medici prigionieri. Può anche darsi del resto che questi abbiano forzato e distorto le sue parole per il bisogno di credere che questo medico SS che li trattava umanamente non fosse un autentico ufficiale delle SS, che non fosse veramente «uno di loro».
Ernst B. aveva la tendenza a romanticizzare la sua integrazione con gli internati – «Dopo mezzo anno [ad Auschwitz], discutevo apertamente con i prigionieri ogni questione personale... [e] ogni possibile questione. Nel mio contatto sociale con loro [non c’era] alcuna differenza rispetto ai miei rapporti con altro personale» – in modo tale da far pensare che tale integrazione si fosse spinta effettivamente molto avanti.
Egli poté allora attribuire quella che definì una «reazione perversa» – la decisione di non approfittare di un’opportunità di trasferimento da Auschwitz a un altro incarico – al fatto di essersi ormai «integrato nell’intera cosa». I medici prigionieri con cui parlò di questa opportunità lo pregarono ovviamente di restare, ed egli si riferì al suo rapporto con loro all’interno della situazione generale di Auschwitz quando aggiunse che «la situazione era così straordinaria che... non era possibile uscirne».
Ricordò di essersi chiesto: «È giusto stare o sarebbe meglio andarsene?» e di aver deciso che doveva restare: «Qui avevo un impatto (Resonanz)d e sentivo di poter realizzare qualcosa di positivo [rispetto a ciò che avrei potuto fare in altre possibili assegnazioni]... Quanto meno qui avrei potuto fare qualcosa di umano». Egli enumerò altri modi in cui poté contribuire a migliorare la vita dei prigionieri: passando loro la carne che gli veniva data da controllare e dicendo agli ufficiali delle SS che si richiedevano «campioni» abbondanti; e dando il suo aiuto in un progetto di distillazione di marmellata d’arance avariata per produrre brandy all’arancia, che poteva poi essere scambiato con le SS con carne proveniente dal mattatoio e con prodotti del forno, a vantaggio di tutti i prigionieri. Nel corso del tempo egli si rese conto che queste manovre erano sicure «perché nel campo ogni persona era corrotta».
Il dottor B. fece un altro sogno, che esprimeva i suoi conflitti e la profondità della sua integrazione con i prigionieri: un sogno così pericoloso che egli riesce a ricordare di averlo fatto solo dopo essere andato via da Auschwitz, anche se io ebbi l’impressione che frammenti dello stesso sogno potrebbero esserglisi presentati anche prima. Nel sogno compariva una giovane assistente di laboratorio ebrea dell’Istituto di Igiene, la quale aveva un vero talento nell’eseguire disegni da fotografie di familiari degli ufficiali e soldati delle SS; essa era stata sistemata all’Istituto di Igiene da un sottufficiale che faceva un piccolo commercio dei suoi disegni. Dopo averle commissionato un disegno di sua moglie e dei suoi figli, il dottor B. fu affascinato da questa giovane molto «primitiva», che sapeva modificare il suo stile dai disegni più rozzi per i soldati delle SS alle rese «meravigliose» e «di un gusto raffinato» per gli ufficiali delle SS più colti, com’era lui stesso. Essa proveniva dai vicini Monti Beschidi [al confine fra Polonia e Cecoslovacchia], e in un’occasione, quando B. accennò alla possibilità di fare un viaggio in macchina in quella zona, lei gli aveva consigliato di non farlo perché «là ci sono troppi partigiani».
Sognai che fuggivo con lei nei Monti Beschidi per rifugiarmi presso i partigiani... Sono sicuro che non ci fosse... niente di erotico... Ci sono diverse versioni... [Per lo più] ci troviamo in una casa primitiva dei Monti Beschidi e poi arrivano i partigiani, e noi andiamo con loro [ci uniamo a loro]... Non ci sono altri particolari che io riesca a ricordare.
B. pensava che il sogno potesse essere stato provocato dall’aver rivisto il disegno al suo ritorno in Germania (a quanto pare lo aveva mandato da Auschwitz a sua moglie), un disegno che apprezzava molto (tenendolo a volte nel suo studio e a volte nella loro camera da letto) ma da cui era reso ansioso (egli finì col riporlo perché «facevo troppi brutti sogni»). Il legame eroticizzato con questa giovane prigioniera, quale si manifesta nella loro fuga per unirsi ai nemici dei nazisti, suggerisce un’integrazione senza riserve e un desiderio, per quanto timoroso, di trascendere e cancellare la corruzione di Auschwitz.
Alcuni ex internati tendono a sopravvalutare e a semplificare i conflitti di Ernst B. Questi avrebbe confessato a un medico prigioniero di «stare bevendo sempre di più per reagire di meno a quanto accadeva intorno a lui». Quando qualcuno gli chiese se, secondo lui, Hitler avrebbe vinto la guerra, egli avrebbe risposto: «Se c’è giustizia a questo mondo, Hitler dovrebbe perdere la guerra, ma c’è davvero giustizia a questo mondo?», il tipo di risposta enigmatica che i medici prigionieri potevano sentire come molto rassicurante.
Soltanto un medico prigioniero rilevò dei «problemi emotivi» nel dottor B., che a volte aveva gli occhi lacrimosi e presentava una varietà di disturbi psicosomatici e «la facies di un forte bevitore». Pur confermando che B. era cortese verso singoli ebrei, questo medico disse che era «ostile alla popolazione [ebraica]». Egli fu l’unico internato a fare questa affermazione su B.
Ma i conflitti del dottor B. non interferirono in alcun modo col suo fondamentale adattamento ad Auschwitz. Com’egli mi disse: «Dovevo – solo ora questa parola ha un suono reale – non si può capire se dico... in realtà non mi dispiaceva di essere là». Là, infatti, il suo bisogno di contatto era appagato. Egli era «realmente toccato» dal fatto che «non appena si aveva un piccolo contatto con un internato... la cosa più importante allora – quasi più importante che mangiare – ... era che [egli] potesse parlare con qualcuno della [propria] famiglia». B. sostenne addirittura che proprio in quanto era un «estraneo», essi potevano parlare più facilmente della propria famiglia con lui che con i loro compagni di prigionia: anche questa è un’affermazione dubbia, la quale però ci dice qualcosa sul terreno su cui si muoveva il dottor B. ad Auschwitz. Ed egli ebbe ampie prove della concretezza dei legami allora instaurati dalle lettere colme di simpatia che alcuni internati gli scrissero dopo la guerra.
Una ragione del suo eccezionale adattamento va vista nel fatto che le sue mansioni ad Auschwitz lo tennero separato dalla macchina delle uccisioni, ed è questa in parte anche la ragione per cui egli poté dire che, parlando con tanta insistenza delle uccisioni, «noi stiamo battendo sul tasto sbagliato»: più «in primo piano per... i medici è il problema della morte per fame». Ma persino di quel problema si sarebbe potuti venire a capo «se ci si fosse posti... o almeno si fosse creduto... di avere un compito da assolvere e amici per cui... poter fare qualcosa... di buono».
Egli descrisse momenti in cui la sofferenza, sulla quale «si chiudevano spesso gli occhi», si rivelava d’improvviso per mezzo di «un certo sguardo speciale» di un prigioniero che riusciva a penetrare il proprio «schermo protettivo» (Schirm); allora si sentiva «l’esperienza della sofferenza o della disperazione». Egli aggiunse che, esattamente come piccoli particolari possono commuoverci in relazione alla bellezza, così possono farlo «piccoli idilli» in relazione al dolore, e in tal caso «si deve diventare molto attivi» per superare i sentimenti suscitati in noi.
E continuava a ricorrere il sogno di Auschwitz: «Per me... la cosa più spaventosa per tutto il tempo... fu sempre la visione di quell’ottimo amico», di Simon Cohen, anche se «probabilmente... fu un’allucinazione». Quell’autoaccusa periodica fu assorbita nell’adattamento complessivo abbastanza confortevole, e svolse forse una funzione nel favorirlo. Quel che B. derivò in particolare dal suo rapporto con i medici prigionieri mi fu svelato da una frase contenuta in una lettera che egli mi scrisse a mano, l’unica in inglese, concernente il suo rapporto col professore prigioniero anziano che aveva svolto la funzione di maestro verso Delmotte: «Adoravo [il professore] come un padre e credo che anche lui mi accettasse come un figlio». Tenendo conto della possibile esagerazione del dottor B., siamo nondimeno colpiti da questi due giovani medici SS che vedono in un professore ebreo prigioniero una figura paterna e forse sperimentano in questo processo una certa misura di rivalità tra fratelli. Che il sentimento fosse reciproco era confermato dalle calde lettere scritte a B. da ex medici prigionieri, comprese quelle del professore stesso. Dopo avermi letto una di tali lettere, il dottor B. cominciò a meditare sul «dovere di rimanere ad Auschwitz» e sulla sua capacità «di sentirmici del tutto a mio agio». Egli disse che nel campo poté sentire attivamente «la mia speciale vocazione a essere un medico». Quest’affermazione rappresenta lo speciale rapporto di B. con la situazione schizofrenica di Auschwitz; essa non avrebbe potuto essere fatta da nessun altro medico nazista.
Il rapporto del dottor B. con la moglie e i figli piccoli fu cruciale per la sua vita ad Auschwitz, ma solo indirettamente e da lontano. Una delle sue prime reazioni ad Auschwitz fu: «Ho fatto qualcosa di sbagliato, specialmente in relazione a mia moglie». Egli si riferiva al fatto che la sua insistenza ad arruolarsi, a cui la moglie si era opposta, lo aveva portato ad Auschwitz, anche se «in realtà non avevo desiderato quel che poi finii col fare». Dopo la strana esperienza del suo arrivo ad Auschwitz insieme alla moglie, «passò mezzo anno prima che potessi rivederla», a causa degli impegni di lavoro e, si sospetta, di una certa ambivalenza creata dall’esperienza di Auschwitz nel loro rapporto. Circa le attività di Auschwitz, egli le disse: «Io non ho niente da spartire con l’intera faccenda: io sono soltanto in questo istituto». E in effetti «non le dissi mai tutta la verità». Quando cominciò a vederla più spesso – dopo avere ottenuto da Weber di poter trascorrere una settimana a casa ogni due o tre mesi – provava «un senso di benessere misto a malessere». Desiderava vedere la moglie e i figli («Ero ovviamente molto felice di essere a casa») ma era consapevole di un senso di colpa («Speravo di aggiustare ancora le cose»). Egli sentiva il bisogno di tenere sua moglie e Auschwitz separati.
B. descrisse una «resistenza interiore estrema» al pensiero che essa gli facesse visita al campo. («Non avrei mai preso in considerazione tale idea.») Durante quei primi giorni in cui essi furono insieme ad Auschwitz, la moglie gli fece delle domande sul campo, ricevendo in risposta alcune delle finzioni abituali (in un campo così grande era inevitabile che morissero molte persone, cosicché c’era bisogno di un crematorio, e il fumo era dovuto al fatto che gli impianti non funzionavano nel modo giusto); e benché nel corso del tempo essa venisse inevitabilmente a conoscere gran parte della verità, egli non volle esporla a «una conoscenza più approfondita delle cose». Al ritorno al campo, dopo ogni licenza, B. era turbato anche dal «contrasto che Auschwitz presentava con la serenità della vita familiare, creando in lui forti sentimenti di «come si potrebbe essere felici se non si fosse costretti a restare qui».e
Nel 1944 uno dei loro figli morì a otto mesi di età. Il dottor B. disse che la moglie ne ebbe un «grande trauma», mentre la sua reazione fu meno intensa perché egli aveva visto ben poco del piccolo, e perché «il futuro non sembrava molto brillante... Morire in culla poteva non essere una cosa così tragica». Ma aggiunse che quello poteva essere anche un «segno ragionevole di ciò che doveva venire»: forse un modo indiretto per esprimere la sensazione che essi sarebbero stati puniti, forse da Dio, per Auschwitz.
Il dottor B. associò la sua inclinazione ad aiutare i prigionieri al pensiero della moglie e dei figli, ma la attribuì ancor più al «legame» (Verbindung) con i genitori, e specialmente col padre. Egli parlò dell’«integrità di vita» di quest’ultimo e della sua fermezza nel «rifiutare ogni compromesso» che potesse migliorare la sua situazione finanziaria. Poi il dottor B. espresse un altro pensiero: «Se entrambi [i miei genitori] fossero venuti a sapere che io avessi commesso delle azioni criminali (kriminelle Handlungen) in questa maniera, sarebbe stato per loro un colpo troppo duro». Egli fu un po’ ambiguo su questo punto, non lasciando intendere in modo chiaro se pensasse di avere effettivamente compiuto delle «azioni criminali» o solo di essere stato esposto a esse o alla possibilità di compierne. Ha però un qualche significato il fatto che il punto in cui egli si avvicinò di più ad associare il suo comportamento con l’idea della criminalità fu in relazione a una coscienza incentrata sui genitori.
Un aspetto notevole dell’adattamento del dottor B. fu che i suoi stretti rapporti con i medici prigionieri non sembrarono interferire con la sua integrazione con i colleghi delle SS. Egli aveva la tendenza a difenderne il comportamento e a minimizzare le differenze fra loro e lui, nonostante le prove evidenti in contrario.
Un esempio in proposito è il suo atteggiamento verso il suo capo, Bruno Weber. Temuto dalla maggior parte degli internati, Weber sembrava loro insensibile, zelante sostenitore del rispetto dei regolamenti e pericoloso. Il dottor B. affermò invece che Weber aveva una «cattiva stampa» presso gli internati perché «appariva freddo... e un... buon medico SS» ma, «in realtà, in un modo pratico, egli aiutò più internati di quanti non ne abbia aiutati io... a causa della sua posizione superiore». Il nocciolo di verità nella tesi di B. risiede nel fatto che l’atmosfera benefica dell’Istituto di Igiene sarebbe stata impossibile senza una certa condiscendenza da parte di Weber. Ma B. sentiva il bisogno di spingersi oltre, di vedere la differenza fra lui stesso e Weber solamente «nel modo di fare» (vedi pp. 270-271). Egli spiegò che Weber «interpretava la parte... del rigoroso medico SS» perché «temeva» di essere sorpreso a violare le regole delle SS, e ciò a causa della sua «ambizione... di far carriera nelle SS». Ogni volta che io richiamavo la sua attenzione su azioni criminali commesse dagli altri medici delle SS – per esempio sulla partecipazione di Weber alle selezioni e a esperimenti mortali sull’uomo –, B. non negava né condannava tale comportamento, ma lo attribuiva semplicemente all’«atmosfera di Auschwitz» o alla «mentalità di Auschwitz». Io credo che egli stesse tentando di dirmi che non era diverso da loro; che anche lui faceva parte dell’«atmosfera di Auschwitz» e della «mentalità di Auschwitz»; che anche lui era vissuto e aveva lavorato come parte della loro comunità e che in misura considerevole aveva pensato come loro. La sua affermazione esagerata di essere uguale a loro era senza dubbio anche una misura della sua integrazione in quel gruppo.
Durante l’intervista in cui mi parlò del contributo dato dai medici SS alla soluzione di problemi tecnici nella cremazione dei cadaveri, io gli chiesi se lui stesso avrebbe preso in considerazione l’eventualità di dare un aiuto in quel tipo di compito, e la sua risposta fu chiaramente affermativa: se si fosse potuta evitare «una catastrofe dal punto di vista igienico» egli avrebbe «senza dubbio messo a disposizione le [sue] conoscenze, come nel caso di qualsiasi altro problema»: «Anch’io ero... anche per me quella era la vita quotidiana, vede». Egli stava ripetendomi di continuo: Anch’io ero uno di loro.
In quale misura Ernst B. fosse uno di loro è rivelato dal suo rapporto con Mengele, che ci introduce nel cuore della sua ambiguità morale e psicologica. Durante la nostra prima intervista, mentre si stava parlando dell’intensità del suo impegno ad Auschwitz al punto che egli non aveva colto un’opportunità di andarsene, B. mi disse spontaneamente: «Avevo un rapporto molto buono con Mengele. Lei ha mai sentito il nome Mengele?». E fu quella l’occasione in cui disse: «Devo dire veramente che egli fu il collega più rispettabile che conobbi là». Durante le nostre cinque interviste, nel corso di un periodo di due anni, il dottor B. non si allontanò di un centimetro da quel giudizio sorprendente. Egli si infiammava sempre su quell’argomento, mettendo la massima cura nel correggere quelli che giudicava diffusi fraintendimenti sull’uomo e su ciò che egli rappresentò ad Auschwitz. Egli sosteneva che sbagliavo a parlare di Mengele come del «tipico medico SS»; Mengele era invece piuttosto «l’eccezione», ben diverso dal gruppo dei medici che erano ad Auschwitz da molto tempo, indipendente nei suoi atteggiamenti e «contrario in linea di principio al sistema dei campi di concentramento». B. presentò Mengele, Weber e se stesso come persone che avevano molto in comune: Weber aveva un atteggiamento critico verso lo sterminio degli ebrei; Mengele era altrettanto critico verso lo sterminio degli intellettuali polacchi; e B. pervenne a rendersi conto che la «valutazione generale del campo [data da Mengele] era del tutto simile [alla sua]».
Il dottor B. e Mengele avevano in comune anche molte altre cose, derivanti dal fatto di essere due medici che avevano superato da poco la trentina, di provenire da famiglie simili della borghesia medio-alta e di essere entrambi bavaresi, con un’antipatia tradizionale verso i prussiani. Il dottor B. ricordava inoltre Mengele come un uomo «sempre pronto ad aiutare», «molto cameratesco» (sehr kameradschaftlicher), e ammirevole per la franchezza con cui esprimeva la sua «antipatia e simpatia [per le persone]».
Quando sollevai il problema degli esperimenti di Mengele sull’uomo, B. insorse in difesa dell’amico: gli esperimenti sull’uomo erano una «cosa relativamente minore» ad Auschwitz; i bambini (che costituivano di gran lunga la maggior parte dei gemelli studiati da Mengele) avevano poche probabilità di sopravvivere ad Auschwitz, ma Mengele si assicurò che fossero ben nutriti e che ci si prendesse cura di loro; Mengele si sforzò di procurare una dieta migliore ai pazienti ricoverati nei blocchi medici e combatté la corruzione che conduceva a impoverire le loro razioni; su Mengele si erano sviluppate voci incontrollate e fantasie perché egli lavorava in una stanza speciale in cui era proibito l’ingresso ad altri. E quando io chiesi a B. se fosse disposto a mutare opinione nel caso che io gli avessi fornito ampia prova dell’abitudine di Mengele di mandare ogni tanto alla camera a gas uno o entrambi i gemelli di ogni coppia, B. rispose senza esitazione di no «perché nelle condizioni di Auschwitz si deve sempre dire che gli esperimenti di Mengele non erano forme di crudeltà». In difesa di Mengele, invocò ripetutamente le «condizioni di Auschwitz» o l’«atmosfera di Auschwitz». In altri termini, poiché ad Auschwitz c’era l’opportunità di eseguire «tipi di esperimenti che non si potevano fare in un mondo normale», Mengele «fece solo il tipo di ricerca scientifica che era possibile nelle condizioni specifiche del campo». Mengele «assicurò» inoltre al suo amico che egli «poneva ogni cura [il corsivo è di B.] nel far sì che [i bambini] non scoprissero mai che li aspettava la camera a gas». Ma il punto più importante era sempre che, nella misura in cui un uomo agiva in accordo con la palude di Auschwitz, noi non possiamo oggi giudicarlo negativamente:
Ci si deve rendere conto che nell’ambiente di Auschwitz, dove si uccidevano di continuo migliaia di persone, una cosa del genere [il fatto che Mengele uccidesse qualche gemello] non era nulla di straordinario. Assolutamente nulla che meriti una speciale menzione o che possa venire specificamente in mente a lui o a qualsiasi altro... Ma un estraneo non può capirlo.
Inoltre, il dottor B. respinse le prove della crudeltà di Mengele: «Non posso crederlo... Sarebbe contrario all’impressione personale che ho concepito di lui attraverso il nostro stretto rapporto di amicizia [e] attraverso il lavoro che abbiamo fatto in collaborazione in... un genuino rapporto professionale». B. ammise peraltro che non aveva certo avuto la possibilità di osservare Mengele in tutte le situazioni, cosicché «su come si comportasse nel proprio lager e... a proposito delle selezioni... non posso dire nulla». Ma il messaggio generale di B. era: Ciò che vidi io fu un comportamento irreprensibile e da buon collega. Su ciò che non vidi non posso fare commenti. Se qualcuno parlò male di lui, deve avere esagerato o fatto lavorare la fantasia, e io non posso crederci. Mengele agiva semplicemente in accordo con i princìpi di Auschwitz, qualsiasi cosa abbia fatto. E queste cose non possono essere comprese o giudicate da chi non abbia sperimentato personalmente la realtà di Auschwitz.
Nel tentativo generale del dottor B. di ristabilire il «buon nome» di Mengele, il principio organizzatore attorno a cui ruotò la sua argomentazione fu l’integrità. Mengele si comportò secondo le sue convinzioni. Egli fece anche ricerche scientifiche importanti. Forse ci fu una certa perdita di umanità (ammise il dottor B. in conseguenza delle mie insistenze), ma «se qualcuno è convinto, come lo era lui, che gli ebrei dovessero essere sterminati... si può immaginare che questa limitazione [associata al senso comune dell’umanitarismo] non esista», e debba comunque «sempre, lo ripeto ancora una volta, essere vista in relazione alle condizioni di Auschwitz».
Mengele, cioè, non fu un ipocrita e manifestò sotto vari aspetti iniziativa e senso di responsabilità. Per esempio, il dottor B. sostenne che Mengele «fu l’unico fra i medici SS a occuparsi degli [aspetti] pratici... della gassificazione»; il «sovraccarico eccessivo» cui furono sottoposti gli impianti e gli «errori... tecnici» resero l’intero processo «ancor più disumano», cosicché, «per quanto perversa questa cosa possa sembrare, egli si diede la pena di esaminare questo problema... per ragioni umanitarie».
Contrapponendo le energie costruttive di Mengele all’atteggiamento abituale ad Auschwitz, che si può compendiare nell’espressione: «non è affar mio», il dottor B. disse in varie occasioni che, al tempo dell’evacuazione di Auschwitz, verso la fine della guerra, quando tutti si preoccupavano di questioni personali, solo Mengele ebbe la presenza di spirito e il senso di responsabilità di organizzare la distruzione con la dinamite delle camere a gas. Il compito era in realtà «di competenza del comandante, non del medico SS», ma il comandante «era disposto a lasciare in piedi tutta quella sconcezza (Sauerei, un termine spesso usato nel campo)». Ogni volta che il dottor B. parlò di questo fatto si espresse in termini elogiativi, pur attribuendogli significati diversi: vedendo in esso un’espressione della «disapprovazione [da parte di Mengele] dell’intera struttura di annientamento come qualcosa che disonorava i princìpi delle SS e le sue convinzioni religiose» o l’intendimento di nascondere alle forze di occupazione quel «sudiciume», in difesa del «buon nome della razza tedesca» o per «non lasciare in piedi nulla che potesse gettare una cattiva luce sulle SS».
Nella nostra ultima intervista, il dottor B. parlò di nuovo intensamente del «caos estremo» di quel tempo, quando tutti fuggivano e «Mengele..., l’unico ad accorgersi che [il comando delle SS] aveva lasciato in piedi i crematori», era tornato con alcuni uomini «per farli saltare nel modo più totale possibile».
Se Mengele (come potei dimostrare a B.) seguì un modello consistente nell’alternare umanitarismo e crudeltà con i prigionieri o nel mandare un gemello sano nella camera a gas per fini sperimentali, allora sarebbe venuta meno «ogni discrepanza» nella valutazione del suo comportamento. B. invocò allora il caso di Rudolf Höss, «che... fece di Auschwitz ciò che era» ma, al tempo stesso, «era nella vita privata una persona di un’integrità assoluta». (Per una discussione del principio qui implicato, e delle distorsioni nell’esempio di B., vedi p. 279.) Il senso dell’argomentazione di B. sembra essere che una persona che credesse genuinamente nel progetto nazista avrebbe potuto impegnarsi in un comportamento crudele e omicida con «un’integrità assoluta».
Il dottor B. vedeva in Mengele uno spirito libero dal «carattere ottimistico», che agiva sulla base delle sue convinzioni persino quando queste erano contrarie alla politica ufficiale di Auschwitz. Per esempio, B. parlò della forte opposizione esercitata da Mengele contro l’annientamento del lager degli zingari. Fondata come un campo di famiglie, l’unità degli zingari si deteriorò rapidamente e divenne straordinariamente sporca e antigienica persino rispetto alla norma di Auschwitz, un posto dove neonati, bambini, adulti, tutti morivano di fame. B. insistette nel dire che «al campo venivano distribuite abbastanza razioni... perché tutti potessero sopravvivere», ma che certi zingari adulti di alto rango si appropriavano della maggior parte del cibo, privandone in tal modo tutti gli altri, fra cui i bambini. Le autorità di Auschwitz, «turbate» da questa situazione, vennero alla conclusione che fosse praticamente impossibile modificarla e che l’unica soluzione fosse quella di «gassare l’intero campo». Secondo B., Mengele si oppose con energia a tale decisione, fece vari viaggi a Berlino nel tentativo di farla revocare e si spinse fino a dichiarare ad altre autorità di Auschwitz che l’annientamento del lager degli zingari sarebbe stato «un crimine».
Lo stesso Ernst B. disse di avere concepito un profondo interesse per la situazione degli zingari e di essere rimasto sgomento nell’apprendere di padri e madri che mangiavano lasciando morire di fame i loro figli: le condizioni «erano atroci..., peggio che in ogni altro campo» e costituivano «un problema gravissimo». Egli aggiunse: «Essendo sopravvissuto (überlebt) a quel campo di zingari, ho sviluppato la peggiore opinione possibile verso gli zingari. E quando vedo uno zingaro cerco di allontanarmi rapidamente... Non riesco ad ascoltare musiche gitane».
L’abitudine di colpevolizzare le vittime è al centro della percezione che il dottor B. ha dell’evento. Che egli stia nondimeno lottando contro sentimenti di colpa è suggerito dall’intensità del suo coinvolgimento e della sua avversione per gli zingari, come pure dal fatto che egli usi per se stesso il termine «sopravvissuto». Egli espresse una considerevole simpatia per le autorità del campo che si trovarono a dover affrontare il problema insolubile del lager degli zingari, anche se ammirò Mengele per essersi opposto «audacemente» al suo annientamento e se pensò che fosse naturale per lui partecipare a tale annientamento una volta che la decisione era divenuta irrevocabile. Mengele rimase per il dottor B. una fonte profonda di connessione con l’atmosfera di Auschwitz.
Il dottor B. diede una descrizione complessa «dell’ideologia SS» abbracciata da Mengele in età molto giovane: secondo tale ideologia le principali correnti della cultura europea avrebbero preso forma da gruppi «germanici» come gli antichi greci, oltre che dai normanni e i vichinghi; la cultura emergente minò la morale cristiana di origine ebraica, la quale culminò in una vasta minaccia storica portata dall’ebraismo alla razza germanica; il bisogno di tornare all’antico mito germanico creò, nel cuore del movimento nazista, un ordine contemporaneo delle SS, che vide uno dei suoi principali obiettivi nell’eliminazione dell’influenza ebraica. L’intensità, e forse persino l’entusiasmo, con cui il dottor B. ricostruiva questa ideologia, potevano far pensare che non solo essa lo aiutasse a rievocare il clima affettivo che lo aveva legato all’amico ma che qualcosa dentro di lui continuasse a essere attratto verso quel messaggio. B. sostenne che Mengele non era uno che predicasse il suo verbo e che tutti questi argomenti erano stati discussi fra loro in modo «molto obiettivo». B. aveva un modo di rendere in una luce favorevolmente familiare le idee sfrenatamente visionarie di Mengele, sia perché esse non gli erano del tutto estranee sia perché egli poteva vedere in Mengele lo scienziato e il «ricercatore su questioni razziali».
Le lotte interiori del dottor B. con ciò che Mengele rappresentava si riflessero nelle sue descrizioni contraddittorie delle opinioni di Mengele sullo sterminio degli ebrei. A volte B. parlava di Mengele come di un uomo fortemente contrario al progetto di sterminio di Auschwitz e diceva che lo aveva definito una forma di «assoluta idiozia» e di «stupidità», dichiarando addirittura che «Mengele non sarebbe mai entrato nelle SS se Hitler avesse annunciato in anticipo che, non appena avessimo trionfato, avremmo fatto passare gli ebrei per il camino». In seguito egli dichiarò invece che Mengele «era pienamente convinto che l’annientamento degli ebrei [fosse] una misura per garantire la guarigione del mondo, e della Germania» e che l’unico problema che restava da risolvere era quello del metodo da usare. Quest’ultima opinione è senza dubbio più vicina alla verità. Secondo me, però, Mengele divenne per il dottor B. un modo per esprimere le sue proprie contraddizioni interiori sulla «questione ebraica»: B. poté a volte riferirsi al problema generale dell’annientamento degli ebrei come se fosse un vero problema di cui gli uomini di buona volontà dovessero occuparsi, su cui potessero in qualche misura dissentire, ma che dovessero affrontare con mente aperta e con una «discussione razionale». E quando compendiò i tratti del personaggio che così ammirava in Mengele («un buon soldato... senza false ambizioni nelle SS», che «non esitava a opporsi... apertamente [a qualsiasi cosa] gli sembrasse sbagliata»), queste erano le qualità che B. era stato educato ad ammirare e che trovava in suo padre, e dalle quali, per una curiosa ironia, credeva gli fosse venuta la forza di comportarsi in modo accettabile ad Auschwitz.
In tale vena, B. attribuì a Mengele qualcosa di più: doti genuine di comando. In contrasto con Höss, in cui vide «un perfetto soldato» perché eseguiva alla lettera gli ordini, Mengele era un «capo di uomini». Per B., egli era un uomo di stampo eroico. Intellettualmente era in anticipo rispetto al suo tempo, avendo affrontato il problema della «base biologica» del comportamento politico e della funzione del comando in modi che gli studiosi stanno cominciando a scoprire solo oggi. Egli aveva inoltre un «“principio di vita” (Lebensprinzip) assolutamente saldo per il quale si impegnò più di qualsiasi altra persona di mia conoscenza [e] si assunse rischi in una misura incredibile per esprimere le proprie convinzioni». B. aggiunse: «Pochissimi lo hanno fatto. Mengele fu uno di loro».
La testimonianza del dottor B. nel caso di estradizione di Mengele è sotto molti riguardi coerente con gli aspetti di cui ci siamo occupati finora. Egli disse che Mengele era convinto che gli ebrei dovessero essere sterminati; che le selezioni ad Auschwitz fossero imperative e persino «umanitarie»; e che Auschwitz fosse «solo un’anticipazione parziale della Soluzione finale» che doveva venire. Pur descrivendo Mengele come un uomo convinto delle proprie azioni, e dicendo di non essere a conoscenza di uccisioni nella ricerca di Mengele sui gemelli, la dettagliata testimonianza fornita dal dottor B. sul rapporto di Mengele con le selezioni potrebbe essere stata legalmente molto dannosa per il suo amico di un tempo. Ora B. tentava di «armonizzarsi» con la corte tedesca.
A un certo punto chiesi al dottor B. come si sarebbe sentito, considerando le diverse vie prese da lui e da Mengele, se in futuro si fossero incontrati. La sua risposta, pur essendo prudente, chiarì che egli sarebbe stato lieto di rivedere il vecchio amico e di riprendere il loro rapporto su una base ancora più «razionale» di prima: «E ne risulterebbe – per quanto lo conosco – un discorso completamente privo di emozioni. Un discorso senza emozioni. Le emozioni sono rimaste ad Auschwitz. Per tutti noi».
Mentre, nel gennaio 1945, si stava preparando l’evacuazione di Auschwitz, Ernst B. cercò di predisporre le cose in modo che i «suoi» medici potessero sopravvivere, sia che fossero fra quelli che dovevano fare la marcia forzata sia che dovessero restare. Un medico che partecipò all’evacuazione regolare, insieme ai prigionieri in grado di marciare, osservò: «Quando passammo davanti al laboratorio, il personale delle SS ci faceva cenni di saluto con le mani e ci augurava buona fortuna. Sembravano quasi che volessero dirci: “In questo momento siamo tutti sulla stessa barca”».
Fu deciso che l’Istituto di Igiene dovesse ricostituirsi a Dachau; e mentre «ognuno cercava di portare in salvo la propria pelle», il dottor B. fece tutto ciò che era in suo potere per aiutare a organizzare quel laboratorio. Anche se si parlava di preparativi di una «controffensiva» tedesca, è probabile che questo impegno nel ricostruire l’Istituto di Igiene mirasse a dimostrare agli Alleati la natura benigna delle attività mediche naziste nei lager, oltre a mantenere sino alla fine la situazione medica «come se». Nelle pessime condizioni di Dachau, i medici prigionieri che avevano lavorato nell’Istituto di Igiene di Auschwitz furono immensamente sollevati nel vedere Ernst B. e Weber e nel sentir loro dire: «Vogliamo che lavoriate ancora con noi». Mentre ora la maggior parte dei medici SS prevedevano l’imminente rovesciamento della situazione e diventavano improvvisamente premurosi verso i prigionieri, il dottor B. andò molto oltre. All’avvicinarsi delle forze alleate, egli discusse con i medici prigionieri possibili accomodamenti per permettere loro di sottrarsi al controllo dei nazisti, compresa l’idea di fornire loro uniformi di SS. Poi strinse loro la mano e li «salutò in modo molto amichevole», dopo di che estrasse una pistola dal suo cassetto e la diede a uno di loro come forma di protezione. Pur ammettendo che nel suo comportamento ci fosse anche un elemento di motivazione egoistico, in seguito spiegò: «C’era la... probabilità che... potesse accadere... un altro massacro... Io avevo alcune pistole: perché lasciarle in giro?».
Negli ultimi giorni di Dachau uno dei prigionieri suoi amici consigliò al dottor B. di cercarsi un nascondiglio per un po’ di tempo, perché subito dopo la sconfitta nazista l’atmosfera sarebbe stata tale che «chiunque [fosse stato visto] in uniforme di SS [sarebbe stato] linciato»; in seguito avrebbe potuto venir fuori e chiarire la sua posizione con l’aiuto degli internati. Egli fece così per breve tempo, fu preso in custodia sotto falso nome dagli americani a Dachau e per qualche tempo fu protetto dagli ex internati che, fatti entrare per identificare il personale appartenente alle SS, finsero di non riconoscerlo.
Dopo circa un anno di custodia la sua identità fu scoperta ed egli fu processato. Egli mi disse che, a quel tempo, «io personalmente non mi sentivo colpevole». B. parlò del suo senso di «colleganza» verso gli ufficiali delle SS in prigione con lui, e della «macabra» sensazione che provò quando alcuni di loro furono condannati a morte. Egli cominciò a preoccuparsi quando divenne chiaro che a comandare erano i russi e che potevano avere l’intenzione di allestire un processo-farsa.
Gli ex medici prigionieri si raccolsero dietro il dottor B. fornendo una testimonianza imponente a suo favore. Le dottoresse del Blocco 10, in particolare, confermarono la sua asserzione che gli esperimenti da lui eseguiti non causarono danni a nessun paziente e valsero a salvare molte vite umane. Il professore che era stato così vicino a lui e a Delmotte organizzò la testimonianza di molte persone che avevano lavorato nell’Istituto di Igiene e attestò personalmente che il dottor B. «difese i diritti di tutti i prigionieri... con mirabile coraggio... [e] con una disposizione a portare aiuto veramente cordiale... che andò oltre le leggi usuali dell’umanità». Il professore disse che il dottor B. gli aveva salvato la vita dopo una grave emorragia allo stomaco e che, «fra gli internati dell’Istituto di Igiene si diffuse un vero “culto del dottor B.”, facendolo oggetto non solo di reverenza e rispetto ma anche di sincera gratitudine e amore».
Questo professore espresse sentimenti simili in una lettera personale al dottor B., comprendente una calda e dettagliata relazione sugli esperimenti da lui compiuti nei due anni dopo la fine della guerra, e disse: «Lei sa benissimo quello che le devo. Sono convinto che senza di lei non sarei rimasto in vita». Gli espresse inoltre il suo rammarico nell’aver trovato l’Istituto di Igiene distrutto quando era tornato a ispezionare l’area assieme a una commissione inquirente, e insieme il suo piacere nel constatare che la documentazione scientifica fosse ancora intatta. In una lettera successiva pose delle domande al dottor B. circa altri dati scientifici tratti dall’Istituto di Igiene, suggerendo la possibilità di pubblicarli in un articolo con la loro doppia paternità, e con la possibile attribuzione istituzionale «Dall’Istituto di Igiene del Campo di Concentramento di Auschwitz». Vari anni appresso, dopo la morte del professore, potei parlare con sua figlia, la quale sapeva molto sul rapporto di suo padre con Ernst B., e specialmente su come questi avesse salvato la vita di suo padre in tre occasioni diverse. Il dottor B. aveva assunto quindi nella sua mente una qualità quasi mitica: essa vedeva in lui non un medico SS bensì «il salvatore di mio padre», immaginava di poterlo conoscere una volta o l’altra in Germania e si spinse a dire che, quando suo padre morì, le parve che il dottor B. lo avesse sotto certi aspetti sostituito nei suoi sentimenti.
Essa era però sconcertata da un aspetto del loro rapporto. Aveva visto la calda corrispondenza fra i due uomini, compresa la lettera di ringraziamento scritta dal dottor B. dopo il suo proscioglimento. Dopo di che, suo padre aveva risposto dicendo in effetti (nelle parole della figlia): «Lei mi salvò la vita, io le ho salvato la vita: ora siamo pari». Essa notò che i due uomini avevano smesso di scriversi; e quando chiese al padre perché non scrivesse più al medico tedesco, egli rispose: «Ci siamo salvati la vita reciprocamente. Questo è tutto. Di che cos’altro potremmo parlare?».
Io sospetto che suo padre abbia vissuto questa vicenda come un vero e proprio baratto. Innanzitutto, egli aveva mobilitato energie e influenza per fare assolvere e rimettere in libertà un uomo che in precedenza era appartenuto (anche senza averne la mentalità) alla categoria dei carcerieri che lo avevano tenuto rinchiuso nel campo di concentramento. Poi doveva aver sentito il bisogno di uscire dalla situazione di dipendenza verso il dottor B. derivata da Auschwitz, oltre che dai suoi propri coinvolgimenti e compromessi ad Auschwitz, per affermare finalmente un’area invalicabile fra i terreni separati del medico prigioniero e del medico SS ad Auschwitz.
L’esperienza più forte vissuta da Ernst B. in carcere ebbe attinenza con «una stanza piena di documenti» dell’Istituto di Igiene che il giudice istruttore, ora favorevolmente disposto verso di lui, gli chiese di esaminare. B. si immerse nello studio di problemi relativi a quanto tempo un prigioniero malato e i prigionieri in generale potessero sopravvivere ad Auschwitz con la dieta che veniva loro fornita. Egli affrontò quel compito con energia e metodo, studiando i componenti nutritivi della dieta per diversi tipi di prigionieri, compresi quelli sofferenti di varie malattie, e concluse che gli internati affetti da malattie gravi avevano una speranza di vita di non più di quattordici giorni, mentre la speranza di vita di un comune prigioniero era di non più di tre mesi. Questi risultati, che furono utilizzati dalla corte e da altri ricercatori, furono pubblicati. Egli sottolineò con me che, al di là di quelle statistiche, «quel che è importante è che per mesi io fui solo in una stanza con questi documenti e nient’altro» e che, «lavorando su queste carte, stabilii uno speciale contatto con Auschwitz». Prima, in una cella collettiva, «si utilizzava qualsiasi opportunità per sopprimere questi ricordi», ma in quella stanza, «posti di fronte al problema... in un modo diverso..., si potevano fronteggiare quei pensieri senza alcun bisogno di respingerli». Egli confrontò poi la sua situazione con quella di Rudolf Höss, con cui aveva diviso una cella per breve tempo e con cui aveva parlato pochi giorni prima che venisse impiccato. Egli aveva trovato che, «dopo avere scritto le sue confessioni (Bekenntnisse [Bekenntnis significa anche confessione religiosa])»,f Höss si era sentito «sollevato... da un grande peso». Il dottor B. si sentiva analogamente sollevato: in effetti, il suo studio scientifico dei fattori di vita e di morte era la sua «confessione di Auschwitz». L’intensità di quell’esperienza si rifletté in sogni che B. cominciò a fare in quel periodo e che continuarono anche dopo di allora: «Ogni volta che avrò un sogno in qualche modo connesso ad Auschwitz, appariranno anche quei documenti». Il lavoro psicologico comportato da quello studio dei documenti di Auschwitz condusse B. più vicino che mai a un senso di colpa cosciente concernente il suo rapporto con Auschwitz:g «Mi occupai di continuo..., in modo inconscio e nei miei sogni, di trovare come si potesse rendere qualsiasi cosa commestibile, utilizzabile da esseri umani... Nei miei sogni la fame [degli internati] mi tenne molto... occupato, [perché] noi vivevamo molto bene, mentre gli altri, i prigionieri, stavano morendo di fame».
Dopo la sua assoluzione, un ex internato, ora in una posizione elevata, si offrì di far rientrare il dottor B. nella medicina accademica e nella vita universitaria. Egli preferì però tornare nella zona in cui aveva esercitato la sua professione in passato, perché «quest’oasi umana significava di più per me». In generale, «non volevo fare alcun genere di esperimento... [bensì] volevo usare il metodo più sicuro» e «dissi a me stesso che soltanto i valori umani hanno importanza di per sé».
Egli voleva evitare «gli esperimenti», in medicina come nella vita. Come altri medici ex nazisti, voleva ritirarsi da situazioni di coinvolgimento troppo intenso e di disadattamento culturale e trovare una via sicura e attendibile: nel suo caso spendere gran parte del resto della sua vita ad assorbire l’esperienza di Auschwitz, e al tempo stesso ad allontanarsene. La gente della sua zona lo accettò, a quanto pare conoscendo qualcosa della sua origine e del suo ambiente familiare e vedendo in lui un uomo che aveva sì servito sotto i nazisti, ma che era stato assolto dalle accuse di avere compiuto azioni criminali.
Negli atteggiamenti del dottor B. e nel suo rapporto verso di me nel corso delle nostre cinque interviste, durate virtualmente ciascuna un’intera giornata, per un totale di circa trenta ore, si svilupparono certi schemi. Durante la nostra prima intervista egli fu, rispetto ai medici ex nazisti da me conosciuti, straordinariamente entusiasta e accattivante. Egli sembrava prodigarmi tutto ciò che poteva su quasi tutto ciò che gli chiedevo, offrendomi inoltre molto di più di propria iniziativa. Come altri, egli parve soprattutto a suo agio nel descrivere le sue esperienze giovanili; e cercò di costruire un racconto della sua vita che minimizzasse i suoi incontri con realtà inquietanti come le persecuzioni degli ebrei, l’addestramento giovanile nelle SS e alcuni fra i particolari più squallidi del periodo di adattamento alla realtà di Auschwitz. Nondimeno, la sua descrizione del mondo di Auschwitz in quella prima intervista fu notevole per abbondanza di particolari, franchezza e atmosfera psicologica. Benché io avessi un certo ritegno, il tono dell’intervista fu amichevole. In seguito il mio assistente, che faceva da interprete, espresse la sua meraviglia per la facilità con cui Ernst B. e io, due persone così diverse e dalla vita così antitetica, eravamo riusciti a comunicare al primo incontro.
Grazie al persistente entusiasmo del dottor B., potei programmare una seconda intervista, lunga un’intera giornata, più avanti nel corso della stessa settimana. Egli mi spiegò poi le riserve della moglie sui nostri incontri, riserve dovute al fatto che in conseguenza delle vicende di Auschwitz egli era stato in carcere e che sua moglie temeva che dalle interviste potesse derivargli qualche danno. Frau B. fece, in effetti, due apparizioni nel corso dell’intervista, durante le quali espresse queste apprensioni e altri timori simili. In una di queste due occasioni disse in un inglese incerto: «I am not against you, just against Auschwitz» (Non sono contro di lei, [ma] solo contro Auschwitz). E poco tempo dopo, mentre B. era fuori essendo stato chiamato per vedere un paziente, essa entrò di nuovo, accese le candele dell’Avvento sull’albero di Natale (era la terza domenica dell’Avvento), e indugiò più o meno nella stanza senza dire nulla. Il mio assistente e io avemmo l’impressione che desiderasse renderci partecipi di un modesto rituale religioso, una sorta di comunione spirituale; ma, benché in quella scena ci fosse qualcosa di bello, incorniciata com’era in un paesaggio boschivo sempre più ammantato dalle ombre del crepuscolo in lontananza, sentivo che in quel momento non ero del tutto pronto per un’esperienza di comunione con lei.
Quella seconda intervista fu la più lunga e la più dettagliata delle cinque. Fu degna di nota, in essa, la disponibilità del dottor B. a svelare in misura crescente la sua vulnerabilità e il suo conflitto: in connessione con l’episodio di Delmotte, con la sua «cattiva coscienza» verso l’altro medico SS, e con i suoi sogni di Auschwitz, per il loro elemento di autocondanna.
La terza intervista segnò un punto di svolta importante. B. cominciò complimentandosi con me per la chiarezza dei miei studi su alcuni casi in un libro che gli avevo mandato in risposta alla sua richiesta di vedere miei lavori precedenti. Poi però sottolineò che le persone erano soggette a ricostruire gli eventi del passato in modo a loro favorevoli. Chiarì che stava riferendosi a se stesso, e in effetti stava dicendomi che non dovevo accettare ciò che mi diceva sulle sue esperienze ad Auschwitz come se fosse stata tutta la verità o solo la verità. Egli stava facendo ogni sforzo per essere sincero e forse nello stesso tempo stava esprimendo una nuova versione di uno dei suoi temi costanti: che la realtà di Auschwitz era così complessa e paradossale da non essere in realtà comprensibile o accessibile appieno alla memoria.
Ora, però, la sua insistenza ricorrente sulle virtù di Mengele cominciò a rivelare la misura del suo coinvolgimento nel nazismo. L’accento da lui posto sulla «razionalità» delle sue discussioni con Mengele sulle aree più estreme dell’ideologia delle SS faceva parte di un nuovo accento sulla misura in cui egli, Ernst B., era realmente appartenuto a quel gruppo di medici SS. Mi rendevo conto che, mentre descriveva con distacco i modi in cui i medici SS davano il loro aiuto alla soluzione di «problemi tecnici», egli stava addentrandosi più in profondità nell’atmosfera di Auschwitz. Mentre sottolineava il principio di Auschwitz, che ognuno aveva «del fango sul suo bastone», stava avvicinandosi non solo al cuore di Auschwitz ma anche alla propria connessione col lager e con le sue funzioni. In altri termini, scandagliando più in profondità e diventando sempre più franco, era costretto a rivelare aspetti del suo coinvolgimento che non potevano più adattarsi al racconto confortevolmente controllato che una parte di se stesso desiderava costruire. Ecco perché egli parve più teso in questa intervista che in altre; e alla fine tentò di uscire dal suo vicolo cieco concentrandosi sul problema del sovraffollamento di Auschwitz; su come a volte nel campo ci fossero 140.000 prigionieri e come esperimenti scientifici con topi in gabbie sovraffollate rivelassero comportamenti estremi, compreso il cannibalismo.
La quarta intervista si svolse nove mesi dopo la terza. Il ritardo era stato causato da vari fattori, ma principalmente dalla riluttanza da parte sua dovuta presumibilmente alle continue obiezioni sollevate dalla moglie. Come soluzione di compromesso ci incontrammo in un piccolo studio universitario cui io avevo accesso a Monaco, soluzione che gli impose di viaggiare per varie ore in macchina per venire da me. Pur essendo egli ancora affabile, il suo tono era significativamente mutato. Egli mi disse che il suo atteggiamento su Auschwitz e sui problemi connessi si era «indurito». Ora insistette nel voler riconoscere quanto nei nazisti c’era di buono oltre che di cattivo e nel considerare altre forme di comportamento crudele nella storia, cosa che permetteva di non vedere più le crudeltà dei nazisti come qualcosa di unico.
Egli si era in effetti indurito verso di me e anche verso la situazione dell’intervista, diventando sempre più perentorio nell’esprimere il punto di vista nazista del tempo di Auschwitz, in modi che lasciavano dubbi su quanto lontano egli fosse stato da quel punto di vista allora, e persino su quanto lo fosse ora. Nel suo rifiuto di ogni possibile comparazione fra culti violenti contemporanei (in particolare quello diretto da Jim Jones, culminato nel suicidio-omicidio di massa di più di novecento suoi proseliti avvenuto nel 1978) e la struttura nazista di Auschwitz c’era un elemento di disprezzo. E un tono di sfida era percepibile nella sua insistenza sulla «logica» delle uccisioni naziste ad Auschwitz per quei medici che credevano nella visione nazionalsocialista come una Weltbeglückung, una benedizione per il mondo, e che vedevano negli ebrei il «male fondamentale» (Grundübel). Il suo linguaggio divenne più crudo – per esempio nell’uso dell’espressione hausbackene Probleme («problemi ordinari»; hausbacken significa però, letteralmente, «cotto nel forno di casa») per descrivere problemi di routine. Egli usò un tono obiettivo, senza alcun tentativo di giustificazione, esprimendosi anzi quasi con entusiasmo, nel guidarmi attraverso le zone più disgustose di Auschwitz. E nel sottolineare che i medici nazisti non vedevano «un problema etico ma solo un problema tecnico» nell’offrire consigli sulla cremazione dei corpi, egli parve rifiutare una qualsiasi prospettiva morale su Auschwitz. Alla fine dell’intervista, paragonando il periodo nazista a oggi, disse che, nonostante la «liberazione totale» di oggi, c’è un’assenza di «ideali per i giovani», una «mancanza di impegno», che conduce a «condizioni di caos» e all’assenza di «una comunità unita». I nazisti «esagerarono» nella direzione opposta, riconobbe, ma nei metodi certamente «primitivi» di Hitler c’era «qualcosa di giusto», e qualcosa «di buono nei nazisti».
Ora fui io che divenni teso, sgomento com’ero da ciò che stavo ascoltando e rendendomi conto del dissolversi della mia simpatia per quest’uomo, che pure ad Auschwitz era stato un eroe per le persone che avevano avuto più bisogno di lui. Verso la fine dell’intervista, però, egli parlò in termini elogiativi della nostra sequenza di incontri perché «attraverso domande specifiche si è costretti a pensare a fondo su certe cose» e, «parlandone, molte cose si chiariscono». Mi convinsi che egli avesse provato un certo sollievo nel fare un ritratto a tinte più forti del suo anteriore «sé di Auschwitz», e che ciò gli fosse stato forse facilitato dal fatto di trovarsi fuori di casa sua e su un terreno più o meno neutro. Un fattore probabilmente più importante fu la previsione che questa sarebbe stata la nostra ultima intervista. In precedenza egli si era spinto molto avanti nel collaborare con me come critico di Auschwitz e dei nazisti, esprimendo in tali occasioni il suo sé tedesco postbellico (non nazista). Tale collaborazione gli era diventata però sempre più difficile mentre egli scavava più in profondità nell’esperienza di Auschwitz con quella franchezza che egli stesso richiedeva per le sue lotte interiori. In quel senso i suoi propri conflitti potrebbero essere stati non meno importanti delle obiezioni di sua moglie nel determinare la sua crescente resistenza agli incontri. Al tempo stesso, però, egli si era venuto a sentire sempre più coinvolto in essi e la sua franchezza nel comunicarmi il suo «sé di Auschwitz» risorto era una sorta di ultimo dono nella forma di una potenziale insight.
Egli si offrì anche di rispondere a domande scritte che avrei potuto fargli avere per posta. Quando però lo feci non mantenne la promessa, scrivendomi infine per spiegarmi che non solo ne era stato impedito da altre cose, ma che per rispondere sinceramente alla domanda più semplice occorreva affrontare una complessa descrizione della situazione schizofrenica di Auschwitz. Egli trovava inoltre un tale compito impossibile quando non si era «in contatto personale durante la conversazione», ossia quando non ci si trovava faccia a faccia nella condizione dell’intervista. Ancora chiaramente coinvolto nello scambio, accettò di vedermi ancora una volta nella mia successiva visita in Germania.
Parlammo in una camera d’albergo e il carattere impersonale ed estraneo di tale ambiente potrebbe avere favorito la libertà e l’intensità delle sue risposte. Egli si spinse ancor oltre nell’insistere sulla «logica» dell’eccidio di massa, pur rimanendo evasivo nel rispondere alla domanda se la maggior parte dei medici nazisti fossero realmente favorevoli all’eccidio di massa di Auschwitz. Né fu del tutto chiaro in quale posizione egli si collocasse sul problema: egli si era spesso dichiarato contrario alla politica dello sterminio, ma ora almeno una parte di se stesso parve poter convivere con essa. In generale, egli diede l’impressione di parlare ancor più dall’interno dell’ideologia del tempo, riaffermando il rapporto che lo aveva allora legato alla struttura interna delle SS di Auschwitz. Eppure egli fu anche più attivo che mai nell’istituire associazioni e nel fornire una quantità continua di informazioni e intuizioni profonde. Quello fu veramente il suo «ultimo dono».
Ora che stavamo davvero separandoci, egli aveva affermato in modo più aggressivo il suo diritto a essere se stesso, non più legato a quelle che riteneva fossero le richieste delle nostre interviste o della mia approvazione. Anch’io fui più aggressivo nel sondare vigorosamente molti problemi di cui si era già parlato in precedenza, non più preoccupato del pericolo di perderlo per future interviste. Entrambi ci eravamo sforzati di trovare un terreno comune sufficiente per poter condurre un dialogo. Ognuno di noi aveva accettato dei compromessi, e il processo era stato prezioso per entrambi, ma riuscimmo a sostenerlo solo temporaneamente. Nel separarci, ognuno di noi provò un certo sollievo nel tornare a ciò che realmente era ed è. Ciò non significa che il dottor B. sia tornato a essere un nazista, ma piuttosto che rivendicava apertamente elementi connessi al nazismo che erano ancora importanti per il suo senso del sé.
Coerente sino alla fine, non fece alcuna asserzione di carattere morale. Mi disse che, nonostante l’ora tarda, aveva deciso di affrontare subito il viaggio di ritorno a casa di varie ore di macchina per potersi concedere, il giorno dopo, il piacere del sole invernale e dello sci. Egli aveva attribuito molta importanza alle nostre interviste. Ora, però, era ansioso di lasciare la camera d’albergo, di abbandonare Auschwitz e i conflitti che erano stati suscitati dai nostri dialoghi.
I meriti e le ambiguità di Ernst B. si riflettono nel suo atteggiamento verso gli ebrei. Qui la considerazione di base è il fatto notevole che ad Auschwitz egli li trattò come esseri umani bisognosi di aiuto. I suoi sogni su Simon Cohen, inoltre, suggeriscono la presenza in lui di un’apertura verso un amico ebreo sufficiente per poterlo interiorizzare come una sorta di coscienza, e anche un’espressione di umanità nei rapporti fra tedeschi ed ebrei. Quando però gli chiesi se in precedenza si fosse mai interessato alla sorte dell’amico, rispose in modo vago: «Forse a un livello subconscio (Vielleicht unterbewusst)», quando divenne consapevole dell’«emigrazione ebraica», e aggiunse che lui e i suoi amici avevano l’impressione che gli ebrei stessero emigrando in «condizioni relativamente buone perché erano indesiderati, perché non avevano opportunità di restare qui più a lungo». Egli aveva potuto situare la famiglia Cohen in tale categoria perché si trattava di una famiglia benestante e influente, ma l’immagine è essenzialmente un’immagine nazista e stende un manto sugli inizi delle persecuzioni degli ebrei.
Poi, in uno sforzo di franchezza, aggiunse che la sua amicizia con Simon Cohen «non era particolarmente intensa», e che nel suo gruppo principale di amici tedeschi «non avevamo alcun ebreo». Aggiunse anche: «Sono convinto che, come molti altri, rimossi questo fatto... a livello cosciente». Il tema dell’avere rimosso o represso quel che stava accadendo agli ebrei fu ricorrente in tutti i nostri discorsi. Com’egli disse: «Era un periodo in cui stava sviluppandosi una prosperità generale per la maggior parte delle persone, e ovviamente era molto più facile rimuovere semplicemente le cose spiacevoli». Ciò non ci impedisce però di supporre un certo grado di consapevolezza, e di accettazione, di tali persecuzioni.
L’argomento emerse in modo diretto nel corso della nostra seconda intervista. Nell’occasione in cui la moglie di B. mi disse di non essere contro di me, ma solo contro Auschwitz, mi chiese anche: «Perché non aiutate gli ebrei?», aggiungendo (in relazione alla crisi, allora in una fase acuta, fra Israele e il Medio Oriente) che «essi sono ancora il popolo più odiato del mondo» e che dovevano essere aiutati in qualche modo, cosicché non si trovassero più in una situazione in cui fossero così odiati. Il dottor B. commentò che i tedeschi e gli ebrei erano ora i due popoli più odiati del mondo. Benché nessuna di queste due affermazioni fosse apertamente antiebraica, esse erano in accordo con l’anteriore atteggiamento dei tedeschi di vedere gli ebrei come «il problema». Le loro parole avevano probabilmente attinenza anche con la loro impressione di trovarsi di fronte a un ebreo. Se quest’ipotesi è giusta, essi intendevano probabilmente dirmi qualcosa come: «Perché non aiuta i suoi confratelli ebrei – che sono ancora il popolo più odiato e quindi hanno bisogno di aiuto – e non lascia in pace mio marito?». Anche se non possiamo identificare con precisione le opinioni del dottor B. con quelle di sua moglie – essa era sempre stata più antinazista di lui –, le parole di B. in quell’occasione suggerivano un accordo con la moglie e si conciliavano anche con tendenze che abbiamo già rilevato in lui di colpevolizzare le vittime. Anche il sospetto che io fossi un ebreo poteva avere contribuito sia all’intensità con cui egli ricercò un terreno d’intesa con me durante le interviste sia alla sua ambivalenza reattiva una volta trovato tale terreno. Esso poteva aver contribuito anche ad acuire le preoccupazioni di sua moglie.
Fra gli atteggiamenti del dottor B. verso gli ebrei c’era anche una «comprensione», se non simpatia, per il progetto della Soluzione finale, oltre che per la polarità della «benedizione» del nazionalsocialismo per il mondo e del «male fondamentale» degli ebrei. Questi atteggiamenti radicati erano intrinseci al contesto nazista da lui condiviso, ma erano molto meno operanti in lui della sua capacità di rispondere in modo umano a singoli ebrei. Quale che sia stato il livello in lui di questi conflitti e di queste contraddizioni, questa capacità, quando ebbe modo di esprimersi in un’istituzione il cui fine era l’annientamento degli ebrei, fu esemplare e, per molti, di importanza vitale.
Una parte importante del sé di B. e della sua visione del mondo dopo Auschwitz è il suo rapporto non finito con l’esperienza del lager. I suoi bisogni conflittuali sono quelli sia di continuare a esplorare la sua esperienza di Auschwitz sia di evitare di venire alle prese col suo significato morale. La sua insistenza sulla tesi che Auschwitz non fosse comprensibile assolve la funzione psicologica di rifiutare ogni spiegazione o narrazione coerente degli eventi in cui egli fu coinvolto. Egli rimane quindi catturato in uno strano schema post-traumatico, nell’impossibilità sia di assorbirlo (trovando un racconto o un significato) sia di liberare se stesso dalle immagini di Auschwitz.
Eppure egli sente il bisogno di compiere delle manovre psicologiche per sottrarsi al carattere estremo del male di Auschwitz. Una di queste manovre consiste nel mettere Auschwitz sullo stesso piano di altri esempi collettivi di ipocrisia e di ideali falliti, come la situazione schizofrenica propria della Chiesa cristiana nel fare «cose che non avevano niente a che fare col comandamento “Ama il prossimo tuo”». Auschwitz viene ridotta in tal modo a qualcosa di storicamente ordinario, e B. diventa quindi in grado di riconoscere un po’ del suo sé di Auschwitz.
Il suo linguaggio e il suo stile di discussione durante le interviste furono in accordo con quel tipo di manovra, specialmente nella sua esclusione dell’ambito morale. Pur essendo intelligente e capace di esprimersi compiutamente, egli evitò quasi del tutto ogni espressione di sentimenti, ridendo o sorridendo con disagio quando venivano sollevati problemi terribili; inoltre (come osservarono degli assistenti tedeschi) tralasciò spesso verbi e persino avverbi, nell’evidente tentativo di astenersi da dichiarazioni specifiche, ossia di evitare una presa di posizione specifica su quanto stava dicendo, al punto di servirsi spesso di forme di linguaggio confuse.
Nel corso delle interviste ebbi la sensazione che egli avesse adottato il sé postbellico di un tedesco simpatico, conservatore democratico di età matura, mantenendo però dentro di sé un forte senso della sua storia personale come parte della generazione nazista. Un anello di congiunzione fra queste due concezioni di se stesso furono gli scritti di certi biologi contemporanei. Egli aveva spesso sulla sua scrivania libri di Desmond Morris e di Konrad Lorenz e talvolta accennò con me un principio di discussione sulle sorgenti biologiche dell’aggressività e dell’imperialismo. In tal modo egli poteva essere un uomo di oggi e conservare al tempo stesso una visione del mondo biologica che aveva per lui un certo grado di continuità col periodo nazista. Lorenz, che ebbe una posizione di rilievo sia come nazista sia come scienziato biologico austro-tedesco del dopoguerra, poté essere particolarmente utile nel fornirgli quella sorta di connessione. Per una curiosa ironia, il dottor B. sembrava richiedere una qualche affermazione del suo sé connesso al nazismo (dopo tutto, da giovane era stato un nazista) per poter essere abbastanza forte e franco da scandagliare tale sé e la sua esperienza di Auschwitz con tutta l’intensità con cui è di fatto riuscito a compiere questo esame.
Infine, i modelli di vita complessivi di Ernst B. possono aiutarci a capire la sua speciale combinazione di affiliazione al nazismo e di rispetto per la vita umana, e in particolare il suo rifiuto di compiere selezioni, anche se, nella struttura storica collettiva di cui mi sto occupando, i temi concernenti il periodo della sua giovinezza non possono fare nulla di più che rivelare certe tendenze individuali all’interno di tale struttura.
Il tema più persistente nella vita del dottor B., tema che ha inizio nella sua infanzia, fu la sua ricerca di rapporti umani, del «contatto». Io sospetto che la struttura della famiglia tedesca abbia una parte importante nel creare tale esigenza, e che questa si sia espressa, trovandovi alimento, anche nella straordinaria insistenza dei nazisti sull’unità, sulla fusione collettiva (lo slogan Ein Volk, ein Reich, ein Führer!: Un popolo, un impero, un capo!). Per il dottor B. essa significò solo una ricerca altamente personale di accettazione, riconoscimento, senso di appartenenza e intimità: richiedendo alcuni di questi elementi o la loro totalità per sentirsi vivo. Inseparabile da tale ricerca era stato un ideale associato al padre (o allo zio molto ammirato), ideale da lui designato col termine «integrità», che aveva a che fare con la fedeltà al progetto della propria vita, al proprio senso del sé, quali che fossero le pressioni tendenti alla sottomissione o alla dissimulazione. Gran parte della sua vita è stata una lotta per trovare un equilibrio fra queste due aspirazioni fondamentali, e a volte apparentemente incompatibili.
La famiglia del dottor B. condivise gran parte dell’esperienza che della Prima guerra mondiale aveva fatto la nazione tedesca nei termini di abietta umiliazione, di isolamento e – soprattutto – di perdita. L’impulso alla rigenerazione nazionale si rifletté nell’aspirazione di B. a farsi assegnare a una missione che gli permettesse di continuare il lavoro incompiuto dello stimato zio morto giovane in guerra. Nel passaggio dal ruolo di artista ribelle a quello di medico ansioso di integrarsi, il dottor B. espresse una quantità di polarità tedesche molto frequenti che avevano attinenza con sfida e sottomissione, romanticismo e scienza, visioni remote e compiti pragmatici. Quali che fossero stati gli itinerari di B. (e dei suoi compatrioti) attraverso il cristianesimo, il pensiero utopistico tradizionale e i movimenti nazionalistici, fu infine il nazismo a fornire la via alla rivitalizzazione, assieme a un modo per equilibrare, o almeno assorbire, quelle polarità. B. sviluppò un talento impressionante per manovrare allo scopo di conseguire accettazione e rango all’interno del gruppo, ma il desiderio di connessione fu in lui più intenso di qualsiasi altra cosa, come nella sua insistenza nel condividere l’esperienza nazionale trascendente della guerra e della vittoria.
Una volta ad Auschwitz, il suo intenso bisogno di appartenenza a un gruppo fu sufficiente a trattenervelo, ed egli ricercò significativamente una connessione attendibile con gli internati non meno che con i colleghi. Quando però gli venne chiesto di compiere selezioni, riuscì a resistere al tipo di sdoppiamento che sarebbe stato necessario per svolgere tale compito. Pur non potendo essere certi su come, psicologicamente, egli sia stato in grado di resistere, possiamo pensare che abbia fatto probabilmente appello a elementi delle inclinazioni affiliative oltre che integrative presenti nei suoi processi interiori. Le prime, il bisogno di appartenenza a un gruppo, potrebbero averlo aiutato in un modo paradossale: più elastico che rigidamente fissato nel suo stile di connessione, B. fu probabilmente meno legato di altri al tipo di fedeltà e obbedienza assolute che avrebbero potuto condurlo a varcare la soglia dello sdoppiamento e ad accettare di compiere le selezioni. Al tempo stesso, un aspetto di integrità (forse modellato in origine sul padre ma ora suo proprio), che aveva attinenza non solo col rifiuto della finzione ma anche con la rispettabilità, con l’inclinazione a portare aiuto, a non rinunciare alla funzione terapeutica del medico, era diventato parte dei suoi processi interiori. I suoi sogni di Auschwitz riflettevano la dimensione umana e lo mantennero consapevole di essa in opposizione all’ethos del campo.
Certo, egli si appellò al sostegno gerarchico del suo istituto, e insistette, come si doveva fare, sulla sua incapacità personale di soddisfare le richieste, senza contestare «la validità obiettiva di ordini ideologici e il richiamo alla lealtà per imporre l’obbedienza ad essi».3h In tale comportamento egli dovette fare appello sia alla sua capacità di manovra all’interno di un gruppo sia al suo ideale di integrità del sé.
Evitare le selezioni in questo modo non significava, come sappiamo, rinunciare alla propria appartenenza a gruppi nazisti; ma significava che il proprio sdoppiamento ad Auschwitz poteva non essere necessariamente così grande come quello di altri medici; il sé di Auschwitz del dottor B. gli consentì però di adattarsi alle richieste condivise che si ponevano alle SS in tale ambiente omicida, mentre il suo sé anteriore, più umano, rafforzato attraverso il frequente contatto con la moglie e con i figli, rimase ragionevolmente intatto. A differenza della maggior parte degli altri medici nazisti, egli poté restare essenzialmente un medico-terapeuta e, in tal senso, può darsi che avesse in parte ragione quando disse che la sua vocazione medica contribuì al suo rapporto umano verso i prigionieri.
Il comportamento del dottor B. ad Auschwitz fu mirabile, e addirittura straordinario. Eppure Auschwitz continuò a porglisi nel corso degli anni come un problema insolubile, e noi oggi abbiamo un’idea migliore del perché. Non facendo le selezioni, egli separò se stesso dal lager e dalle sue funzioni; ma appartenendo a gruppi nazisti ed essendo un uomo assetato dell’accettazione di gruppo, continua ad avere bisogno ancor oggi del vecchio legame nazista. Similmente, il suo senso di integrità gli richiede di staccarsi criticamente dall’eccidio di massa di Auschwitz e al tempo stesso di affermare la verità del suo coinvolgimento con i colleghi di Auschwitz e con l’insieme della vita nazista del campo di concentramento. Simon Cohen e Josef Mengele riverberano dentro di lui come modi alternativi di impegno morale, esattamente come fecero ad Auschwitz.
a. Il tenente colonnello delle SS dottor Joachim Caesar era laureato in agronomia. Secondo il dottor B., Caesar era stato vicino a Himmler, ma in conseguenza di disaccordi sui metodi delle SS era stato inviato ad Auschwitz per una sorta di «punizione ironica». Nondimeno gli fu affidata la responsabilità di tutte le operazioni agricole ad Auschwitz, incarico che, come dice Langbein, aveva una grande importanza per Himmler.1
b. Langbein conferma la versione di B. su questi fatti, riferendo che soltanto la mattina successiva alla reazione di Delmotte egli si rese conto che non era stato l’alcol a svolgervi la parte più importante. Egli osservò anche che l’appello di Delmotte al suo superiore era stato «diplomaticamente molto pericoloso – come Weber ci disse in seguito – in quanto questi si rifiutò di dar corso alla sua richiesta e disse che Delmotte gli aveva chiesto di essere mandato al fronte o di essere gassato anche lui. Ma egli non riusciva a farlo [cioè a fare le selezioni]».
c. Höss fu sostituito nel novembre 1943, dopo l’arresto del direttore politico di Auschwitz, Maximilian Grabner. Grabncr fu incriminato attraverso un’inchiesta delle SS sulla corruzione nel campo, inchiesta mirante in origine ad accertare casi di guadagni illeciti, anche per uccisioni non autorizzate, in particolare di prigionieri polacchi. Il siluramento di Grabner fu appoggiato dal dottor Wirths, che aveva avuto dei contrasti con lui sulle uccisioni. Pur essendo implicato nei misfatti di Grabner, Höss fu in realtà promosso all’amministrazione centrale dei campi di concentramento. Secondo Langbein, questi mutamenti furono compiuti in quanto il mondo esterno era venuto a sapere troppo di quel che accadeva ad Auschwitz; essi furono quindi, a quanto pare, di facciata, anche se Liebehenschel eseguì qualche riforma tendente a ridurre il margine dell’arbitrio e a rendere meno dure le punizioni. Ovviamente l’attività principale di Auschwitz proseguì come prima.2
d. La scelta di questa parola – letteralmente «risonanza» – suggerisce l’idea di un’interazione umana piuttosto che di una semplice influenza.
e. Un medico prigioniero ricordò quella che doveva essere, secondo lui, una visita della moglie di Ernst B.: «Era una giovane donna attraente che quando passava ci salutava con un Guten Tag [“buon giorno”, un saluto estremamente gentile ad Auschwitz], ma altrimenti evitava le aree dove ci trovavamo noi». Questa testimonianza si riferisce forse all’arrivo iniziale di B. al campo, oppure si deve pensare che la moglie di B. gli fece una visita che egli non ricordava più o di cui preferì non parlare. In ogni caso, secondo questo medico prigioniero, B. fu molto sollevato dal poter rivedere la moglie, tanto che gli venne subito voglia di dipingere.
f. Nell’espressione «Auschwitz confession (Auschwitz Bekenntnis)» c’è in effetti un richiamo all’«Augsburger Bekenntnis», la «Confessione di Augusta» o «Confessione augustana», nella quale Melantone redasse nel 1530, per la Dieta di Augusta, gli articoli fondamentali della fede luterana. [N.d.T.]
g. In contrapposizione al suo senso di colpa verso Delmotte, che aveva a che fare con decisioni personali e con conseguenze personali, più che col fatto di essere stato parte del male di Auschwitz; o persino in contrapposizione al senso di colpa verso Simon Cohen, da lui provato periodicamente.
h. C’era anche la possibilità di dichiararsi d’accordo con un ordine ma sollevare obiezioni pratiche appropriate, oppure di non dire nulla e limitarsi a sottrarsi all’ordine.
XVII
L’ss uscito da Mein Kampf: molto retto e puritano.
Un medico prigioniero ad Auschwitz
Era capace di essere così gentile con i bambini da renderli molto affezionati a lui, da portare loro zucchero, da pensare a piccoli particolari della loro vita quotidiana e da fare cose che noi ammiravamo genuinamente... E poi, subito dopo... il fumo dei crematori, e questi bambini, domani o fra mezz’ora, li avrebbe mandati là. Ecco dov’era l’anomalia.
Un medico prigioniero ad Auschwitz
La mia ricerca sui medici nazisti cominciò e finì con Josef Mengele. Era iniziata con lo studio di documenti legali su di lui e si completò nell’estate del 1985, proprio quando un gruppo di scienziati dichiarò che le ossa scoperte in una tomba brasiliana erano le sue.
Benché in origine avessi considerato la possibilità di costruire il mio studio attorno a Mengele, mi resi conto ben presto che, concentrando l’attenzione su di lui, avrei rischiato di accentuare il culto della personalità demoniaca che già lo circondava, trascurando in tal modo il fenomeno nazista più generale dell’eccidio sotto l’egida della medicina. Non che io intenda ridimensionare questo esemplare del male nazista: benché egli sia oscurato dalla sua mitologia demoniaca, va detto che sotto molti aspetti essa è più che meritata. Piuttosto, il mio compito qui è quello di tentare di capire in che modo i suoi tratti psicologici individuali abbiano alimentato la visione biomedica nazista, e se ne siano alimentati, e di apprendere che cosa egli abbia da dirci sull’eccidio compiuto sotto la copertura della medicina e sulla scienza medica corrotta. Il fatto che Mengele abbia trovato a quanto pare ad Auschwitz l’ambiente a lui più favorevole ci dice infatti molto non solo sull’uomo, ma ancor più sulla psicologia dell’istituzione.
Mengele non divenne una figura pubblica famosa – tristemente famosa – subito dopo la guerra. Egli era ovviamente ben noto ai sopravvissuti di Auschwitz, fu oggetto di testimonianze fornite nel 1945, e fu menzionato occasionalmente durante le indagini per il processo di Norimberga, ma non fu tra gli imputati in quel processo né in successivi processi a medici negli anni Quaranta. Solo nel 1958 cominciò a essere oggetto di pubblica infamia, grazie anche agli sforzi dello scrittore tedesco Ernst Schnabel, che venne a conoscenza delle attività di Mengele ad Auschwitz mentre compiva ricerche per un libro su Anna Frank.1 Superstiti di Auschwitz rifugiatisi in tutto il mondo cominciarono allora a far sentire la loro voce e a fornire testimonianze per le indagini legali tedesche. E mentre Mengele si spostava da un luogo all’altro del Sudamerica per evitare la cattura e l’estradizione, le testimonianze dei sopravvissuti continuavano ad accumularsi senza soste, anche se con relazioni e affermazioni più dubbie da parte delle persone meno qualificate a parlare. Benché sia noto che Mengele trascorse molto tempo in Argentina e in Paraguay, si è saputo molto meno sul suo lungo soggiorno in Brasile: la sua leggenda è stata accresciuta dai racconti di persone che sostenevano di averlo incontrato in tali località, fra cui anche il falso racconto di qualcuno che sostenne di averlo ucciso.
Senza dubbio nessun criminale di guerra nazista ha suscitato tante fantasticherie, e tanta letteratura. In un romanzo del 1976 trasformato in un film di grande successo, I ragazzi venuti dal Brasile, Mengele è ritratto come uno scienziato brillante, demoniaco, impegnato nella produzione di numerosi cloni di Adolf Hitler. Un po’ più di un decennio prima, in un’esplorazione teatrale più seria del genocidio nazista, Il vicario, Rolf Hochhuth creò un personaggio simile a Mengele, noto solo come «il Dottore», che «è un’incarnazione della malvagità pura, molto più compiuta in questo senso di Hitler». In un dramma che rende in generale un personaggio, con grande sensibilità, nei termini di conflitti morali e psicologici, Hochhuth continua sostenendo che la sua figura di Mengele contrasta a tal punto con quanto si conosceva finora sugli esseri umani da sembrare una «spettrale apparizione di un altro mondo» cosicché non ci sarebbe alcuna utilità nell’esplorarne i «tratti pseudoumani».2 Così, senza volerlo, anche Hochhuth ha contribuito al culto della personalità demoniaca. E in un telegiornale trasmesso da un’importante rete televisiva americana, Iseer Harrel, che dirigeva la polizia segreta israeliana al tempo della cattura di Eichmann, disse a un intervistatore che, «quando fu menzionato Mengele, Eichmann fu colto dal panico»; nello stesso programma, il potere di Mengele si rifletté nella dichiarazione di un uomo che sostenne di averlo visto regolarmente in Paraguay e che lodò gli sforzi da lui fatti ad Auschwitz «per liberarci dagli storpi della società»,3 anche se in un modo che «non fece nulla di più che scalfire la superficie». Dobbiamo però fare un passo indietro, uscendo dalla leggenda per esaminare l’uomo e ciò che egli fece ad Auschwitz.
Quel che sappiamo sull’uomo trentaduenne che arrivò ad Auschwitz il 30 maggio 1943 non è particolarmente degno di nota. Era il secondo figlio di un industriale bavarese benestante, non di una «vecchia» famiglia tedesca bensì di una famiglia che si potrebbe considerare di nouveaux riches. La famiglia è descritta come «rigorosamente cattolica» e Mengele si qualificò come cattolico in tutti i moduli ufficiali, anziché usare la categoria nazista più favorita di «credente in Dio». Si ricorda che in gioventù fu uno studente serio, un amico socievole ed entusiasta in cui si poteva riconoscere «una spiccata ambizione», un giovane intelligente ma più o meno normale.4
Le sue inclinazioni nazionalistiche di destra si rifletterono molto presto – nel 1931, all’età di vent’anni – nell’adesione allo Stahlhelm («Elmetto d’acciaio», un’organizzazione nazionalistica di veterani di guerra). Successivamente Mengele divenne un entusiasta del movimento nazista: entrato nelle SA nel 1934, nel 1937 chiese di essere iscritto al partito e l’anno dopo, ricevuta la tessera del partito, di poter entrare nelle SS. Si dice che, mentre studiava a Monaco, abbia avuto modo di conoscere nazisti di alto rango come Alfred Rosenberg e persino lo stesso Hitler: voci che, in assenza di prove, ben si conciliano con la sua mitologia.
Quel che mi sembra chiaro, e che lo stesso Ernst B., parlando del suo amico, sottolineò con me, è che queste inclinazioni naziste ebbero un’influenza considerevole sulle scelte intellettuali di Mengele. Iscrittosi successivamente alle università di Bonn, di Vienna e di Francoforte, Mengele concepì interesse soprattutto per l’antropologia fisica e la genetica del suo tempo, lavorando infine con Otmar von Verschuer all’Istituto di Biologia Ereditaria e di Igiene Razziale dell’Università di Francoforte: l’istituto modello che abbiamo già avuto occasione di menzionare (vedi cap. I) in connessione con la ricerca di una società «biologizzata» per mezzo di un sistema nazionale di archivi sui caratteri genetici individuali. Molto tempo dopo il figlio di von Verschuer ricordò Mengele come un «uomo amichevole», così gentile che le donne dell’istituto lo chiamavano «padre Mengele»: un nomignolo che potrebbe avere ovviamente anche altre connotazioni.5
Prima del suo arrivo ad Auschwitz, Mengele aveva prodotto tre pubblicazioni. La prima, completata nel 1935 ma pubblicata nel 1937, è la sua tesi di laurea all’Istituto di Antropologia (nella Facoltà di filosofia) dell’Università di Monaco di Baviera, dal titolo Rassenmorphologische Untersuchung des vorderen Unterkieferabschnittes bei vier rassischen Gruppen (Ricerca di morfologia razziale sul segmento anteriore della mandibola in quattro gruppi razziali). In questo studio Mengele si proponeva di dimostrare le differenze strutturali esistenti in una parte della mandibola fra gli antichi egizi, i melanesiani, gli europei brachicefali (dal cranio corto: per lo più orientali e dinarici [della costa adriatica della Jugoslavia]) e gli europei dolicocefali (dal cranio allungato), primariamente nordici. Mengele sostenne che il fatto che un precedente ricercatore non fosse riuscito a determinare alcuna differenza era dovuto a carenze di metodo; e che, «ogni volta che una distinzione è possibile, bisogna farla». Seguendo gli usi del suo tempo e dell’antropologia fisica tedesca, egli si fondò su estese misurazioni eseguite con estrema esattezza. La sua conclusione, non sorprendentemente, fu che questi segmenti anteriori della mandibola «mostrano chiare differenze le quali si prestano molto bene per istituire distinzioni razziali». La sua divisione dei due gruppi razziali europei è però a un tempo disinvolta e vaga, specialmente nell’assunto ingiustificato che il materiale dolicocefalo europeo «rappresenti primariamente l’elemento nordico».6
La sua tesi di laurea in medicina, pubblicata nel 1938 e intitolata Sippenuntersuchungen bei Lippen-Kiefer-Gaumenspalte (Ricerche genealogiche su casi di labbro leporino, gnatoschisi e palatoschisi), prefigurò le sue ricerche ad Auschwitz su anomalie genetiche e indirettamente anche quelle sui gemelli (egli non si servì qui di studi di gemelli, ma accennò alla loro importanza). Mengele fu abbastanza deferente verso i suoi maestri da confermare le ricerche anteriori di Lenz e von Verschuer sull’esistenza in quest’area di un «processo ereditario irregolarmente dominante» e associò la deformità studiata a una grande varietà di altre deformità e anomalie nelle stesse famiglie. Il suo metodo fu essenzialmente genealogico.7
La sua terza pubblicazione era intitolata Zur Vererbung der Ohrfisteln (Sulla trasmissione ereditaria delle fistole dell’orecchio), si presentava come una pubblicazione dell’Istituto di Biologia Ereditaria e di Igiene Razziale di Francoforte diretto da von Verschuer, ed era pubblicata nel periodico «Der Erbarzt» (Il medico genetista), diretto dallo stesso professore. Questo studio è un breve case report sulla trasmissione ereditaria di questo tipo di fistola, di nuovo per mezzo del principio di Lenz-Verschuer di un «processo ereditario irregolarmente dominante». Mengele rileva anche l’esistenza di queste fistole in presenza delle fossette del mento (si dice che egli stesso avesse una tale fossetta).8
Tutt’e tre questi studi sono in accordo con l’insistenza posta sull’ereditarietà dai nazisti ma senza dubbio non iniziata da loro. Questi scritti sono pieni di grafici, diagrammi e fotografie che affermano più di quanto non dimostrino, ma avrebbero potuto nondimeno essere considerati ricerche scientifiche relativamente rispettabili di quel tempo anche fuori della Germania nazista. Ciò che suggeriscono è l’impegno di Mengele nel mettere la scienza al servizio della visione nazista.
Mengele era a quanto pare all’altezza di una carriera scientifica, ed era visto con favore da von Verschuer, che in una lettera di raccomandazione ne elogiò l’attendibilità, la formazione combinata in antropologia e in medicina e la capacità di una chiara presentazione verbale di difficili problemi intellettuali.9 Anche la scelta della figlia di un professore come moglie fu in accordo con le sue aspirazioni accademiche.
Nella vita di Mengele ebbe un grande rilievo la sua esperienza militare: sei mesi nel 1938-1939 con un reggimento di fanteria leggera specificamente addestrato nel Tirolo, considerata allora una forma di servizio militare piuttosto elegante, comprendente lo sci e l’alpinismo; e, dal 1940, il servizio nel corpo medico della riserva, cui seguirono tre anni con un’unità delle Waffen ss, per lo più in Oriente, compresa un’azione in Russia con la divisione Viking; una ferita che condusse a dichiararlo clinicamente non idoneo al combattimento e quattro decorazioni, fra cui le Croci di Ferro di prima e di seconda classe. Si diceva che si fosse «comportato brillantemente di fronte al nemico durante la Campagna d’Oriente», e fu promosso al grado di capitano (Hauptsturmführer). Unico medico ad Auschwitz a possedere una tale sfilza di medaglie, ne era immensamente orgoglioso e si riferiva spesso alla sua esperienza di combattimento come a una fonte di autorità su varie questioni. In un episodio quasi comico, una delle Croci di Ferro gli cadde dall’uniforme mentre attraversava il lager in bicicletta e fu ritrovata solo dopo un’affannosa ricerca condotta da un gruppo di prigionieri.
Parlando del suo amico, il dottor B. spiegò che Mengele era arrivato ad Auschwitz con una speciale aura essendo giunto più o meno direttamente dal fronte («perché era ferito») e perché a quanto pare era stato lui a scegliere Auschwitz: aveva chiesto cioè di essere inviato in questo campo di concentramento per le opportunità che esso poteva fornire per le sue ricerche. Oggi sappiamo che, quando Mengele fu inviato ad Auschwitz, von Verschuer chiese e ottenne dalla Deutsche Forschungsgemeinschaft, la Società di Ricerca Tedesca, un sostegno finanziario per le ricerche del suo pupillo nel campo.a
Che cosa fece in realtà Mengele ad Auschwitz? Alcuni prigionieri pensavano che egli non avesse avuto alcuna importanza nel lager e si sono meravigliati della sua posteriore notorietà. Per esempio, un ex appartenente alle SS, che aveva trascorso più di quattro anni nella Sezione politica, testimoniò che fra i medici SS che conosceva non si era mai imbattuto in Mengele e che anzi non ne aveva «mai udito il nome... per tutto il tempo che trascorsi ad Auschwitz».11 E il dottor Jacob R. mi disse, come alcuni altri medici prigionieri, che Mengele non sembrava un personaggio eccezionale: «A quel tempo mi sembrava semplicemente uno dei tanti medici SS». Più frequente era però l’impressione opposta, espressa dal dottor Henri Q., che Mengele fosse un protagonista-chiave di Auschwitz, «il cui ruolo era molto importante, più di quello degli altri» e che sembrava esser presente dappertutto: «Aveva una reputazione, lo si sentiva nominare di continuo. Era ovunque. Era quello che si vedeva più spesso – gli altri apparivano meno –, il che significa che era il più attivo fra loro». Quella qualità di essere «ovunque», e ovunque attivo, fu al cuore dell’impatto di Mengele ad Auschwitz e del suo modo di essere nel lager.
Egli commise anche crimini reali, fra cui omicidi diretti. Il Tribunale di Francoforte, incriminandolo per l’estradizione, parlò di «crimini spaventosi» commessi da solo o in cooperazione con altri, «intenzionalmente e con sadismo». Fra questi crimini c’erano le selezioni, iniezioni mortali, fucilazioni, percosse e altre forme di uccisione deliberata. E questo elenco era stilato vagliando con la massima cautela la testimonianza di centinaia di sopravvissuti. In relazione ai modelli delle SS ad Auschwitz, invece, Mengele fu un ufficiale medico mirabile, particolarmente eminente. Proponendolo nell’agosto 1944 per una promozione, Eduard Wirths parlò del suo carattere «aperto, onesto, saldo... [e] assolutamente fidato» e delle sue «splendide» doti intellettuali e fisiche; della «discrezione, perseveranza ed energia con cui aveva assolto ogni compito... e... si era dimostrato all’altezza di ogni situazione»; del «prezioso contributo da lui dato alla scienza antropologica facendo uso dei materiali scientifici disponibili»; della sua «assoluta saldezza ideologica» e della sua «condotta impeccabile [come] ufficiale delle SS»; e di qualità personali come una capacità di esprimersi in modo «libero, spontaneo, convincente e brillante» che lo rendeva «particolarmente caro ai suoi camerati».12 Sia pur tenendo conto delle esagerazioni normali in ogni presentazione per una promozione, questa rimane quanto meno un robusto elogio. Essa potrebbe essere considerata addirittura un contributo alla leggenda di Mengele dalla parte delle SS.
Possiamo dare un’occhiata più da vicino alla vita di Mengele ad Auschwitz esaminando il suo coinvolgimento nelle selezioni, nella «ricerca scientifica»b e nei suoi vari rapporti (con i colleghi delle SS e con i medici prigionieri), nonché le sue caratteristiche psicologiche generali e il significato che egli ebbe per gli altri.
Per molti internati Mengele incarnò il processo delle selezioni. Come si espresse un medico prigioniero: «Io... penso che Mengele abbia sviluppato un’idea fissa: selezioni e ancora selezioni. Si tendeva a identificarlo (nelle parole del dottor Peter D.) come «il capo di coloro che facevano le selezioni». O, come si espresse un altro medico prigioniero: «Tutto ad Auschwitz dipendeva da... Mengele... Mengele era quello che era presente a tutti i trasporti. Di solito alla banchina c’era lui solo, e faceva personalmente le selezioni. Quando non poteva farlo, mandava in sua vece un altro capace... medico SS».
La forza di quest’impressione è confermata da un testimone al Processo di Auschwitz a Francoforte; questo testimone aveva lavorato nel «Kommando Canada», che aveva il compito di far scendere i prigionieri dai convogli al loro arrivo ad Auschwitz, e ricordava soltanto il nome di Mengele. Quando il giudice commentò: «Mengele non poteva essere presente sempre», il testimone rispose: «Secondo me sì. Giorno e notte».13 La dottoressa Olga Lengyel, parlando in termini meno specifici, colse il sentimento complessivo degli internati nella sua descrizione di Mengele come «di gran lunga il maggior fornitore della camera a gas e dei forni crematori».14
In realtà, secondo le prove a nostra disposizione, Mengele avrebbe fatto i suoi turni alla banchina come qualsiasi altro. Ma l’impressione che sia stato lui a compiere tutte, o quasi tutte, le selezioni fu alimentata da almeno due fattori: egli si recava spesso alla banchina, anche quando non eseguiva personalmente le selezioni, per sorvegliare che i gemelli venissero raccolti e conservati per lui; inoltre metteva tanto brio e tanta energia nel compito delle selezioni che la sua immagine fu strettamente associata a esso.
Alcuni ex internati lo descrissero come una figura elegante sulla banchina: bello, ben vestito, dal portamento estremamente eretto. Alcuni lo percepirono a volte erroneamente come «dall’aspetto molto ariano» o «alto e biondo», mentre in realtà era un uomo di media statura e di capelli e carnagione scuri. Il suo aspetto attraente celava le verità di Auschwitz: egli «dava l’impressione di uomo gentile e colto che non avesse niente a che fare con le selezioni, col fenolo e con lo Zyklon-B».15 Un sopravvissuto me lo descrisse come la «falsa facciata del crematorio».
Mengele si comportava in modo estremamente disinvolto nella conduzione di selezioni su grande scala: «Uomo di bell’aspetto con un bastone [frustino] in mano... guardava corpi e facce solo un paio di secondi [e diceva]: ...“Links [a sinistra]..., Rechts [a destra], Links, Rechts”». E un altro internato attento contrappose il modo deciso del dottor Franz Lukas alla banchina ai «movimenti eleganti e rapidi» di Mengele (vedi pp. 270-272).
Alcuni identificarono una qualità giocosa nel distacco di Mengele, nel suo «camminare avanti e indietro... [con] un’espressione gaia sul volto..., quasi come se si divertisse..., il divertimento della routine... Era molto allegro». Ma gli osservatori attenti si resero conto che stava recitando una parte; notarono la cura con cui metteva in mostra almeno una Croce di Ferro, e l’intensità con cui sembrava voler contrapporre la propria eleganza allo stato appena umano dei prigionieri; e dicevano di lui che «sembrava un attore di Hollywood», «come Clark Gable» o «un tipo alla Rodolfo Valentino».
Al tempo stesso i prigionieri erano colpiti dal contrasto fra ciò che egli sembrava e ciò che era. Un sopravvissuto, che lo descrisse come «di bell’aspetto... molto educato», dichiarò che «non sembrava davvero un assassino», aggiungendo però subito dopo: «Colpì mio padre sul collo col bastone e lo mandò in una certa direzione [verso la camera a gas]». Oppure: «Era brutale ma in un modo distinto, depravato». Il distacco studiato di Mengele poteva infatti essere interrotto da esplosioni di rabbia e di violenza, specialmente quando si imbatteva in resistenze al suo modo di intendere le regole di Auschwitz. Per esempio, all’arrivo di un trasporto una ragazza, indirizzata da Mengele a destra mentre sua madre e le sorelle più piccole venivano avviate a sinistra, «supplicò e pianse» perché non voleva separarsi da loro: «[Allora Mengele] mi afferrò per i capelli, mi trascinò e mi colpì. Quando anche mia madre cercò di supplicarlo, colpì anche lei col bastone [frustino]».
In un altro caso simile, in cui una madre non voleva essere separata dalla figlia di tredici o quattordici anni, e reagì con morsi e graffi a un soldato delle SS che cercava di costringerla ad andare nella fila che le era stata assegnata, Mengele estrasse la pistola e sparò sia alla madre sia alla figlia. Come punizione collettiva, mandò poi alla camera a gas tutte le persone di quel trasporto che erano già state selezionate per il lavoro, dicendo: «Via questa merda».16
Mengele poteva esprimere crudeltà e violenza anche in risposta a segni di ebraismo ortodosso. Una donna raccontò che egli mise in ridicolo la parrucca di sua madre (lo Scheitel portato dagli ebrei ortodossi) e «gliela tolse [di testa] col bastone». E c’erano infinite storie sulla facilità e crudeltà dei suoi inganni. A una donna che gli chiedeva di far lavorare per lui suo padre promise: «Papà starà molto bene e l’aria lo farà guarire». «Quella stessa notte i miei genitori furono gassati.» E con un sarcasmo mortale, a un uomo che gli chiedeva un «lavoro leggero», Mengele rispose: «Lei avrà un lavoro leggero», e lo mandò alla camera a gas.17
A volte Mengele poteva violare le proprie regole per quello che poteva sembrare un capriccio: egli salvò, per esempio, una madre e una bambina di undici anni perché fu colpito dalla loro bellezza, e in quell’occasione avrebbe commentato: «Questo è certamente un quadro».18 Tenendo conto delle inevitabili esagerazioni e fantasie retrospettive, rimane un’impressione costante attendibile di un uomo a suo agio nel compito delle selezioni, con un’inflessibile adesione alle regole e un solipsismo quasi spontaneo.
Anche nei blocchi dell’ospedale Mengele poté sfoggiare nella sua attività di selezione l’atteggiamento vistosamente disinvolto di chi si sente del tutto a proprio agio. La dottoressa Lengyel lo definì uno «specialista» delle selezioni che «poteva capitare d’improvviso in qualsiasi ora del giorno o della notte..., quando meno ce lo aspettavamo».19 Secondo un medico prigioniero, «non aveva problemi: né con la sua coscienza, né con alcuno, né con alcuna cosa». Come disse, infatti, la dottoressa Magda V.: «Era assolutamente convinto di stare facendo la cosa giusta». I prigionieri «marciavano davanti a lui con le braccia alzate», ci dice la dottoressa Lengyel, «mentre lui continuava a fischiettare il suo Wagner», oppure poteva essere Verdi o Johann Strauss. Era un distacco ricercato: «Come un automa, un signore che esegue funzioni che gli sono indifferenti»,20 e (secondo la dottoressa Marie L.) era «molto freddo... in tedesco sachlich (impersonale)».
Secondo la dottoressa L., egli cambiava i segnali (pollice su anziché pollice giù) per indicare quelli che dovevano essere mandati nella camera a gas. E confinava sempre col sadismo: «Aveva un tipo speciale di sorriso..., aveva sempre voglia di scherzare, quel bastardo!». Ci sono inoltre molti racconti di casi in cui egli colpì dei prigionieri col lungo frustino, in un caso scorrendolo sui tatuaggi sul ventre di donne russe, come descrisse una sopravvissuta polacca, «e poi colpendole là», pur «non essendo affatto eccitato ma... in modo negligente... limitandosi a giocare là attorno come se ci trovasse un po’ di divertimento».
Soprattutto le sue selezioni in corsia furono condotte con incessante coscienziosità e «senso di responsabilità». A Mengele importava che le persone che pensava dovessero essere selezionate fossero scovate tutte fino all’ultima, e in questo compito si comportava «come un segugio»: così si espresse un altro sopravvissuto.
Ci si potrebbe attendere che una persona così intenta a procurarsi un controllo personale assoluto disdegnasse di coinvolgere nelle selezioni medici prigionieri, ma non fu così. Mengele ne incoraggiò o richiese la partecipazione, e così facendo ampliò piuttosto che diminuire il proprio controllo. Il dottor Marek P. affermò che «Mengele non ascoltava affatto i medici polacchi», e la dottoressa Magda V., che divenne abile nell’influire sui medici SS, disse di Mengele: «Non penso che avrei mai potuto influire su di lui neppure per un momento, mai, mai».
Fra gli internati che lavoravano nei blocchi medici, Mengele suscitava sia il desiderio di osservarlo intensamente da vicino sia le fantasie più complesse, o combinazioni di entrambe le cose. L’attenzione si concentrava soprattutto sui suoi occhi: secondo un sopravvissuto era «una persona molto malvagia... e lo si vedeva... nei suoi occhi... scuri e iniettati di sangue»; una donna sopravvissuta disse che Mengele violava il principio che essa aveva imparato dalla propria madre, ossia che «chi ha occhi belli ha un’anima bella»; secondo altri i suoi occhi avevano un’«espressione crudele», o «erano gli occhi di un pesce» o erano «occhi morti», «occhi feroci» o occhi che non ti guardavano mai.
Alcune sopravvissute parlarono del suo odore. Una lo descrisse come «giovane..., elegante..., ben vestito..., odoroso di acqua di colonia» e «molto sensibile ai cattivi odori»: «Prima del suo arrivo bisognava aprire porte e finestre». E, più in generale, Marianne F., che lavorò al blocco medico, parlò del suo «camice bianco sull’uniforme: di un bianco splendente» e lo caratterizzò come «pulito, pulito, pulito!».
La passione di Mengele per la pulizia e per la perfezione si manifestava anche in una sorta di estetica delle selezioni: egli mandava alla camera a gas persone con macchie sulla pelle o con piccoli ascessi o addirittura con vecchie cicatrici di appendicectomia. «Due miei cugini furono mandati a morte da Mengele davanti ai miei occhi», disse un altro sopravvissuto, «perché avevano piccole ferite sul corpo». Tracce limitate di scabbia, o eruzioni cutanee o cicatrici di scarlattina o persino di rosolia sulla pelle di bambini potevano avere lo stesso effetto.
Le reazioni specifiche dei prigionieri alle selezioni di Mengele erano dominate da una speciale qualità di timore e di impotenza. La dottoressa Gisella Perl scrisse: «Temevamo quelle visite più di ogni altra cosa, perché... non sapevamo mai se ci avrebbe permesso di continuare a vivere... Era libero di fare di noi ciò che più gli piaceva».21 Era significativo che molti sopravvissuti che avevano assistito all’annientamento del lager degli zingari pensassero che tale decisione fosse stata di Mengele: una supposizione comprensibile sia perché una tale politica sembrava in accordo con l’uomo sia perché Mengele era instancabile nella ricerca degli zingari, specialmente bambini, che tentavano di sottrarsi alla loro sorte. Anche se questa supposizione risultò sbagliata alla prova dei fatti, la sua verità psichica risiede nell’impegno inesorabile profuso e nella fedeltà al principio nazista della selezione in funzione dell’eccidio.
La dottoressa Lengyel parla della rabbia dei prigionieri: «Come odiavamo questo ciarlatano!... Come disprezzavamo la sua aria distaccata, altezzosa, la sua abitudine di fischiettare di continuo, i suoi ordini assurdi, la sua gelida crudeltà!». Essa descrisse la tentazione che aveva avuto una volta, vedendo su un tavolo la sua cartella, i cui contorni rivelavano chiaramente la rivoltella contenuta al suo interno, di «prendere l’arma e ammazzare quell’assassino».22 Benché molti internati possano non avere avuto una piena consapevolezza di quella rabbia fino alla loro liberazione da Auschwitz, essa andò certamente accumulandosi durante la loro detenzione nel lager.
Mengele poteva essere percepito anche – quasi alla maniera in cui lo ritrasse Hochhuth nel Vicario – come una forza malvagia non umana. La dottoressa Wanda J., commentando il fatto di non avere mai parlato con lui perché egli non si rivolse mai a lei o ai suoi colleghi, disse: «Doveva parlargli il diavolo». E un altro medico prigioniero descrisse Mengele come il «signore della vita e della morte». Tali figure retoriche avevano più significato ad Auschwitz che in altri luoghi. Il rapporto percepito in Mengele fra bellezza e malvagità poteva diventare una sorta di indicatore mistico. Marianne F. dice che, osservando Mengele al blocco medico, faceva «questo giochino»: «Se quando il sole sorge è rosso, oggi vivrai, perché [il sole rosso] è bello e tu distacchi l’immagine [di Mengele] da quel che sapevi che era». La bellezza di Mengele, vuol dire questa prigioniera, e la propria capacità di separare tale bellezza dalle sue azioni crudeli, le offrivano un sostegno magico.
Mengele alimentava la sua leggenda dando una dimensione teatrale alle sue decisioni mortali, come quando tracciò sul muro del blocco dei bambini una linea orizzontale a un’altezza compresa fra 150 e 156 centimetri, inviando alla camera a gas coloro che avevano una statura inferiore. Un sopravvissuto teorizzò che questo interesse per la statura doveva avere a che fare con la sua statura relativamente modesta.
Dopo avere assistito all’esplosione di rabbia di Mengele al sentir dire che un gruppo in arrivo era formato da pazienti psichiatrici e infermieri, un medico prigioniero pensò che egli fosse «uscito di senno». Potrebbe essere sufficiente a spiegare questo comportamento la rabbia per il fatto che degli ebrei fossero sopravvissuti alla politica nazista dell’«eutanasia» decisa per i malati di mente, ma si sospetta che in lui ci fosse un atteggiamento ostile più generale verso tutte le cose concernenti la psichiatria.
Gli internati che non erano soggetti ai suoi capricci mortali potevano conseguire un punto di vista più sicuro sull’uomo. Un medico prigioniero disse che Mengele «viveva in un paradiso di illusioni»; e un altro prigioniero, osservando Mengele nell’ufficio generale dei medici SS, dove «non avevo motivo di temerlo», continuò dicendo: «Non notai in lui una speciale eleganza».
Osservando la sua energia e vitalità, gli internati vedevano in lui un uomo che si trovava bene ad Auschwitz. Uno di loro scrisse che: «Il dottor Mengele aveva l’aria di un uomo che traeva una grande soddisfazione dal suo lavoro e che era contento della sua professione».23 Quest’osservazione è in accordo con quella di Ernst B., il medico SS che disse di non aver mai parlato col suo amico di conflitti interiori perché «Mengele non aveva problemi».
Possiamo esprimere la cosa in un altro modo e dire che l’armonia di Mengele con Auschwitz lo rendeva un individuo a sé, sui generis, come ci ha detto una ex prigioniera: «Vedi venire un uomo bello, alto. Sai se è un medico o no? Sai che è Mengele, nient’altro».
Un uomo che assumeva il livello di onnipotenza di Mengele doveva essere visto a volte, inevitabilmente, come un salvatore. A quest’immagine contribuirono le sue decisioni capricciose di lasciar vivere certe persone, e la sua insistenza che coloro che venivano giudicati abbastanza giovani e forti per lavorare fossero messi nella fila giusta anche quando offrivano resistenza. Un racconto tipico è quello di una donna di venticinque anni che fu mandata a destra ma, quando Mengele volse le spalle, tornò dalla parte di sua madre, a sinistra; Mengele però se ne accorse e la rimandò a destra, scena che si ripeté ancora poco dopo. Soltanto lui poteva decidere la morte di una persona; e il fatto di aver avuto salva la vita contro la propria insistenza a scegliere la fila delle persone avviate alla morte (anche se senza saperlo) poteva essere percepito come una forma di salvezza quasi divina.
In un blocco medico, proprio perché Mengele era così freddo e inflessibile, le poche occasioni in cui accolse una preghiera finirono col diventare quasi mitiche. Una sopravvissuta, per esempio, pensava che nel caso di persone «giovani e belle, venisse forse evocata in lui una scintilla... di umanità» e raccontò di due ragazze a favore delle quali essa riuscì a intervenire con successo presso di lui. Mengele traeva senza dubbio una soddisfazione psicologica da tali casi, tanto più in quanto essi non gli imponevano necessariamente di modificare i suoi orientamenti fondamentali: le due ragazze in questione furono infatti inviate alla camera a gas poco tempo dopo.
Un’altra donna, che al suo arrivo ad Auschwitz aveva meno di vent’anni, raccontò una sequenza di tali atti di misericordia di Mengele: quando sua madre pregò Mengele di poter passare nella fila delle persone che dovevano vivere, egli glielo concesse; e quando si era ammalata ed era stata ricoverata nel blocco dell’ospedale, «il dottor Mengele mi visitava tutti i giorni» e «diede l’ordine di trattarmi bene»; dal medico prigioniero, inoltre, era venuta a sapere che «il dottor Mengele era molto interessato a me e che dovevo tornare nel mio blocco il giorno seguente e che mi avrebbe lasciato fuori [dalla selezione]».24 Senza dubbio con l’aiuto di deformazioni e di atteggiamenti immaginati, questa donna vide in Mengele una combinazione di un salvatore onnipotente e di un medico sollecito. (A volte accadeva addirittura che Mengele esaminasse e curasse dei pazienti prigionieri, una cosa rara per i medici SS.)
Oppure si poteva essere salvati dalla tosse della propria figura divina: una donna ricordò che a Mengele era venuto un leggero accesso di tosse proprio nel momento in cui doveva valutare lei, cosa che le consentì di fare rapidamente un passo di lato, nella fila da lei percepita come quella delle persone che sarebbero state risparmiate.25
Mengele poteva anche uccidere direttamente. Fu osservato eseguire iniezioni di fenolo, sempre con un corretto contegno medico. Al dottor Marek P. egli sembrava sempre intento a migliorare il sistema di uccisione e irritato dall’inefficienza degli altri: «Si infuriava nel vedere la lunga fila delle persone in attesa; allora prendeva la siringa e mostrava loro [al personale del SDG, o ai prigionieri che eseguivano le iniezioni di fenolo] come farlo più rapidamente». Lo stesso Mengele eseguiva le iniezioni «senza parlare» e «come se stesse facendo un intervento normale..., senza tradire alcuna emozione».
Mengele sparò anche a un certo numero di prigionieri ed è stato riferito che abbia ucciso almeno una donna premendo il piede sul suo corpo. Secondo altre testimonianze, avrebbe gettato dei neonati direttamente nei crematori o fuochi all’aperto.26
Nel selezionare persone per la camera a gas, o nell’ucciderle personalmente, Mengele manifestò un misto teatrale di distacco – si potrebbe dire indifferenza – ed efficienza.
Pur essendo di solito freddo e distaccato nell’uccidere, Mengele era appassionato nel condurre le sue ricerche, e in particolare lo studio dei gemelli.
Questo fu in effetti, probabilmente, il motivo per cui si fece mandare ad Auschwitz. A quanto pare aveva già eseguito ricerche su gemelli qualche anno prima sotto la guida di von Verschuer all’Università di Francoforte; il maestro di Mengele era quello stesso uomo che verso la fine del 1935 aveva affermato: «Quel che è assolutamente necessario è la ricerca su serie di famiglie e di gemelli scelti a caso... con e... senza difetti ereditari». Solo così si sarebbe potuta conseguire «una determinazione completa e attendibile dell’ereditarietà nell’uomo» e «la misura del danno prodotto da influenze ereditarie avverse», oltre che dei «rapporti fra malattia, tipi razziali e incrocio razziale».27 Non sorprende che von Verschuer appoggiasse in modo tanto entusiastico la ricerca di Mengele, e che questi mandasse regolarmente degli esemplari al suo maestro e si recasse spesso, nel periodo in cui fu ad Auschwitz, all’istituto di ricerca di von Verschuer a Berlino.
Ad Auschwitz Mengele trovò un modo per realizzare questo sogno intellettuale derivatogli dal maestro. Pur non potendo sempre disporre dei dati familiari risalenti all’indietro per molte generazioni desiderati da von Verschuer, egli poté realizzare con sua soddisfazione quello che il suo maestro chiamava «un minimo fisso di esami... in tutti i casi».28 Di fatto Mengele poté sfruttare l’opportunità unica offertagli da Auschwitz di poter disporre rapidamente e a proprio arbitrio di un gran numero di questi preziosi soggetti di ricerca, e specialmente di gemelli monozigotici (identici).
Mengele non si limitò a emanare ordini di ricercare i gemelli fra i prigionieri in arrivo, ma fu una figura centrale, e persino fanatica, in questa ricerca. Teresa W., che poté a volte osservare molto da vicino le selezioni alla banchina, disse che Mengele si tuffava, con aria «strana», nel «fiume» di ebrei ungheresi in arrivo, «camminando rapidamente... alla stessa velocità della folla e [gridando] solo “Zwillinge heraus! [fuori i gemelli]”..., con un’espressione tale in volto da farmi pensare che fosse pazzo».
Una volta selezionati i gemelli, Mengele li introduceva in una complessa struttura di ricerca, nello stile di Auschwitz. Oltre all’edificio generale dei medici SS (usato da tutti i medici SS), egli poteva disporre di altri tre locali, principalmente per la sua ricerca sui gemelli: uno nel lager maschile, uno nel lager femminile e uno nel lager degli zingari. In tutti questi luoghi i gemelli godevano di uno status speciale. Essi ricevevano una sequenza di numeri speciale, e in molti casi facevano parte del numero tatuato anche le lettere «ZW» (per Zwillinge, gemelli). Spesso veniva loro permesso di tenere i loro indumenti e a volte anche i capelli. I gemelli, per lo più bambini, vivevano in blocchi speciali, di solito all’interno di unità mediche e spesso assieme ad altri soggetti di ricerche di Mengele, come nani o internati affetti da altre anomalie. Un ragazzo fra i più grandi o un adulto scelto fra i gemelli nel blocco, chiamato in generale Zwillingsvater (letteralmente «padre di gemelli»), veniva nominato capo del blocco. In ognuna di queste aree prese quindi forma un mondo straordinario di soggetti di ricerca «strani» di Mengele dominato dai gemelli.
Nella descrizione di uno di tali soggetti, Simon J.:
Eravamo molto vicini... C’era un piccoletto..., alto un’ottantina di centimetri..., il beniamino del blocco... Eravamo di tutte le misure e di tutte le forme... un paio di splendidi ragazzi ungheresi di diciotto anni, robusti, eccellenti giocatori di football... completamente identici. C’erano un paio di signori austriaci di settant’anni... E c’erano i nani... Una sorta di nave dei folli molto macabra.
L’antropologa prigioniera Teresa W., che eseguì le misurazioni sui gemelli, stimò che l’afflusso di ebrei ungheresi durante la primavera e l’estate del 1944 abbia condotto alla concentrazione a Birkenau di circa 250 gemelli, per lo più bambini ma anche qualche adolescente. Com’essa osservò: «È molto difficile [in condizioni normali] trovare gemelli in così gran numero». E nel lager maschile Simon descrisse «una collezione di un centinaio circa di noi... dai tre... ai settant’anni di età..., singoli e doppi, soltanto maschi». Il principale studio privato di Mengele era a Birkenau, dov’egli era il medico capo: era là che egli teneva la sua documentazione. L’osservazione di Ernst B. sul mistero che circondava questa stanza fu confermata da parecchi sopravvissuti. Uno, per esempio, mi disse che i prigionieri ne erano a conoscenza, ma che «non avevano accesso a questa stanza» e che egli teneva là la documentazione concernente le sue ricerche: «Di più non sappiamo perché non potemmo mai avvicinarci a quella stanza».
I prigionieri che si occupavano della posta confermarono che Mengele inviava regolarmente relazioni ed esemplari all’Istituto di Biologia Razziale di Verschuer a Berlino-Dahlem. (Alle pp. 485-490 ci occuperemo del metodo di Mengele e delle sue aspirazioni scientifiche.)
Egli permise a madri di bambine gemelle di restare con loro nello stesso blocco, a quanto pare per far sì che le bambine restassero in buone condizioni fisiche e mentali. Ma, come disse un’altra gemella: «Veniva sempre il giorno in cui le madri erano rimandate nel lager normale», cosa che di solito significava la loro morte. Benché i padri dei gemelli venissero studiati meno spesso, ci fu almeno un’eccezione notevole: un medico, che divenne sia un soggetto di ricerche (sottoponendosi ai test e alle misurazioni consueti) sia un assistente di Mengele (preparando relazioni sulla distribuzione geografica dei gemelli ungheresi).29
I gemelli identici, gli oggetti di ricerca più preziosi per Mengele, venivano spesso esaminati assieme, e sottoposti ad analisi comparate, come riferirono due gemelle:c
Era come un laboratorio. Dapprima ci pesarono, poi ci misurarono e compararono le nostre misure... Non c’è una parte del corpo che non sia stata misurata e comparata... Eravamo sempre sedute assieme, sempre nude... Stavamo sedute assieme per ore, e loro misuravano lei, e poi misuravano me, e poi di nuovo misuravano me e misuravano lei... Per esempio, la larghezza delle orecchie o del naso o della bocca o... la struttura delle ossa... Volevano conoscere tutto in modo particolareggiato.
Queste gemelle insistettero che Mengele faceva praticamente tutto da sé. Poiché si trovavano a Birkenau, dove si sa che eseguì misurazioni la sua assistente antropologa, può darsi che queste donne possano aver confuso fra il suo controllo della situazione (che era praticamente assoluto) e ciò che egli realmente faceva. Ma Mengele eseguì senza dubbio personalmente degli esami, forse soprattutto nel caso di gemelli identici. Esse lo descrissero come molto metodico: «Si concentrava su una parte del corpo per volta... [Un giorno] per esempio misurò i nostri occhi per circa due ore». Esse sottolinearono che, pur esaminandole sempre nude, Mengele era corretto e «mai ineducato», accostandosi sempre loro con aria distaccata e più o meno professionale. Esse dissero di essere state esaminate fino a due volte la settimana per un periodo di cinque mesi verso la fine del 1944 e ricordarono anche in modo particolarmente vivido di essere state condotte al campo principale di Auschwitz per esservi fotografate. (Pare che Mengele abbia variato la frequenza delle visite a seconda dell’interesse che particolari gemelli avevano per lui, dedicando senza dubbio un’attenzione molto maggiore ai gemelli identici.) Durante questi esami venivano presi una certa quantità di dati sulla storia della famiglia, come malattie di ogni genere; ma «gli interessava di sapere più di tutto se... nella famiglia ci fossero stati altri casi di gemelli». E, come nel caso di altri gemelli con cui ebbi modo di parlare, queste due gemelle furono impressionate dalla quantità di sangue che veniva loro prelevato: secondo la loro stima circa 10 cc per ogni sessione. Data la scarsità delle razioni di cibo ad Auschwitz (anche se la loro dieta era migliore di quella degli altri prigionieri), «ci chiedevamo da dove venisse [tutto quel sangue]»; e ricordavano che verso la fine i prelievi erano difficili: «Dalle nostre braccia... non ne veniva più».
L’aspetto più sinistro delle ricerche di Mengele sui gemelli emerse nella complessa organizzazione da lui creata per l’esame patologico dei cadaveri. Per il dottor Miklos Nyiszli, il suo principale patologo prigioniero, Mengele preparò una speciale stanza di dissezione, contenente fra l’altro un «tavolo di dissezione in marmo lucido», un bacile con «rubinetti di nichel» e «tre acquai di porcellana», e finestre «con zanzariere di metallo verde per tener fuori mosche e zanzare». Nella stanza da lavoro adiacente c’erano un grande tavolo, «confortevoli poltrone», tre microscopi e una «biblioteca ben fornita, contenente le edizioni più recenti». Nell’insieme, come scrisse in seguito Nyiszli, era «la copia esatta di un istituto di patologia di una grande città».30
Nella sua precedente deposizione (fatta nel luglio 1945), Nyiszli disse che Mengele uccideva direttamente i suoi gemelli:
Nella stanza da lavoro adiacente alla stanza di dissezione [una volta attorno alla mezzanotte] erano in attesa quattordici gemelli zingari che piangevano amaramente, vigilati da SS. Il dottor Mengele non ci disse una sola parola, e preparò una siringa da 10 cc e una da 5. Da una scatola prese dell’evipan e da un’altra del cloroformio, che era contenuto in recipienti di vetro da 20 cc, e mise tutto questo sul tavolo operatorio. Dopo di ciò fu portato dentro il primo gemello... una ragazza di quattordici anni. Il dottor Mengele mi ordinò di spogliarla e di metterla sul tavolo per la dissezione. Poi le iniettò per endovena l’evipan nel braccio destro. Dopo che la ragazza si fu addormentata, le cercò il ventricolo sinistro del cuore e le iniettò 10 cc di cloroformio. Dopo una piccola contrazione la ragazza era morta, e allora il dottor Mengele la fece portare nell’obitorio. In questo modo furono uccisi durante la notte tutt’e quattordici i gemelli.31
La dissezione dei cadaveri poteva essere quindi la fase finale delle ricerche di Mengele sui gemelli. Benché questa non sia stata la sorte di tutti i gemelli (la maggior parte di loro ebbero una probabilità molto maggiore di sopravvivere proprio perché erano gemelli), la situazione così descritta compendia nondimeno la combinazione propria di Mengele di un modo di procedere scientifico relativamente comune con un fanatismo scientifico letteralmente omicida.
Ma Auschwitz fu unica non solo per il numero di gemelli che poté fornire, ma anche per ciò che consentiva di fare con i gemelli: ognuno dei due gemelli poté essere osservato in condizioni controllate di dieta e di modo di vita e i due gemelli di ogni coppia potevano essere fatti «morire assieme... e in buona salute»: una situazione ideale per comparazioni autoptiche.32
A volte Mengele uccideva i gemelli semplicemente per risolvere una discussione su una diagnosi. Il dottor Abraham C., un radiologo che lavorò per Mengele, mi descrisse una situazione del genere, concernente «due splendidi bambini di sette o otto anni, che stavamo studiando sotto ogni aspetto, dal punto di vista delle sedici o diciotto specialità separate che rappresentavamo». I due bambini presentavano certi sintomi comuni che, secondo una convinzione del tempo, potevano essere associati alla tubercolosi. Mengele era convinto che i bambini fossero tubercolotici, ma i vari medici prigionieri, dopo uno studio clinico accurato, non trovarono alcuna traccia di tale malattia. Non ancora convinto, Mengele gridò ai medici prigionieri, e specialmente al dottor C.: «Tutti gli altri possono sbagliare, non il radiologo... Deve esserci». Poi Mengele se ne andò ordinando a C. di rimanere, e tornò dopo circa un’ora, questa volta parlando con calma: «Aveva ragione lei. Non c’era niente». Dopo un po’ di silenzio, Mengele aggiunse: «Sì, li ho sezionati». In seguito C. venne a sapere da Nyiszli che Mengele aveva sparato ai due ragazzi nel collo e che aveva «cominciato a esaminarli mentre erano ancora caldi: prima i polmoni, poi ciascun organo [facendo] da sé una parte del lavoro». I due bambini erano stati dei beniamini di tutti i medici, compreso Mengele: «Venivano trattati molto bene, viziati sotto ogni aspetto... Specialmente questi due... esercitavano un fascino considerevole su di lui».
Varie altre ricerche furono compiute sui gemelli, alcune delle quali difficili da valutare sulla base delle testimonianze forniteci da loro stessi. Per esempio, un sopravvissuto mi disse quanto lui e altri fossero rimasti impressionati nello scoprire, accanto al loro blocco, un laboratorio equipaggiato di tutto punto, oltre a «camere oscure... [con] ogni sorta di luci..., lampade diverse... [che] ci accecavano letteralmente». Egli disse che Mengele esercitava la sua supervisione su «una quantità di ricerche con sostanze chimiche», a volte applicate alla pelle per vedere quale colore o reazione avrebbero causato. Egli affermò che gli assistenti di Mengele «cominciarono con... l’area cervicale, poi cavarono sangue da dietro l’orecchio» e parlò di come «potessero infilare un ago» in vari punti da dietro, compresa l’esecuzione di punture lombari: tutte cose fatte a bambini piccoli, le quali causavano talvolta sordità, collassi e, fra i bambini più piccoli, anche la morte. Egli e la sua sorella gemella, di dodici anni, erano stati messi assieme, separati da una parete di iuta, e poi sottoposti entrambi a questi vari esami e test, fra cui l’iniezione di certe sostanze nella spina dorsale e la stretta con una morsa di alcune parti del corpo, «per vedere quanto si riusciva a resistere alla pressione».
Questa particolare descrizione può comprendere, oltre a procedimenti a cui i gemelli erano stati sottoposti personalmente, altri a cui si pensava che fossero stati sottoposti altri prigionieri, e altri ancora osservati confusamente o solo temuti. Data la natura dell’ambiente di Auschwitz, però, praticamente ogni particolare descritto potrebbe avere un nocciolo considerevole di verità: e persino quelli riferiti in modo non del tutto esatto potrebbero contenere una considerevole verità psichica.d
All’interno della subcultura dei gemelli ad Auschwitz c’era un’atmosfera strana, che combinava una sorta di rifugio col terrore. Come si espresse Simon J., i gemelli ricevevano il messaggio: «Se facciamo quel che si vuole da noi... non ci sarà fatto niente di male, poiché noi siamo oggetto di una ricerca diretta dal dottor Mengele». In altri termini: «Nessuno ha il permesso di percuoterci» perché «non dobbiamo subire alcun danno fisico». J. poté dire addirittura che i gemelli si sentivano «in una situazione completamente privilegiata, separati dalla confusione del campo». Persino un gemello che fosse stato sorpreso in flagrante a commettere quello che di solito era un «crimine supremo», come il furto di cibo, anziché essere percosso duramente o essere inviato nelle camere a gas, veniva semplicemente rimproverato o riceveva solo una lieve punizione. I gemelli cominciarono a rendersi conto che, a differenza della maggior parte degli altri prigionieri, la loro vita aveva un valore: «Solo una cosa ci tiene [in vita]: i suoi esperimenti», così si espresse Thomas A. La loro posizione particolare fu subito evidente nel fatto che non venivano rapati: essi conservavano i loro capelli per la ragione, connessa alla ricerca, che si dovevano registrare i caratteri dei loro capelli, compreso il colore.
I gemelli ricevevano lavori desiderabili che non li esponevano ai tipi più gravi di maltrattamento fisico: i bambini potevano svolgere compiti di «portaordini» (Läufer) o messaggero, o a volte semplicemente di aiutante. A molti veniva permesso di muoversi con una certa libertà all’interno del campo, e perciò avevano opportunità importanti di «organizzarsi» (comprare e vendere, per lo più cibo), di accedere a informazioni utili e di creare quella che uno di loro definì un’«economia prospera» nel blocco dei gemelli.
Essi venivano ricompensati per la loro cooperazione, come ci dice A.: «[Dopo essere stati] misurati e rimisurati... ricevevamo pane bianco e... latte con Lukchen [un miscuglio simile a pasta, considerato una grande prelibatezza nel campo]», allo scopo presunto di compensare la quantità di sangue che veniva loro prelevata. Nel contesto di Auschwitz, quella era una cosa «meravigliosa» e si combinava con altri vantaggi: «i migliori indumenti... attraverso Mengele»; e un gemello sopravvissuto spiegò: «Avevamo i nostri capelli... cosicché loro [gli altri prigionieri] dicevano: “Voi, almeno, avete un aspetto... umano”».
Era però abbastanza chiaro che questo rifugio era qualcosa di più di un oggetto del capriccio di Mengele: «Noi dovevamo considerarci molto fortunati per il fatto che egli si fosse interessato a noi», disse Simon J. «Mengele era Dio: ce ne accorgemmo molto rapidamente».
A un tempo protettore e potenziale distruttore, Mengele aveva un «potere terrificante, [come] colui che, con un batter di ciglio del suo occhio sinistro, poteva eliminarci tutti», per servirci delle parole di J. E come egli continuò a spiegare: «Era sempre avvolto da un’aura... terribilmente minacciosa che sospetto sia inspiegabile per... ogni essere umano... normale... che non lo abbia mai visto. [Ho] trovato... letteralmente impossibile trasmettere il senso esatto di questo terrore».
Per lo più Mengele teneva i gemelli in vita per la sua ricerca. Teresa W. sostenne di non essere mai stata a conoscenza che Mengele avesse ucciso qualcuno dei gemelli da lei misurati; e benché essa possa essersi creata delle resistenze a conoscere tutta la verità, sarebbe stato «impossibile [per lei] non sapere». Similmente, anche il «padre dei gemelli» (o capo dei prigionieri) del gruppo maschile affermò: «A quanto mi risulta, nessuno dei gemelli fu gassato o bruciato». Egli sottolineò che, nel gennaio 1945, i gemelli di sesso maschile di età maggiore furono evacuati mentre i bambini più piccoli rimasero con lui, ed erano con lui quando entrarono nel campo i russi.33 Ma un altro internato, che aiutò Teresa W. nelle sue misurazioni antropologiche e fece osservazioni più vaste, affermò che furono uccisi «il 15 per cento circa» dei gemelli, alcuni in conseguenza di esperimenti compiuti su di essi, compresi interventi chirurgici.
Parlando in generale, quindi, Mengele mantenne integre le sue due fonti di dati principali ad Auschwitz e a Birkenau; uccise singoli gemelli (specialmente quando l’altro gemello della coppia era morto) o coppie di gemelli che vivevano fuori dei blocchi dei gemelli (in particolare gemelli zingari al tempo dell’annientamento del loro lager) per eseguire su di loro esami autoptici;e e sottopose gemelli nel blocco dei bambini o altrove a interventi chirurgici che furono loro fatali.
Rimane l’ironia che quasi sempre un bambino, per rimanere in vita, doveva essere un gemello. Come affermò un sopravvissuto: «Praticamente nessuno della mia scuola sopravvisse, e nessuno di qui della mia età, tranne un altro gemello». La dimostrazione di tale sopravvivenza poté essere osservata nel documentario russo girato al tempo della liberazione di Auschwitz.34 In una scena toccante, un centinaio o più di bambini escono dall’interno del campo, per lo più gemelli, fra cui alcuni più grandi a cui era stato ordinato di evacuare ma che, nella confusione, erano riusciti a salvarsi nascondendosi. Simon J. mi disse con orgoglio: «Io facevo parte di quel gruppo: lo ricordo molto bene».
Il rapporto di Mengele con la sua principale assistente ci dice molto sul modo in cui egli guardava al progetto. Quando Teresa W., che era allora una prigioniera come tante altre, si ammalò gravemente di tifo, rivelò a Mengele la sua preparazione in antropologia e gli disse di essere stata l’assistente di un antropologo polacco di fama mondiale. Mengele dispose allora che essa avesse il miglior trattamento disponibile e quando essa cominciò a star meglio mandò subito a prenderla, anche se era «così debole da non [riuscire ancora a] camminare» perché era «impaziente» di farla lavorare per lui.
Come i gemelli, la dottoressa W. si rese conto che il lavoro le offriva un rifugio da alternative più pericolose e che ad Auschwitz «Mengele era un dio». Essa riferì che Mengele non ebbe mai una «conversazione privata» con lei e neppure le parlò del suo professore, che fu gentile ma distaccato e che discuteva solo del lavoro. A volte contestava gentilmente le descrizioni fatte da lei di certi caratteri somatici, mentre si dava cura al tempo stesso di procurarle quanto di più confortevole fosse disponibile per i prigionieri. Giovane donna attraente, con una raffinata formazione culturale, ad Auschwitz corsero voci che fra lei e Mengele ci fosse una relazione. Quasi certamente non fu così, ma le voci furono probabilmente alimentate dall’abitudine di Mengele di apprezzare e ricompensare generosamente coloro che erano in grado di dare un contributo al suo interesse appassionato per la ricerca sui gemelli.
Anche a causa del suo giudizio eccessivamente positivo della qualità e della legittimità della ricerca, un giorno ad Auschwitz Teresa W. fece una scoperta che la turbò. Mengele le aveva chiesto di portare una scatola in un’altra parte del campo, lei provò l’impulso di aprirla per vedere che cosa ci fosse dentro: scoprì allora «che c’erano recipienti di vetro contenenti occhi umani». Ne rimase «profondamente scossa»: «In quel momento mi resi conto che Mengele era evidentemente capace di uccidere delle persone per ottenere risultati utili per le sue ricerche».
Eppure Teresa W. credeva a tal punto in quelle ricerche da fare copie di tutti i moduli che compilava, allo scopo di conservare una propria documentazione del lavoro; essa mise questi appunti in un recipiente che seppellì sotto il blocco «in previsione di poterli un giorno recuperare», cosa che però non fece mai. Contrapponeva all’uso che di tale materiale intendeva fare Mengele il più obiettivo approccio statistico del suo professore. Mengele, pensava, avrebbe mantenuto in vita il suo gruppo di gemelli e i loro figli per studiare la trasmissione ereditaria di una varietà di caratteri, dall’intelligenza alla capacità di certi tipi di conoscenza, alla predisposizione a certe malattie: tutte cose che pensava avrebbero potuto fornirgli «un risultato di grande interesse».
Nelle sue conversazioni con me (distribuite nell’arco di un paio di anni) essa divenne più critica nei confronti di Mengele, che definì «fanatico» e «assassino», rimanendo però sempre confusa nel giudizio generale su di lui, anche in conseguenza del rispetto che continuava ad avere per le sue ricerche. Essa fu uno dei pochi prigionieri che, a quanto so, siano rimasti restii a formulare giudizi definitivi su Mengele e fu riluttante a testimoniare su di lui in procedimenti legali. Il suo atteggiamento fu dovuto senza dubbio al fatto che Mengele le salvò la vita, ma anche al modo professionale in cui la trattò e al fatto che riuscì a convincerla della validità della propria ricerca sui gemelli.
L’atteggiamento di Mengele verso la ricerca sui gemelli era decisamente entusiastico. La dottoressa Lottie M. sottolineò la passione che legava Mengele alla «sua idea genetica», e una polacca sopravvissuta disse che «faceva tutto di corsa [al blocco medico] per avere più tempo da dedicare ai suoi gemelli». Tale passione lo rese «totalmente cieco» dinanzi alla generale sofferenza del lager. Ogni volta che trovava dei gemelli identici in un trasporto, continuò questa donna, «Mengele appariva raggiante: era felice... in una sorta di trance». Quando invece veniva privato di possibili gemelli – come una volta in cui non gli fu notificato l’arrivo di un trasporto – diventava furibondo e minaccioso.
Ciò gli accadeva anche quando i bambini, per paura o per fatica, interrompevano gli esami o, come disse un’altra sopravvissuta, «quando qualcosa non andava per il verso giusto negli esperimenti», addirittura se su un grafico non ne era stata registrata la temperatura. Una volta, quando un bambino gridò che si sentiva svenire, Mengele «si infuriò... [e] colpì il tavolo con tanta violenza da farlo cadere». Il suo atteggiamento, secondo la sua osservatrice, sembrava essere quello di chi, se non avesse potuto compiere immediatamente il lavoro, «avrebbe potuto non riuscirci più». Egli diventava «furioso», secondo un altro sopravvissuto, anche quando un gemello moriva nel momento sbagliato, come nel caso di una gemella morta di difterite mentre egli stava studiando l’evoluzione della sua sifilide. Mengele manifestò molta sollecitudine nei confronti della gemella sopravvissuta, che aveva contratto anche lei la difterite e alla quale si diceva fosse molto affezionato; le prodigò cure speciali e i giusti farmaci finché riuscì a farla guarire, dopo di che la fece uccidere per poterne confermare la sifilide con un’autopsia.
Questa dualità – un misto sconcertante di affetto e violenza – mi fu descritta da vari testimoni. La donna polacca sopravvissuta, per esempio, lo descrisse come «impulsivo... [con] un temperamento collerico», ma «nel suo atteggiamento verso i bambini [gemelli]... gentile come un padre... [che] parlava loro... [e] batteva loro delle pacche affettuose sul capo». Mengele poteva avere un comportamento scherzoso con loro, e «fare dei salti» per divertirli. I gemelli lo chiamavano spesso «zio Pepi» e altri gemelli dissero che Mengele portava loro dolci e li invitava a fare un giro sulla sua macchina (risultò poi che spesso si trattava di «una piccola gita con zio Pepi, fino alla camera a gas»). Simon J. espresse questa situazione nel modo più conciso: «Poteva essere amichevole ma uccidere». E altri due gemelli lo descrissero «come una personalità doppia, una specie di dottor Jekyll e mister Hyde».
I gemelli si sentivano attratti verso Mengele. Uno credeva di piacergli: «Mi chiamò immediatamente amico suo» e disse che «negli ebrei c’era qualcosa che lo affascinava» ed era in generale simpatico e «molto umano». Quest’uomo credeva che Mengele proteggesse i gemelli da Heinz Thilo, un medico SS che voleva ucciderli, cosicché ai suoi occhi Thilo era il «diavolo della morte» (un assassino malvagio), mentre Mengele era l’«angelo della morte» (che aveva ancora un briciolo di sentimento). Questo sopravvissuto ammise però che Mengele, in laboratorio, «diventava completamente un’altra persona..., un fanatico... [che] non era contento se non vedeva del sangue sulla sua uniforme bianca». Thomas A. rimase legato a Mengele in un modo ancor più preoccupante: «Per i gemelli Mengele era tutto..., meraviglioso, un buon medico... il nostro sostegno. Se non fosse stato per lui, non saremmo vivi». Per molto tempo dopo la liberazione, A. trovò impossibile credere a tutto il male che sentiva dire di Mengele, e ancor oggi sta lottando con questa contraddizione. Oggi riesce a presentarsi la situazione in questi termini: «Per noi, per i gemelli, era come un papà, come una mamma. Per noi. Per gli altri era un assassino».
Mentre molti gemelli giunsero alla conclusione che Mengele era stato buono con loro solo per ottenere il massimo dalla loro partecipazione alla sua ricerca, altri ebbero difficoltà a liberarsi della sensazione che il suo affetto per loro fosse stato genuino.
A parte la sua ricerca, il rapporto che Mengele ricercava con i gemelli, e con l’intero ambiente, era di un controllo assoluto. Questa forma di ricerca di onnipotenza combinava di nuovo le realtà di Auschwitz con le inclinazioni individuali-psicologiche di Mengele. Simon J. colse questa tendenza quando disse che «Mengele era il giorno del giudizio», e l’altra associazione che gli veniva pensando a lui era l’immagine di un internato, in un gruppo di persone che camminavano lentamente verso il crematorio, che gridava uno dei versetti che si cantavano nella notte di Kol Nidre (l’inizio dello Yom Kippur, il Giorno dell’Espiazione). Mengele ricercava il controllo non solo sulla vita e sulla morte, ma anche sull’intero comportamento e su tutti i criteri di valore, scientifici e morali.
J. poté perciò aggiungere: «A quanto sapevamo c’era Mengele, poi mezzo anno-luce... e poi il resto di loro [altri medici e ufficiali delle SS e altro personale]». Quella stessa aura di onnipotenza condusse all’impressione, presente in vari gemelli, che Mengele fosse «il principale protagonista», una «presenza costante» e che fosse «sempre al comando».
A differenza di altri ad Auschwitz, Mengele rimase sino alla fine a continuare le sue ricerche sui gemelli. Qualche mese prima di piantare in gran fretta baracca e burattini, insistette nell’invitare la dottoressa Lottie M. nella sua stanza riservata per dare un’occhiata ai «risultati delle [sue] ricerche antropologiche». Essa non riuscì a farsi un’idea attendibile da uno sguardo superficiale a diagrammi e statistiche, ma ricorda che egli le disse con aria dispiaciuta: «Non è un peccato che... queste cose cadano in mano ai bolscevichi? Non è un peccato?». Benché egli si preparasse a portar via con sé la maggior parte della documentazione, la dottoressa M. ebbe l’impressione che egli fosse consapevole dell’imminenza della sconfitta tedesca e si preoccupasse soprattutto di quale sarebbe stata la sorte dei suoi materiali.f
Un sopravvissuto affermò che Mengele era costretto a «lavorare molto in fretta» a causa del suo conflitto con Thilo e con altri che volevano far dichiarare concluso il progetto. Un altro sopravvissuto, che dichiarò di avere avuto dei contatti nei servizi segreti e di avere avuto accesso a conoscenze speciali, disse che la ricerca di Mengele non godeva di una buona reputazione presso gli ufficiali nazisti, cosicché la sua posizione ad Auschwitz poteva essere in pericolo «se egli non avesse presentato dei risultati concreti». Benché quest’affermazione non trovi molte conferme, la corsa di Mengele contro il tempo potrebbe avere avuto un’origine dentro se stesso come parte del bisogno di vedere in se stesso – e di essere riconosciuto come tale – un grande scienziato della biologia e dell’antropologia (Rassenkunde). Senza dubbio la sua ricerca sui gemelli occupava una posizione centrale in quell’aspirazione.
Il metodo di Mengele era un prodotto della sua formazione scientifica e della sua esperienza anteriore, della sua ideologia nazista e delle peculiarità dell’ambiente di Auschwitz.
La sua assistente, l’antropologa prigioniera Teresa W., considerava il metodo di Mengele più o meno normale per quel tempo, la norma per la ricerca in antropologia. Essa riconobbe in esso lo stesso approccio che aveva appreso in un’università polacca sotto la guida di un eminente antropologo che aveva connessioni con la Germania prenazista. Quel professore era particolarmente interessato al «fondamento biologico dell’ambiente sociale» e alla descrizione di «tipi razziali» per mezzo di metodi statistici da lui stesso introdotti (pur rifiutando decisamente le teorie naziste sulla superiorità razziale).
L’impostazione di Mengele differiva solo per il fatto di essere «terribilmente dettagliata», più di quanto lei ritenesse necessario. Essa comprendeva misurazioni del cranio e del corpo e di vari caratteri del naso, delle labbra, dei capelli e degli occhi. La sua assistente antropologa poté disporre di strumenti svizzeri di qualità, di un camice bianco «come i medici», di una segretaria per annotare le osservazioni, e di un prigioniero studente di antropologia come aiutante. Teresa W. mi disse che Mengele non discusse mai con lei gli obiettivi della sua ricerca, ma lei considerò tale lavoro scientificamente legittimo e in precedenza aveva testimoniato che «nell’area dell’antropologia riconosciuta, [il lavoro sui gemelli] costituisce una parte molto importante della ricerca, nella quale svolge un grande ruolo specialmente l’aspetto della trasmissione ereditaria». E, come mi disse la stessa W., «se Mengele avesse voluto pervenire a una falsa conclusione, perché mai avrebbe dovuto darsi la pena di compiere una ricerca... così dettagliata?». Essa riconobbe, però, che Mengele avrebbe potuto «piegare un po’ [i suoi risultati] verso i suoi obiettivi» per far dimostrare loro la superiorità razziale tedesca; e inoltre che «se qualcosa non fosse stato... in accordo con... i desideri dei nazisti..., egli [avrebbe forse potuto] non pubblicizzarlo». Si rendeva conto, inoltre, di ciò che lei stessa doveva alla ricerca: «In un certo senso, la sua antropologia mi salvò realmente la vita ad Auschwitz».g
Non conosciamo con certezza il numero relativo dei gemelli identici o monozigotici (quelli sviluppatisi da un singolo ovulo) in contrapposizione a quello dei gemelli fraterni o dizigotici (quelli sviluppatisi da due ovuli diversi) fra i soggetti delle ricerche di Mengele. Né è chiara la misura in cui egli mantenne questa distinzione, la quale ha un’importanza cruciale, giacché i gemelli non identici hanno una somiglianza genetica fra loro non maggiore di quella esistente fra i figli degli stessi genitori in generale. Il fatto che in alcuni casi noti sia stato possibile fare accettare a Mengele come gemelli dei bambini che erano semplicemente fratelli (o sorelle) ci dà ragione di dubitare dell’attendibilità dei risultati da lui conseguiti.
Per l’intera durata del proprio soggiorno ad Auschwitz, Mengele rimase in stretto contatto col professor von Verschuer, cui inviò regolarmente i risultati delle proprie ricerche ed esemplari anatomici al Kaiser Wilhelm Institut di Antropologia, Eredità umana ed Eugenetica a Berlino-Dahlem, da lui allora diretto. Ci sono prove recenti anche del fatto che, negli anni in cui prestò servizio ad Auschwitz, Mengele si recò periodicamente a far visita al suo professore ed era ricevuto anche dalla famiglia di quest’ultimo. Subito dopo la guerra, von Verschuer distrusse tutta la loro corrispondenza e, nonostante questo atto, che era un’implicita autoaccusa, sostenne di essere all’oscuro di quanto era accaduto ad Auschwitz e dei modi potenzialmente criminali in cui Mengele poteva aver raccolto i materiali per le sue ricerche.35h
La dottoressa Lottie M. poté dire, a proposito dell’interesse di Mengele per i gemelli: «Questo era il tema che gli interessava... la genetica... il rapporto fra genetica e ambiente. Io penso che egli fece ciò che avrebbe potuto fare se avesse lavorato come assistente del professor von Verschuer». E anche Teresa W. sottolineò l’opportunità che Mengele ebbe di studiare princìpi ereditari che, quali che fossero le critiche rivolte alla ricerca da lei e da altri, la rendevano «senza dubbio del massimo valore per l’antropologia».
Ernst B., l’amico di Mengele ad Auschwitz, ne descrisse il lavoro come «ricerca scientifica pura», nella quale si faceva uso di gemelli per studiare problemi concernenti la trasmissione di «disposizioni ereditarie identiche (selbe Erbanlagen)», problemi che Mengele aveva cominciato a studiare sotto la guida del suo professore all’università. La ricerca poteva trarre vantaggio dalle «condizioni estreme vigenti nel campo di concentramento»: si potevano, per esempio, somministrare proteine a un gemello per osservarne l’efficacia nella prevenzione di malattie in confronto con l’altro gemello a cui esse non venivano somministrate; e si potevano anche perseguire ricerche con un «esito potenzialmente letale». Il dottor B. sapeva che Mengele era «in costante rapporto col suo vecchio istituto», ma pensava che comunicasse ben poco al personale dell’istituto sulle condizioni di Auschwitz, «vergognandosi di parlare di cose del genere con i suoi ex colleghi». Mengele, parlando con Ernst B., espresse nondimeno il suo orgoglio per l’incoraggiamento datogli dai suoi colleghi, e «si servì di tale incoraggiamento come di una giustificazione» per proseguire le ricerche scientifiche.
Il dottor B. disse qualcos’altro di grande importanza, che non è stato generalmente apprezzato: Mengele aveva cominciato a lavorare alla sua Habilitation, la presentazione accademica necessaria per la libera docenza; e la chiara implicazione di questo fatto era che la sua ricerca sui gemelli avrebbe rappresentato una parte importante di quel lavoro per l’abilitazione. Alla passione di Mengele per la ricerca manifestata ad Auschwitz era dunque connessa l’ambizione accademica, così come la convinzione, citata anch’essa dal dottor B., che «sarebbe un peccato, un crimine..., un atto di irresponsabilità [verso la scienza] non utilizzare le possibilità che Auschwitz offriva per le ricerche sui gemelli. Non ci sarebbe stata mai più un’altra opportunità come questa».
Tutto questo sembra abbastanza chiaro, ma l’opinione prevalente ad Auschwitz sulle ricerche di Mengele era del tutto diversa. La maggior parte degli internati credevano, come si espresse il dottor Abraham C., che Mengele «volesse trovare la causa delle gravidanze multiple per poter ripopolare la Germania, che era stata soggetta a perdite considerevoli». Il dottor C. sostenne addirittura che Mengele «ne parlava molto liberamente». E in quanto «radiologo di Mengele» (sono parole sue), egli era in condizione di osservare e di udire molte cose. Il dottor Miklos Nyiszli, che lavorò a contatto ancora più stretto con Mengele, disse similmente: «Avanzare di un passo nella ricerca per dischiudere il segreto della moltiplicazione della razza di esseri superiori destinati a governare [il mondo] era [per Mengele] un “nobile obiettivo”».37
Teresa W. era a conoscenza di quest’opinione, ed espresse scetticismo su di essa «non avendo mai udito da Mengele nulla» che potesse far pensare a questo obiettivo. Io ebbi però l’impressione che essa non fosse più del tutto certa degli obiettivi di Mengele. Circolava ancora un’altra voce, ossia che Mengele «volesse accoppiare gemelle con gemelli e... indurli ad avere rapporti sessuali... per vedere se da gemelli nascessero gemelli». Secondo un’altra voce analoga, si sarebbe dovuto usare lo sperma di gemelli per ingravidare «signore tedesche», così che anch’esse potessero avere a loro volta gemelli; oppure si sarebbe dovuto iniettare sangue di gemelli nelle vene di donne tedesche, evidentemente per lo stesso fine.
Soprattutto, la maggior parte dei medici prigionieri erano più scettici sulla qualità della ricerca di Mengele sui gemelli di quanto non fosse Teresa W. Il dottor Jan W. pensava che Mengele fosse molto «superficiale» come ricercatore e, dopo aver esaminato frammenti di appunti sulle sue ricerche conservati nel Museo di Auschwitz, disse che «nessuno scienziato [li] prenderebbe sul serio». (Gli appunti consistono in sole poche colonne di cifre, e sarebbe difficile trarne conclusioni di qualsiasi sorta.) Un medico prigioniero si espresse in proposito in modo semplice e deciso: «Voleva essere Dio, per creare una nuova razza».
Nel valutare queste varie opinioni, non c’è dubbio sulla verità della prima posizione: ossia che Mengele stesse continuando le ricerche sui gemelli iniziate da altri e forse da lui stesso agli istituti di Francoforte e di Berlino, nell’intento di trovare conferme al determinismo genetico. In precedenza io pensavo che questa prospettiva, unitamente all’ambizione scientifica e accademica di Mengele, fosse sufficiente a rendere ragione delle sue ricerche sui gemelli, e che l’opinione che egli volesse apprendere il segreto dei parti multipli fosse solo un’interpretazione fantastica delle sue ricerche data da altri. Oggi non ne sono più tanto sicuro. I dati disponibili mi sembrano conciliarsi quanto meno con la possibilità che Mengele avesse l’ambizione di estendere il suo determinismo genetico verso una qualche forma di applicazione razziale: l’uso della conoscenza dei fattori genetici che influiscono sulla formazione di gemelli per stimolare tale formazione in particolari situazioni.
Mengele potrebbe anche avere avuto il desiderio di applicare i risultati della sua ricerca sui gemelli al fine della coltivazione genetica di individui superiori, non necessariamente gemelli a loro volta. Benché questi obiettivi siano assai lontani dalla visione grandiosa di «ripopolare la Germania», essi sarebbero stati in accordo con gli obiettivi nazionali della Germania del tempo e senza dubbio anche con l’ideologia nazista. Essi si sarebbero conciliati anche con qualcos’altro che mi disse il suo amico dottor B.: che la ricerca di Mengele poteva incidere su una selezione di capi nazionali «non su una base politica ma su una biologica». In altri termini, Mengele potrebbe avere avuto il desiderio di usare conoscenze genetiche derivate dalla ricerca sui gemelli sia per «generare per mezzo della riproduzione controllata» capi desiderabili (Teresa W. lo paragonò al «proprietario di un allevamento») sia per selezionarli fra competitori esistenti.
Non possiamo però essere certi sulle precise motivazioni di Mengele. Teresa W., che lavorò a stretto contatto con lui, mi disse a un certo punto: «Sarebbe interessante poter udire la sua confessione, le sue risposte a diverse domande che gli si potrebbero rivolgere». E vero, sarebbe molto interessante, anche se egli potrebbe non essere stato del tutto cosciente delle sue esatte motivazioni. Io credo però che esse comprenderebbero la sua combinazione tipica di tesi scientifiche esagerate e di fantasia ideologica connessa.
Benché nulla potesse stare alla pari col suo interesse per i gemelli, Mengele aveva una vera passione anche per la ricerca sui nani, e un testimone riferì di averlo visto una volta «fuori di sé dalla gioia» nello scoprire un’intera famiglia di cinque nani. Una tale famiglia fu ovviamente un materiale inestimabile per le sue ricerche di genetica, soddisfacendo al tempo stesso il suo interesse per l’anormalità: il suo desiderio, come si espresse la sua assistente antropologa, «di poter disporre di un elemento [di anormalità] così significativo».
Nyiszli riferì di avere eseguito le sue prime autopsie su persone che erano state selezionate dai trasporti in arrivo a causa di qualche sviluppo fisico anormale. Dopo essere state sottoposte a varie misurazioni, quelle persone furono uccise da un sottufficiale delle SS a colpi di pistola; Nyiszli dovette quindi eseguire le dissezioni, preparare un protocollo, trattare le salme con cloruro di calcio e sistemare «le ossa pulite in casse da inviare all’... istituto a Berlino-Dahlem».38 Anche Lottie M. parlò dell’entusiasmo di Mengele nel ricevere una famiglia di nani, del suo studio estremamente intenso e del modo apparentemente generoso in cui li trattò, e poi della loro sparizione: «Dopo un paio di settimane..., finito lo studio..., alla camera a gas». (Come nel caso dei gemelli, un certo numero di nani sopravvissero, fra cui due descritti da Thomas A. come musicisti di talento che vissero nel suo gruppo di gemelli e spesso suonarono per le SS.)
Gli internati capirono però che i nani riflettevano l’ossessione di Mengele per l’anormalità degli ebrei. Come si espresse la dottoressa Magda V.: «Io penso che per lui gli ebrei devono essere stati dei mostri di natura, come i nani». E un’amica di Teresa W. vide in lui un uomo «affascinato da ogni sorta di mostri di natura..., nani, gobbi, imbecilli di ogni nazione..., ermafroditi»: tutti ebrei. Un altro medico prigioniero notò il suo interesse anche per i giganti e, più in generale, per i «disturbi dell’accrescimento» e per gli «indicatori dell’accrescimento» nei bambini e nei giovani adulti. Il dottor Erich G. menzionò il «preconcetto» di Mengele – e addirittura la sua «convinzione religiosa» – che negli ebrei ci fosse una maggiore «eredità di qualità negative» che in altre razze. L’interesse di Mengele per i nani andò in tal modo a connettersi col suo atteggiamento generale verso gli ebrei: non sorprende che i comuni prigionieri temessero la sua caccia ai mostri di natura. Come ci dice un altro sopravvissuto: «Io un po’ lo temevo. Tutti lo temevano. Poteva capitare che ti dicesse: “Vieni qui” e che trovasse in te qualcosa di interessante».
Il terzo interesse di Mengele era per il noma, un settore di ricerca che egli potrebbe avere scelto più attivamente di quanto non suggerisca la descrizione del modo in cui egli si rivolse al professor Epstein fatta da un medico prigioniero (vedi pp. 405-406). In ogni caso possiamo essere ragionevolmente certi che Mengele cercasse di accrescere la sua reputazione scientifica e che si proponesse di pubblicare i risultati sotto il suo solo nome.
È noto che questa condizione cancrenosa delle guance e della bocca è una conseguenza di una debilitazione estrema, e i medici prigionieri non avevano alcun dubbio sul fatto che causa fondamentale della frequente comparsa in bambini zingari di questa malattia solitamente rara fosse una tale debilitazione o cachessia (estremo dimagramento di tutto il corpo) dovuta alla povertà della dieta e alle condizioni generali vigenti nel campo di concentramento di Auschwitz. Mengele non contestò del tutto questo assunto, poiché permise al professor Epstein di tenere almeno una conferenza sul noma in cui si sottolineava l’importanza della cachessia. Egli era però chiaramente più interessato a una causa genetica o razziale, cosicché un medico prigioniero a cui fu affidato il compito di eseguire una ricerca batteriologica su questa condizione poté chiedersi: «Ma perché i medici tedeschi non pensavano..., come pensavamo noi stessi, che quell’epidemia di noma dovesse essere attribuita alla miseria, alla mancanza di igiene e di nutrizione a cui quei bambini erano soggetti, piuttosto che a un’altra causa?».
Eva C., l’artista che lavorò con Mengele, ricorda che una volta egli la condusse a vedere un bambino zingaro estremamente debilitato – «un mucchietto di ossa» – che stava morendo per uno stadio avanzato di noma e le chiese: «Crederebbe mai che questo piccino ha dieci anni?». Eva C. ebbe l’impressione che Mengele non volesse dire tanto che quel bambino sembrava molto più piccolo dell’età che aveva, ma che facesse un apprezzamento sulla sua razza, «... come se non si rendesse conto che stava facendo quel che faceva proprio a quel ragazzo». Questo comportamento consistente nel criticare le vittime è particolarmente appariscente nella ricerca di Mengele sul noma.
Mengele uccise ripetutamente per la scienza. Un medico prigioniero mi disse che un giorno Mengele portò «due teste... avvolte in un giornale... teste di bambini... che puzzavano di fenolo». Era chiaro che aveva fatto uccidere i bambini per poterne studiare il cadavere, e stava portandone le teste a questo medico per farle sottoporre a un esame batteriologico.
La ricerca di Mengele sul colore degli occhi fu un episodio particolarmente strano e rivelatore nelle sue ricerche ad Auschwitz. Tipicamente, la ricerca era cominciata su una base scientifica. Mengele mandava regolarmente occhi di zingari all’istituto a Berlino, dove era in corso uno studio sui fattori ereditari nel colore degli occhi, con particolare attenzione a una condizione nota come eterocromia dell’iride, nella quale i due occhi di una persona hanno colore diverso. Una dottoressa di nome Magnussen, che lavorava all’istituto, aveva la direzione del progetto di ricerca sugli occhi. Il dottor Nyiszli riferisce che l’eterocromia, con un occhio azzurro e uno marrone, era presente in sei degli otto gemelli zingari di cui gli fu ordinato in un’occasione di compiere l’autopsia. La sua dissezione dimostrò che quei gemelli erano stati uccisi con un’iniezione di fenolo, anche se egli trovò in tutti tracce di sifilide ereditaria e in alcuni anche di tubercolosi. Mengele disse che, a causa della sifilide e della tubercolosi, «non sarebbero sopravvissuti in ogni caso», un commento che Nyiszli intese come un suggerimento a registrare queste malattie come causa di morte. Egli preservò gli occhi dei sei gemelli eterocromici e li preparò per mandarli a Berlino.39
Una storia bizzarra, narratami dal dottor Alexander O., mi chiarì che certi aspetti del progetto potevano essere men che scientifici. Dopo che Mengele ebbe dimostrato la presenza dell’eterocromia in alcuni membri di una famiglia di zingari, diede al dottor O. l’istruzione, «quando le cose avranno preso il loro corso», di estrarre gli occhi e metterli in recipienti con sostanze conservanti per mandarli a Berlino; e Mengele aggiunse in tono sinistro: «Gli occhi di tutti, ha capito?». Il dottor O. capì perfettamente; e quando, uno per uno, i membri della famiglia fossero morti in conseguenza del loro stato di debilitazione estrema (evidentemente Mengele non pensava che ci fosse bisogno di fare iniezioni di fenolo), la cosa gli sarebbe stata notificata ed egli avrebbe cavato gli occhi ai cadaveri, li avrebbe preparati per la spedizione e li avrebbe passati al furiere del blocco. Un giorno il furiere lo chiamò con grande irritazione dicendogli che Mengele aveva una nota di otto membri della famiglia e «Lei mi ha passato solo sette coppie di occhi. Ci mancano due occhi!». Quando il dottor O. cominciò a protestare che gli erano stati notificati solo sette decessi, il furiere replicò che gli occhi dell’ultimo membro della famiglia «devono essere spediti oggi! Lei sa che cosa significa: devono partire oggi!». O. intese quelle parole come un invito a prendere gli occhi mancanti da corpi di altri zingari presi a caso e, imbattutosi in un gruppo di essi, riuscì a trovare i colori giusti, un occhio azzurro in un cadavere e un occhio nero in un altro; li cavò e li preparò per la spedizione nella maniera solita.
Mengele aveva anche un altro progetto: quello di modificare il colore degli occhi in direzione della razza ariana. Il dottor Abraham C. si chiese perché Mengele stesse dedicando tanta attenzione ad alcuni ragazzi di sette anni che sembrava non avessero niente di notevole, ma poi si rese conto che «quei bambini avevano una caratteristica strana; erano biondi e avevano occhi castani, e Mengele stava tentando di trovare un modo per dare ai loro occhi il colore azzurro. Mengele provò addirittura a iniettare nei loro occhi del blu di metilene, causando loro forti dolori e una grave infiammazione, ma «i loro occhi naturalmente non mutarono colore». Il dottor C. aveva l’impressione che questi bambini fossero stati successivamente avviati alla camera a gas, ma poteva darsi che si sbagliasse: un ex Blockältester [anziano del blocco] parlò di trentasei di tali bambini che a quanto pareva erano sopravvissuti. Risulta però che una bambina piccola, di nome Dagmar, nata ad Auschwitz nel 1944, morì dopo iniezioni agli occhi per opera di Mengele.40 Fra i bambini sottoposti all’esperimento sul colore degli occhi, almeno uno divenne quasi cieco; gli occhi della maggior parte degli altri, dopo dolori e infezioni considerevoli, tornarono gradualmente alla normalità.
A proposito dello studio dell’eterocromia, Hermann Langbein riferì di avere avuto, dopo la guerra, un’opportunità di incontrare il professor von Verschuer, il quale gli parlò degli «esemplari estremamente interessanti» di coppie di occhi di diverso colore inviategli da Mengele, e parve «sorpreso e turbato» quando Langbein gli disse che appartenevano a zingari fatti uccidere da Mengele a causa di questa anormalità. Nell’atteggiamento di von Verschuer ci imbattiamo in un accessorio di ipocrisia accademica all’abitudine tipica di Mengele di uccidere per la scienza.
Ma le iniezioni di blu di metilene sono di ordine diverso, non per la loro crudeltà (che era quella solita), bensì per la loro straordinaria ingenuità scientifica o, forse meglio, per la loro corruzione scientifica.
Si pensava che Mengele avesse compiuto ulteriori ricerche in una varietà di aree, ma l’imprecisione delle testimonianze rende difficile, in alcuni casi, distinguere la realtà da deformazioni o addirittura da parti della fantasia. Eppure, in ogni caso, potrebbe esserci stata almeno una parte di vero.
Per esempio, Eva C., che nel complesso fu un’osservatrice accorta e concreta, mi parlò, con un’esitazione e una confusione in lei inconsuete, di una grande unità di ricerca nella quale fu condotta, un blocco speciale nel lager principale di Auschwitz, dove si stavano facendo degli esperimenti su delle persone, alcune delle quali indossavano mute da sommozzatori ed erano immerse in acqua in cui galleggiava del ghiaccio. Mengele camminava rapidamente avanti e indietro con una certa agitazione gridando ordini, e dava l’impressione di essere «anche qui, senza dubbio, il cane più grosso». Altri internati erano convinti che Mengele avesse eseguito anche esperimenti di sterilizzazione; e benché egli non fosse chiaramente fra i maggiori sperimentatori in questo settore ad Auschwitz, le testimonianze in nostro possesso sono sufficienti a suggerire che possa avere avuto un qualche rapporto sia pure periferico con esso. Un sopravvissuto mi disse che Mengele «tagliò le palle» a un gemello molto giovane e sostenne di aver visto lui stesso i testicoli «posati sul nostro tavolo». Un sopravvissuto greco che era stato sottoposto a orchiectomia apparve in tribunale nel processo contro Schumann, ma riteneva Mengele altrettanto responsabile e parlò del rozzo metodo di quest’ultimo per raccogliere sperma dai maschi sottoposti agli esperimenti di sterilizzazione. Altri sopravvissuti riferirono su iniezioni eseguite o fatte eseguire da Mengele nell’addome che rendevano sterile una persona.41 Una donna disse che un assistente di Mengele le aveva iniettato nella schiena una sostanza nociva, in conseguenza della quale aveva perso il flusso mestruale e la capacità di concepire. Un sopravvissuto, la cui fidanzata lavorava al Blocco 10, parlò di «ricerche ed esperimenti medici dei famigerati medici Mengele e Clauberg» in quel blocco.42 Una sopravvissuta disse di essere stata sottoposta a esperimenti sul midollo osseo, nel corso dei quali aveva subito varie operazioni chirurgiche al femore, con asportazione di materiali per trapianti di midollo osseo. Una commissione internazionale confermò che questa donna era stata sottoposta a esperimenti medici, ed essa fu in grado di rintracciare anche un’altra sopravvissuta che aveva subito lo stesso tipo di procedimento.
Io sono convinto che all’origine di ciascuna di queste testimonianze ci sia qualche forma di reale abuso, di solito sperimentale, anche quando c’è della confusione nei particolari, fra cui l’attribuzione di questi comportamenti all’uno o all’altro medico. Gli sfrenati interessi di Mengele per la ricerca, le risorse eccezionali di Auschwitz e la straordinaria assenza di ogni ritegno morale fecero di lui un candidato per atti reali che ci sembrano fantastici non meno che per fantasie sbrigliate.
Mengele fondò la caricatura di un istituto di ricerca accademica nel grottesco stile di Auschwitz. Medici, per lo più ebrei, con una varia formazione clinica e di laboratorio, furono chiamati a contribuire alle sue ricerche con diagnosi e talvolta trattamenti (quando questi si conciliavano con l’interesse di Mengele). Figure chiave nella conferma di diagnosi furono il dottor Abraham C., il radiologo, e il dottor Miklos Nyiszli, il patologo. Nyiszli, in particolare, conseguì un prestigio enorme nel campo, ed era libero di muoversi a suo piacimento semplicemente facendo il nome di Mengele. Prima di essere «assunto», fu sottoposto a un «esame» della sua conoscenza della patologia e di problemi forensi da parte di Mengele. La grande estensione del lavoro da lui svolto con Mengele fece di lui una figura controversa agli occhi di alcuni altri medici prigionieri. Ma il fatto è che, nel gruppo di Mengele, il sezionatore di cadaveri era l’uomo più importante.
Mengele organizzò addirittura una serie di colloqui, cui partecipavano di solito una quindicina di medici che lavoravano con lui più altri dieci o quindici provenienti da altri campi. Mengele sceglieva l’argomento e dirigeva i lavori, mentre ai medici prigionieri veniva chiesto di discutere casi particolari dall’angolo visuale della loro specialità. La loro discussione era moderata dalla consapevolezza, come si espresse uno di loro, che «ognuno di noi poteva essere licenziato [ucciso] al minimo segno di disapprovazione da parte di Mengele». Pur essendo riluttanti a dissentire da Mengele, essi dovevano però considerare anche il rischio di essere associati a una diagnosi sbagliata (anche se vista a tutta prima di buon occhio da Mengele) che risultasse poi tale nella successiva autopsia.
Mengele era un collezionista. Nell’accumulare nani, come si espresse la dottoressa Lengyel, aveva «la mania di un collezionista, non [lo spirito] di uno scienziato».43 Altri medici prigionieri videro similmente in lui una persona impegnata in un collezionismo senza fine che fungeva da strumento per il suo professore, senza possedere alcuna speciale qualità propria come scienziato. (Si diceva che avesse fatto collezione anche di medici. Un medico prigioniero raccontò la storia di un grande gruppo di medici ungheresi raccolti da Mengele verso la fine del 1944 [secondo una stima sarebbero stati circa 380]; la maggior parte di loro furono mandati in un duro campo di lavoro in Germania, dove in grande maggioranza si ammalarono e deperirono, e molti morirono.)
L’impulso di Mengele al collezionismo poteva rivolgersi a ogni sorta di oggetto da collezione: feti, come sappiamo, e «calcoli biliari bellissimi», come ci dice il dottor Nyiszli. Quando, sezionando un corpo, si imbatté in calcoli biliari, Nyiszli pensò immediatamente a Mengele come a un «ardente collezionista di tali oggetti»: avesse o no mai fatto prima a Mengele un dono del genere, sapeva che sarebbe stato apprezzato. Li lavò e preparò con cura, e Mengele, ricevendo quel dono, non solo espresse piacere ma rispose recitando un paio di versi da una ballata comica del guerriero Wallenstein:
Più che di gioie o pietre preziose o beni vari
è ricca la famiglia Wallenstein di pietre biliari.
[Im Besitze der Familie Wallenstein
Ist mehr Gallenstein, wie Edelstein.]
I calcoli biliari misero Mengele così di buon umore che Nyiszli poté chiedergli il permesso di andare in giro per il campo alla ricerca della moglie e della figlia adolescente.44
Esaminando con me l’atteggiamento di Mengele verso la sua ricerca e verso la scienza in generale, Teresa W. disse: «Nella sua ricerca scientifica fu onesto... e fanatico. Era un uomo strano». La parola «onesto» esprime la convinzione di Teresa W. che il metodo usato da Mengele fosse legittimo, che egli avesse una «formazione scientifica» genuina e fosse «assolutamente capace di fare un lavoro scientifico serio e appropriato». Il fanatismo di Mengele risultò evidente per lei non solo nel suo modo di comportarsi alla banchina, ma anche nell’impegno con cui tentò di mettere in salvo i «risultati delle sue ricerche» al tempo in cui il campo stava per essere liberato. Egli «sembrava impazzito», correva disperatamente alle sue apparecchiature e alle sue carte e «metteva tutto – strumenti, tutto ciò che c’era – nel suo baule... carta, oggetti di cancelleria, tutto – pigia, pigia, a velocità terribile, non una parola a noi – niente, nessuna espressione... infilando tutto alla rinfusa». La sua assistente ricorda che sembrava «come l’uomo che sta fuggendo nel timore di qualcosa che sta per accadere», la faccia dai lineamenti contratti, la quale sembrava aver cambiato colore, tanto che ora appariva «molto scura, quasi terrea».
Riflettendo con me sull’argomento, essa andò rendendosi conto sempre più del potenziale di distorsione della ricerca scientifica manifestato da Mengele, e già abbiamo accennato alla sua impressione che Mengele potesse «distorcere [i risultati] un pochino ai suoi fini». Pur insistendo nel differenziarlo da un razzista completamente ascientifico come Hans F.K. Günther – perché Mengele «voleva essere... [ed] era» uno scienziato che «amava» il lavoro scientifico –, si rese conto che era «un pochino... limitato» dal suo fanatismo. Quel «pochino» risultò essere molto:
Se si pensa che la razza tedesca, o una qualsiasi razza, sia assolutamente superiore, e che ciò significhi che essa ha il diritto di distruggere una razza più debole, questa è già una limitazione... Egli non amava riflettere o... andare al cuore di un problema che contraddicesse le sue convinzioni... [Era come] un uomo pio... talmente convinto della sua fede da considerare giuste solo le persone che vanno in chiesa, o [quelle che hanno] una faccia uguale alla sua.
Sforzandosi di capire come potesse esistere una distorsione scientifica così grave in un antropologo intelligente e «uomo colto», Teresa W. poté attribuirla alla convinzione di Mengele «che Hitler stesse [facendo] qualcosa di assolutamente e incredibilmente buono».
Mengele vedeva in se stesso un ricercatore scientifico di vaglia, sempre alla ricerca di materiali medici o antropologici «interessanti» o «importanti». Gisella Perl parla del suo forte interesse a ottenere feti morti per studiarli. Una volta Mengele sorprese lei e alcuni amici mentre mangiavano cibo che si erano procurati illegalmente; essa riuscì a venir fuori brillantemente da quella situazione di grave pericolo potenziale richiamando l’attenzione di Mengele su un feto conservato insolitamente intatto: «Herr Hauptsturmführer potrebbe essere interessato a questo esemplare». La rabbia di Mengele sbollì, ed egli disse «Bene!... Bello!» e subito parlò di mandarlo a Berlino.45
Similmente, quando venne a sapere che un gemello monocoriale aveva un testicolo ritenuto, non solo studiò l’altro gemello dal punto di vista della valutazione di possibili fattori genetici, ma cercò anche di imparare tutto ciò che poté sul fenomeno del testicolo non disceso. Studiò inoltre un’ipotesi sull’attaccatura bassa dei capelli degli zingari come carattere di identificazione, al punto di insistere, contro ogni evidenza, che un gruppo di nomadi francesi fossero di origine zingara. Il dottor Alexander O., nel riferire questa storia, commentò: «Una stupidità dotta molto ingegnosa» e pensò che questo «livello di raffinatezza nella stupidità» fosse tipicamente tedesco.
Mengele, secondo Marek P., seguiva alla mattina la sua «solita routine ospedaliera», controllando ciò che si faceva nei blocchi medici, partecipando spesso a vari aspetti delle uccisioni e poi andando nel suo laboratorio di patologia a Birkenau per conoscere i risultati delle autopsie. In questo modo, concluse il dottor P., «egli combinava il suo interesse per i procedimenti di uccisione con quello per la ricerca».
Sotto vari aspetti specifici Mengele si comportava come uno scienziato ricercatore. I medici prigionieri osservarono la sua intensità, ambizione e apparente serietà di intenti, il suo attivismo in contrapposizione alla relativa indolenza di altri medici SS. Già conosciamo l’impressione che egli fosse «onnipresente nel campo» e Nyiszli accenna alla sua energia nel correre avanti e indietro fra la banchina, dove faceva le selezioni, e l’unità di patologia, in cui passava «lunghe ore», facendosi mostrare vari tessuti al microscopio da Nyiszli.46 Il dottor Abraham C., il radiologo di Mengele, pensava che il suo massimo piacere fosse quello di «passare ore e ore nella stanza delle autopsie di Nyiszli» perché «sembrava che avesse una genuina passione per le questioni mediche, le quali, ovviamente, potevano trovare nella stanza delle autopsie la soluzione che lasciava meno spazio a dubbi». I medici prigionieri osservavano Mengele precipitarsi dalle corsie alle sue amate aree di ricerca, lo vedevano recarsi già di buon’ora al mattino al blocco degli zingari per studiare i casi di noma, pur avendo dormito molto poco per essere stato gran parte della notte ad avviare persone «verso la camera a gas». In effetti, a differenza degli altri non si concedeva soste neppure di domenica, giorno in cui si recava come al solito a compiere misurazioni e a lavorare sui suoi materiali.
La raccolta costante di esemplari da parte di Mengele fu paragonata da Teresa W. all’antropologia di quel tempo, ma i ricercatori hanno sempre contestato una politica scientifica di accumulo e misurazioni senza fine. Un giovane scienziato tedesco scrisse nel 1935: «Non è utile prendere tutte le misurazioni possibili, ma ci si deve limitare a quelle più significative». Il giovane scienziato era Josef Mengele; e nella stessa tesi di laurea egli parlò in modo critico di un precedente ricercatore che si era «perso nei particolari».47 Ad Auschwitz quel critico sembra aver fatto la stessa cosa che aveva in precedenza imputato ad altri ma, dato che per lui Auschwitz era un’opportunità irripetibile, egli ritenne forse che qui tutti i particolari fossero «significativi».
Non c’era chi non si rendesse conto dell’estensione dell’ambizione scientifica di Mengele, ma Teresa W. ebbe addirittura l’impressione che tutto ciò che egli stava facendo fosse parte di un piano più ambizioso, secondo cui «un giorno egli avrebbe avuto una grande stazione di ricerca [probabilmente qui ad Auschwitz]... e un materiale umano... preparato, misurato... pronto [per] ulteriori ricerche».
Il distacco emotivo di Mengele nei confronti dei suoi soggetti di ricerca potrebbe confinare con lo schizoide. La dottoressa Lottie M. lo descrisse come «il cinico più grezzo che io abbia mai visto» e paragonò il suo atteggiamento verso i prigionieri a quello verso «topolini e conigli». Una testimonianza analoga è stata fornita da Nyiszli. Questi raccontò che, dopo che uno dei crematori era stato fatto saltare in aria nella ribellione del Sonderkommando, egli aveva suggerito a Mengele la possibilità di trasferire altrove la stanza di dissezione, perché «questo ambiente è assai poco adatto alla ricerca scientifica»; al che Mengele rispose freddamente: «Che cosa c’è che non va? Sta forse diventando sentimentale?».48
Oltre alla «mentalità tedesca» di Mengele, spesso menzionata, Eva C., l’artista che lavorò con lui, vide in lui un ricercatore imperialistico interessato non alle persone ma alle loro malattie: fra gli zingari «era come un medico bianco in un ambiente di foresta con indigeni, interessato non tanto agli individui quanto alla possibilità di estirpare una malattia tropicale..., una situazione in cui gli indigeni non hanno alcuna importanza... perché... in ogni caso saranno divorati da un leone». Inoltre, egli sembrava «non rendersi conto delle cose del mondo» ed era «molto strano... estraneo al mondo». La stessa qualità schizoide potrebbe essere alla base dell’osservazione di un medico prigioniero secondo cui «egli era un uomo molto difficile da rintracciare... [e] spariva e riappariva..., andava e tornava». Qui troviamo forse un suggerimento nel senso che gran parte della sua attività poteva essere fittizia, intesa in parte a creargli un’aura di onnipotenza: dell’uomo che appariva dal nulla, che controllava tutto.
Mengele aveva reverenza – e forse anche qualcosa di simile all’amore – per la «scienza», ma il suo modo di essere uno scienziato consisteva nel ricercare un controllo assoluto sul suo ambiente di ricerca. Come nel caso di tutti coloro che hanno una «dedizione» così ossessiva per qualcosa, piccole interferenze potevano farlo andare fuori di sé, come nella sua esplosione verso Nyiszli, reo di aver lasciato cadere un po’ di grasso sui documenti in cui erano registrati i dati delle sue dissezioni: «Come può essere così trascurato con questi documenti che io ho compilato con tanto amore?».49 Qui ci torna alla mente la frase di Mengele, riferita dal dottor B., secondo cui non utilizzare le possibilità offerte da Auschwitz sarebbe stato «un peccato, un crimine» e un atto di «totale irresponsabilità» verso la scienza. Il dottor Marek P. poté dirmi, con un tono di tristezza: «Sembrava combinare tanta diligenza con altrettante uccisioni».
Sappiamo della difformità dei giudizi dati su Mengele come scienziato. Per Ernst B. Mengele era uno scienziato di grandi doti, e persino profetico, da elogiare per la capacità di adattarsi come scienziato alle speciali condizioni di Auschwitz. Fra gli internati quel giudizio era essenzialmente rovesciato. Persino Teresa W., che fu l’unica a parlare di una ricerca scientifica autentica sui gemelli, aveva le sue riserve sull’interpretazione che di quella ricerca dava Mengele. La maggior parte degli internati furono più recisi: secondo il dottor Jan W. Mengele «fingeva solo di essere uno scienziato», accumulando ed etichettando materiali, ma mancava della coerenza intellettuale per farne qualcosa di più. Similmente il dottor Abraham C. pensava che Mengele avesse delle capacità ma che ciò che faceva «non fosse vera scienza», perché egli aveva certe idee che «considerava assolute» e «andava semplicemente alla ricerca di prove che le confermassero».
Questo atteggiamento si rifletteva nei «colloqui» di Mengele, i quali «derivarono dalle domande da lui poste, dalle istruzioni che ci dava e dall’intero corpus di ricerche che ci faceva compiere». Dopo che i medici prigionieri avevano risposto alle domande di Mengele, «egli commentava, criticava, ma non discuteva con noi». Il dottor C. ebbe l’impressione che Nyiszli e il professor Epstein facessero eccezione, nel senso che qualche volta Mengele discuteva delle idee con loro, e che Epstein fosse l’unico che «osasse contraddirlo e discutere [varie] idee [con lui]». Anche Epstein, però, evitava di andare oltre un certo limite. Il procedimento essenziale di Mengele consisteva nel suscitare un interesse intellettuale e nel richiedere un’opinione scientifica, restando al tempo stesso impenetrabile a tale opinione se contraddiceva le proprie concezioni (a volte se ne restava tranquillo in attesa dei raggi X e dell’autopsia, e se risultava che aveva avuto torto se ne stava ancora più tranquillo), pur mantenendo sempre il totale controllo della vita e della morte dei prigionieri che partecipavano ai colloqui in qualità di scienziati. L’artista Eva C. disse che Mengele si sforzava di trovare «prove» delle sue opinioni. Nella sua ricerca di qualità ariane in contrapposizione a qualità non ariane, egli tentò di osservare se gli zingari «avessero un’area più scura attorno alla vita» (anche se «un costume da bagno in due pezzi avrebbe potuto dare lo stesso risultato») e, con una certa agitazione, insistette nel dimostrare che gli occhi azzurri presenti fra gli zingari «avevano delle screziature color marrone... cosicché... non sono occhi azzurri ariani puri». Essa pensava però che egli fosse «convinto e sincero in queste ricerche».
Il dottor Frédéric E. era più netto nel suo giudizio. Riferendosi a un esperimento in cui Mengele tentò di determinare se un gemello fosse più vulnerabile al veleno dell’altro, questo medico la definì «un’idea folle di un uomo che non capiva niente di problemi scientifici reali ma... aveva la possibilità... di sperimentare... senza alcun controllo o restrizione». Un altro medico prigioniero definì Mengele «un megalomane che voleva diventare un grande scienziato e che, per raggiungere questo scopo, pensava che la cosa migliore fosse sperimentare con esseri umani». Un altro ancora pensava che le ricerche scientifiche di Mengele fossero «spazzatura» e che Mengele fosse un uomo che «non applicava mai il giudizio». Il dottor Alexander O. descrisse Mengele: «Un fanatico... posseduto dalla sua pseudoscienza». Qui «posseduto» è un termine appropriato, suggerendo quella combinazione propria di Mengele di una furiosa energia unita alla mistificazione presente in tutto ciò che faceva.
In tale «possessione» potrebbe esserci stata anche una terza componente: lo spettro del dubbio interiore. Mengele chiedeva a se stesso la convinzione che ciò che faceva ad Auschwitz fosse legittimato dalla sua aspirazione a dare un contributo alla scienza. Fra i medici prigionieri meglio informati e intellettualmente superiori di cui egli si circondò, possiamo sospettare che egli sentisse qualche dubbio su quelle ambizioni scientifiche. Il suo disperato attivismo ad Auschwitz potrebbe essere stato in parte conseguenza di una lotta per coprire quei dubbi, per nasconderli ad altre persone capaci di formulare un giudizio scientifico, e soprattutto a se stesso. La combinazione di scienza e pseudoscienza, di onnipotenza e di dubbio, propria di Mengele, fu probabilmente molto comune fra gli scienziati tedeschi nazificati, e il fatto che egli fungesse da tramite personale fra Auschwitz, anus mundi, e la scienza medico-accademica tedesca ufficiale sembrerebbe del tutto appropriato. Quando, infine, Mengele lasciò il campo, si recò in volo all’Istituto di Berlino-Dahlem a cui aveva inviato i suoi esemplari. Non è chiaro se vi lasciò i nuovi materiali (che in tal caso furono in seguito distrutti da von Verschuer) o se ritirò vecchi materiali che vi aveva inviato in precedenza. In ogni caso si disse che egli fosse andato là per riferire sulle sue ricerche.50
Anche i rapporti di Mengele con i colleghi medici SS manifestano contraddizioni, oltre che schemi individuabili. Sappiamo che il dottor B. lo elogiò come «il collega più perbene (anständigste Kollege) che conobbi [ad Auschwitz]». La descrizione fatta da Ernst B. dello stretto rapporto professionale e personale di Mengele con Weber suggerisce l’esistenza di una «élite medico-intellettuale» ad Auschwitz.
Un sopravvissuto, che aveva avuto opportunità di osservare medici SS assieme, pensava che Mengele fosse un po’ distaccato e «arrogante» verso altri medici SS, ma disse anche che aveva «una personalità forte ed era in grado di influire sulle persone». Questa capacità di persuasione di Mengele è del resto attestata dal successo delle sue manovre con Lolling per mantenere il sostegno alle sue ricerche, e dal buon esito del suo tentativo di venire a capo dell’opposizione di Wirths a una parte delle sue ricerche: forse a quella parte che richiedeva la presenza di bambini nel campo.
Considerando queste tendenze, come pure la rievocazione da parte del dottor B. dell’impressionante «razionalità» con cui Mengele riusciva a elaborare i suoi concetti di storia-razziale sfrenatamente nazificati, la posizione di Mengele rispetto agli altri medici SS ad Auschwitz potrebbe benissimo essere dipesa dal suo talento nel razionalizzare l’assurdità dell’eccidio. Egli poteva essere convincente perché, forse più di qualsiasi altro medico SS, era in grado di dare un «senso positivo» all’esperienza di Auschwitz.
Molta della confusione su Mengele derivò dalla sua sollecitudine verso medici prigionieri, la quale, pur non essendo priva di contraddizioni, poteva colpire gli interessati ed essere molto importante ai fini della loro sopravvivenza. Più che avere semplicemente bisogno di loro per le sue ricerche, Mengele situò i medici in una speciale categoria: come si espresse la dottoressa Lottie M., i prigionieri comuni (specialmente ebrei), erano «i conigli e topolini», mentre i medici erano «gli esseri umani», cosicché persino medici ebrei potevano diventare suoi «colleghi». La dottoressa M. raccontò che, quando fu annientato il lager cecoslovacco, Mengele fece un elenco brevissimo di coloro che dovevano essere risparmiati, elenco comprendente i suoi gemelli, la sua artista Eva C. e vari medici ebrei. Quando uno di questi medici gli disse che non sarebbe andato con lui se non fossero state risparmiate anche sua moglie e sua figlia, Mengele incluse anch’esse nell’elenco. La dottoressa M. considerava Mengele, nonostante la sua freddezza, più intelligente degli altri, e più diretto e pragmatico, al punto che, quando lei gli raccontò perché era stata arrestata, poté rimproverarla per aver tentato di aiutare degli ebrei («Come poteva sperare di riuscirci?») e dirle addirittura che doveva essere «un po’ schizoide» per aver fatto tentativi del genere.
La dottoressa Magda V. disse che, quando si poneva un problema medico, «potevi parlare con lui» e «dargli una risposta più o meno intelligente»: «Avevamo, entro certi limiti, un rapporto di lavoro». Tale rapporto implicava un certo grado di mutualità; da un lato egli «sapeva che non avrei fatto niente che non fosse stato corretto al cento per cento», e dall’altro lei poteva contare sulla sua protezione. La dottoressa V. era convinta che, negli ultimi giorni di Auschwitz, solo la protezione di Mengele l’avesse salvata dalla morte cui la condannava il fatto di sapere molte cose sul funzionamento interno del lager; ciò nonostante, «se [gli avessero dato] l’ordine di spararmi, penso che lo avrebbe fatto senza esitare un istante». Persino il controllo che egli esercitava su di lei era in un contesto di relativa amicizia («Quel tizio mi conosceva meglio di quanto non mi conoscessi io stessa»), ed essa gli rimase grata per averla trattata con un certo rispetto e per averla lasciata sopravvivere.
Le dottoresse sembravano avere osservato Mengele con maggiore attenzione e averlo forse capito meglio dei loro colleghi uomini, ma due uomini ebbero quelli che furono forse i rapporti più angosciosi con lui. Uno fu il dottor Nyiszli, il patologo, che descrisse tali momenti di stretto rapporto con Mengele nel modo seguente: «Un lungo pomeriggio trascorso in profonde discussioni col dottor Mengele, tentando di chiarire un certo numero di punti dubbi, [discussioni durante le quali] non ero più un umile... prigioniero e... difendevo e spiegavo il mio punto di vista come se fossimo a un convegno di medicina a cui io partecipassi a pieno titolo». I gesti amichevoli da parte di Mengele vennero a significare molto per Nyiszli, in quanto sembravano trasferire i due uomini dal rapporto di padrone-schiavo a un rapporto paritetico fra colleghi: «Io conosco gli uomini, e mi sembrava che il mio atteggiamento fermo, le mie frasi misurate e persino i miei silenzi fossero qualità per mezzo delle quali ero riuscito a indurre il dottor Mengele, dinanzi al quale tremavano le SS stesse, a offrirmi, nel corso di una discussione particolarmente animata, una sigaretta, a riprova del fatto che per un istante egli aveva dimenticato le circostanze del nostro rapporto».51 Inoltre, un sopravvissuto osservò che Nyiszli e Mengele avevano «un rapporto molto stretto» e che si trovavano «molto a loro agio assieme».
Nyiszli fu però tutt’altro che a suo agio nel descrivere tale rapporto, oltre che alcuni dei crimini di Mengele, nella sua deposizione del 28 gennaio 1945 e nel libro da lui scritto successivamente (e pubblicato nel 1960). Il suo senso di disagio contribuì probabilmente a certe discrepanze che si rilevano fra i due documenti. Ma il suggerimento più forte, da parte di Nyiszli, dell’ambiguità della sua funzione come patologo di Mengele fu la sua posteriore dichiarazione: «Cominciai a svolgere il mio lavoro di patologo, sì... ma giurai che, finché fossi vissuto, non avrei mai più preso in mano un bisturi».52 In altri termini, benché Mengele fosse stato amichevole verso di lui ad Auschwitz, Nyiszli sentì di avere pagato quel vantaggio rinunciando alla sua integrità medica.
Il dottor Alexander O. parlò vivacemente dei suoi primi incontri con Mengele («Non si sarebbe potuta avere un’impressione migliore»), che si mostrò educato, simpatico e competente nelle discussioni non solo su argomenti medici ma anche su temi letterari, addirittura su Flaubert. «Egli dimenticava chi fossi io», cosicché, quando i due uomini si trovavano assieme, «c’era solo un medico che si confidava con un altro». Il dottor O. pensava di essersi fatto un amico, ma «poi egli mi deluse». Quando Mengele gli rivolse domande sulla sua famiglia, il dottor O. gli disse che sua moglie era venuta ad Auschwitz con lui (cosa che Mengele intese senza dubbio nel senso che era stata uccisa), ma che i suoi figli piccoli erano ancora in Francia. Mengele allora saltò in piedi e gli chiese: «Perché non sono venuti qui anche loro?». O. mi guardò con aria grave e aggiunse: «Capisce che cosa significa?... Significa: perché non sono venuti qui a farsi gassare?». Mengele espresse una collera ancora maggiore nel sentire che i bambini erano stati nascosti da preti francesi, e a quel punto, come disse O., «mi deluse per sempre».
Eva C., l’artista, caratterizzò il suo rapporto con Mengele dicendo: «Ero la sua cocca!», volendo dire una persona che gli era utile e che era piacevole avere attorno (essendo una donna giovane, graziosa e intelligente). Mengele scoprì poi che la ragazza aveva a sua volta un «amichetto» da coccolare, un «cucciolo» che le era stato dato da un prigioniero maschio influente. Dapprima Mengele espresse irritazione: «Che cosa significa questo?». Ma quando essa gli disse che era suo si addolcì e disse che assomigliava a un pastore: «è simile a un cucciolo tedesco»; e addirittura vezzeggiò a sua volta il cagnolino e se ne andò senza dire nient’altro. Mengele si affezionò anche a due bambini nati ad Auschwitz e il momento più bello della sua giornata era quando, ogni mattina, andava a giocare con loro, anche se tutti sapevano che i bambini sarebbero poi stati uccisi. Eva C. portò ancor oltre la metafora, assimilando la situazione a quella di un ispettore (Mengele) che si reca a visitare un canile comunale per controllare i custodi (i medici prigionieri) e gli altri prigionieri (i cani):
Ed egli [l’ispettore] indicava per esempio un cumulo di sporcizia o qualcosa nelle gabbie... e diceva al custode di togliere gli escrementi, di lavare..., tenere pulito e mantenere i cani sani e ben nutriti. Guardi, questo non ha acqua, dovrebbe dargli del cibo... E ispeziona... queste camere dove essi [i cani] vengono uccisi, sa, e vede che si sta lavorando bene e dice: «Quanti siete? Beh, c’è troppo affollamento. Oggi è meglio metterne dentro altri due».
Eva C. continuò spiegando che, secondo la maggior parte delle persone, «ciò che accade nel canile comunale è sano e normale e non può essere fatto in alcun altro modo», che è la maniera in cui le SS, e specialmente Mengele, consideravano Auschwitz. Per Mengele, soprattutto, «si deve controllare ogni cosa... sino al punto dell’uccisione» e «tutto ciò che sfugge al controllo è sbagliato». Essa stava dicendo che Mengele non era solo il «custode medico» ad Auschwitz ma anche il custode della norma di Auschwitz. Gli piaceva circondarsi di creature simpatiche e utili da vezzeggiare, ma anch’esse, come tutto il resto, dovevano essere soggette a un controllo assoluto. Essa non credeva che Mengele fosse qualcosa di straordinario, ma «solo un uomo molto carismatico», sottintendendo però che solo ad Auschwitz egli avrebbe potuto sviluppare il suo carisma e diventare «Mengele». Eva C. pensava infatti che avesse delle qualità di grande attore. «Nella mia mente balenava Marilyn Monroe»: con queste parole essa si riferiva al suo culto dell’aspetto esteriore e alla sua tendenza a eroticizzare il contrasto fra la propria perfezione fisica e lo stato miserevole dei prigionieri. Essa non parlava di lui con animosità – nel complesso era stato simpatico verso di lei e le aveva permesso di vivere come meglio non si poteva ad Auschwitz –, ma alla fine essa disse qualcosa di caratteristico in relazione a Mengele e al suo controllo: «Vorrei chiederle di non rivelare dove abito perché so che è ancora vivo e potrebbe non essere molto contento sapendo che anch’io sono viva».
Fra gli internati c’erano molte congetture sulla vita sessuale di Mengele. Circolavano molte storie di prigioniere che lo avrebbero trovato estremamente attraente, ma Eva C. mi disse che «egli non aveva alcun interesse per le donne». Benché talvolta, interrogando donne gravide, manifestasse un interesse pruriginoso per particolari sessuali (secondo la dottoressa Lengyel «non perse mai occasione di fare alle donne domande indiscrete e sconvenienti»),53 parve ad altre remoto e puritano. Eva C. raccontò che una volta Mengele, davanti a un blocco, vedendo da dietro un robusto prigioniero nudo sino alla vita, gridò infuriato: «Che cosa sta facendo qui quest’uomo?». Allora il prigioniero, voltandosi, dimostrò di essere una donna (era una lesbica tedesca). Benché la donna gli parlasse con molta arroganza, Mengele «divenne solo estremamente confuso, rosso in viso, e disse: “Oh, continui pure!” e, fatto dietro-front, si allontanò». La dottoressa Lottie M. ricordò similmente che Mengele era molto più interessato degli altri medici SS all’omosessualità nel lager femminile, come pure in quello maschile.
I prigionieri avevano impressioni diverse sulla possibilità di influire su Mengele o addirittura di corromperlo. Un gruppo di loro si rallegrò ufficialmente con lui alla notizia che sua moglie gli aveva dato un figlio, ma pare che né il fatto di essere diventato padre né le congratulazioni ricevute abbiano indotto il benché minimo mutamento nei suoi atteggiamenti. Era convinzione diffusa che, come la maggior parte del personale delle SS, anche Mengele si fosse arricchito ad Auschwitz (contrariamente alle affermazioni di Ernst B. sulla sua completa integrità), ma che (come si espresse un sopravvissuto), mentre la maggior parte dei medici SS «prendevano e davano», Mengele «prendeva solo». I suoi atteggiamenti confusero spesso i prigionieri perché, come osservò Marie L., «nessuno riusciva a capire che cosa volesse».
Nonostante l’atteggiamento di collega che Mengele si compiaceva talvolta di assumere, la maggior parte dei medici prigionieri non si faceva alcuna illusione circa la possibilità di instaurare con lui un rapporto da pari a pari. Del resto la natura del loro rapporto è esemplificata nel modo migliore dall’episodio in cui Mengele esaminò con cura i glutei feriti di un medico prigioniero polacco e gli prescrisse farmaci per lavare e curare la parte, dopo essere stato lui a fargli infliggere venticinque sferzate per una presunta infrazione, e avere assistito all’esecuzione della pena.
Anche se in generale si riteneva che egli esercitasse un controllo assoluto sugli altri e su se stesso, Mengele poteva anche esplodere in accessi di riprovazione e di rabbia. La sua forma di colpevolizzazione della vittima consisteva di solito nell’incolpare il «collega» internato. Nella sua agitazione per l’annientamento del lager degli zingari, Mengele riunì un gruppo di medici prigionieri e li rimproverò severamente per diagnosi sbagliate, minacciando «Pagherete per questo!», se le autopsie avessero rivelato altri errori. Come commentò un medico prigioniero: «Fu qui che egli cessò di essere un collega, chiamandoci cani e maiali». A quel tempo il dottor Marek P. ricordò che Mengele aveva detto specificamente che «era colpa nostra» se doveva liquidare gli zingari. P. credeva che Mengele fosse sconvolto perché aveva lavorato molto su gemelli zingari e «d’improvviso tutto era liquidato», cosa che creava in lui il bisogno di «trovare un gruppo su cui liberare [proiettare] i suoi sentimenti di responsabilità per quanto stava accadendo».
Similmente, la dottoressa Lengyel mi disse che, subito prima della liberazione del campo, Mengele si recò al blocco medico delle donne e «dichiarò che, a causa della nostra negligenza, l’epidemia di tifo aveva raggiunto proporzioni tali da minacciare l’intera regione di Auschwitz». Nella corsa che seguì alla preparazione di siero e vaccinazioni, Mengele «ci accusò di sabotare le vaccinazioni» e «di fatto le interruppe». A volte accusava i medici prigionieri di «non visitare abbastanza pazienti» e altre volte di «prestare troppe cure ai malati e sprecare medicine di cui c’era scarsità».54 Benché l’abitudine di incolpare le vittime fosse presente in molti medici SS, in Mengele tanto l’accusa quanto la rabbia erano richieste specificamente dal suo modo di interpretare e di sentire le cose.
Così, la dottoressa Gerda N. disse che Mengele, in un accesso improvviso di rabbia, «fu quasi sul punto di strozzarmi, mettendomi le dita attorno al collo, accusandomi di prestare poche cure ai pazienti e gridando: “Moriranno! E la responsabilità ricadrà su noi tedeschi!”». La dottoressa N. aggiunse: «Voleva darci uno spettacolo... [per] indurci a credere che i tedeschi fossero veramente interessati... alla gente qui», e anche, aggiungerei, per poter ancora sostenere la sua immagine della virtù nazista.
La dottoressa N. raccontò anche che, quando Mengele entrò in una stanza di un blocco medico femminile per chiedere al medico prigioniero capo di selezionare un gran numero di malate di tifo per la camera a gas, aveva in pugno una pistola. Essa aggiunse peraltro che, ogni volta che Mengele entrava nella sua stanza con un medico prigioniero, anche quando non aveva in mano una pistola era come se gli stesse puntando metaforicamente un’arma alla testa. Egli poteva fare le sue minacce, dirette o indirette, conservando per lo più al tempo stesso l’illusione di mantenere un rapporto da collega a collega, e questo grazie al comportamento rispettoso che usava nei confronti dei medici prigionieri.
Un’altra dottoressa prigioniera espresse la sua angoscia per il fatto di essere stata manovrata da Mengele con una serie di crudeli inganni. Una volta egli le chiese di fare un elenco delle donne gravide per poter dar loro latte e mandarle in un campo migliore, così che potessero avere «bambini sani»; dopo che essa, nonostante un certo scetticismo, ebbe finito con l’accedere alla richiesta, le donne furono trasferite nel «Blocco H» (Himmelsblock [«blocco del cielo»]), da cui passavano inevitabilmente o nel crematorio o in un blocco di ricerca. Un esempio di quello che essa definì l’atteggiamento «diabolico» di Mengele fu la sua apparizione a una festa ebraica per annunciarvi: «Questa è la Tishahb’av [la commemorazione della distruzione del Primo e Secondo Tempio]» e «Ci sarà un concerto». Ci fu un concerto, cui seguirono un appello e una selezione enorme, cosa che la indusse a chiedersi amaramente: «Perché dovremmo ascoltare musica mentre stiamo per essere cremati?».
Essa sottolineò che il comportamento di Mengele era pianificato con cura: «Egli doveva averlo messo per iscritto: musica; seduti; Zählappel [appello per numeri]; crematorio». Tutto questo faceva parte, secondo lei, del suo «gioco sadico», perché «ogni passo compiuto da Mengele era una base psicologica per una tortura». E, rispetto ad altri medici SS, Mengele era «più sadico... più raffinato. Era più complesso... perché doveva conoscere la psicologia».
A volte il sadismo psicologico poteva essere scoperto, come quando egli disse a una donna ebrea, che lo supplicò, senza successo, di lasciar vivere il suo vecchio padre, anche lui medico: «Suo padre ha settant’anni; non pensa che abbia vissuto abbastanza?». O, a una donna malata: «Lei è mai stata “dall’altra parte”? Com’è di là?... Lei lo saprà molto presto!».55
Mengele mantenne queste forme di «colleganza» mortale sino alla fine. Una dottoressa dice di averlo incontrato, dopo l’evacuazione di Auschwitz, nell’ambulatorio di un lager in Cecoslovacchia. Mengele, riferendosi a una paziente debole di mente, le disse: «Se lei fosse intelligente, [capirebbe che questa donna]... potrebbe avere la febbre, potrebbe aver bisogno di medicine», intendendo dire che «voleva trovare... una ragione per liberarsi di lei [o un mezzo per farlo] perché era un’idiota... e [sottintendeva] che noi eravamo così stupide da non capire». E aggiunse, con meraviglia: «Pensi solo... che a quel tempo era già una belva braccata, e ciò non significava niente per lui. Egli doveva ancora trovare un modo per uccidere qualcuno».
I medici prigionieri si trovarono a dover lottare con le contraddizioni straordinariamente profonde di Mengele, col suo manifesto sdoppiamento. Il dottor Abraham C. si sentì costretto a sollevare «la grande domanda che noi poniamo a noi stessi: Era un uomo gentile, buono con i bambini, buono in generale, che era spinto a fare le cose che faceva solo dalla sua passione per la ricerca? Oppure era un mostro che recitava una parte con i bambini solo per nascondere meglio il suo gioco, per raggiungere più facilmente i suoi scopi?». Anche se ben pochi prigionieri accetterebbero la prima caratterizzazione, neppure la seconda è soddisfacente. Il dottor C. le rifiutava entrambe, e continuava esprimendo il principio dell’insondabilità da me citato all’inizio di questo libro (a p. 31). Mengele fu per il dottor C. la fonte e il compendio di questo principio di insondabilità, anche se egli pensava che lo stesso principio dovesse applicarsi, oltre che a Mengele, a gran parte di ciò che accadde ad Auschwitz.
Similmente, la dottoressa Magda V. parlò di Mengele come di una «personalità scissa». Essa conosceva le relazioni di altri sulla sua brutalità e non aveva «alcun dubbio» sul fatto che potesse esserne capace ma, aggiunse, ciò non avvenne «mai in mia presenza». Quando continuò chiedendosi se la sua presenza non potesse avere esercitato un «effetto umanizzante» su Mengele e su altri medici SS per il fatto che «io trattavo tutti [prigionieri e medici SS] come esseri umani», stava esprimendo un altro principio dello sdoppiamento: l’importanza per ciascuno di vedere il proprio sé confermato da altri. La parola «doppio» fu effettivamente usata dal dottor Alexander O. nei suoi sforzi angosciosi per trovare un terreno d’intesa con Mengele:
L’uomo doppio (l’homme double). Il doppio (le double): in altri termini, egli aveva tutti i moti affettivi, tutti i sentimenti umani, la pietà e via dicendo. Ma nella sua psiche c’era una cella chiusa ermeticamente (une cellule hermétiquement fermée), una cella impenetrabile, indistruttibile, che è l’obbedienza all’ordine ricevuto. Egli può gettarsi in acqua per salvare uno zingaro, tentare di guarirlo... e poi, appena usciti dall’acqua, dirgli di salire sull’autocarro e portarlo in gran fretta alla camera a gas.
Il dottor O. identificò non solo lo sdoppiamento del sé ma anche il ruolo centrale svolto in tale processo dall’ideologia di Mengele (anche se si limitò a un semplice accenno in proposito). Come O. continuò a spiegare: «Mengele amava molto gli zingari. Amava i bambini zingari, che lo chiamavano “zio Mengele”». Ma sapeva che il Reichsführer [Himmler] aveva ordinato una morte lenta degli zingari, e Mengele era il tipo d’uomo... da credere che gli ordini dovessero essere eseguiti». Non avendo chiaro questo concetto una persona come Teresa W., che era esposta alla cortesia di Mengele, ma al tempo stesso accettava la verità delle relazioni sui suoi esperimenti e sul suo comportamento crudele, doveva finire col dichiarare dolorosamente: «Non riesco a capirlo!». Oppure i prigionieri potevano tentare di spiegare le sue contraddizioni sviluppando una loro propria teoria razziale: per esempio, si diceva che egli fosse più gentile con gli zingari che con altri perché «era egli stesso d’origine zingara», una voce che si conciliava col suo colorito scuro e il suo aspetto non ariano.
Eva C. disse, con considerevole sensibilità, che la propria esperienza psicologica di prigioniera l’aveva aiutata a capire Mengele. Essa sottolineò che anche i prigionieri cominciarono «a comportarsi così... come se fossimo dentro una sorta di corazza» e come lei stessa, vedendo nel blocco dei malati donne grottescamente deboli che tendevano le braccia e supplicavano: «Aiutatemi! Aiutatemi», si sentisse «un po’ imbarazzata», poiché pensava: «Noi siamo qui per morire. Che cosa intendi dicendo: “Aiutatemi”?». Poi poté aggiungere: «Il fatto che queste persone avessero in realtà conservato la loro salute mentale [chiedendo aiuto] e che fossi io a dare i numeri... non mi passò mai per la mente. Sa, ero già toccata da quell’intera mentalità [di Auschwitz]». Eva C. continuò a spiegare che sia i medici SS sia i prigionieri erano presi in quell’ingranaggio: «Perciò potei capire Mengele». Auschwitz era «un pianeta diverso» le cui regole capovolgevano totalmente quelle della società comune: secondo le regole di Auschwitz, «noi eravamo là per morire e non per vivere». E «per poter accettare di essere dove eravamo, dovevamo passare... a un tipo di mentalità diversa, a un diverso tipo di atteggiamento». Anche i medici SS dovevano compiere una transizione simile, nel loro caso con l’aiuto della precedente immersione nell’ideologia nazista. «Essi erano ben preparati.» Essa riuscì a capire qualcosa dello sdoppiamento omicida nei medici nazisti riconoscendo forme limitate e benigne di un processo affine in atto in se stessa e in altri prigionieri.
Benché tutti i medici nazisti abbiano subìto uno sdoppiamento ad Auschwitz, Mengele fu speciale per l’incompatibilità apparentemente estrema delle due componenti del suo doppio sé, oltre che per la straordinaria energia che poté mobilitare all’interno di tale adattamento. Il suo sdoppiamento fu accentuato da certi tratti psicologici. Io ho in mente tre caratteri dominanti del processo che operò sul suo sé: le sue tendenze schizoidi, la sua capacità straordinaria di mettere a tacere la sua coscienza e il suo impulso verso il sadismo e l’onnipotenza (che risultano essere strettamente connessi fra loro). Eva C. ci mette in contatto con quei tratti per mezzo di una descrizione artistica dell’uomo, una descrizione che rovescia completamente la situazione su Mengele e fa di lui un soggetto antropologico:
Assomigliava a Peter Sellers, ma in meglio... La sua testa era simile a quella di un gatto. Era stempiato. I capelli gli formavano una punta sulla fronte, capelli castani scuri, occhi castani. Le sopracciglia formavano una sorta di accento circonflesso, che gli davano l’aspetto di un gatto. Usando la terminologia di Mengele, direi che aveva una bocca a forma di M; naso diritto, corto, regolare-medio; testa grande, larga; un segno sull’orecchio sinistro: un cerchietto piano sulla cartilagine dell’orecchio... I suoi occhi erano simili a quelli di Peter Sellers, come se fosse visibile solo metà dell’iride. Erano occhi morti.
Gli «occhi morti» facevano parte del tipo schizoide di Mengele, come forse anche il comportamento associato alle voci che egli avesse subìto una psicosi traumatica da battaglia o che la sua ferita di guerra fosse stata una commozione cerebrale; e si conciliavano inoltre con l’osservazione della stessa Eva C. che egli «sembrava venire da un altro pianeta e che fosse appena sceso da un’astronave».
Lo stato di ritiro in sé di Mengele si riflette anche nella descrizione che ce ne ha dato il dottor Marek P. come di un uomo che «non ti guardava mai negli occhi... [o] mostrava alcun segno di piacere... [ma] sembrava sempre... [avere] in mente qualcosa di diverso da ciò che stava facendo, anche quando stava parlandoti». Un tratto affine è quello, rilevato da un altro medico prigioniero, della «fulmineità con cui passava, in una frazione di secondo, dall’attenzione e dalla giovialità, da un lato, al cinismo e alla brutalità dall’altro».
In una persona schizoide ci si attende un intorpidimento psichico considerevole, ma nel caso di Mengele questo intorpidimento era estremo. Come si espresse la dottoressa Lottie M.: «La cosa principale in lui era la totale mancanza di sentimento, di capacità di immedesimazione» in relazione agli orrori di Auschwitz a cui stava partecipando. Come essa continuò a spiegare: «Il fatto è che... [nel] suo disprezzo per tutti, eccezion fatta per i medici, egli non vide mai dinanzi a sé una persona». Sembrava perciò che non avesse legami personali. Il dottor Alexander O. disse che aveva «occhi indifferenti... indifferenza al dolore». Teresa W. disse che il suo volto non esprimeva alcuna emozione. E le voci sulla sua impotenza, l’impressione che non avesse «alcun interesse per le donne», fossero o no vere, riflettevano la forte impressione dei prigionieri della sua generale mancanza di sentimenti umani.
Il sadico è colui che prova piacere nel causare dolore, e noi abbiamo già visto molte espressioni diverse di questa tendenza in Mengele. Persino la cura da lui dedicata all’abbigliamento e il gusto per la teatralità, in un ambiente come quello del lager, potrebbero essere intesi come qualcosa di assai prossimo al sadismo. Questo atteggiamento viene spesso chiamato anche «narcisismo»: nell’uso popolare è un’attenzione estrema verso se stessi, in contrapposizione al significato psicoanalitico tecnico dell’energia sessuale (o «libido») diretta verso il proprio corpo o verso la propria persona. Nel caso di Mengele si ha l’impressione che tanto il «narcisismo» quanto il sadismo fossero connessi al suo impulso profondo verso l’onnipotenza, verso il controllo totale del suo ambiente, e specificamente verso il tipo di controllo sulla vita e sulla morte possibile a un medico SS ad Auschwitz.
In effetti, non si potrà mai insistere abbastanza sull’importanza dell’ambiente di Auschwitz nell’attivare tutti questi tratti: tendenze schizoidi, ottundimento emotivo e la combinazione sadismo-onnipotenza. Vari medici prigionieri sottolinearono che, se non ci fosse stata Auschwitz, Mengele avrebbe fatto senza dubbio una brillante carriera accademica. Come si espresse Magda V.: «In tempi normali avrebbe potuto essere un professore tedesco con una punta di sadismo».
Nessun aspetto del comportamento di Mengele – e meno di tutto la sua capacità di infliggere dolore e di non provare alcun sentimento di umanità per le vittime – può essere compreso se lo si tiene distinto dal suo coinvolgimento nell’ideologia. A differenza della maggior parte dei medici SS, Mengele era un vero ideologo: un uomo che concepiva la sua vita al servizio di una visione più generale. Egli vedeva senza dubbio in se stesso un rivoluzionario nazista, un uomo impegnato nel compito audace di rifare il suo popolo e in definitiva anche la popolazione del mondo. Lui e quelli come lui differirono dai rivoluzionari precedenti per la loro invocazione alla biologia: Mengele esemplificò il rivoluzionario biologico nazista. Egli fece parte di un’avanguardia che considerò nobile la propria missione e che vedeva nel coraggio e nella crudeltà (o «durezza», come amavano dire i nazisti) verso i nemici o verso ostacoli di ogni genere delle virtù personali. Per un uomo come Mengele, la missione ideologica giustificava qualsiasi cosa.
Ecco perché la dottoressa V. poté definirlo «il nazista più assolutamente convinto fra tutti loro»; perché la dottoressa Lottie M. poté parlare di lui come di un «vero credente intellettuale», capace di lamentarsi della stupidità di singoli appartenenti alle SS «e nondimeno di credere in teorie [razziali]... assurde»; perché Eva C. poté dire che «dopo Hitler, era lui il più convinto»; e perché il dottor O. poté chiamarlo «il robot di Hitler».
Come sottolineò costantemente il suo amico dottor B., Mengele fu un antisemita estremo. Egli considerava gli ebrei un popolo altamente dotato che era impegnato in una lotta all’ultimo sangue contro i tedeschi ariani. Il suo antisemitismo faceva parte del vasto spettro ideologico della teoria razziale: il dottor B. lo espresse in modo chiaro quando disse che «Mengele era pienamente convinto che l’annientamento degli ebrei [fosse] una misura per garantire la guarigione del mondo, e della Germania». E il dottor Jacob R. vide in Mengele un mistico delle SS convinto che, «se si fossero annientati tutti gli ebrei, la vittoria sarebbe venuta da sé».
L’antisemitismo di Mengele era assoluto e immediato. Fra i medici SS, secondo il dottor B., Mengele parlava con derisione del fatto di trattare troppo bene i prigionieri ebrei e diceva che Auschwitz sarebbe diventata una «casa di cura per ebrei». La dottoressa Magda V. disse: «Penso che in realtà egli ci odiasse» e «trattava gli ebrei come animali da laboratorio, non del tutto umani» perché «in realtà noi eravamo ai suoi occhi biologicamente inferiori».
Ideologi come Mengele possono apparire «freddi e cinici» per la loro insensibilità al dolore degli altri quando esso non sia al servizio di un «fine superiore». Essi possono presentare per la stessa ragione anche elementi di pragmatismo, come fu certamente nel caso di Mengele. Il fanatismo ideologico, inoltre, non è incompatibile con l’ambizione personale. Benché Mengele possa essere stato un «buon soldato» per le SS (come si espresse il dottor N.), esente dalle «false ambizioni delle SS», sappiamo che aveva però ambizioni molto reali, connesse con la sua ideologia e col suo presuntuoso desiderio di essere riconosciuto come un grande scienziato.
Ben pochi contesterebbero l’osservazione del dottor Nyiszli circa il «cinismo» e il «male» presenti in Mengele, o il suo giudizio che egli sia stato «un medico criminale».56 Ma tale cinismo e criminalità, tale ottundimento e onnipotenza furono altrettanti tratti connessi a quella che troppe persone in Germania e altrove percepirono a quel tempo come una visione del futuro vincolante, e persino nobilitante.
Più di qualsiasi altro medico SS, Mengele ad Auschwitz realizzò se stesso. Ivi egli si trovò in una situazione particolarmente congeniale: vi trovò espressione per i suoi talenti, così che ciò che in lui era stato potenziale divenne attuale. Intelligente ma non certo un gigante intellettuale, ad Auschwitz Mengele trovò espressione e riconoscimento al di là del suo talento. La dimensione importantissima di Auschwitz si aggiunse ai suoi tratti psicologici e alle sue convinzioni ideologiche anteriori per creare una versione del «sé di Auschwitz» come medicouccisore-ricercatore di un’intensità unica.
Mengele prese possesso, massimizzandola, dell’autorità onnipotente detenuta da ogni medico SS ad Auschwitz. Egli poté fornire un’interpretazione efficace e naturale nello sfoggio di tale onnipotenza perché in essa venivano a fondersi senza sforzo i tratti e l’ideologia da lui portati nel campo di concentramento. Ad Auschwitz, Mengele era «l’uomo giusto al posto giusto al tempo giusto». Le sue energie non meno che la sua ambizione furono galvanizzate dalla sincronizzazione di tutte le sue facoltà che si realizzò nel lager. Di qui il commento di un prigioniero (citato in precedenza) secondo cui «egli ebbe sempre l’aria di... [un] uomo... che fa il suo lavoro e che lo fa bene e [che] non ha mai avuto il minimo dubbio su di esso». O, come si espresse il dottor Jan W.: «Questa era la sua cosa grande qui, la sua Auschwitz, ed egli godette nel farla».
Per quanto possa essere stato atipico come rappresentante dei medici SS nei campi di concentramento, Mengele divenne lo spirito di Auschwitz, il personaggio più sintonizzato col luogo, un esempio per gli altri. Ecco perché fu scelto da Wirths e da Weber (nonostante i suoi conflitti col primo) per essere la guida spirituale di Delmotte, la persona che poteva convincere il medico riluttante della virtù e della necessità di compiere le selezioni. Ed ecco perché poté aiutare il dottor B. ad adattarsi ad Auschwitz e poté essere un’«ispirazione» per lui nonostante le loro differenze ideologiche e di carattere.
Soprattutto, Mengele poté combinare la sua ideologia e le sue energie mediche per imporre una logica all’intero processo di uccisione di Auschwitz. Osservando il suo perfetto adattamento al luogo e le energie che esso liberava in lui, altri medici SS, e in una qualche misura anche alcuni degli internati, non poterono fare a meno di sentire a loro volta tale «logica» di Auschwitz. Lo stesso Mengele, ovviamente, sentì quella logica persino quando sollevò obiezioni a decisioni specifiche (come la distruzione dell’intellighenzia polacca e l’annientamento del campo degli zingari). Queste obiezioni si fondavano infatti su una visione nazista ideale, cui egli voleva che Auschwitz fosse conforme (pare, inoltre, che egli considerasse questi due gruppi essenzialmente «ariani»). La sua dedizione e disciplina ideologica furono tali che le sue obiezioni a certi aspetti della visione più generale della Auschwitz nazista non attenuarono mai – ma potrebbero addirittura avere intensificato – la sua fedeltà al nazismo. Scovando i bambini zingari che si erano nascosti per sottrarsi alla camera a gas e avviandoli brutalmente alla morte – quegli stessi bambini che aveva trattato fino a poco tempo prima con grande affetto – egli non dimostrava semplicemente la sua obbedienza agli ordini ma anche la sua lealtà verso una verità superiore, quali che potessero essere gli errori minori in essa contenuti. La logica di Auschwitz da lui propagata era connessa alla convinzione della legittimità e validità dei compiti che egli doveva svolgervi, ed era una logica «medica».
Questa convinzione era a sua volta una manifestazione del suo talento per lo sdoppiamento, un talento che aveva molto a che fare con le sue tendenze e inclinazioni schizoidi e con un atteggiamento di distacco e di insensibilità per le sofferenze umane: un talento che fu molto alimentato da Auschwitz come istituzione. Nella propensione di Mengele allo sdoppiamento, nella richiesta di tale sdoppiamento da parte di Auschwitz e nell’energica espressione che ne diede Mengele c’era, quindi, un processo autorinforzantesi, una retroazione positiva. La caratterizzazione di Mengele come del «perfetto SS» data dal dottor Tadeusz S. potrebbe benissimo essere modificata in «il perfetto fautore SS di Auschwitz e il suo medico-guida spirituale». Mengele avrebbe potuto diventare il precettore quintessenziale di Auschwitz perché le sue azioni esprimevano molto bene l’essenza del campo.
Fu proprio questa speciale vitalità conseguita da Mengele ad Auschwitz che il dottor B. designò come il «forte principio di vita» dello stesso Mengele: un principio di vita che comprese impulsi all’onnipotenza e al sadismo di rara intensità, a cui anche troppo facilmente egli poté dare libero sfogo ad Auschwitz. Nonostante tutta la cura «narcisistica» per se stesso e le rimuginazioni sui suoi «occhi morti», Mengele fu probabilmente il medico nazista più vivo ad Auschwitz. Parlando di lui come di un «medico che recitava la parte di Dio», un medico prigioniero colse il senso che Mengele aveva di se stesso come la materializzazione di un principio spirituale più vasto, l’incarnazione di una sacra divinità nazista: sia che questa fosse una visione ideologica del futuro o il Führer stesso.
Questo processo di demonizzazione, iniziato nel modo di comportarsi di Mengele ad Auschwitz, ci aiuta a capire la sua aura e il suo significato per gli internati di Auschwitz, oltre che per noi stessi oggi. Qui torniamo alla leggenda di Mengele: l’immagine di Mengele come una divinità del male.
Quando Hochhuth presentò il «suo» Mengele dicendo che si limitava «solo a recitare la parte di un essere umano», tentava in realtà di semplificare il nazismo costruendo una figura di un male così puro da non appartenere più alla categoria degli esseri umani. Un esemplare del genere distilla e chiarifica il male, e noi sappiamo abbastanza di Mengele per affermare che egli è qualificato per rientrare in questa categoria. Ma persino Mengele ha manifestato troppi aspetti familiari di un comportamento umano perché possiamo accontentarci di lasciarlo in quel ruolo leggendario e rinunciare, con Hochhuth, a ogni ulteriore «tentativo di descrivere i suoi tratti pseudoumani».57 Ho già spiegato il mio rifiuto della leggenda di un male a-umano puro, per quanto essa possa essere chiarificante, a vantaggio di un tentativo di scandagliare le motivazioni e il comportamento di Mengele. Ora torno sulla leggenda solo per esplorare altri aspetti della funzione di Mengele come candidato ideale a questo culto della personalità demoniaca.
In certi momenti ad Auschwitz i medici prigionieri sentirono il bisogno di negare a Mengele il suo status di medico: «Era un mostro, punto e basta. Non era un medico più di quanto fosse qualsiasi altra cosa», così si espresse il dottor Abraham C.: «Un mostro e... da lui potevano venire solo male o calamità».
Una prigioniera sopravvissuta riuscì a comunicare qualcosa dell’aura di Mengele quando disse: «Egli rappresenta ciò che questo [Auschwitz] rappresenta per noi»; in altri termini, Mengele è Auschwitz. Un’altra parlò di lui dicendo che era «così terrificante» da essere «più simile a un’astrazione». Per darmi un’idea del significato che aveva per lei Mengele, mi lesse un suo breve racconto, fondato su un ricordo infantile: quello del vano tentativo, quando era una bambina, di rabbonire un ragazzo prepotente che terrorizzava lei e altri bambini ebrei, ragazzo a cui, nonostante i suoi sforzi, non riuscì a rendersi simpatica. Dopo di che concluse: «Mengele era temuto... era ammirato. Cercavamo di piacergli..., quasi come se si trattasse di sedurlo». Lo stile di onnipotenza di Mengele, quindi, produceva sia terrore sia una certa misura di ammirazione, una combinazione particolarmente idonea ad alimentare una leggenda, ma da cui gli individui hanno molta difficoltà a districarsi.
Aggiunge qualcosa all’aura di Mengele la mitologia della sua fuga. Secondo una voce falsa, «quando il campo fu liberato egli si prese il tifo»: «Quando era convalescente, fuggì».58 In realtà Mengele se ne andò da Auschwitz prima dell’arrivo dei russi, ma la mitologia continua in relazione ai luoghi in cui si pensa che sia stato visto dopo essere andato via da Auschwitz – Ravensbrück, Dachau, un piccolo lager in Cecoslovacchia – quale che possa essere la sicurezza di ciascuna di queste identificazioni. La leggenda della sua fuga è amplificata dal suo apparente disprezzo per le autorità del periodo postbellico – e per la giustizia: egli sarebbe infatti vissuto per anni nella sua casa in prossimità di Günzberg, protetto dalle autorità locali e dall’influenza della sua famiglia –; dalle sue successive imprese in Sudamerica, fra cui la pratica della medicina sotto vari nomi in vari luoghi, la capacità di sparire giusto in tempo per prevenire l’estradizione dall’Argentina alla Germania Occidentale, la sua consulenza a dittatori (come il presidente del Paraguay, generale Alfredo Stroessner, di origine tedesca) su questioni come l’annientamento delle popolazioni indie locali; dall’aver superato in astuzia una giovane donna, spia di Israele, che tentò di sedurlo per poterlo uccidere o catturare, e che fu trovata uccisa; da voci del suo coinvolgimento in un esteso traffico di droga condotto da nazisti nell’intero Sudamerica; e da varie relazioni di persone che si sarebbero incontrate con lui e avrebbero parlato con lui in Paraguay, relazioni le quali suggeriscono che egli avesse ancora influenza su una locale comunità tedesca, se non nazista, e inoltre che stesse preparando le sue memorie, nelle quali difendeva le azioni da lui compiute nell’intero corso della sua vita. Quale che fosse il misto di verità, esagerazioni e falsità, la sua leggenda andò crescendo.
Per molti sopravvissuti, Mengele era venuto a rappresentare a tal punto il male di Auschwitz che la loro vita avrebbe potuto riacquistare significato solo con la sua cattura e il suo processo. «Mi piacerebbe vivere sino a vedere il suo processo, e poi potrei morire»: così si espresse un medico prigioniero. Aggiungendo che «un essere umano dovrebbe sapere..., gli si dovrebbe dire che le sue azioni sono cattive [perché], dopo tutto, non c’è solo la giustizia celeste, ma anche la giustizia terrena», egli si sforzava di andare oltre la leggenda, sino all’uomo. Il gemello Simon J. andò più direttamente al cuore della cosa, osservando: «Vorrei avere un bel posto in prima fila e ascoltare i dibattimenti [perché] lo temo in modo totale... Per me, egli è la chiave per il mio senso di paura per tutto ciò che è tedesco». E poi, il punto cruciale: «Mi interesserebbe molto udire i particolari e vederlo passare per questa metamorfosi di ritrasformarsi in una persona anziché essere sempre Dio Onnipotente». Un altro sopravvissuto espresse un desiderio simile, che Mengele giungesse finalmente a capire che «proprio questo è ciò che è accaduto», e poi aggiunse: «Dopo di ciò potrei forse trovare la pace con me stesso».
Il processo immaginato di Mengele implicava, quindi, sia la leggenda sia l’uomo: nel caso di Mengele la giustizia avrebbe significato la restaurazione di un cosmo giusto: un modo per riparare a quella grande «ferita nell’ordine dell’essere» che, secondo l’espressione di Martin Buber, era stata Auschwitz. Esso venne anche a significare la desacralizzazione di una terribile divinità: il dio doveva essere reso non solo umano ma vulnerabile alla verità e alla retribuzione. Soltanto allora, molti sopravvissuti che erano stati resi impotenti al punto da sentire la loro umanità virtualmente annientata: soltanto allora essi avrebbero potuto recuperare la libertà dal suo controllo, sperimentare un senso di vitalità, sentirsi vivi. Alcuni di quei sopravvissuti, esplorando quale significato Mengele avesse avuto per loro, insistettero nel pensare a qualcosa che andava al di là di lui. Il dottor Henri Q., pur essendo ben consapevole che Mengele era stato «un uomo terribile» e «il nome che si sentiva pronunciare più spesso ad Auschwitz», nondimeno mi mise in guardia dal concentrarmi eccessivamente su di lui, perché Auschwitz doveva essere capita come un’«impresa collettiva». Una dottoressa prigioniera mi trasmise lo stesso messaggio: «Non c’è un Mengele solo. Tutti loro fanno parte di Mengele: tutti i medici». Essa voleva dire che ciò che era così vistoso in Mengele, moralmente e psicologicamente, era presente anche se in forma mutata in tutti i medici SS ad Auschwitz. Possiamo dire, quindi, che benché Mengele sia perfettamente qualificato a rappresentare in modo esemplare la «Auschwitz medica», dobbiamo però servircene come di un aiuto a svelare, e non ignorare, il male più vasto delle verità di Auschwitz.
Altri sopravvissuti invocarono il personaggio di Dorf (nel film televisivo del 1978 Holocaust [Olocausto]),59 un carrierista intelligente che sale nella gerarchia delle SS fino a diventare una figura-chiave nell’annientamento degli ebrei. La dottoressa Lottie M. disse che Mengele, come Dorf, era «molto freddo», «ben fatto», un «bel ragazzo»; e che, benché Mengele fosse più ideologico, poteva ben immaginare che avesse fatto quel che Dorf faceva nel film, fornendo l’eufemismo Endlösung, o Soluzione finale, per l’eccidio di massa. La dottoressa Magda V. fu colpita dalla somiglianza di Dorf con i medici nazisti: «Non era un mostro..., nessuno di loro lo era, sa», ma solo un essere umano fallibile e corruttibile. Mengele era il più simile, ma concluse: «Penso che essi [i medici nazisti] fossero altrettanti Dorf».
Anche l’avere riconosciuto Mengele e altri medici nazisti in questo personaggio credibile del film contribuì a portare a compimento la metamorfosi da divinità a essere umano; Mengele poté quindi essere visto come un essere umano dotato di talento per manovrare, la cui ambizione era stata potentemente stimolata dall’ambiente di Auschwitz, e che sterilizzò il progetto di uccisione al cui servizio aveva operato con tanta efficacia.
Le rivelazioni emerse nel 1985 – al tempo della scoperta del suo cadavere – sulla vita di Mengele dopo la fine della guerra, in Europa e specialmente in Sudamerica, incidono poco sulla sua valutazione.60 Dal figlio nato quando Mengele lavorava ad Auschwitz, e da qualche persona che gli offrì sostegno o rifugio, abbiamo l’immagine di un uomo sempre più in fuga: dapprima in grado di manovrare efficacemente e di far perdere le proprie tracce ma poi, col passare degli anni, sempre più solo, disperato, impaurito, timoroso di essere cacciato dagli ebrei, a volte persino sul punto di suicidarsi. Non aveva più il palcoscenico di Auschwitz su cui esibirsi. In luogo di esercitare un controllo assoluto sugli altri, aveva perso virtualmente il controllo persino sul proprio destino. Non sorprende che fosse rimasto un ideologo fanatico; ma quando i suoi diari cadono in declamazioni sulla scienza e sulla religione, egli ci appare sempre più una caricatura ideologica di una caricatura. Eppure era stato capace di nutrire degli affetti: verso il figlio, che all’età di dodici anni poté vederlo in un breve incontro (nel corso del quale egli gli fu presentato come uno zio); verso la cognata, moglie di suo fratello, che divenne la sua seconda moglie in quello che suo figlio descrisse come un «matrimonio d’amore»; e, molto tempo dopo, verso una governante alla quale chiese di vivere con lui ma che si rifiutò perché non voleva sposarla; e infine verso un branco di cani bastardi con cui gli piaceva passare del tempo e ai quali forniva un trattamento medico e chirurgico.
A quanto fu riferito, Mengele morì nel 1979 in Brasile in conseguenza di un attacco cardiaco mentre stava nuotando e fu sepolto sotto falso nome. L’identificazione fu fatta per mezzo di uno studio dei suoi resti, specialmente le ossa e i denti; ora, sotto il bisturi del dissettore, il suo corpo subì la stessa sorte delle spoglie delle sue moltissime vittime ad Auschwitz.
Questa conclusione fu però psicologicamente insoddisfacente, specialmente per i sopravvissuti di Auschwitz. Si sentiva il bisogno di catturarlo e portarlo in tribunale, di ascoltare la sua confessione, di averlo alla propria mercé. In mancanza di tutto questo, molti sopravvissuti si rifiutarono di credere che i resti rinvenuti nella tomba in Brasile fossero quelli di Mengele. Subito dopo tale identificazione, una donna, che aveva fatto parte dei gemelli studiati da Mengele, mi disse che semplicemente non credeva che la figura arrogante, altezzosa, da lei conosciuta ad Auschwitz potesse aver subìto un tale «mutamento di personalità» ed essere diventata l’eremita impaurito del Brasile. Quel che essa stava dicendomi, in effetti, era che né a lei né ad altri era stata fornita un’esperienza psicologica di quella «metamorfosi» da divinità del male a essere umano malvagio. Dopo tutto, però, abbiamo la storia di una metamorfosi: quella di un uomo privato del suo potere malefico, che va gradualmente sgretolandosi, nella sua vita mentale e fisica, diventando poi bruscamente e visibilmente un cadavere. Questa metamorfosi finirà inevitabilmente, nel corso del tempo, con l’imporsi alla mente dei sopravvissuti e anche di altri.
I molti aspetti di Mengele ad Auschwitz furono a un tempo parte della sua leggenda e fonte della sua dissacrazione. Nel lager egli poté essere un ideologo visionario, un funzionario della morte efficiente, uno «scienziato» e persino un «professore», un innovatore in molte aree, un carrierista diligente (come Dorf) e, soprattutto, un medico che divenne un assassino. Egli ci si presenta non come un demone, bensì come un uomo, un uomo la cui molteplice armonia con Auschwitz può fornirci una comprensione approfondita della capacità umana di convertire la terapia in uccisione, e indurci a una pausa di riflessione dinanzi a questa capacità.
a. Mengele arrivò ad Auschwitz il 30 maggio 1943 e l’assegnazione dei fondi fu approvata il 18 agosto 1943. Il documento di concessione descriveva in modo vago una ricerca come concernente «proteine specifiche» (spezifische Eiwesskörper); una seconda ricerca si proponeva come oggetto di studio «il colore degli occhi». Von Verschuer scrisse in seguito che la ricerca aveva «l’autorizzazione del Reichsführer [Himmler]» e che consisteva in «esami antropologici»; inoltre che «le analisi del sangue vengono inviate al mio laboratorio».10
b. In seguito, usando il termine «ricerca» in relazione a Mengele, eviterò il ricorso alle virgolette, ma si deve comunque intendere che secondo me la ricerca di Mengele fu sempre priva di una piena responsabilità scientifica (vedi specialmente le pp. 497-502).
c. Queste due donne, che avevano ancora un profondo senso di identificazione fra loro all’età di cinquantun anni, insistettero nel voler essere intervistate assieme; le loro voci registrate sono indistinguibili l’una dall’altra.
d. Ma la maggior parte delle descrizioni di sopravvissuti potrebbero essere confermate in termini generali e, quando non sia detto espressamente, io le considero essenzialmente accurate.
e. Certi gemelli, che non vivevano in alcuno dei blocchi regolari di gemelli, furono sottoposti a estesi esami da parte dell’équipe di medici prigionieri di Mengele. Un medico prigioniero, parlando dell’uccisione da parte di Mengele di un singolo gemello allo scopo di sottoporlo a un esame autoptico, mi disse che lui e i suoi colleghi prigionieri «sapevamo di tutti questi casi perché passavano per le nostre mani». Essi ricevevano poi la relazione dell’autopsia, «enormemente dettagliata: tutti gli organi erano descritti in tutti i particolari»; e «ogni gemello in questo gruppo aveva la sua propria cartella, e l’esame autoptico era l’ultimo documento del gemello nella cartella». Il gemello doveva essere ucciso, almeno in certi casi, per completare la cartella della ricerca su di lui.
f. Può darsi che una quantità significativa di questi materiali sia caduta effettivamente in mani sovietiche: si ritiene infatti che i sovietici conservino – o almeno che abbiano conservato in principio – un gran numero dei documenti di Auschwitz che non hanno reso disponibili ad altri o di cui non hanno neppure riconosciuto pubblicamente il possesso.
g. Mengele usò i gemelli anche come soggetti per studi di interesse antropologico più generale. Nel lager degli zingari, secondo il dottor Alexander O., Mengele «custodì... campioni di capelli [e] di occhi [di gemelli], apparecchiature per prendere impronte digitali, impronte di mani e di piedi» e «comparò i vari gruppi etnici di zingari».
h. La moglie del professore, a quanto mi riferì il dottor Helmuth von Verschuer, loro figlio, avrebbe chiesto una volta a Mengele se ciò che egli doveva fare ad Auschwitz fosse difficile, al che egli avrebbe risposto: «È orribile. Non posso parlarne».36 Questo ricordo è secondo me difficile da valutare e non dovrebbe essere considerato una chiara prova del fatto che Mengele non si sia trovato a suo agio ad Auschwitz.
XVIII
Posso dire di aver sempre fatto il mio dovere e di non avere mai fatto nulla che fosse contrario a quanto ci si attendeva da me.
Eduard Wirths
Eduard Wirths visse nel modo più diretto, e più estremo, il conflitto e il paradosso di terapia e uccisione proprio di Auschwitz. Uomo di buona reputazione come medico scrupoloso, e descritto dagli internati che poterono osservarlo da vicino come «gentile», «coscienzioso», «perbene», «educato» e «onesto», fu lo stesso uomo che fondò il sistema delle selezioni al campo e che adottò la copertura medica per l’eccidio, oltre a esercitare una supervisione sul processo complessivo durante i due anni nei quali si compì lo sterminio di massa. A causa di tale dicotomia, egli fu uno dei pochi medici di Auschwitz di cui si parlò spesso come di una figura non solo criminale ma «tragica». Secondo Hermann Langbein, il prigioniero politico che fu suo segretario sia a Dachau sia ad Auschwitz, egli fu l’unico medico nazista ad Auschwitz che si rifiutò di cedere alla corruzione ivi dilagante e che non vi si arricchì. Fin dal tempo del suo primo incontro con Wirths a Dachau, Langbein fu colpito dalla sua coscienziosità come medico e lo considerò completamente diverso dagli altri medici SS.1
Egli si differenziò dagli altri anche nella storia della sua morte: non per il modo in cui morì (un numero considerevole di medici nazisti si suicidarono) ma per ciò che si verificò subito prima di essa. È stato riferito (cosa che corrisponde forse a verità) che un ufficiale dei servizi segreti inglesi, membro del gruppo a cui Wirths si arrese, lo salutò e poi disse: «Ora ho dato la mano all’uomo che... porta la responsabilità della morte di quattro milioni di persone». Quella notte Wirths si impiccò; benché soccorso, morì due o tre giorni dopo, nel settembre 1945.2
Potei apprendere molte cose sul dottor Wirths da una grande varietà di fonti: da interviste a due familiari, ad altri medici SS che lo conobbero ad Auschwitz, e da medici prigionieri e altri internati che ebbero contatti con lui nel lager; dai suoi propri scritti, sotto forma soprattutto di lettere rivelatrici da lui scritte alla moglie e ad altri familiari da Auschwitz, e di una disperata difesa autobiografica da lui composta prima di essere preso in custodia; e da vari altri documenti e materiali processuali delle SS. Infine, una fonte importante di conoscenza su Wirths fu Langbein, nei suoi scritti e nelle nostre conversazioni.
Recentemente un documentario olandese ha esplorato la vita del medico capo e le sue attività ad Auschwitz sulla base dell’assunto che egli sia una figura-chiave per la nostra comprensione di Auschwitz e del comportamento dei nazisti in generale.3 Wirths ci fornisce un ventaglio di qualità tipiche di un «brav’uomo», diventato al tempo stesso una figura centrale in un progetto di un male senza precedenti.
Eduard Wirths era nato nel 1909 in un paesino vicino a Würzburg, nella Germania meridionale, ed era il maggiore di tre fratelli. Il padre, scalpellino, aveva impiantato un laboratorio per la lavorazione della pietra che aveva avuto un discreto successo ed era diventato una figura di rilievo in quell’area. Durante la Prima guerra mondiale aveva prestato servizio come portaferiti, e ne era uscito con una depressione e con sentimenti pacifisti, che senza dubbio si espressero (come disse un suo figlio) nel desiderio «di fare di noi tutti dei medici». (Anche un altro suo figlio divenne medico, e lo sarebbe diventato probabilmente anche un terzo se non fosse morto di cancro quando era ancora bambino.) Questo padre severo e riverito aveva idee liberali, che contribuirono alla creazione di un’atmosfera familiare di umanesimo e di socialismo democratico.
Fra i ragazzi, Eduard fu quello che più di tutti risentì dell’influenza del padre, diventando meticoloso, obbediente e insolitamente coscienzioso e solerte, caratteri che conservò nella sua vita adulta. Non fu né un fumatore né un bevitore e fu descritto come compassionevole e mite verso gli altri.
Eduard fu sempre uno studente encomiabile e diventò a quanto pare un ottimo medico. Lavorò specialmente in ginecologia sotto la guida di un professore ben noto, Hans Hinselmann. Pur avendo dimostrato talento come chirurgo, andò a fare il medico generico in un’area rurale vicino al suo paese natale, anche per il bisogno di mantenere una famiglia, avendo sposato la prima e unica donna con la quale avesse mai avuto un rapporto affettivo.
Attratto, da studente, verso idee nazionalistiche e völkisch, nel 1933 entrò nel Partito nazista e nelle SA e l’anno seguente chiese di essere ammesso nelle SS. Nazionalsocialista ardente e idealista,a si offrì volontario per servire nell’Ufficio del Land della Turingia per Questioni Razziali (Thüringisches Landesamt für Rassenwesen) a Weimar, perché, come scrisse su un modulo delle SS nel 1936, «ero particolarmente interessato alla genetica umana e all’igiene razziale». Scrisse anche del suo «amore per i compiti biologici fissati dalle SS». Pur essendo stato allevato nella religione cattolica e pur essendosi identificato inizialmente come tale sui moduli ufficiali, ripiegò in seguito sulla categoria preferita dai nazisti di «credente in Dio».4
A partire dalla fine degli anni Trenta, Wirths divise il suo tempo fra la professione medica (nella quale si dice che fosse così coscienzioso da sterilizzare i propri strumenti), posizioni mediche di Stato (nelle quali si era vicini al regime), lavoro medico a favore di tedeschi etnici che venivano «reinsediati» in Germania da aree orientali e il servizio militare, per il quale si offrì volontario. Entrato nelle Waffen ss nel 1939, prestò servizio in Norvegia e assistette ai combattimenti sul fronte russo finché, nell’aprile del 1942, fu dichiarato inabile al combattimento a causa di un’affezione cardiaca e, forse, di altre infermità.
Nei suoi anni giovanili Wirths ebbe verso gli ebrei un atteggiamento contraddittorio. La sua famiglia non era antisemita, ed egli non solo ebbe pazienti ebrei ma continuò a curarli anche dopo che fu dichiarato illegale che medici ariani avessero pazienti ebrei. Non essendoci medici ebrei nella sua area, gli ebrei si recavano nel suo ambulatorio di notte, di nascosto, a volte per farsi curare ferite che avevano subìto nel corso delle persecuzioni dei nazisti. Al tempo stesso, Wirths abbracciò però chiaramente le grandi linee di una concezione del mondo antisemitica nazista, venne a credere che «gli ebrei fossero un pericolo per la Germania» e a quanto pare conservò questo antisemitismo ideologico sino alla sua morte.5
Wirths trascorse brevi periodi di tempo a Dachau e a Neuengamme, due campi di concentramento in Germania, prima di essere inviato ad Auschwitz nel settembre 1942. La sua assegnazione ad Auschwitz come medico capo fu dovuta forse alla sua reputazione, poiché altri che avevano occupato quel posto prima di lui non erano riusciti a metter fine alle persistenti epidemie di tifo che colpivano sempre più il personale delle SS. Langbein descrisse in seguito Wirths come «un bravo medico con un senso spiccato del dovere, estremamente scrupoloso e prudente»; e persino Lolling, il suo superiore, che aveva atteggiamenti di antagonismo nei suoi confronti, lo descrisse come «il migliore medico di tutti i campi di concentramento», a cui il comandante Höss aggiunse il giudizio estremamente lusinghiero: «Nel mio decennale servizio presso i campi io non ne ho mai incontrato uno migliore».6 Benché l’umanitarismo medico di Wirths – l’interesse e l’amicizia da lui manifestati verso i pazienti prigionieri – non fosse stato certamente fra le ragioni che avevano ispirato la sua designazione a un posto importante ad Auschwitz, esso venne ad avere molta importanza, secondo Langbein, per molti internati.
Wirths fu all’altezza delle attese mettendo fine all’epidemia di tifo per mezzo di diffusi procedimenti di disinfezione e facendo ricorso alla cooperazione dei medici prigionieri nell’identificare, isolare e curare malati di tifo. Egli migliorò inoltre le condizioni nei blocchi medici, estese il lavoro dei medici prigionieri polacchi che si trovavano ad Auschwitz da un po’ di tempo e cominciò a permettere di svolgere attività medica anche al gran numero di medici ebrei che stavano arrivando al campo. Tutto questo era in accordo con la politica generale delle SS di mantenere una forza-lavoro ad Auschwitz; e Langbein trovò possibile appellarsi a Wirths chiedendogli provvedimenti che potessero salvare delle vite umane, sulla base di argomentazioni condotte da un punto di vista puramente medico.7
Per esempio, convinse Wirths a fare qualcosa per metter fine alle mortali iniezioni di fenolo, sottolineando che esse vanificavano l’adozione delle misure mediche contro il tifo perché i prigionieri, avendo paura del blocco medico, evitavano di farvisi ricoverare anche se erano malati e finivano in tal modo per contagiare altre persone (vedi pp. 352-353). Wirths, convinto, fece trasferire dal blocco medico ad altre mansioni le due persone che avevano maggiore responsabilità per le iniezioni: Entress, il medico delle SS che ne aveva ordinato la maggior parte, e Klehr, il sottufficiale che ne aveva eseguito più di chiunque altro.8
Wirths mantenne inoltre un atteggiamento protettivo verso i medici prigionieri e verso altri internati che svolgevano lavoro medico. Qualcuno una volta lo sentì rimproverare aspramente Irma Grese, la famigerata donna ufficiale nazista, con le parole: «Non percuota il mio personale!», quando la sorprese a sferzare una prigioniera che lavorava al blocco medico. E quando una kapò del Blocco 10 continuò a picchiare altre prigioniere, Wirths non solo la sollevò dall’incarico, ma diede un’autorità senza precedenti al capo medico, una dottoressa ebrea prigioniera, alla quale aveva affidato la direzione del blocco medico.9
Wirths difese la sua autonomia medica in un confronto col capo della Gestapo di Auschwitz, Maximilian Grabner. La sezione politica di Grabner aveva una prigione nel sotterraneo del Blocco 11, faceva fucilare periodicamente degli internati al «Muro nero», nel cortile compreso fra i blocchi 11 e 10, e riferiva poi ufficialmente che quei prigionieri erano morti per qualche malattia in infermeria. Venuto a sapere (con l’aiuto di Langbein) dell’esistenza di questo sistema, che aumentava considerevolmente la percentuale dei decessi registrati nei blocchi medici, Wirths si irritò e dichiarò: «La Sezione politica si deve prendere la responsabilità per i suoi morti». Essendo risultata la responsabilità, anche in questo, di Entress e di Klehr, specialmente attraverso la stretta connessione di Entress con la Gestapo, il loro trasferimento aiutò a risolvere anche questo problema. Questa situazione emerse durante la famosa inchiesta delle SS, diretta da Konrad Morgen, sulla corruzione ad Auschwitz (vedi pp. 197-198): il giudice diede ragione a Wirths perché le uccisioni al Muro nero, diversamente da quelle nella camera a gas, non erano considerate legali. Morgen appoggiò Wirths anche contro la richiesta di Grabner di uccidere le donne polacche gravide. In queste lotte contro Grabner e contro altri nemici ad Auschwitz, Wirths si appellò alla correttezza medica ma al tempo stesso aderì scrupolosamente a norme e regolamenti.10
Wirths usò anche in altri modi la sua autorità medica per salvare vite. Nei processi della Gestapo che si tenevano ad Auschwitz, testimoniò spesso della capacità medica di un imputato, di solito un civile polacco, di svolgere un lavoro utile, sostenendo quindi che si doveva consentire al prigioniero di entrare nel campo come un comune internato, anziché fucilarlo al Muro nero. Egli fornì anche testimonianze psichiatriche che andavano similmente a vantaggio dei prigionieri.
Wirths si sentiva chiaramente molto più a suo agio quando si trattava di affrontare problemi genuinamente medici, e Höss testimoniò della sua «lotta costante con la Sezione edilizia, alla quale chiedeva sempre miglioramenti e nuove costruzioni nei blocchi medici». Nel 1944 Wirths dedicò in effetti molto del suo tempo alla progettazione e costruzione di un nuovo ospedale militare delle SS. Nel settembre di quell’anno, con la guerra completamente perduta e le armate sovietiche non molto lontane, ci fu una cerimonia di inaugurazione dell’ospedale e Wirths fu promosso Sturmbannführer – o maggiore – delle SS: l’intera scena compendiò l’elemento di fantasia presente in questa rivendicazione del ruolo terapeutico. Ma, come osservò Langbein, era un compito puramente medico, e Wirths fu lieto di assolverlo.11
Wirths comunicava un’aura di scrupolosità morale: per esempio, fu l’unico fra i medici di Auschwitz ad attenersi alle razioni dei cibi del tempo di guerra. Egli prese costantemente posizione contro la brutalità e gli abusi arbitrari nei confronti dei prigionieri, era di solito molto severo nei confronti dei criminali comuni che prendevano parte a quegli abusi, e aveva molta più simpatia per i prigionieri politici comunisti come Langbein, nei quali poteva sentire il tipo di integrità che rispettava.
I due uomini svilupparono il tipo di legame di cui Langbein poté dire che si approfondì in «un rapporto personale».12 Di fatto, era probabile che un medico capo di un campo di concentramento o un medico delle SS altrimenti importante sviluppasse uno stretto rapporto con un segretario prigioniero, come accadde in situazioni parallele anche a Buchenwald e a Mauthausen. Fra gli elementi necessari allo sviluppo di un tale rapporto sembravano esserci la persistenza, in un medico delle SS, di un nocciolo di umanitarismo medico; l’incoraggiamento ufficiale da parte delle SS di una certa misura di cure mediche ai prigionieri per conservare una forza-lavoro; un segretario prigioniero che fosse intelligente, fidato e che avesse manifestato nella propria vita un impegno morale o ideologico (spesso era un prigioniero politico comunista); e una comune conoscenza della cultura tedesca. I legami fra medici capi e segretari prigionieri potevano essere rafforzati anche dalla comune capacità di adattarsi alla burocrazia.
I conflitti e i tratti caratteriali di Wirths lo resero vulnerabile all’influenza di una «personalità forte» (per usare le parole del dottor Tadeusz S.), com’era appunto Langbein, e quest’ultimo sfruttò sempre questo rapporto per migliorare la situazione degli internati in generale e del movimento clandestino dei prigionieri comunisti in particolare. Il loro rapporto permise a Wirths di conservare un senso umano di se stesso. Langbein e alcuni altri internati (fra cui Karl Lill, che rievocò questo fatto dopo la guerra) avevano a quanto pare un rapporto abbastanza amichevole con Wirths e con sua moglie da recarsi a casa loro ad Auschwitz, nel periodo in cui vi visse la famiglia di Wirths, e di giocare «a cavalluccio» (Reitpferdchen) con due dei loro figli piccoli. Nonostante la grande diversità della loro situazione, tanto Wirths quanto Langbein condivisero probabilmente la sensazione di stare lottando insieme in un ambiente saturo di morte.13
I conflitti emotivi presenti in Wirths, di cui ci occuperemo fra poco, erano chiari ai prigionieri che lo circondavano, come pure a volte il suo forte desiderio di andarsene. Langbein e altri tentarono di dissuaderlo in varie occasioni, insistendo sempre sul bene che egli aveva fatto ai prigionieri in contrapposizione alla temibile incertezza connessa al suo eventuale sostituto. Questi sforzi culminarono in una cartolina di Buon Natale che Langbein gli fece scrivere a mano in bella calligrafia e gli fece consegnare da un messaggero del campo di concentramento. Sulla cartolina erano scritti due versi di Franz Grillparzer, il drammaturgo viennese dell’Ottocento, che suonavano:
È così breve, ahimè, una vita umana,
L’umana sofferenza è così lunga!
Seguivano queste parole: «Nell’ultimo anno lei ha salvato la vita di 93.000 persone. Noi non abbiamo il diritto di dirle i nostri desideri. Ci auguriamo però per noi stessi che l’anno prossimo lei rimanga qui». La cartolina era firmata: «Uno che parla a nome dei prigionieri di Auschwitz». Sapendo che Wirths non era in grado di «sottrarsi all’influsso dell’atmosfera omicida che avvolgeva Auschwitz», Langbein temeva che potesse «perdersi d’animo», e scrisse la cartolina per esortarlo a restare e a proseguire le misure a favore degli internati. La cifra di 93.000 fu tratta dalla differenza fra il tasso di mortalità dei prigionieri nel 1943 e quello dell’estate del 1942.14
Il rapporto fra Wirths e Langbein non poteva sottrarsi al paradosso di Auschwitz, che operava in tutti i rapporti relativamente umani fra i prigionieri (compresi i medici prigionieri) e le SS: pur contribuendo a salvare molte vite, esso aiutava il medico delle SS ad adattarsi alla sua funzione centrale nella fabbrica della morte.
La maggior parte dei medici prigionieri e degli altri internati che ebbero contatti con Wirths avevano un buon ricordo di lui; fra l’altro, egli aveva salvato direttamente la vita a molti di loro. Il dottor Tadeusz S., per esempio, ammise che le sue opinioni erano colorate da «sentimenti personali», perché Wirths lo aveva salvato in due occasioni, fra cui una dal Bunker di punizione, che di solito significava la morte. Egli caratterizzò Wirths con precisione come «molto intellettuale... e assai colto, diversamente dagli altri appartenenti alle SS, che erano primitivi..., un ideologo nazista... che non amava i metodi della camera a gas..., [che] voleva che i nazisti vincessero ma non in questo modo... Senza dubbio un nazista in spirito, ma non un nazista crudele».
La dottoressa Wanda J., posta da Wirths alla direzione del Blocco 10, gli era grata tanto per la sua protezione quanto per il fatto che «qualsiasi cosa gli chiedessi acconsentiva». La protezione di Wirths l’aveva anche salvata dal Bunker, e l’aveva aiutata a salvare varie giovani donne tenendole nel suo blocco come «inservienti». Il suo giudizio complessivo su di lui non poteva non essere ambivalente: «Era un nazista... dalla testa ai piedi [e] un criminale... perché sceglieva donne... e uomini per la camera a gas». Eppure le aveva salvato la vita: «Devo dire che con me si comportò da gentiluomo».
Un altro medico prigioniero era consapevole che Wirths veniva «da una famiglia rispettabile, che aveva una certa tempra morale» e disse che gli era stato dato il nomignolo di «Doktor Unblutig» (dottor Niente Sangue), dal marchio di fabbrica di un tipo di impiastro in cui si vedeva un vecchio medico dai capelli bianchi che sosteneva l’opportunità di usare il suo impiastro in luogo dei ferri del chirurgo. Quel soprannome poteva implicare che Wirths uccideva senza sporcarsi le mani di sangue, ma questo medico prigioniero pensava che si riferisse di più alla mitezza personale di Wirths e ai suoi sforzi costruttivi in un ambiente «cruento».
Wirths coltivò rapporti amichevoli con taluni internati. Il dottor Tadeusz S. disse di essere andato nell’ufficio di Wirths a portare delle relazioni e che Wirths dettava di continuo lettere a suoi familiari nelle quali esprimeva simpatia verso i prigionieri e infelicità per la guerra: «Voleva che io ascoltassi quelle lettere». Il dottor S. credeva che, oltre a «voler piacere» ai prigionieri, Wirths pensasse a quale sarebbe stata la sua situazione personale dopo la sconfitta della Germania.
Langbein descrisse un rovesciamento di potere in questi rapporti durante l’ultimo anno di guerra. Alla metà del 1944 una trasmissione radio della BBC, servendosi di informazioni fornite dal movimento clandestino di Auschwitz, incluse il nome di Wirths in un elenco di ufficiali nazisti implicati nell’apparato di sterminio e pronunciò una sentenza di morte nei loro confronti. Venuto a conoscenza da documenti cui aveva accesso che era il compleanno della moglie di Wirths, Langbein, dopo averne discusso con dei colleghi del movimento clandestino, preparò dei fiori (comprati da prigionieri che lavoravano nella floricoltura) e un ritratto della moglie e dei figli (dipinto da un artista prigioniero sulla base di una fotografia) da donare al medico capo. Il giorno seguente Langbein spiegò a Wirths che il dono, e specialmente il quadro della famiglia, «sta a significare che la sentenza di morte è stata revocata» e aggiunse: «Non lo dico a mio nome». Quello era il modo usato dal movimento clandestino per fargli sentire la propria presenza nel momento giusto. In seguito Langbein ricordò di avere scritto: «Adesso sei nelle nostre mani, direttore medico!». Ma al di là del loro desiderio di accrescere la loro influenza finale su di lui, Langbein e i suoi amici volevano anche avviare un processo che conducesse realmente a salvare la vita di Wirths e della sua famiglia.15
Verso la fine del 1944 o all’inizio del 1945, Karl Lill – un comunista cecoslovacco che, con Langbein, fungeva da segretario prigioniero di Wirths – inviò al medico capo un appunto (descritto in seguito da Lill in una lettera al padre di Wirths) in cui gli chiedeva di impedire un piano nazista elaborato nella Sezione politica (di cui Lill e altri avevano sentito parlare e che esisteva effettivamente) per uccidere tutti i prigionieri. Di nuovo con una combinazione di minaccia e di esortazione alla compassione, Lill dichiarò che, se Wirths avesse accettato di dare il suo aiuto, si sarebbe potuto concludere che, «in questa palude senza precedenti, un uomo, ufficiale tedesco delle Waffen ss, agì sino alla fine come un essere umano»; egli raccomandava a Wirths di non esitare: «Per lei, per la Sua famiglia e per Uno molto più potente [ossia Dio]». In un’altra lettera Lill disse che, nel loro ultimo incontro, Wirths lo pregò «con le lacrime agli occhi» di unirsi all’evacuazione dei prigionieri perché era convinto che, se fosse rimasto ad Auschwitz, i russi lo avrebbero ucciso.16 A quel punto le emozioni di Wirths risentivano senza dubbio del suo disorientamento, del suo senso di colpa e della sua ansia per il futuro.
Ma le opinioni dei prigionieri su Wirths dipendevano dai loro punti di vista individuali, e alcuni di loro avevano idee estremamente critiche verso di lui, specialmente verso la sua ricerca sperimentale.
La ricerca principale di Wirths riguardava le proliferazioni precancerose della cervice uterina (la porzione più esterna dell’utero). Essa implicava, innanzitutto, l’uso di uno strumento allora nuovo, il colposcopio, che veniva introdotto attraverso la vagina in modo da poter osservare la cervice prima nel suo stato naturale e poi dopo l’applicazione di certe sostanze (acido acetico e composti iodati). Quando si osservavano certi stati (i casi dubbi dovevano essere considerati positivi), si procedeva all’asportazione chirurgica della cervice, la quale veniva inviata ad Amburgo-Altona al laboratorio del fratello di Wirths (che operava sotto la supervisione di Hinselmann, il vecchio professore di Wirths e uno dei primi medici a usare il colposcopio), dove il tessuto veniva studiato alla ricerca di proliferazioni precancerose. Il fratello di Wirths, ginecologo già noto, partecipava alla ricerca, e poiché era lui a eseguire gli interventi chirurgici e a tenere dimostrazioni, era considerato da alcuni internati l’iniziatore del progetto.17
Benché, come spiegò la dottoressa Marie L., «questo esperimento apparisse a prima vista relativamente innocuo», la cosa risultò poi molto diversa: l’esame eseguito al colposcopio era inattendibile; inoltre, non era necessario asportare l’intero collo dell’utero (sarebbe stata sufficiente una biopsia). A ciò si aggiunge che le cattive condizioni di salute delle prigioniere di Auschwitz favorivano molte complicazioni, fra cui infezioni ed emorragie, alcune delle quali o causavano la morte delle pazienti o le lasciavano così debilitate da determinarne la selezione per la camera a gas. Questa dottoressa prigioniera avrebbe dichiarato in seguito che il progetto di Wirths «sta alla pari con gli altri esperimenti per la sua natura arbitraria e il totale disprezzo [per la persona e]... ha origine... dalla mente senza scrupoli dei nazisti».
Vari medici sopravvissuti, parlando con me, biasimarono Wirths per l’uccisione del dottor Samuel, il chirurgo ebreo che, nella sua stretta collaborazione con Wirths e con altri medici SS, combinò pathos e arroganza, nell’illusione che ciò avrebbe permesso a se stesso e a sua figlia di sopravvivere (vedi pp. 345-348). Entrambi furono invece uccisi e la morte di Samuel, in particolare, è stata considerata un tradimento da parte di Wirths, che avrebbe dato l’ordine o lo avrebbe accettato. Così, il dottor Jan W. sottolineò: «La liquidazione del dottor Samuel ci disse qualcosa sul suo carattere [di Wirths], perché Samuel aveva collaborato con lui per un periodo piuttosto lungo ed egli si era servito delle conoscenze di Samuel».
Langbein condannò gli esperimenti di Wirths sul tifo, che condussero alla morte di due suoi soggetti sperimentali; e fu, in effetti, il segretario del medico capo a far meglio conoscere questo episodio segreto (vedi pp. 389-399).18
Quando i medici sopravvissuti valutarono l’esperienza di Auschwitz nel suo contesto più generale, le loro opinioni su Wirths presentarono la tendenza a diventare più critiche. La dottoressa Wanda J., pur essendo stata protetta da lui, disse che egli fu «più abile» degli altri medici SS in quanto «non fece mai [nulla] con le proprie mani, ma ordinò sempre a qualcuno di fare [le cose] per lui. Egli non operò mai personalmente..., non fece mai... nulla, niente iniezioni, niente». Quando la dottoressa J. concluse: «Devo dirle che egli fu probabilmente altrettanto malvagio quanto gli altri», lo disse con una certa riluttanza. Il dottor Jan W. fu invece meno esitante a dichiarare: «Dal punto di vista formale, Wirths fu responsabile di tutto ciò che accadde [nelle sezioni mediche del campo] dal settembre 1942 sino alla fine dell’esistenza del campo, cosicché egli deve avere accettato, ideologicamente, tutto ciò che accadde nel campo... Milioni di persone furono distrutte».
Wirths combinò abilità burocratiche con qualità di «correttezza» (un concetto di un comportamento appropriato, controllato, relativamente impersonale, che ispira la cultura e il carattere tedeschi) e di fidatezza che gli permisero di aiutare gli internati avendo al tempo stesso successo all’interno delle SS. La sua lealtà organizzativa non fu mai dubbia ad altri osservatori SS. Ernst B. lo considerò un po’ più di un rappresentante dell’autorità nazista, un uomo da cui era bene stare alla larga a causa del suo esigente «spirito di burocrate». Rudolf Höss, che lo osservò più da vicino, parlò di lui come di un uomo con «un senso spiccato del dovere», che era «estremamente scrupoloso e... eseguiva tutti gli ordini e le istruzioni che gli venivano dati con sofferta accuratezza». Corretto anche con gli internati, proseguiva il comandante, aveva l’unico difetto di essere spesso «troppo buono» verso di loro e di trattare i medici prigionieri come «colleghi». Era però un buon camerata, aiutava chiunque si fosse recato da lui e godeva della fiducia di tutti.19
Perché «tutti» potessero fidarsi di lui si richiedeva che Wirths accettasse in gran parte la situazione di Auschwitz, com’era implicito nel commento di Höss che Wirths non sollevò mai obiezioni sull’uso di un’ambulanza con una croce rossa per il trasporto delle persone selezionate alla camera a gas, benché «di solito egli fosse sensibile su cose del genere». In effetti lo stesso Wirths andava in giro con una macchina su cui sventolava «una bandierina bianca con una croce rossa».20
Troviamo un’implicazione simile in un commento di Helmut Wirths, a proposito di una scena orribile di cadaveri estremamente emaciati che lui e il fratello avevano visto fuori di un blocco medico: «Quel che realmente mi infastidì fu che [Eduard] mi disse che erano morti per cause naturali». Wirths intendeva dire, ovviamente, che non si trattava di vittime della camera a gas o di altri mezzi di uccisione diretta, ma nel definire «naturale» un qualsiasi decesso ad Auschwitz egli stava spingendosi molto avanti nella sua identificazione con l’istituzione.
L’antisemitismo ideologico di Wirths contribuì al suo adattamento burocratico ad Auschwitz. Egli poteva permettere a medici prigionieri ebrei di svolgere lavoro medico, ma diceva che era «impossibile» per loro curare pazienti ariani e sosteneva che i blocchi medici erano stati istituiti per impedire che ciò avvenisse. Qui era in gioco probabilmente il suo concetto di correttezza, non meno che il suo antisemitismo ideologico.
La sua integrazione burocratica contribuì senza dubbio anche ai suoi esperimenti sul tifo. Langbein mi ricostruì quale dovette essere stato il meccanismo mentale di Wirths. Il tifo era ancora un problema per il personale delle SS: si doveva sperimentare un nuovo farmaco o siero; e poiché a quel tempo ad Auschwitz non c’erano casi di tifo: «Questi, comunque, sono soltanto ebrei, morirebbero in ogni caso, ma ora io posso sperimentare [su di loro] un farmaco che potrebbe essere importante per molte persone [tedesche]».21
La lealtà organizzativa di Wirths si manifestò forse nel modo più chiaro quando egli invitò Langbein a procurarsi la sua amicizia entrando nelle SS. Wirths aveva appreso con molto interesse che questa politica, applicata di tanto in tanto a prigionieri ariani, poteva essere messa in atto nel caso di Langbein in modo da permettergli di continuare a compiere il lavoro che stava facendo nel campo, ma dall’interno delle SS. Wirths fu sconvolto dal gentile rifiuto di Langbein («L’espressione del viso perde la sua cordialità»), ma dopo avere sentito la sua spiegazione – che dal momento che gli internati erano i suoi Kameraden [compagni, camerati], egli non avrebbe potuto fare le cose che venivano ordinate alle SS ad Auschwitz – commentò: «La sua opinione Le fa onore», anche se «nella sua voce risuona un tono di delusione».22b
Le selezioni erano al centro di tutto: per Auschwitz come istituzione, per il suo medico capo e per la comprensione delle contraddizioni interne di Wirths. Significativamente, almeno all’inizio Wirths si oppose con energia alle selezioni in generale e ai medici che le facevano. Höss notò la sua opposizione all’uccisione in massa degli ebrei, e Langbein accennò che Wirths avrebbe detto a un altro ufficiale delle SS, secondo quanto quest’ultimo raccontò poi a lui, che il compito dei medici era quello di curare i malati e che le selezioni non erano un compito appropriato per loro.23
Abbastanza presto, però, Wirths si trovò a lottare strenuamente per portare le selezioni sotto il controllo dei medici, cosa che significava sotto il suo controllo. Uno stretto amico e collega medico nelle SS testimoniò in seguito che, prima della primavera del 1943, le selezioni venivano compiute dal comandante del campo e da suoi subordinati; e che Wirths era convinto che essi mandassero alla camera a gas molta gente in grado di lavorare; sarebbe stato press’a poco a quel tempo che egli riuscì a far sì che le selezioni passassero a medici (vedi anche il cap. VIII).c La norma ufficiale (fissata da Berlino) che fossero i medici a compiere le selezioni, era stata in gran parte ignorata ad Auschwitz, come accadeva del resto per gran parte delle disposizioni del genere. Wirths poté dimostrare la sua correttezza burocratica insistendo perché ad Auschwitz venissero rispettate le norme emanate dalle autorità centrali. Inoltre, come sottolineò il dottor B., il controllo sulle selezioni era una fonte di potere importante nel campo, e Wirths consolidò il proprio potere riuscendo a far sì che fossero dei medici a eseguirle. Accettando entrambe le motivazioni, si deve dire anche che l’azione di Wirths era «un modo per insistere sulla tesi che le uccisioni dovessero avvenire sotto l’egida della medicina». Quest’azione seguiva un orientamento parallelo a quello espresso dallo slogan già menzionato in connessione con l’uccisione medica diretta o «eutanasia»: «La siringa deve restare in mano al medico».
Wirths partecipò personalmente alle selezioni facendo i suoi turni come ogni altro, anziché delegare semplicemente quel compito a medici subordinati. Langbein «rispettò in una certa misura» quell’atteggiamento, nel senso che Wirths non si rifugiò dietro la propria autorità per evitare un compito che era considerato in generale molto oneroso.24 Qui l’atteggiamento di Wirths, come quello del «medico umano» che combatteva contro i primitivi, era in effetti il seguente: «La siringa dev’essere nella mia mano. Se qualcuno uccide, devo uccidere anch’io». Ancora una volta la coscienza cedette il passo alla coscienziosità, e il compito di salvare delle vite umane venne associato a quello di uccidere.
Più che limitarsi ad affermare il controllo medico delle selezioni, Wirths divenne l’autorità che le organizzava, la persona che ne era «responsabile». Fu lui a discutere con i capi delle SS se i bisogni del campo imponessero di selezionare per la camera a gas percentuali più alte o più basse di prigionieri nei trasporti in arrivo: o se all’interno del campo si dovesse procedere a selezioni più massicce per ridurre il sovraffollamento e il pericolo di epidemie. E fu lui il responsabile, durante le selezioni (anche in questo caso probabilmente sulla base di discussioni con i capi dei lager oltre che con altri medici), di decisioni come quelle se o a che punto madri e figli dovessero essere separati eccetera.
Poi, quando cominciarono ad arrivare ad Auschwitz un gran numero di ebrei ungheresi, fu Wirths a esercitare pressioni sui medici SS dell’Istituto di Igiene perché compissero selezioni, anche se queste non facevano parte dei loro compiti nel campo di concentramento. Fu lo stesso Wirths (assieme a Mengele) a esercitare pressioni sul riluttante Franz Lucas (vedi pp. 270-272) perché facesse anche lui selezioni e a condurlo alla banchina così che potesse partecipare alla sua prima grande selezione, eseguita dallo stesso Wirths. Wirths non si limitò a rimproverare aspramente Lucas per i successivi tentativi di evitare quell’incombenza, ma minacciò anche il dentista dottor Willi Frank, pure lui recalcitrante, richiamandolo all’«ordine del Führer», all’equivalenza delle selezioni a un dovere di prima linea, ed equiparando un rifiuto alla diserzione. In un’altra occasione, Wirths rimproverò aspramente un subordinato per la sua riluttanza a estrarre i denti d’oro dai cadaveri «durante il quinto anno di guerra!»25d
Pur mancando del talento naturale e delle pose di Mengele, lo stesso Wirths fu una delle figure più imponenti alle selezioni. Alto e «di aspetto ariano», fu descritto da un sopravvissuto come «il più bello di tutti in uniforme». Anche Wirths aveva un senso del contegno che doveva tenere un appartenente alle SS, cosicché, come ci dice lo stesso sopravvissuto, esagerava sempre «la sua perfezione [in contrasto] con la sciatteria e il disordine dominanti».26 In altri termini, il contegno severo e autorevole di Wirths conferiva una certa legittimità, e persino «grandezza» alle selezioni.
Il controllo delle selezioni esercitato da Wirths si trasformò in definitiva in un controllo delle selezioni su di lui. Il dottor Tadeusz S. mi parlò di un caso rivelatore in cui egli e Langbein intervennero presso Wirths dopo che Entress aveva selezionato duemila ebrei per le camere a gas. Essi sostennero che i pazienti selezionati erano sani e in grado di svolgere del lavoro utile per la Germania. «Wirths era sul punto di piangere» e aiutò il dottor S. a provvedere che i primi milleottocento, e infine anche gli ultimi duecento, fossero risparmiati. Alcuni giorni dopo, però, Wirths selezionò altre duemila persone in un altro lager. Il dottor S. concluse: «Quello fu il suo modo per legittimare il proprio operato dinanzi ai suoi capi, ma non dinanzi a Langbein e a me, cosa che era molto caratteristica... del suo comportamento». Wirths si adoperò in ogni modo per evitare di vedere in se stesso (e per evitare che altri vedessero in lui) una persona che partecipava alle uccisioni. In realtà però egli vi partecipò attivamente, esercitando al tempo stesso un controllo diligente sull’intera macchina dello sterminio.
Quel che troviamo compendiato nelle selezioni – la partecipazione di Wirths e il suo coinvolgimento nel paradosso terapia-uccisione – si applicò alla sua intera esperienza ad Auschwitz.
In aggiunta alle osservazioni di altri sul comportamento di Wirths, altre informazioni importanti su ciò che egli stava provando a quel tempo, sul piano psicologico e su quello morale, sono fornite sia da documenti – le sue lettere alla moglie e al padre, e infine la sua autodifesa – sia da membri della sua famiglia che ebbero occasione di osservarlo molto attentamente.
Come la maggior parte dei medici nazisti, Wirths si trovò ad Auschwitz in una situazione conflittuale ma si adattò abbastanza bene per poter lavorare in una tale condizione. Uomo travagliato, che diresse con efficienza il sistema di Auschwitz dello sterminio sotto l’egida della medicina, fu notevole sia per l’intensità del conflitto sia per l’importanza della sua opera in funzione dell’eccidio. Il suo sdoppiamento, pur risultando senza dubbio estremo, fu anche significativamente diverso da quello di altri medici SS, nel senso che in lui non coesistettero tanto un sé di Auschwitz e un sé anteriore, quanto due sé di Auschwitz antagonistici. Da un lato, egli fu un nazista leale e scrupoloso, con un profondo impegno verso le concezioni naziste dello Stato tedesco e della razza tedesca; dall’altro fu un forte fautore dell’umanitarismo medico e del miglioramento delle condizioni di vita dei prigionieri. Il suo sé nazista-tedesco lo impegnava a una partecipazione leale al progetto di Auschwitz; il suo sé medico-umanitario fece di lui un difensore dei prigionieri. Egli dovette tenere i due sé separati l’uno dall’altro, benché tentasse disperatamente di unirli. La cosa che sorprende – e in generale la sua sventura – non è il fatto che questa sua struttura interna abbia finito col crollare, ma piuttosto che sia riuscita a reggere così a lungo.
In una misura straordinaria, la capacità di Wirths di mantenere un qualche equilibrio psicologico dipese dai suoi legami con i suoi familiari più stretti, e specialmente con la moglie. La moglie e i loro primi tre figli, allora molto piccoli, vissero con lui ad Auschwitz per qualche mese, forse quasi un anno, dagli ultimi mesi del 1943 sino a tutto il settembre 1944. Prima e dopo quel tempo, nella parte restante del suo soggiorno di due anni e mezzo ad Auschwitz, Wirths scrisse spesso alla moglie lunghe lettere con accenti appassionati, imploranti e sovente disperati. Egli investì la moglie e i figli – e la parte di se stesso legata a loro – di una qualità di assoluta purezza e bontà. E aderì a tale purezza e bontà con la speciale intensità di un uomo consumato dal male.
Nella sua prima lettera, scritta il 7 settembre 1942, esattamente il giorno dopo il suo arrivo ad Auschwitz, egli connette immediatamente il suo amore e il suo dovere verso la moglie e la famiglia al suo lavoro ad Auschwitz. Riferendosi al compito «sovrumano» che egli dovrà assolvere nel posto cui è stato assegnato, dice che tutto ciò che fa lo fa «per te, vita mia, amore mio, per te e per i bambini», e che «nulla è impossibile finché avrò te, mia amata». In effetti, egli assimila il suo compito ad Auschwitz a un progetto di immortalità: quello di plasmare «un paese selvaggio che richiede molto lavoro, molto spirito tedesco, energia e lavoro tedesco». Sarà un lavoro «di pionieri, non facile, ma dovrà essere fatto per i nostri figli, angelo mio, per i nostri figli».27
Wirths si sforza di soffocare il trauma e l’orrore iniziali e tira in ballo rapidamente il destino e il dovere. Egli associa «l’amore immensamente grande» per la moglie alle «vaccinazioni protettive» di cui ha bisogno per affrontare i suoi compiti.28 In altri termini, il loro amore dovrà vaccinarlo contro ciò che vede e ciò che fa ad Auschwitz.
E una volta che la dura prova sarà passata, «potremo finalmente essere fedeli solo a noi stessi, amore mio, e ne sarà valsa la pena».29 A quel tempo egli si sarà meritata la piena gioia del loro amore avendo assolto fino in fondo la sua responsabilità ad Auschwitz: Auschwitz viene a essere associata a un senso nobilitante della missione tedesca a vantaggio della purezza assoluta di sua moglie e dei suoi figli, una missione immortale a beneficio del futuro.
In lettere successive, egli profonde una serie infinita di affettuosità, compresi ogni sorta di diminutivi: «amatissima moglie», «anima mia», «amor mio», «tesorino adorato», «uccellino mio», «mio Babbino Natale» e «Onnipotente». La sua intensità si accompagna a una certa formalità di struttura (confermata da lettori di lingua tedesca): i suoi vezzeggiativi sono assoluti, ma lo stile e la scelta delle parole tradiscono non di rado un certo impaccio. Le affettuosità sono accompagnate dalla sua lotta per il controllo, e di fatto contribuiscono a esso.
Durante la seconda metà del 1943, un tema importante nelle sue lettere è la gioiosa attesa che la famiglia lo raggiunga ad Auschwitz. Dal campo della morte emana un tono quasi timido di preparazione, quando egli descrive la rimozione di cumuli di detriti e delle rovine di una vecchia cantina, e dice a sua moglie che «negli ultimi due giorni ha lavorato nel nostro giardino un grande Kommando» e aggiunge di aver trovato un architetto «che fa disegni molto belli [e dà] buoni suggerimenti».30 In lettere successive attende con impazienza che venga compiuta la copertura del tetto, eseguita la pavimentazione, che siano sistemate le finestre e disegnata una pianta speciale per il giardino; e ancor dopo, col tono di un marito borghese sollecito, dice di aver comprato «2 scopette, un batticarne, un tavolino per bambini, 4 sedie, uno sgabello, un cavallo a dondolo». Egli dice di sentirsi «imbarazzato» da tutti i preparativi necessari per la casa, con riferimento non alle vittime di Auschwitz ma ad altri medici SS, tre dei quali hanno dovuto riunirsi in una singola casa.31
Quando scrive alla moglie della sua «richiesta per costruire presto lo steccato per via dei bambini»,32 ci si chiede quanto dovesse essere alto lo steccato: solo quanto bastava per impedire ai bambini di uscire, o molto più alto, per far sì che del mondo di Auschwitz attorno alla casa si potesse vedere molto poco o addirittura niente?
Wirths accenna delicatamente al suo desiderio sessuale e rivolge la sua unica espressione di violenza contro chiunque gli avesse tolto la casa, la felicità e l’amata («gli fracasserei il cranio»). È sorprendente in quale misura egli sia riuscito a separare il loro rapporto dal suo mondo di Auschwitz quando le chiede teneramente come stia, le raccomanda di fare gli esercizi prescritti ed esprime preoccupazioni per quella che era chiaramente una depressione post partum (dopo la nascita del loro quarto figlio) in cui essa parlava di morire.33
Sempre molto legato alla famiglia, nelle sue lettere Wirths parla diffusamente di fotografie dei bambini, del primo dente messo da uno di loro e della sua fervente preoccupazione per lo stato di salute della suocera. Come per far risaltare per contrasto la purezza della famiglia, egli parla di un «collega disgustoso» che ha messo incinta una donna e si rifiuta di sposarla.34
Un tocco di tensione affiora quando la moglie di Wirths sembra resistere all’idea di andare ad abitare ad Auschwitz; e, a quanto pare in riferimento alle sue richieste, egli le spiega che sarebbe impossibile eliminare «la sporcizia e il disordine» anche dopo che la casa fosse stata terminata. Cita poi una battuta un po’ pessimistica dell’amico Horst Fischer, secondo cui la casa sarebbe stata pronta «probabilmente solo a guerra finita»,35 una battuta che risultò profetica. La loro figlia suggerì in seguito che, nonostante queste pressioni esercitate sulla moglie, in realtà egli «non voleva che lei fosse trascinata in tutto questo». Il mondo di Auschwitz proiettò un’ombra problematica sul loro rapporto, e in seguito la moglie di Wirths affermò che quando, ad Auschwitz, ebbe modo di constatare il dolore del marito nel compiere le selezioni, sentì il desiderio di andarsene, ma non lo fece perché un confidente le disse che la sua presenza era cruciale «se vuole salvare suo marito».36 Entrambi avevano un atteggiamento ambivalente sulla propria presenza ad Auschwitz, e su quella dell’altro. Ma Wirths rimase, e la moglie se ne andò.
Dopo la partenza della moglie da Auschwitz, ci sono commenti convenzionali su eventi e rituali familiari e molte più informazioni sulle vicende dei cani di Wirths: Basco che «scappa» attraverso un passaggio creato sotto uno steccato da un cratere di una bomba; poi un secondo cane che «ho appena dovuto comprare»; e ancora un uccello. E quando i due nuovi acquisti si ammalarono, «la mia stanzetta a casa è... un’infermeria». Verso la fine del novembre 1944, nel pieno del disastro militare tedesco, Wirths accenna all’oca che ha allevato per mandare alla famiglia per Natale, dicendo che è «grossa e grassa».37 Il suo tono oscilla fra quello di un proprietario terriero rurale e quello del ragazzo lontano da casa che ha appena ricevuto una torta deliziosa.
Infine, nel dicembre 1944 e nel gennaio 1945, i suoi regali alla moglie diventano più pratici: una «torcia elettrica con dinamo», che egli le spiega come usare, assieme ad altri equipaggiamenti di emergenza, ma anche una bottiglia di champagne, oltre che cibi difficili da procurarsi e olio. Egli le chiede di mandargli i suoi scarponi da sci (per sciare o per scappare all’arrivo degli Alleati).38
Pur nutrendo ora timori per il futuro, egli parla nondimeno del «buon ponce di ananas» che ha gustato nel tranquillo pranzo di Capodanno in casa di Richard Baer (che aveva sostituito Liebehenschel nel comando del campo di concentramento), esprime il suo amore con accresciuta intensità, assieme al crescere dell’ansia («Posso solo implorare con sincerità l’Onnipotente di preservare la nostra felicità, di conservarci per noi stessi!»). E mentre i russi si avvicinano, la sua maggiore preoccupazione è per l’impossibilità di poterle parlare per telefono. Ora ci sono immagini di morte da entrambe le parti, quando egli implora (probabilmente in risposta alla depressione della moglie): «Davvero non dovevi lasciarmi, mio tutto», e aggiunge: «Io... devo quasi morire d’amore e di sofferenza per il desiderio che ho di te».39 Mentre tutto attorno a lui sta crollando, egli si aggrappa a un amore e a un’immersione nella famiglia ancora più totali per rafforzare la sua esistenza minacciata.
In una lettera della metà di gennaio egli si immerge in una fantasia sul futuro della loro casa di campagna tedesca: il suo ambulatorio separato dai locali di abitazione, «così che voi siate meno disturbati», il telefono situato nel vestibolo, con una linea derivata che passa sotto la porta della camera da letto. Pur dando l’impressione di voler dimenticare la sua triste condizione, è abbastanza concentrato da nascondersi. Il 24 maggio, dopo la resa, comincia a esprimere «il mio grandissimo senso di colpa», non verso le vittime di Auschwitz, ma verso sua moglie e i suoi figli, per averli trascinati «alla sofferenza e in una situazione di indigenza». Auschwitz è ben presente, ma elusa in un’affermazione di ignoranza morale: «Che cos’è che ho perpetrato? Non lo so». E all’inizio di luglio, da Amburgo, egli riprende un tema simile, ora però riformulato in modo da suggerire di essere perseguitato a causa dell’intensità stessa del suo amore: «È un peccato amarti tanto...? È stata una hybris desiderare te, mio tutto, vita mia, e aver legato la tua sorte alla mia a qualsiasi costo?». In tutto questo – almeno in ciò che egli le scrive – Auschwitz è ignorata, o al massimo non è altro che una fonte sfortunata del loro dolore. Nella sua ultima lettera alla moglie, scritta il 15 luglio 1945, Wirths riafferma il loro amore come una vittoria sulla morte che ora sente vicina, proprio mentre tale amore si sostituisce alla coscienza: «L’essenza della nostra vita..., un amore che glorifica, comprende, sa e vince tutto».40
Anche ad Auschwitz la sua famiglia lo aveva protetto da ogni altra cosa. Nel dicembre 1944 egli aveva scritto che «quando tu e i piccoli eravate con me ad Au[schwitz], era possibile non accorgersi per niente della guerra!».41 Possiamo essere certi che la «guerra» comprendeva la stessa Auschwitz. In altri termini, quando era circondato dall’amore della famiglia Wirths poteva non accorgersi neppure dell’eccidio.
Sua figlia, i cui primissimi ricordi riguardano il periodo di Auschwitz, rammenta che Wirths giocava teneramente con i figli ed era «sempre terribilmente gentile con noi». Riflettendo su quella situazione da adulta, essa parlò di «questi due mondi, la sua famiglia e quel suo... lavoro». Essa sentiva che la famiglia «era l’unica cosa che lo sosteneva» e che egli «aveva un bisogno disperato della sua famiglia per conservare il proprio equilibrio mentale». Nel periodo in cui i familiari di Wirths vissero ad Auschwitz ci furono certamente problemi per lui e sua moglie: secondo Kremer, un confidente di Wirths vedeva in lui un uomo che «aveva ogni sorta di difficoltà con la moglie e i figli».42 C’era sempre un conflitto fra «il lavoro che egli svolgeva qui, e la famiglia, che non avrebbe dovuto notare niente». Ovviamente, quando la sua famiglia fu ad Auschwitz, lo stesso Wirths poté avere meno consapevolezza di quel che accadeva ad Auschwitz. Anche se ci furono probabilmente dei momenti in cui la presenza della famiglia acuì in Wirths la consapevolezza della funzione di morte che stava svolgendo al campo, persino allora, come abbiamo visto, egli poté provare questo senso di colpa soprattutto in relazione alla sua famiglia, e specialmente verso sua moglie, considerandosi responsabile per averli condotti in un luogo del genere.
Col tempo Auschwitz divenne per Wirths una sorta di casa, e persino un rifugio. Solo ad Auschwitz egli poté vivere con la moglie e con i figli, almeno per un po’ di tempo; solo là essi poterono avere una «casa». Riferendosi al «raffreddore e [alla] tosse» nel freddo del campo alla fine di novembre, egli scrisse una volta: «D’estate si dovrebbe vivere ad Auschwitz, ma in autunno e in inverno si dovrebbe stare a casa propria». Nella stessa lettera espresse tristezza al pensiero che «un pezzo di vita naturale romantica» nei pressi di Auschwitz sarebbe andata distrutta a causa della ricostituzione del letto di un fiume.43
Ad Auschwitz egli conservò il proprio amore per il focolare domestico e scrisse tristemente alla moglie della morte del loro cane Basco, il quale «soffriva molto, cosicché gli diedi della mo[rfina], aggiungendo che: «È un bene che sia morto; alla fine era cieco da entrambi gli occhi».44 Se ci si chiede come fosse possibile per Wirths descrivere un fatto del genere senza associarlo in alcun modo alle selezioni ad Auschwitz, la risposta è che la funzione psicologica dell’«eutanasia» da lui compiuta sul cane forniva una fonte alternativa di preoccupazione morale, accrescendo in tal modo il suo ottundimento emotivo verso le selezioni.
E due settimane circa prima dell’arrivo delle truppe sovietiche, egli invocò i vantaggi di Auschwitz come modo per simpatizzare col senso di isolamento di sua moglie: «Hai ragione, amore mio, che qui si è in mezzo alla vita, mentre tu a casa... sei esclusa da ogni esperienza». Le raccomandò poi di «tornare con me ad Auschwitz quando l’offensiva sovietica sarà terminata».45 Egli aveva scritto anche al fratello Helmut di andare ad Auschwitz «perché qui si starà più al sicuro che ad Amburgo». Benché in quest’affermazione ci fosse della verità, geografica e militare (Amburgo fu distrutta in gran parte dai bombardamenti alleati, mentre Auschwitz non fu quasi toccata), il tema psicologico è quello del senso di sicurezza che gli aguzzini provavano nel luogo in cui avevano esercitato un potere assoluto di vita o di morte.
Anche altri familiari, specialmente il padre e il fratello più giovane, ebbero molta importanza per Wirths in connessione con Auschwitz. Quest’ultimo, che ebbe modo di incontrarsi con Eduard a Berlino poco tempo dopo il suo arrivo ad Auschwitz nella sua funzione di medico capo, ricordò che il fratello gli aveva detto di aver «visto cose così terribili, cose che erano [così] al di là di ogni immaginazione, [che egli non avrebbe mai potuto] tornare a casa e guardare negli occhi i suoi figli». Eduard parlò al fratello di scene spaventose di migliaia di cadaveri ammassati in fosse poco profonde, ma a quel tempo non gli disse nulla sulle selezioni.
Sappiamo che in seguito Helmut Wirths si recò ad Auschwitz per collaborare col fratello in esperimenti sul cancro. Benché Eduard non volesse aiuto negli studi sul cancro, Helmut sottolineò in seguito (forse in parte per autodiscolpa) di esservisi recato non tanto per quella ragione quanto per offrirgli un sostegno personale: «Sapevo della sua grandissima sofferenza»; «La mia opinione personale è che mio fratello non mi volesse... ad Auschwitz per quei materiali [per quella ricerca, ma]... che avesse bisogno solo... di una persona con cui parlare». Helmut disse: «[Almeno in principio] lo ammirai [perché] io non sarei stato in grado di farlo [di restare ad Auschwitz e di eseguire le selezioni]... Io sarei impazzito».
Ad Auschwitz ci fu fra i due fratelli un rapporto difficile a proposito delle selezioni. Eduard chiese a Helmut di accompagnarlo alle selezioni, con l’intento dichiarato di fargli vedere tutto l’orrore del posto. Helmut, che già sapeva di che cosa si trattava, rispose che non se la sentiva. In seguito, quando Eduard aveva parlato di andarsene da Auschwitz, Helmut e il padre gli avevano raccomandato di restare e di fare tutto il bene possibile, al che egli rispose ora incollerito: «Voi mi dite di restare qui [e di essere presente] ogni giorno, e non venite [neppure] una volta a vedere [una selezione]». In seguito Eduard (secondo Helmut) disse di non avere avuto veramente l’intenzione di condurre Helmut con sé alle selezioni ma di avere solo voluto vedere se avrebbe acconsentito ad andare con lui. Un tale scambio confuso tra fratelli dev’esserci stato senza dubbio, anche se, in quell’occasione, i due fratelli dovettero dirsi molte altre cose. Si sospetta non che Eduard fosse deciso ad andarsene, ma piuttosto che volesse sottolineare col fratello e col padre, in un modo quasi petulante, il lato negativo della sua ambivalenza sul problema se restare o no, cosa che gli consentiva forse anche di spostare il problema di Auschwitz, trasferendolo su un terreno psicologico familiare.
Helmut, che aveva progettato di restare un paio di settimane, mi disse di essersene andato dopo soli pochi giorni perché il posto gli ripugnava. Egli raccontò di essersi trovato in difficoltà con un ufficiale delle SS quando questi, la prima sera al circolo, gli chiese se gli piaceva la loro Sommerfrische (luogo di villeggiatura; letteralmente «frescura estiva»), al che egli rispose irritato: «Si vergogni di dire una cosa del genere in questo posto!». Secondo Helmut, Eduard dovette darsi da fare per calmare le acque, e poco tempo dopo consigliò al fratello di andarsene.
Helmut ha confermato che lui e il padre raccomandarono a Eduard di rimanere, e affermò che, a loro giudizio, restando lì avrebbe potuto aiutare parecchia gente: «Ma era tutto teorico», aggiunse Helmut con rammarico, volendo dire che il consiglio non tenne conto a sufficienza degli orrori concreti di Auschwitz.
Il consiglio di restare dato a Eduard dal padre ebbe senza dubbio un grande peso. Sappiamo che il padre era stato una figura patriarcale esigente ma rispettata, e che Eduard era il figlio maggiore che obbediva quasi sempre e che seguiva la retta via. Il padre, che aveva fatto visita a Eduard prima a Dachau e poi ad Auschwitz, descrisse in seguito quest’ultima visita in termini imbarazzati, difensivi. Ricordò di aver visto prigionieri che sembravano «semiliberi» e due giovani donne ebree che lavoravano nell’ufficio del figlio, le quali erano «fondamentalmente allegre», e notò certi internati che «la mattina uscivano cantando e tornavano di sera cantando»; sostenne di aver saputo solo in seguito che «dovevano cantare!». Persino dopo aver compreso gran parte della verità di Auschwitz, fra cui anche «come la gente vi morisse di... malattia e... vi venisse sterminata», dichiarò a suo figlio che «Non c’è luogo al mondo in cui tu possa fare altrettanto bene quanto ad Auschwitz. Sopporta».46
Qualunque speranza essi avessero riposto in Eduard e nella sua possibilità di fare qualcosa di buono ad Auschwitz e quale che fosse il loro proprio rapporto con l’ideologia nazista, fratello e padre si trovarono a essere costretti in quegli stessi impegni di tutti i tedeschi al dovere e all’obbedienza che influirono sul comportamento di Eduard. Il loro consiglio diede al soggiorno di Eduard ad Auschwitz una sanzione familiare, e al tempo stesso favorì quel tipo di spostamento a cui abbiamo già accennato: il problema divenne così più una lotta con valori familiari e con l’obbedienza familiare e meno con l’eccidio di massa ad Auschwitz.
Per l’adattamento di Wirths ad Auschwitz fu importante il suo senso di essere impegnato in una continua crociata morale. Il fine della crociata poteva essere amorfo – la trasformazione del primitivo ambiente di Auschwitz per mezzo di «lavoro tedesco» –, ma fu sempre nel contesto della guerra e della sopravvivenza («Sì, c’è la guerra, e la guerra è un tempo duro, il più duro»). La sua crociata poteva diventare più concreta, e più credibile interiormente, quando si concentrava su una versione di «umanitarismo medico». Nella sua autodifesa, Wirths parla della «difficile lotta» contro la malattia, e specialmente contro l’epidemia di tifo, a favore di cure mediche migliori per i prigionieri, comprese relazioni mediche accurate che descrivessero le vere condizioni ad Auschwitz, lo sviluppo degli impianti e il miglioramento degli equipaggiamenti e dei rifornimenti, l’utilizzazione di una divisione di medici prigionieri ebrei, la sostituzione di brutali criminali comuni con più rispettabili prigionieri politici, l’eliminazione delle fatali iniezioni di fenolo nei blocchi medici e la riduzione in tali blocchi delle selezioni, col conseguimento di un declino significativo del tasso di mortalità nel campo. La frequente opposizione del comando di Auschwitz diede a questa crociata un ulteriore significato per lui, così come lo slogan «mano d’opera» (Arbeitskräfte) che a quanto sostenne sarebbe stato introdotto da lui. Nella sua difesa, egli si spinse ad affermare che nel conservare gli ebrei stava compiendo l’opera di Dio (egli scrisse di aver ricevuto «un segno dall’alto di dover continuare a lottare»), e che «probabilmente si deve a me se oggi in Europa ci sono ancora degli ebrei vivi».47
Una ragione per cui Wirths poteva quasi credere a questa affermazione consisteva nella sua convinzione di essersi opposto – come sapevano Höss e altri – a quello stesso eccidio di massa di ebrei su cui esercitava la sua supervisione. Il 29 novembre 1944 Wirths scrisse alla moglie: «Puoi immaginare, mia cara, quanto sia meraviglioso che io non sia più costretto a compiere questo terribile lavoro, sì, che esso non esista più».e Nella corrispondenza con i suoi genitori, egli corregge l’impressione erronea del padre che fosse stato lui, Eduard, il responsabile dei mutamenti, ma riferisce sulla sua crociata personale in vista di quel risultato. («Io sottolineai, in ogni occasione che mi si presentò... la disumanità, impossibilità e vera indegnità dell’intero procedimento.») La sua critica consistette nel sottolineare come i fautori dell’eccidio «abbiano imposto un onere molto pesante... al nostro intero popolo... in particolare al tempo di una guerra così terribile»:48 un’impostazione che si conciliava con criteri nazisti accettabili di opposizione oltre che con le sue lealtà. Egli poteva ancora pensare, nondimeno, che la sua crociata fosse a vantaggio della famiglia e del futuro, ossia a vantaggio del suo «sé rispettabile».
La sua crociata mirò quindi alla conservazione di criteri nazisti accettabili all’interno del movimento nazista. Essa poteva estendersi a cose di così poco conto come dire a un uomo del personale medico alle sue dipendenze (come scrive lo stesso Wirths in una lettera alla moglie) che, se avesse avuto buoni risultati in un corso che andava a seguire, avrebbe avuto quattordici giorni di licenza speciale, aggiungendo che durante il viaggio avrebbe dovuto comprare della lana, una merce preziosa in tempo di guerra, e portargliela49 (questa non era certo una colpa degna di nota rispetto ai livelli di corruzione di Auschwitz, ma ci suggerisce che lo stesso Wirths fosse disposto a discostarsi sia pur di poco dalla sua rettitudine per fare cosa grata alla moglie).
Il suo senso di una crociata morale fu significativamente mantenuto nella lotta contro Grabner e contro la Gestapo di Auschwitz. In essa egli poté denunciare la loro corruzione e le loro «illegalità» nell’uccidere e nell’attribuire le loro uccisioni alla sua unità. All’interno della struttura di Auschwitz, la sua crociata contro Grabner potrebbe avere richiesto un certo coraggio vero, ma per Wirths ebbe anche l’enorme valore psicologico di una crociata contro il male, qual era simboleggiato da Grabner.
La combinazione di rettitudine e di compromesso di Wirths gli permise di sentirsi abbastanza a suo agio ad Auschwitz. Fin dall’inizio egli contrappose alla corruzione radicale di Auschwitz «una cosa sola, la retta via». Sul piano dei compromessi personali poté dire: «Io non chiesi mai niente», e trovò piacere nella rassicurazione del suo amico Horst Fischer che egli meritava la casa che veniva costruita per lui e ogni altra cosa: «Se io non avessi creato [ciò che ho creato] qui, Auschwitz non sarebbe... quello che è ora».50
Eppure fu proprio Wirths a lagnarsi della rettitudine di Fischer, vedendo in lui «un uomo sempre retto e onesto, cosa che rende alcune cose difficili per lui e per me», mentre sarebbe stato preferibile fare delle cose «con diplomazia», cosa che comportava dei compromessi, anche se «ci si mantiene sulla propria retta via». Lo sviluppo da parte di Wirths del suo sé di Auschwitz gli permise di adattarsi al campo, di «farci l’abitudine» (come disse Helmut). (Wirths poté nondimeno rivendicare la rettitudine per il suo sé di Auschwitz adottando atteggiamenti come quello di opporsi – all’inizio del gennaio 1945, mentre le armate russe erano ormai vicine – al trasferimento delle infermiere, i cui alloggi erano stati distrutti da un bombardamento, nel circolo degli ufficiali: «La vicinanza degli uomini non è in questo caso affatto buona».)51
Finita la guerra la crociata di Wirths, che ora stava nascondendosi per evitare la cattura, assunse la forma di mobilitare parenti e amici per cercare la sua famiglia. E quando cominciò a rendersi conto che la sua esistenza come fuggitivo era per la sua famiglia il peso maggiore (dato che il suo unico futuro si poteva compendiare nel processo, nella condanna e nella morte), il suo suicidio può essere considerato l’atto finale nella sua crociata.
Quali che siano stati i suoi conflitti connessi con tale crociata, Wirths non cessò mai di essere una figura di primo piano e un medico rispettato all’interno della sottocultura SS di Auschwitz.
In una lettera alla moglie del 27 novembre 1944, egli esprime il suo piacere per la decorazione di 599 uomini con la Croce di Ferro a causa del loro «eroismo»,52 riferendosi, come risulta, alla rivolta del Sonderkommando, durante la quale fu appiccato il fuoco a un crematorio e fu gettata una bomba a mano in mezzo a un gruppo di SS; la rivolta fu prontamente soffocata da un gruppo di SS, il cui eroismo consistette nel trucidare tutti coloro che fossero anche vagamente sospettati di avervi partecipato.f Le lettere di Wirths alla moglie sono piene di riferimenti ricchi di notizie a occasioni sociali di gala: un pranzo speciale nel Führerhaus per capi di sezione, con mezza anatra selvatica ciascuno; una caccia all’inizio del gennaio 1945, nella quale egli uccise sei anatre e gli fu permesso di tenerne una («Tu, mio bene, la riceverai domani»); una festa di Natale nel 1944 nella quale un sergente SS di talento cantò Als Knäblein klein an der Mutter Brust (Quand’ero piccolo al seno della mamma) e Santa Claus donò a «Wirths [non] una medaglia bensì una salsiccia di fegato» (questa scenetta comica fa pensare che Wirths fosse un membro abbastanza importante del gruppo per essere fatto oggetto di uno scherzo bonario); e pranzi e cene a casa di Baer, il comandante di cui egli era amico, al punto di svolgere una mediazione nei contrasti molto aspri fra Baer e la moglie.54
Di fatto Wirths rimase sempre un nazista fedele, un uomo che, come sottolineò il fratello Helmut, credeva realmente che «gli ebrei fossero un pericolo per la Germania»; che appoggiò l’ammonimento di Hitler del 1939 che se gli ebrei avessero cominciato una guerra sarebbero stati loro, e non la Germania, a uscirne distrutti; e che poté dire, all’arrivo degli ebrei ungheresi durante l’estate del 1944: «Sono i peggiori di loro». Helmut continuò a spiegare che «[Eduard] credeva nel nazionalsocialismo... [ma] non credette mai che lo stesso Hitler potesse essere a conoscenza [dell’uccisione degli ebrei]» e che Eduard gli avrebbe detto: «Devo tentare di andare da Hitler [e informarlo]. Egli non può sapere... [di queste] crudeltà». Helmut disse che suo fratello aveva creduto sino alla fine «che Hitler fosse un brav’uomo» e che «non poteva credere che avrebbero vinto loro [i nazisti]».
In precedenza Wirths aveva mostrato a Langbein un piano per l’espansione di Auschwitz «dopo la vittoria». Langbein commentò che Wirths «temeva una sconfitta del nazionalsocialismo, anche se ad Auschwitz ne aveva conosciuto il vero volto più chiaramente di chiunque altro»; Wirths continuò a credere che il Führer fosse all’oscuro dei campi di sterminio, forse perché «aveva bisogno di quest’idea per giustificare ai suoi stessi occhi la sua appartenenza al movimento nazionalsocialista». Quando Langbein, nella loro ultima conversazione prima della liberazione di Auschwitz, disse che la guerra era completamente perduta, Wirths disse: «È orribile», e quando Langbein gli disse: «È un bene, dottore», Wirths gli rispose: «Come può dire una cosa del genere? Anche lei è un tedesco».55
Nella sua autodifesa, Wirths insistette in modo eccessivo sulla sua estraniazione rispetto agli altri membri della gerarchia di Auschwitz e sulla misura in cui egli cercò «rifugio nella... malattia». I suoi problemi di cuore e di reni si intensificarono senza dubbio sotto lo stress provocatogli dai suoi conflitti, e sappiamo che reali contrasti con alti ufficiali delle SS lo condussero a suggerire a Höss il suo desiderio di essere trasferito,56 anche se a quanto pare non fece mai uno sforzo deciso per andarsene. La sua affermazione successiva di aver «lavorato per il movimento... di resistenza polacco» è una falsità costruita su un nocciolo di verità molto più modesto (il fatto di aver lavorato a sostegno di polacchi e di altri che sospettava facessero parte della resistenza); e la sua affermazione, probabilmente veritiera, di essere stato verso la fine accusato di «disfattismo» dalla Gestapo per avere affermato che le armate tedesche non potevano più resistere corrispondeva alla sorta di esperienza che aveva fatto anche Karl Brandt (vedi nota a p. 165) e che era tipica dei «nazisti perbene» nella parte finale della guerra.57
Benché, dopo la resa della Germania, Wirths si sia nascosto per evitare di essere preso, continuò a svolgere i propri compiti sino alla fine, molto tempo dopo che altri (come Mengele) erano fuggiti. Egli poté quindi scrivere alla moglie, il 13 gennaio 1945, con considerevole sincerità (difendendosi contro asserzioni contrarie di Grabner): «Posso dire di aver sempre fatto il mio dovere e di non avere mai fatto nulla che fosse contrario a quanto ci si attendeva da me».58
Al di là della sua crociata condotta dall’interno del nazismo e della sua fedeltà al partito, Wirths si adattò ad Auschwitz aggrappandosi al suo senso di se stesso come medico. L’immagine del medico come terapeuta lo aiutò a negare le uccisioni reali perpetrate ad Auschwitz da lui stesso e da altri medici. Egli poté attribuire tali uccisioni alle «autorità del campo di concentramento», le quali, scrisse nella sua autodifesa, si presentavano in segreto «senza notificarlo al medico o in periodi in cui si sapeva che il medico era assente, o di notte» e poi «facevano portar via dal campo i malati e i deboli per ucciderli con gas tossico». Difendendo questa falsità, Wirths espresse con grandissima precisione il paradosso terapia-uccisione: «Era una follia che persone che erano state salvate grazie agli sforzi e all’arte dei medici [anche se egli non riconobbe qui questo merito ai medici prigionieri]... venissero ora uccise».59 Poiché una parte di lui, nella sua qualità di medico, si opponeva a questo processo, egli poteva vedere in se stesso una persona che si opponeva alle uccisioni, anche se in realtà era lui a orchestrarle.g
Egli poté quindi in seguito sostenere di avere agito in accordo con la sua «coscienza cristiana e medica» e che «il mio lavoro come medico fu esclusivamente quello di offrire assistenza terapeutica ai malati»: «Adottai il punto di vista che lavoravo ad Auschwitz esclusivamente come medico e non potevo agire contro la mia coscienza».60 Benché l’assurdità di queste affermazioni sia da vedere in parte in rapporto alla sua disperazione subito dopo la fine della guerra, esse riflettono anche un’immagine di sé reale di un uomo che pensava di avere lottato per conservare la sua coscienza medica.
Non sorprende che egli abbia potuto trasmettere la sua eccitazione alla moglie (il 23 luglio 1943) annunciandole di avere compiuto un’importante scoperta: «Pensa che ho trovato un preparato completamente nuovo per la lotta contro i pidocchi, un preparato che ho sperimentato su 500 persone e con un risultato eccellente e, soprattutto, del 100 per cento»; aggiunse: «Spero di avere sotto questo aspetto una misura di successo quale il mondo non ha mai conosciuto prima [in modo da] spazzar via in un sol colpo tutto il tifo; e soprattutto, piccola mia, nessuno mi ha aiutato in questa ricerca... al contrario». Ora egli è un ricercatore solitario che può mirare a un reale successo epidemiologico, anche se, per essere conseguito «con un forte veleno, esso non è naturalmente senza rischi».61 Il preparato contro i pidocchi era il gas cianuro, o Zyklon-B.
Possiamo capire perché egli considerasse importante tenere un «orario di ufficio» per le famiglie delle SS e svolgere per loro la funzione di consigliere matrimoniale e di consulente personale. Egli voleva conservare fra loro la sua identità di medico anche se (come affermò in seguito con qualche verità) essi guardavano a lui con sospetto considerandolo un intellettuale inattendibile, un membro dell’«internazionale accademica»; il loro rapporto reciproco si esauriva al livello funzionale. È comprensibile anche l’intensità del suo coinvolgimento nella costruzione di un nuovo ospedale militare, così che il suo massimo rimpianto nel riconoscere infine con Langbein che la Germania aveva perduto la guerra era che «il lavoro [nella costruzione] della [nuova] infermeria [delle SS] sarà stato del tutto inutile».62
Affermando per se stesso la sua posizione di terapeuta, Wirths poté conferire dignità ai suoi esperimenti nel Blocco 20 situandoli nella categoria medica tecnica di «esami colposcopici in massa dell’utero per il rilevamento precoce del cancro, col sostegno attivo del professor dottor Hinselmann». Egli poté attribuire addirittura un aspetto medico alle selezioni sostenendo di aver chiesto «alle autorità del campo di consultarsi con i medici per ogni decisione riguardante l’abilità al lavoro [di internati]», pur aggiungendo (cosa che equivale a una mezza ammissione della realtà delle uccisioni) che «dovetti assoggettare i medici miei subordinati a questo fatto terribile». La sua autodifesa contiene anche un progetto visionario per «un grande ospedale da campo per prigionieri malati, con una capacità di 30.000-40.000 posti letto», destinato a servire anche altri campi di concentramento e a «eliminare l’influenza delle autorità del campo». Egli non scrisse, ovviamente, che quell’espansione delle strutture mediche si inquadrava nella visione nazista generale di una grande espansione, «dopo la vittoria», dell’eccidio e del lavoro servile ad Auschwitz.63
Troviamo infine un’ultima chiave per comprendere il valore adattivo del sé medico di Wirths nella presentazione che fa di lui suo fratello, descrivendolo come «un buon medico» «che cercava di fare quel che poteva», sulla base dell’assunto che «se qualcuno dev’essere ucciso..., un medico dev’essere un testimone..., colpevole o no». In mezzo alla morte, anche alla morte provocata da lui, un medico ha la nobile funzione di recare testimonianza, perché non può sottrarsi alla sua natura di terapeuta.
Il modello di Wirths illumina la distinzione cruciale fra conflitti e azioni: in assenza di una decisione di fondo di modificare le proprie azioni (smettere di fare selezioni eccetera), la tendenza è quella di assorbire i conflitti e di plasmarli in funzione del nostro adattamento. La depressione di Wirths e persino il suo mutamento di comportamento (secondo sua moglie, da uomo estroverso, felice, a uomo profondamente turbato e chiuso) furono un modo per mantenere il proprio adattamento, come pure lo fu la tendenza opposta, ricordata dalla figlia ad Auschwitz, alla tenerezza e alla gaiezza con i figli.
Già un po’ depresso a Dachau, e poi molto di più ad Auschwitz, Wirths avrebbe detto al fratello Helmut: «Come posso continuare a vivere?». Dopo la guerra, Wirths scrisse di essere stato «così oppresso emotivamente da vedere nel suicidio l’unico modo per uscire da questi gravi conflitti di coscienza (Gewissenskonflikten»),64 ma lasciò intendere che il suo stato psichico era migliorato dopo essere stato a Berlino ed esservi stato autorizzato a prendere delle iniziative mediche costruttive ad Auschwitz.
Wirths sperimentò chiaramente sensi di colpa, un senso di autocondanna, ma suo fratello Helmut spiegò che quei sentimenti «di non poter vivere in pace con la sua coscienza» furono massimi «all’inizio e alla fine», come tutti i suoi conflitti. Durante la maggior parte del tempo intermedio, Wirths poté vedere Auschwitz, come si espresse Helmut, come «un compito» (la «crociata» per il miglioramento di cui abbiamo parlato). Anche i messaggi di gratitudine che egli ricevette dai prigionieri lo aiutarono a mitigare il suo senso di colpa; e persino quando «precipitò nella disperazione», come si espresse suo fratello, rendendosi conto che i mali di Auschwitz non diminuivano ma «crescevano sempre più», la sua disperazione fu solo parziale e non certo invalidante.
Verso la fine le sue espressioni di colpevolezza rimasero ancora ambigue. In una lettera ai suoi genitori, ma rivolta specialmente al padre, scritta il 13 dicembre 1944, egli dichiarò: «La colpa non può essere negata» (compresa la sua, dobbiamo presumere), «ma senza dubbio il nostro popolo ha fatto per gran parte ammenda con la sua condotta eroica, con i suoi sacrifici immensi, particolarmente fra le donne e i bambini» (un’espressione di mitigazione ma anche di lealtà conservata non solo verso il popolo tedesco ma, si può sospettare, verso la sua causa); sacrifici «che a mio giudizio avrebbero potuto essere evitati se ci si fosse tenuti lontano da tali cose fin dal principio»65 (una critica parziale della politica nazista, e forse specialmente dell’eccidio di massa). Su questo tipo di presa di posizione incise forse l’idea di altri possibili lettori: i prigionieri, ai quali voleva che fosse nota la sua opposizione agli eccessi nazisti, e le autorità naziste, dinanzi alle quali non voleva apparire sleale o traditore. Anche questa lettera fu un mezzo di adattamento.
Le lettere alla moglie, scritte nell’ultimo periodo, divennero sempre più disperate perché l’adattamento stava diventando sempre più insostenibile: le truppe sovietiche e americane che stavano avvicinandosi venivano associate non solo al pericolo per la propria vita bensì a una sorta di giorno del giudizio. Wirths cominciò a evocare Dio (il fratello disse che «ad Auschwitz egli divenne un uomo religioso») e anche immagini colme di desiderio di una famiglia quieta e tranquilla e di un futuro dedicato alla medicina. Davanti alla minaccia di perdere tutto, il suo bisogno di fondersi con la moglie divenne più intenso («Io vivo solo in te»). E dopo la fuga da Auschwitz la sua affermazione della sua «buona coscienza dinanzi a Dio e dinanzi all’uomo»66 sembra un prodotto del desiderio piuttosto che della convinzione. Egli era allora, nelle parole del fratello, «completamente distrutto, un uomo senza speranze», non solo perché Auschwitz era stata la sua rovina, ma perché egli aveva perduto l’intera struttura, compresi Auschwitz e il movimento nazista, a cui era venuto adattandosi a prezzo di gravi sforzi. Soltanto la colpa verso la sua famiglia poteva essere affrontata con qualche speranza di venirne a capo, ed è questa la ragione per cui egli la definì la sua «colpa più grande».67
Durante quegli ultimi giorni, Wirths mise in discussione il comportamento dei suoi superiori, accusandoli di non avere «il coraggio necessario» che avrebbe potuto consentire loro di rendere più facile la sua situazione. Egli era ancora un uomo con una crociata da portare avanti, ma ora più travagliato che mai dal problema di salvare la propria vita e il futuro della propria famiglia (un uomo che stava cercando di mettersi «dall’altra parte» per «capire... [le] forti costrizioni esercitate su di me e su tutte le cose che... tormentavano il mio cervello e ancora lo tormentano»). Egli stava anche dando l’addio alla famiglia quando, scrivendo alla moglie, si riferì a se stesso come al «tuo Eduard [che] desidera vivere e lottare solo per te e per i bambini e che sarà qui e con te, con Dio e con te».68
Nella contemplazione della morte, Wirths si avvicinò un po’ più a esplorare il suo comportamento di Auschwitz. Parlò delle sofferenze del popolo tedesco, sofferenze che sarebbero state inevitabili «dopo tutti questi anni di male». Su se stesso fu più contorto, riconoscendo di avere compiuto gravi errori e di essere forse colpevole, ma giustificando ciò nonostante il suo comportamento e invocando una forma di rassegnazione religiosa negatrice della colpa.69
Benché suo fratello Helmut e altri gli avessero offerto di nasconderlo più a lungo, Wirths era ora evidentemente pronto a consegnarsi prigioniero agli inglesi, nella speranza, come scrisse, che «la via che ho imboccato ora sia retta agli occhi di Dio e della mia coscienza».70 L’autodifesa che egli redasse allora per presentarla alle autorità alleate era, come abbiamo visto, un misto di verità, di semiverità, di distorsione e di falsità, presentando l’immagine di un uomo chiamato contro la sua volontà nel sistema dei campi di concentramento, dove lottò per una giusta causa ma fu sempre a sua volta raggirato e «privato dei frutti del mio lavoro». L’affermazione era però in diretto contrasto con le alte valutazioni che egli ricevette sempre dai suoi superiori: l’ufficio del comandante (la Kommandantur) di Auschwitz lo aveva elogiato per la sua «leale tenacia»; e Lolling aveva attestato che egli occupava la sua posizione «con la più completa soddisfazione dei suoi superiori». Sulla base di tali raccomandazioni, nel settembre 1944, Wirths era stato promosso.71
Ora egli rimuginò su brani di Nietzsche, come: «Oh, demolire è facile, ma non costruire!» e su come «infine esperienze dolorose, eventi tristi riconducono il nostro cuore alla fede della nostra infanzia».72 Egli era però fondamentalmente senza speranza, parlava spesso di suicidio con suo fratello, e durante un’ultima visita fatta in segreto ai suoi familiari, suo fratello e sua moglie lo trovarono chiaramente orientato verso il suicidio. A questo punto egli si trovava in quella che clinicamente sarebbe chiamata una depressione ansiosa, accompagnata da una disperazione estrema, in cui erano presenti le componenti necessarie per il suicidio: la sensazione di essere in trappola e di non avere alcuna speranza per il futuro, l’esistenza di un’immagine anteriore di suicidio come possibile scelta nella propria vita, e il desiderio di trasmettere un principio duraturo che trovava nel proprio suicidio l’espressione migliore (nel suo caso un’affermazione di amore per la moglie e per la famiglia, e insieme una soluzione al problema tormentoso del senso di colpa).
L’ufficiale britannico che, mentre lo salutava, disse di stare stringendo la mano a un uomo responsabile della morte di quattro milioni di persone, attivò tutt’e tre queste componenti del suicidio. Wirths ebbe ragione di non nutrire più alcuna speranza sul suo futuro e di appellarsi a immagini di suicidio già esistenti dentro di sé per compiere un atto finale che risparmiasse alla sua famiglia il dolore e la disgrazia di un processo, pur senza riconoscere né negare le dimensioni della sua colpa.
Forse l’osservazione principale che si deve fare sul suicidio di Wirths è che esso fu commesso dopo tutto ciò che egli fece ad Auschwitz. Mentre si trovò là, la disperazione fece parte del suo adattamento, di quella che è stata chiamata una «vita di suicidio»: una vita in cui la possibilità di uccidere se stessi permette di evitare un autentico confronto con questioni di significato.73 Finché la fabbrica della morte di Auschwitz continuò a funzionare, nulla nei suoi conflitti gli impedì di eseguire le sue funzioni in essa. Sotto questo aspetto la sua storia rappresenta, anche se in una forma esagerata, l’esperienza complessiva dei medici nazisti ad Auschwitz.
Possiamo acquisire un senso più approfondito delle contraddizioni morali e psicologiche di Wirths – e del loro significato più ampio – rilevando le difficoltà che altre persone ebbero nel valutare tanto l’uomo quanto il suo suicidio.
In una lettera del 1946 scritta da Lill al padre di Wirths si dice che Hermann Langbein, il prigioniero più vicino a Wirths, «lo amava moltissimo e lo chiamava il suo “principe delle favole” e dichiarò che dopo la guerra, e in diversa uniforme, lo avrebbe rivisto volentieri, come amico».74 Ma Langbein non mancò di giustapporre l’aiuto estremamente prezioso fornito da Wirths ai prigionieri col fatto che «per due anni egli ebbe una funzione decisiva nell’apparato di sterminio delle SS». Langbein criticò Wirths meno per il suo ruolo nelle selezioni, che considerò imposto al medico capo, che per i suoi esperimenti fatali sul tifo, compiuti nell’ultimo periodo, che Wirths fece per propria decisione.75 Parlando di questi esperimenti, Langbein mi disse che le azioni di Wirths riflessero «la totale depravazione di tutte le persone che lavoravano ad Auschwitz indossando l’uniforme delle SS»; e nel compendiare ciò che Wirths fece ad Auschwitz, dichiarò: «Tutto ciò che posso dire è che per noi fu un bene, ma per lui fu probabilmente un male». Mi disse poi che, secondo lui, Wirths si era ucciso «perché aveva una coscienza». In commenti pubblici, Langbein si astenne da ogni valutazione morale definitiva, dicendo in un’occasione: «Chi vuol essere il giudice? Chi vuol condannare? Non io». A differenza di Langbein, Lill diede un giudizio illimitatamente positivo di Wirths, nel 1945 tentò di scoprire dove si trovava per aiutarlo e l’anno seguente scrisse a sua moglie elogiandone «il coraggio e la grande astuzia» nell’aiutare i prigionieri. Lill definì Wirths «il nostro migliore alleato» e dichiarò: «Suo marito combatté da solo la battaglia per il bene».76h Questa sarebbe stata anche la versione idealizzata che lo stesso Wirths ebbe della propria crociata personale.
Altri prigionieri espressero giudizi considerevolmente meno positivi. Secondo Tadeusz S., «Langbein affermò che avrebbe difeso Wirths, e a me Langbein è simpatico, ma io dissi che avrei testimoniato contro Wirths». La dottoressa Marie L. parlò di Wirths con un atteggiamento assai vicino al disprezzo. Il dottor Jan W., che apprezzò l’aiuto di Wirths ma insistette sul fatto che lo si doveva includere fra gli «assassini di massa», disse che il suicidio di Wirths non fu un atto dettatogli dalla coscienza bensì un riconoscimento dell’«impossibilità di far fronte alla responsabilità [di ciò che aveva commesso]». E la dottoressa Wanda J., che gli era grata per l’aiuto che le aveva dato ma che lo considerava «un criminale», compendiò la sua opinione dicendo: «In ogni modo, uccidendosi ha fatto la cosa più giusta».
Due medici SS con cui parlai consideravano Wirths un burocrate. Uno di loro lo definì «corretto» e «soggetto al controllo del comandante del campo di concentramento». L’altro lo riteneva un uomo senza molta immaginazione, «piuttosto sterile... [e] concreto».
Un altro giudizio fu espresso durante un documentario televisivo da un amico d’infanzia di Wirths, che aveva studiato diritto e teologia e che era un severo antinazista. Egli parlò con calore di Wirths come «il più amabile di noi, di cuore tenero, il più capace di pietà», aggiungendo di avere però rotto presto con lui a causa della loro risposta radicalmente diversa al nazismo. Nel giudicare padre e figlio, il vecchio amico, che sotto il nazionalsocialismo aveva lasciato il diritto per la teologia, formulò la cosa con tristezza ma in modo chiaro: «Per difendere suo padre sarei l’avvocato giusto. Per difendere Eduard avrei delle inibizioni».78
I membri della famiglia di Wirths si sono trovati nella condizione più difficile nel giudicarlo.
La sua vedova si è sforzata di restare fedele al senso della sua virtù, evitando ogni discussione su Auschwitz con i figli e parlando con loro «solo di cose personali». Quando divenne necessario parlare dell’argomento, essa sottolineò che egli «riuscì a fare del bene a molte persone e che essi non avevano ragione di vergognarsi di lui». Più avanti nel corso dello stesso documentario, essa pervenne all’idea che, «se si era fra loro... questa è la colpa». E disse a Langbein che il suicidio di suo marito «fu probabilmente la cosa più giusta da farsi», affermazione che si riferiva forse alla disperazione del marito, alla mancanza di prospettive del suo processo e alle sofferenze che un tale processo avrebbe causato a tutti; o che conteneva forse anche il riconoscimento del fatto che, pur essendo convinta della sua bontà, ammetteva che egli avrebbe dovuto essere giudicato colpevole.
I suoi due figli affrontarono il problema in modo più diretto, ma non meno ambivalente. Il figlio maggiore, che aveva caldi ricordi d’infanzia di giochi col padre, disse: «Non so se sia giusto difenderlo» e terminò dicendo: «Vorrei lasciare aperto il problema». Il figlio più giovane, che non aveva tali ricordi infantili, sembrava più vicino a ritenere che il suicidio del padre lasciasse intendere un suo senso di colpa e disse che «non so perché egli non si sia rifiutato all’inizio, sapendo che cosa accadeva là». Poi però negò che suo padre avesse commesso dei crimini e disse: «Non so».
Il vecchio padre di Wirths si trovò a dover giustificare il consiglio dato al figlio di restare ad Auschwitz e, in una lettera lunga e ponderata al Tribunale di Francoforte, disse di avere «implorato [suo figlio]... a salvare vite umane ogni qualvolta avesse potuto» ma che «non avrebbe dovuto eseguire ordini disumani»: un consiglio che suona dubbio a ogni livello a chiunque. Il padre elencò nei particolari vari modi in cui suo figlio salvò vite umane, e definì le sue attività ad Auschwitz come «sacrificali». Nelle ultimissime parole del documentario, però, egli si chiese: «Ma là egli dovette diventare inevitabilmente colpevole? Io vi chiedo solo: [il mio consiglio] era giusto?».79
La figlia di Wirths – una donna sposata che aveva superato da poco la quarantina – ricordò che la madre non le aveva detto praticamente nulla del padre tranne che «era morto per causa della guerra»; e inoltre che «era un brav’uomo e veramente un buon padre», cosa che era in accordo con alcuni ricordi affettuosi che essa aveva di lui. Quando la famiglia decise di cooperare con un regista olandese che stava preparando un documentario su Wirths, sua madre cominciò a dirle altre cose, fra cui particolari sulle selezioni, insistendo sulla disperazione di suo padre, sul suo desiderio di andarsene e sulla sua decisione finale di rimanere «per impedire una situazione ancora peggiore». In libri che cominciò ora a leggere, la figlia vide emergere d’improvviso un ritratto del padre «completamente diverso, [una persona] del tutto differente». Essa trovò tutto questo «molto duro» e «difficile da credere», sentì il bisogno «di difenderlo... di capirlo... di trovare una giustificazione». Essa cercò di vedere in lui «un soldato in guerra che sparava su certe persone come suo lavoro», un uomo che era rimasto al suo posto per «salvare la sua famiglia» (ossia per evitare che si abbattessero su di essa delle ritorsioni). Sforzandosi di penetrare nella sofferenza del padre, pensò che solo i suoi legami familiari gli avessero impedito di uccidersi prima; e ritenne che, alla fine, suo padre «un uomo distrutto..., sapendo di avere ucciso delle persone... non riuscì più a vivere con questo peso».
Essa disse che, dopo ripetute discussioni con suo fratello più giovane, «in ultima analisi nessuno di noi lo condanna... Non possiamo condannare lui, lui stesso». Ma la sua domanda ultima su suo padre rifletté sia i suoi dubbi profondi sia la sua difficoltà a capire fin dove suo padre fosse stato trasportato dalla sua ideologia. La domanda era: «Può un uomo buono fare cose cattive?».
Il fratello di Eduard, Helmut, il membro della famiglia più costantemente coinvolto nel problema, fu motivato a quanto pare da due potenti incentivi: rendere nota la lotta del fratello e in qualche misura riabilitarne il nome; e illuminare più in generale questo episodio dell’eccidio di massa nazista come modo per portare la propria testimonianza costruttiva. La sua «missione» fu complicata dal proprio coinvolgimento in alcuni di quegli eventi. Egli fu in frequente contatto con Hermann Langbein, lesse molto su Auschwitz e partecipò al processo di Auschwitz a Francoforte, conducendo a volte con sé suo figlio, un collega più giovane e l’amico d’infanzia di Eduard menzionato in precedenza. Helmut e suo figlio erano impegnati in un dialogo doloroso: «Ci fu un periodo in cui egli [il figlio] dubitò del fatto che qualcuno durante quel periodo [l’epoca del nazismo] fosse rimasto corretto [noch korrekt geblieben: e quindi, per implicazione, che non fosse diventato colpevole], me compreso».
Helmut si sforzò di conseguire una prospettiva umanitaria più vasta, dichiarando di «poter capire» l’osservazione dell’ufficiale britannico sul fatto di stringere la mano a un uomo che era responsabile della morte di quattro milioni di ebrei che aveva preceduto il suicidio del fratello, e di non avere alcuna animosità verso di lui; e sostenne di aver detto a Eduard, prima di andarsene da Auschwitz: «Se io fossi un ebreo, dopo la guerra impiccherei ogni tedesco, uomo, bambino..., vecchi, tutti». Ma il suo simultaneo bisogno di difendere il fratello lo condusse a insistere sulle sue buone azioni, sino a una sua idealizzazione erronea, come nell’affermazione che Wirths convinse Höss a lasciare i bambini con i loro genitori alle selezioni, permettendo così loro di sopravvivere.
Helmut si sforzò di considerare il fratello «una persona di cui si era grandemente abusato (missbraucht)», un «essere umano molto buono..., il padre migliore, un buon medico... che ebbe il terribile destino di [venirsi a trovare in] questa situazione». E «se si rimane presi in questo meccanismo dell’assassinio si è costretti a diventare colpevoli». Egli andò però oltre, ammettendo: «A volte per me è difficile credere tutte quelle cose su mio fratello, che facesse quelle cose... come selezionare bambini per la camera a gas». Egli fu estremamente turbato anche dal racconto fatto da Langbein della partecipazione di suo fratello agli esperimenti sul tifo, si chiese se Langbein non potesse essere in errore, e aggiunse: «Non riesco a crederlo». Egli sembrava considerare questo caso un problema ippocratico più diretto di qualsiasi altro e ammise che, se la cosa era vera, avrebbe dovuto «giudicare diversamente» suo fratello perché tali esperimenti «avrebbero significato quasi certamente la morte per un essere umano». Egli ammise anche di non avere alcuna ragione per dubitare del racconto di Langbein.
Parlando delle azioni del fratello, Helmut sollevò la questione centrale del paradosso terapia-uccisione: «Ti è lecito uccidere per salvare un’altra persona?». E più avanti: «In qualunque modo ci si rigiri... si finisce col diventare colpevoli». A un qualche livello egli stava probabilmente includendo in quel giudizio anche se stesso per avere consigliato al fratello di restare ad Auschwitz e per aver partecipato personalmente (per quanto minimizzasse tale partecipazione) alle ricerche del fratello sul cancro del collo dell’utero.
Helmut Wirths era pervenuto a una verità considerevole su Auschwitz, verità che poté esprimere con una certa eloquenza, come nell’epigrafe al capitolo VII. Il suo giudizio finale sul fratello, da lui espresso ripetutamente, fu quello di una «colpa tragica... una colpa ineluttabile», come quelle descritte nelle tragedie greche. Egli voleva dire che le circostanze creano un destino che conduce inesorabilmente ad azioni colpevoli, ma anche lui sottovalutò l’impegno nazista attivo del fratello. Helmut sottolineò la giovinezza e inesperienza del fratello a quel tempo, assieme alla propria, e rimpianse di non essere stato a quel tempo «un uomo maturo... in grado di giudicare meglio [le cose]». In tal caso avrebbe potuto assumere «una posizione decisa contro tali eventi» essendosi convinto che «l’unica cosa da fare in una situazione del genere è dire: “No, non voglio farlo”».
Che cosa si può dunque dire, infine, sull’adattamento psicologico del «buon medico coscienzioso» e sul progetto di eccidio di Auschwitz?
La chiave iniziale è la combinazione unica di Wirths di un’ideologia nazista appassionata con un talento medico eccezionale: una combinazione che poteva lanciare rapidamente una persona in una posizione di direzione medica, o di direzione dell’eccidio sotto l’egida della medicina. Wirths era immerso significativamente nell’ideologia nazista in tre sfere cruciali: l’ambizione di rivitalizzare la razza e il Volk tedeschi; la via biomedica a quella rivitalizzazione passando per la purificazione dei geni e della razza; e il concentrarsi dell’attenzione sugli ebrei come minaccia a tale rinnovamento, alla «sanità» immediata e a lungo termine della razza tedesca. Benché Wirths non assolutizzasse queste convinzioni alla maniera di un Mengele – esse si combinavano in lui con una forte corrente di umanitarismo medico –, il suo impegno verso la causa nazista era probabilmente non meno forte.
Wirths aveva un altro tratto su cui i commentatori non si sono soffermati in misura adeguata: una combinazione di moralismo e di scrupolosità spinta all’eccesso che, in condizioni normali, contribuisce a fare di una persona un «medico attendibile», mentre nella situazione di Auschwitz contribuì all’efficienza con cui Wirths fondò e mantenne l’intera struttura dell’eccidio sotto l’egida della medicina. Essa gli permise di essere sempre sia «corretto» sia meticoloso nell’applicazione di norme e regolamenti, tanto nei suoi sforzi di limitare il male di Auschwitz quanto (fatto più importante, come risultò) nel prestare la propria opera al servizio di tale male.
Ad Auschwitz, Wirths fu spinto nella situazione ultima della produzione di atrocità. Egli venne a trovarsi in un insieme di condizioni così strutturate sul piano organizzativo e psicologico che chiunque entrasse in una tale situazione non poteva evitare di commettere atrocità. In quel senso c’è una qualche verità nell’affermazione di Helmut che, una volta inviato là, suo fratello doveva inevitabilmente diventare colpevole, ma solo se vi fosse rimasto. E potenti forze psicologiche legarono Wirths ad Auschwitz e superarono il suo desiderio ambivalente di andarsene.
«Resistere» ad Auschwitz – rimanervi quale che fosse lo stato di coercizione cui era soggetto – era la posizione morale sostenuta non solo dalla famiglia di Wirths e dai propri sensi del dovere; ma anche dal suo senso più profondo di sé e del mondo. In quel principio di «resistere sino alla fine» confluivano le esperienze fino allora maturate di una pietà filiale, nazionale e ideologica: forti inclinazioni immediate all’obbedienza, oltre che a un impegno trascendente verso ciò che egli percepiva come la sua immortale sostanza razziale, nazionale e culturale. Quell’attrazione verso l’immortalità poteva prevalere su qualsiasi orrore venisse percepito dall’umanitarista presente in lui, e dare un grande contributo a fare di lui il medico-organizzatore della stessa situazione produttrice di atrocità da lui così aborrita.
Per quanto Wirths fosse insolito, era al tempo stesso anche troppo rappresentativo della corruzione dei medici nella Germania nazista. Egli partecipò, in parte volontariamente, a realizzare il più visionario fra tutti i progetti nazisti di guarire la razza ariana, uccidendo coloro che sembravano minacciarla. Le sue attività furono «sacrificali», come si espresse suo padre, solo nel senso che – incarnando egli in se stesso il rovesciamento più estremo di terapia e uccisione, prese su di sé una grande misura della corruzione e della colpa della sua professione se non della sua generazione.
Egli fu sia un realizzatore – mosso dalle sue motivazioni – del proprio destino sia un uomo manovrato da forze più grandi di lui. In altri termini, egli si assunse dapprima il ruolo medico di coltivatore di geni che gli veniva offerto dai nazisti; poi fu lanciato in una sequenza di ambienti repellenti culminanti in Auschwitz, ambienti che lo offesero ma che suscitarono le sue lealtà; e finì col fornire un servizio abile e professionalmente fidato al progetto di uccisione cui pure era pervenuto moralmente a opporsi. Egli era sia «una persona di cui si era grandemente abusato» (secondo le parole del fratello) sia l’artefice del cattivo uso di cui era stato oggetto da parte di un regime omicida.
Quali che siano state le sofferenze e l’ambivalenza di Wirths, la sua forma di sdoppiamento fu sotto molti aspetti ideale per l’intera funzione di Auschwitz. Il suo sé nazista di Auschwitz, con la sua fedeltà agli ideali di purificazione razziale e di rivitalizzazione nazionale, poté servire il progetto di eccidio con straordinaria efficienza; il suo sé medico umanitario, così fortemente sostenuto da rapporti familiari affettuosi, lo aiutò a mantenere la sua funzione generale e contribuì al giudizio di «rispettabilità» che egli poteva dare di se stesso oltre che allo stesso giudizio che davano di lui i prigionieri e molti colleghi e ufficiali delle SS. Wirths era in misura grandissima quello che William James chiamò un «sé diviso», ma nell’ambiente di Auschwitz quella divisione aveva una precisa funzionalità. Il suo era lo sdoppiamento caratteristico del fenomeno generale del «nazista perbene»; e fedele a tale fenomeno, Wirths fece bene il suo lavoro.
Wirths rappresentò un caso estremo nel suo coinvolgimento tanto nella funzione terapeutica quanto in quella dell’eccidio. In tal modo il suo sdoppiamento assomigliò a quello di Kurt Gerstein, l’ufficiale delle SS che, in modi strani e non ancora sufficientemente ben compresi, si comportò come un ardente attivista delle SS; che si addossò gran parte della responsabilità tecnica per il gas Zyklon-B e per la sua consegna ad Auschwitz; ma che ha anche una documentazione imponente come antinazista, che affermò di essersi infiltrato nelle SS per comprenderne le operazioni di eccidio, e che verso la fine tentò disperatamente di informare il mondo dello sterminio perpetrato dai nazisti. A differenza di Gerstein, però, Wirths non uscì mai dal suo ruolo di nazista per denunciare agli altri il progetto malvagio di cui egli stesso era parte. Tanto Gerstein quanto Wirths dimostrano che lo sdoppiamento può permettere a un uomo di essere un fautore appassionato tanto dell’eccidio quanto della terapia (vedi nota a pp. 227-228).
Il suicidio di Wirths non fu la conseguenza di un venir meno dello sdoppiamento di se stesso, o di una resistenza al progetto di uccisione. Esso fu piuttosto una conseguenza sia dello sdoppiamento sia del progetto. L’affermazione del dottor Jan W. che Wirths si uccise perché «non poteva far fronte alla responsabilità» per ciò che aveva fatto era perciò vera. Privato d’improvviso del suo posto di ufficiale medico nel progetto nazista, Wirths si trovò soggetto alle conseguenze inevitabilmente dure (processo, condanna, morte) delle proprie azioni.
Eppure anche Langbein poteva essere nel giusto dicendo che Wirths si era ucciso perché «aveva una coscienza». Egli aveva una coscienza più della maggior parte dei medici nazisti e forse anche della maggior parte degli esseri umani. Ma tale coscienza era stata aggiogata al movimento nazista, a cui egli prestò un servizio devoto; essa non poté esser staccata dal nazismo neppure ad Auschwitz, anche se una parte di tale coscienza fu messa al servizio del compito umanitario di salvare la vita di prigionieri.
Il messaggio di Wirths al futuro attraverso il suo suicidio contiene anche un’espressione di coscienza; il principio che colui che rimane coinvolto nell’eccidio di massa deve a sua volta pagare con la vita; e il principio associato, più dubbio ai nostri occhi ma fortemente sentito, che si può mantenere la «purezza» del futuro della propria famiglia distruggendo il suo componente contaminato: ossia se stessi. Ma potrebbe esserci anche un terzo principio, connesso agli altri due: la riaffermazione dell’ethos della terapia attraverso la distruzione del medico che si è macchiato di uccisioni.
a. Langbein sottolinea che Wirths ebbe inizialmente qualche difficoltà con i nazisti a causa delle sue anteriori simpatie per il socialismo democratico. Non c’è però alcun dubbio sul successivo entusiasmo di Wirths per il nazismo.
b. Ciò che Wirths non sapeva era che l’uomo, che egli stava tentando di reclutare per le SS, era un mezzo ebreo, segreto che Langbein (come spiegò in seguito) custodì con cura nel campo, dato che la sua divulgazione avrebbe potuto costargli molto cara.
c. Questa sequenza è simile a quella di un medico da me intervistato: un eminente specialista accademico che, in una riunione di medici militari, aveva manifestato del coraggio esprimendosi contro gli esperimenti sull’uomo, ma solo per prendere parte a tali esperimenti (anche se in un modo piuttosto indiretto) qualche tempo dopo. Egli era stato gentilmente convocato da Conti, con cui aveva avuto una «cortese discussione» e che era riuscito a quanto pare a convincerlo dell’importanza di tali esperimenti per salvare la vita di soldati tedeschi. Anche questo medico sentì il bisogno di conservare la sua lealtà ai compiti indicati dal progetto nazista, convinto al tempo stesso che la partecipazione al progetto gli avrebbe permesso di fare qualcosa per migliorarlo.
d. Persino il fatto che Wirths abbia adottato una volta l’atteggiamento opposto, dicendo – a un sottufficiale che aveva opposto resistenza a partecipare alle selezioni – «Finalmente una persona che ha del carattere!», è un altro esempio della sua straordinaria capacità di destreggiarsi nella situazione contraddittoria di Auschwitz.
e. Era questo il periodo in cui, all’avvicinarsi delle truppe russe, uccisa ormai la maggior parte degli ebrei disponibili, si decise di metter fine alle grandi selezioni in previsione della chiusura del campo.
f. Filip Müller, un testimone ex prigioniero, raccontò che «circa 450 nostri compagni... avevano combattuto coraggiosamente ed erano morti con onore, rifiutandosi di arrendersi passivamente alla loro sorte... Alcuni uomini delle SS erano morti, alcuni altri erano stati feriti... In seguito si seppe che, consegnando la Croce di Ferro a vari militi delle SS, il Lagerkommandant aveva ricordato che questa era la prima volta che guardie dei campi di concentramento avevano prevenuto una fuga in massa, un fatto di eroismo per cui il Führer li aveva decorati».53
g. L’autodifesa di Wirths aveva lo scopo di discolparlo – egli stava tentando di salvarsi la vita –, e a tal fine era disposto a piegare considerevolmente la verità ai suoi fini.
h. Nella corrispondenza con la famiglia di Wirths, Lill parlò di lui come di un uomo di «rara nobiltà»; e in una lettera straordinaria alla moglie di Wirths, scritta nel 1976, Lill, comunista convinto, immaginò «gli esseri umani [ideali] del futuro» dotati del «coraggio», dell’«astuzia» e dell’«autocontrollo» di Wirths, che Lill, «in tono semiserio», definì «un “marxista raffinato”... un Albert Schweitzer compagno».77
Parte Terza
Il comportamento dei medici nazisti suggerisce gli inizi di una psicologia del genocidio. Per chiarire i princìpi implicati, mi concentrerò sistematicamente sul modello psicologico dello sdoppiamento, che fu il meccanismo complessivo messo in atto dai medici per partecipare al male. È necessario anche identificare certe tendenze nel loro comportamento, promulgate e persino richieste dall’ambiente di Auschwitz, le quali facilitarono enormemente lo sdoppiamento. Questa esplorazione intende servire a due fini: innanzitutto, essa può fornire una nuova comprensione delle motivazioni e delle azioni dei medici nazisti e dei nazisti in generale. In secondo luogo, può sollevare questioni più vaste sul comportamento umano, sui modi in cui le persone, individualmente e collettivamente, possono abbracciare varie forme di distruttività e di male, con o senza la consapevolezza di farlo. I due fini, in un senso molto reale, si riducono in verità a uno solo. Se c’è una qualche verità nei giudizi psicologici e morali che noi diamo dei caratteri specifici e unici dello sterminio nazista, noi siamo tenuti a derivare da tali caratteri dei princìpi che abbiano un’applicazione più vasta: princìpi che hanno attinenza con la straordinaria minaccia e col grandissimo potenziale di autoannientamento che incombono oggi sull’umanità.
XIX
Non solo tu vincerai le paralizzanti difficoltà del tempo, ma spezzerai il tempo stesso... avrai il coraggio della barbarie, che è doppiamente tale perché arriva dopo il senso di umanità...
Thomas Mann
Chiunque di noi potrebbe essere l’uomo che incontra il suo doppio.
Friedrich Dürrenmatt
La chiave per capire come i medici nazisti pervennero a svolgere le loro funzioni ad Auschwitz è il principio psicologico che io chiamo «sdoppiamento»: la divisione del sé in due sé funzionanti, così che un sé parziale venga ad agire come un sé intero. Un medico di Auschwitz poteva, attraverso lo sdoppiamento, non solo uccidere e contribuire a uccidere, ma organizzare tacitamente, per conto del progetto di sterminio, un’intera struttura del sé (o processo del sé) che veniva a inglobare virtualmente ogni aspetto del suo comportamento.
Lo sdoppiamento era quindi il veicolo psicologico per il baratto faustiano del medico nazista con l’ambiente diabolico: in cambio del suo contributo all’eccidio egli riceveva vari benefici psicologici e materiali che contribuivano al suo adattamento in una posizione privilegiata. Al di là di Auschwitz c’era la più vasta tentazione faustiana offerta ai medici tedeschi in generale: quella di diventare i teorici e i realizzatori di uno schema cosmico di terapia razziale per mezzo dell’immolazione e dello sterminio in massa di una razza vista come corruttrice.
Si è sempre eticamente responsabili dei baratti faustiani: una responsabilità che non viene abrogata in alcun modo dal fatto che gran parte dello sdoppiamento si verifica fuori della coscienza. Nell’esplorare lo sdoppiamento, mi impegnerò in uno scandagliamento psicologico nell’intento di illuminare il male. Per il singolo medico nazista ad Auschwitz lo sdoppiamento significava probabilmente una scelta a favore del male.
Considerando il problema in termini generali, lo sdoppiamento implica cinque caratteristiche. Innanzitutto c’è una dialettica fra due sé in termini di autonomia e di connessione. Il singolo medico nazista aveva bisogno del suo sé di Auschwitz per reggere psicologicamente in un ambiente così antitetico alle sue norme etiche precedenti. Al tempo stesso, aveva bisogno del suo sé anteriore per continuare a vedere in se stesso un medico, marito, padre umano. Il sé di Auschwitz aveva bisogno di essere sia autonomo sia connesso al sé anteriore che gli aveva dato origine. In secondo luogo, lo sdoppiamento segue un principio olistico. Il sé di Auschwitz poté «funzionare» perché era un sé comprensivo e poteva connettersi con l’intero ambiente di Auschwitz: esso conferiva coerenza e forma a vari temi e meccanismi che prenderò in esame fra poco. In terzo luogo, lo sdoppiamento ha una dimensione vita-morte: il sé di Auschwitz era percepito dall’uccisore come una forma di sopravvivenza psicologica in un ambiente dominato dalla morte; in altri termini, abbiamo il paradosso di un «sé assassino» che viene creato a vantaggio di quella che viene percepita come la propria guarigione o sopravvivenza. In quarto luogo, una fra le funzioni principali dello sdoppiamento, come ad Auschwitz, è probabilmente intesa a evitare il senso di colpa; il secondo sé tende a essere quello che fa il «lavoro sporco». E, infine, lo sdoppiamento implica sia una dimensione inconscia – che come si è detto si colloca in gran parte al di fuori della consapevolezza – sia un mutamento significativo nella coscienza morale. Questi cinque caratteri comprendono e pervadono ogni altro fenomeno psicologico che si verifica nello sdoppiamento.
Per esempio, il principio olistico differenzia lo sdoppiamento dal concetto psicoanalitico tradizionale di «scissione (splitting)». Quest’ultimo termine ha avuto vari significati, ma tende a suggerire l’isolamento di una parte del sé, così che l’elemento «scisso» cessa di rispondere all’ambiente (come in quello che io ho chiamato «ottundimento psichico»), oppure viene a trovarsi in qualche modo in disaccordo con la parte restante del sé. La scissione in questo senso assomiglia a quella che Pierre Janet, un contemporaneo ottocentesco di Freud, chiamò in origine «dissociazione», e lo stesso Freud presentò la tendenza a considerare equivalenti i due termini. In relazione a forme protratte di adattamento c’è stata però della confusione circa il modo in cui spiegare l’autonomia di quel «pazzo» separato del sé, della confusione su come rispondere alla domanda (qual è stata formulata da un pensatore profondo): «Che cosa si scinde nella scissione?».1a
La «scissione» o «dissociazione» può quindi denotare qualcosa sulla repressione del sentimento, o ottundimento psichico, dei medici nazisti in relazione alla loro partecipazione all’eccidio.b Ma per poter tracciare una storia del loro coinvolgimento in una routine continua di uccisioni, nel corso di un anno o due o più, c’è bisogno di un principio esplicativo che attinga al sé intero, funzionante. (Lo stesso principio si applica nel caso di turbe psichiche protratte, e la mia insistenza sullo sdoppiamento è in accordo con la crescente attenzione contemporanea alla funzione olistica del sé.)8
Lo sdoppiamento fa parte del potenziale universale per quello che William James chiamò il «sé diviso»: ossia per tendenze opposte nel sé. James citò il grido disperato dello scrittore francese dell’Ottocento Alphonse Daudet: «Homo duplex, homo duplex!» nel rendersi conto della sua «orribile dualità», quando, di fronte alla morte del fratello Henri, il «primo sé [di Daudet] pianse» mentre il suo secondo sé, comodamente seduto, si figurava nella mente con un intento un po’ ironico la scena per una rappresentazione teatrale immaginaria.9 Per James e per Daudet il potenziale per lo sdoppiamento fa parte dell’essere umano ed è probabile che questo processo si verifichi in un frangente supremo, in relazione alla morte.
Ma quel «sé antagonistico» può diventare pericolosamente sfrenato, come avvenne nei medici nazisti. E quando accade questo, come scoprì Otto Rank nei suoi studi ampi del «doppio» nella letteratura e nel folklore, quel sé opposto può diventare un usurpatore dall’interno e sostituire il sé originario fino a «parlare» per l’intera persona.10 La ricerca di Rank suggerisce anche che il potenziale per un sé antagonistico, che è in effetti il potenziale per il male, è necessario alla psiche umana: la perdita della propria ombra o anima o «doppio» significa la morte.
In termini psicologici generali, il potenziale adattivo per lo sdoppiamento è integrale alla psiche umana e, a volte, può salvare la vita: per esempio per un soldato in battaglia; o per una vittima della brutalità, come un internato di Auschwitz, che deve sottostare anche lui a una forma di sdoppiamento per poter sopravvivere. È chiaro che il «sé antagonistico» può migliorare la vita. In certe condizioni, però, può anche abbracciare il male con un’estrema sfrenatezza.
La situazione del medico nazista assomiglia a quella di uno degli esempi di Rank (tratto da un film tedesco del 1913, Der Student von Prag [Lo studente di Praga, di Stellan Ryel]): uno studente campione di scherma accetta l’offerta di un mago malvagio di diventare molto ricco e di avere la possibilità di sposare la sua amata, in cambio di qualcosa che il mago vuol portare via dalla camera; ciò che egli porterà via è l’immagine dello studente nello specchio: l’immagine di una persona nello specchio è una rappresentazione frequente del doppio. Quel doppio diventa infine un assassino, servendosi dell’abilità dello studente nella scherma, in un duello col corteggiatore della sua amata, nonostante che lo studente (il suo sé originario) abbia promesso al padre della donna che non avrebbe fatto quel duello. Questa variazione sulla leggenda di Faust ha un parallelo nel «baratto» del medico nazista con Auschwitz e il regime: per compiere l’eccidio, egli offre un sé antagonistico (il sé di Auschwitz che sta sviluppando): un sé che, nella violazione delle sue anteriori norme morali, non si imbatte in alcuna resistenza efficace e di fatto si serve delle sue abilità originarie (in questo caso medico-scientifiche).11c
Rank sottolineò il simbolismo di morte del doppio come «sintomatico della disintegrazione del tipo di personalità moderno». Tale disintegrazione conduce a un bisogno di «autoperpetuazione nella propria immagine»13 – quella che io definirei una forma di immortalità intesa alla lettera – in contrapposizione alla «perpetuazione del sé in un’opera che rifletta la propria personalità» o a una forma di immortalità creativo-simbolica. Rank vide nella leggenda di Narciso una rappresentazione sia del pericolo del modo letterale sia della necessità del passaggio al modo creativo (qual è incarnato dall’«artista-eroe»).d Ma il movimento nazista incoraggiò il suo aspirante artista-eroe, il medico, a restare, come Narciso, schiavo della propria immagine. Qui viene subito alla mente Mengele, col suo narcisismo estremo al servizio della ricerca di onnipotenza e con la sua esemplificazione, spinta all’estremo della caricatura, della situazione generale dei medici nazisti a Auschwitz.15
Il modo in cui lo sdoppiamento permetteva ai medici nazisti di evitare il senso di colpa non era attraverso l’eliminazione della coscienza ma attraverso quello che può essere chiamato il trasferimento di coscienza. Le richieste della coscienza venivano trasferite al sé di Auschwitz, che le collocava all’interno dei propri criteri per il bene (dovere, lealtà verso il gruppo, «miglioramento» delle condizioni di Auschwitz eccetera), liberando in tal modo il sé originario dalla responsabilità per le azioni ivi compiute. Rank parlò similmente di un senso di colpa che induce il protagonista a non accettare più «la responsabilità di certe azioni dell’io», ma «ad addebitarle a un proprio Doppio, che può essere rappresentato dal diavolo stesso o da lui in cambio di una concessione»:16 cioè il baratto faustiano dei medici nazisti menzionato prima. Rank attribuì l’inizio del trasferimento di coscienza a un «forte senso di colpa»;17 ma per la maggior parte dei medici nazisti la manovra di sdoppiamento parve evitare quel senso di colpa anteriore al suo sviluppo o al suo raggiungimento di dimensioni coscienti. Esiste una connessione inevitabile fra morte e senso di colpa. Rank mette il sé antagonistico sullo stesso piano con una «forma di male che rappresenta la parte peritura e mortale della personalità».18 Il doppio è il male in quanto rappresenta la propria morte. Il sé di Auschwitz del medico nazista assunse similmente per lui il problema della morte, ma al tempo stesso usò il suo progetto malvagio come un modo per evitare la consapevolezza della propria «parte peritura e mortale». È lui a fare il «lavoro sporco» per l’intero sé rendendo tale lavoro «più pulito», e in tal modo protegge l’intero sé dalla consapevolezza della propria colpa e della propria morte.
Nello sdoppiamento, una parte del sé «ne ripudia» un’altra. Ciò che viene ripudiato non è la realtà stessa – il medico nazista era consapevole di ciò che stava facendo attraverso il suo sé di Auschwitz – bensì il significato di tale realtà. Il medico nazista sapeva di fare le selezioni, ma non interpretava le selezioni alla stregua dell’assassinio. Un livello del ripudio era, quindi, l’alterazione del significato di assassinio da parte del sé di Auschwitz; su un altro livello c’era il ripudio da parte del sé originario di tutto ciò che veniva compiuto dal sé di Auschwitz. A partire dal momento della sua formazione, il sé di Auschwitz violava a tal punto il concetto precedente di sé del medico nazista da richiedere un suo ripudio più o meno permanente. Il ripudio era in effetti la linfa vitale del sé di Auschwitz.e
Lo sdoppiamento è un processo psicologico attivo, un mezzo di adattamento a situazioni estreme. Ecco perché uso il vocabolo «sdoppiamento» in contrapposizione al vocabolo più consueto, e più statico, del «doppio». L’adattamento richiede la dissoluzione di una «colla psichica»20 come alternativa a un crollo radicale del sé. Ad Auschwitz questo modello si affermava nelle condizioni di estremo disagio del periodo di transizione del singolo medico. In questo periodo il medico nazista sperimentava la sua propria ansia di morte, oltre a equivalenti della morte come il timore di una disintegrazione, della separazione e della stasi. Egli aveva bisogno di un sé di Auschwitz funzionale per placare la sua ansia. E quel sé di Auschwitz doveva assumere l’egemonia su una base quotidiana, riducendo l’espressione del sé anteriore a momenti occasionali e a contatti con la famiglia e con amici fuori del campo. Né la maggior parte dei medici nazisti tentarono di opporsi a tale usurpazione finché rimasero nel campo. Essi la salutarono piuttosto come l’unico mezzo per conservare il proprio funzionamento psicologico. Se un ambiente presenta difficoltà sufficientemente estreme, e si decide di restare in esso, l’unico modo per poterlo fare è per mezzo dello sdoppiamento.
Lo sdoppiamento non include però la dissociazione radicale e la separazione protratta che sono tipiche della personalità multipla o doppia. In quest’ultima condizione i due sé sono più profondamente distinti e autonomi e tendono o a non conoscersi fra loro oppure a vedersi come estranei. Si ritiene inoltre che il tipo della personalità doppia o multipla cominci molto presto nell’infanzia e si consolidi mantenendosi più o meno indefinitamente. Eppure è probabile che nello sviluppo della personalità multipla ci siano influenze come intensi traumi psichici o fisici, un’atmosfera di estrema ambivalenza e un grave conflitto e confusione su identificazioni:21 tutte cose che possono avere un’incidenza determinante nello sdoppiamento. Per entrambe le condizioni è pertinente anche il principio di Janet secondo cui è probabile che un particolare sé, «una volta battezzato» – ossia denominato o confermato da qualcuno che abbia un’autorità –, diventi più chiaro e definito.22 Pur non essendo mai stabile come un sé nella personalità multipla, il sé di Auschwitz subì nondimeno un battesimo simile quando il medico nazista condusse le sue prime selezioni.
Un autore recente, per delineare la profondità della «scissione» nella schizofrenia e nella personalità multipla, ha usato la metafora di un albero: una metafora che potrebbe essere estesa a includervi lo sdoppiamento. Nella schizofrenia la spaccatura nel sé è simile alla «rottura di un albero che ha subìto un deterioramento generale, almeno in un qualche tratto importante del tronco, verso il basso o fino alle radici». Nella personalità multipla quella spaccatura è specifica e limitata, «come in un albero essenzialmente sano, in cui la spaccatura non scende molto verso il basso».23 Lo sdoppiamento ha luogo ancora più in alto in un albero le cui radici, il cui tronco e i cui rami più grandi non hanno mai subito in precedenza alcun danno; dei due rami separati artificialmente, uno comincia a deteriorarsi nella corteccia e nelle foglie, in un modo che consente all’altro di mantenere la crescita ordinaria, e i due rami sono intrecciati a sufficienza per tornare a saldarsi qualora le condizioni esterne dovessero favorire tale saldatura.
Lo sdoppiamento dei medici nazisti era un «disturbo del carattere» di natura antisociale? Non nel senso classico, in quanto il processo tendeva a essere più una forma di adattamento temporaneo che non un modello destinato a durare per tutta la vita. Ma lo sdoppiamento può comprendere elementi considerati tipici di deterioramenti «sociopatici» del carattere: fra questi sono un disturbo dell’affettività (oscillazioni fra apatia e rabbia), un rifiuto patologico del senso di colpa e un ricorso alla violenza per venire a capo di una «depressione mascherata» (connessa a un senso di colpa rimosso e a ottundimento) e per mantenere un senso di vitalità.24 Similmente, in entrambe le situazioni, un comportamento distruttivo o addirittura omicida può coprire una disintegrazione temuta del sé.
Il disturbo nel tipo di sdoppiamento da me descritto è più concentrato e temporaneo e si verifica come parte di una struttura istituzionale che lo incoraggia o addirittura lo richiede. In tal senso, il comportamento dei medici nazisti assomiglia a quello di certi terroristi, o dei membri della mafia, o delle «squadre della morte» organizzate da taluni dittatori, o persino di bande di delinquenti. In tutte queste situazioni, aiutano a dare forma al comportamento criminale profonde connessioni ideologiche, familiari, etniche e talvolta semplicemente di età. Lo sdoppiamento può ben essere un importante meccanismo psicologico per individui che vivono in una sottocultura criminale: il capo della mafia o di una «squadra della morte» che ordina freddamente (o esegue personalmente con la stessa freddezza) l’eliminazione di un rivale rimane al tempo stesso un marito e padre affettuoso e continua ad andare devotamente in chiesa. Lo sdoppiamento è un fenomeno di adattamento alle condizioni estreme create dalla sottocultura di appartenenza, ma contribuiscono sempre al processo anche altre influenze, alcune delle quali possono cominciare molto presto nella vita.f Fu così anche nel caso dei medici nazisti.
In sintesi, lo sdoppiamento è il mezzo psicologico con cui si fa appello al potenziale di male del sé. Quel male non è né intrinseco nel sé né a esso estraneo. Quella di far ricorso allo sdoppiamento e di optare per il male è una scelta morale della quale si è responsabili, quale che sia il livello di coscienza in gioco.g Per mezzo dello sdoppiamento i medici nazisti fecero una scelta faustiana del male: nel processo di sdoppiamento, di fatto, si trova una chiave generale per la comprensione del male umano.
Benché i singoli medici nazisti ad Auschwitz si siano sdoppiati in modi diversi, essi presentano tutti uno sdoppiamento. Ernst B., per esempio, ebbe uno sdoppiamento limitato; evitando le selezioni, egli resistette a un pieno sviluppo del sé di Auschwitz. Eppure il suo desiderio cosciente di adattarsi ad Auschwitz fu un assenso ad almeno una certa quantità di sdoppiamento; fu lui, dopo tutto, a dire che «ad Auschwitz si poteva reagire come un essere umano normale solo nelle primissime ore», dopo di che «si veniva catturati [nel meccanismo] e si doveva continuare», cosa che significa che ci si doveva sdoppiare. Il suo proprio sdoppiamento si manifestò con evidenza nella sua simpatia per Mengele e, almeno in qualche misura, per le espressioni più pronunciate dell’ethos nazista (l’immagine del nazismo come una «benedizione universale» e degli ebrei come il «male radicale» del mondo). E, nonostante la misura limitata del suo sdoppiamento, egli conserva ancor oggi, nel modo di giudicare il suo comportamento ad Auschwitz, taluni aspetti del suo sé di Auschwitz.
Di contro, l’accettazione del sé di Auschwitz da parte di Mengele diede l’impressione di una rapida affinità adattiva, la quale ci induce a chiederci se egli avesse veramente bisogno di uno sdoppiamento. Ma lo sdoppiamento si richiedeva davvero in un uomo che proteggeva dei bambini in una misura insolita per poi condurne personalmente alcuni con la sua macchina nella camera a gas; o in un uomo che si comportava da «collega» con i medici prigionieri mentre manifestava un atteggiamento ostentatamente spietato nel condurre le selezioni. Quale che sia stata la sua affinità verso Auschwitz, un uomo che in condizioni normali avrebbe potuto essere definito un «professore tedesco con una punta di sadismo» dovette formarsi un nuovo sé per diventare un attivo assassino. Il punto rilevante nello sdoppiamento di Mengele è il fatto che il suo sé anteriore poté essere assorbito facilmente nel suo sé di Auschwitz; e il persistere della sua fedeltà all’ideologia e al progetto nazisti consentì probabilmente al suo sé di Auschwitz, diversamente da quanto accadde in altri medici nazisti, di rimanere attivo anche dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale.
Lo sdoppiamento di Wirths non fu né limitato (come quello del dottor B.) né armonico (come quello di Mengele): esso fu a un tempo forte e travagliato da conflitti. Noi vediamo nel medico capo di Auschwitz un «sé diviso» poiché entrambi i sé conservarono il loro potere. Il suo sdoppiamento fu però quello più efficace di tutti dal punto di vista dell’istituzione di Auschwitz e del progetto nazista. Persino il suo suicidio fu un segno di quel successo: benché la sconfitta nazista gli avesse permesso di stabilire più chiaramente l’equivalenza del suo sé di Auschwitz col male, egli conservò la sua responsabilità per le azioni del suo sé di Auschwitz in misura sufficiente per restare interiormente diviso e non riuscire a concepire una possibilità di risoluzione e di rigenerazione: né sul piano legale né su quello morale e neppure su quello psicologico.
All’interno della struttura di Auschwitz, uno sdoppiamento significativo comprendeva obiettivi futuri e persino un senso di speranza. Gli stili di sdoppiamento variarono perché ogni medico nazista si creò il suo sé di Auschwitz a partire dal suo sé anteriore, con la sua particolare storia e con i suoi meccanismi psicologici. Ma in tutti i medici nazisti il sé anteriore e il sé di Auschwitz furono connessi dall’ethos nazista complessivo e dall’autorità generale del regime. Lo sdoppiamento fu un elemento comune fra loro.
Di fatto, Auschwitz come istituzione – come situazione produttiva di atrocità – si resse sullo sdoppiamento. Una situazione produttiva di atrocità è una situazione strutturata esternamente (in questo caso, istituzionalmente) in modo tale che la persona media che vi entra (in questo caso come parte della struttura d’autorità tedesca) finisca inevitabilmente col commettere atrocità o con l’essere associata ad atrocità. Per una situazione produttiva di atrocità è sempre importante la capacità di motivare psicologicamente gli individui per far sì che si impegnino nell’atrocità stessa.27
In un’istituzione potente come Auschwitz, l’ambiente esterno poteva determinare in grande misura l’«ambiente interno» del singolo medico. La richiesta di sdoppiamento faceva parte del messaggio ambientale immediatamente percepito dai medici nazisti, del comando implicito a produrre un sé in grado di adattarsi alle uccisioni senza che ci si sentisse assassini. Lo sdoppiamento divenne non solo un’impresa individuale ma un processo psicologico condiviso, la norma del gruppo, parte dell’atmosfera di Auschwitz. E quel processo di gruppo fu intensificato dalla generale consapevolezza che, qualsiasi cosa accadesse in altri campi, Auschwitz era il grande centro tecnico per la Soluzione finale. Ci si doveva sdoppiare per evitare che la propria vita e il proprio lavoro potessero essere influenzati dai cadaveri che si contribuiva a produrre o da tutti quei «morti viventi» (i Muselmänner) da cui ci si vedeva di continuo attorniati.
Inevitabilmente, la pressione di Auschwitz verso lo sdoppiamento si estese anche ai medici prigionieri, e gli esempi più vistosi di questo fenomeno sono rappresentati da coloro che si decisero a collaborare strettamente con i nazisti: Dering, Zenkteller, Adam T. e Samuel. Persino quei medici prigionieri che rimasero fortemente fedeli al loro ethos di terapeuti, e che subirono uno sdoppiamento minimo, contribuirono inavvertitamente allo sdoppiamento dei medici nazisti semplicemente per il fatto di lavorare con loro, com’erano costretti a fare, corroborando in tal modo in qualche misura il sé di Auschwitz di un medico nazista.
Lo sdoppiamento si verificò senza dubbio in grande misura anche nel personale non medico di Auschwitz. Rudolf Höss disse che sottufficiali coinvolti regolarmente nelle selezioni andavano spesso a lagnarsi da lui per la difficoltà del loro lavoro (qui parlava il loro sé anteriore), ma continuavano a fare quel lavoro (comportamento che era diretto dal loro sé di Auschwitz). Höss descrisse così le scelte di Auschwitz: «O diventare crudeli, diventare spietati e non rispettare più la vita umana [ossia sviluppare un sé di Auschwitz altamente funzionale] o essere deboli e rischiare un esaurimento nervoso [ossia, restare fedeli al proprio sé anteriore, cosa che ad Auschwitz non era funzionale]».28 Ma nel medico nazista lo sdoppiamento era particolarmente forte, nel senso che un sé anteriore votato alla conservazione della vita umana cedeva il passo a un sé omicida che avrebbe dovuto essere, ma funzionalmente non era, in opposizione diretta a esso. E come in ogni situazione produttiva di atrocità, i medici nazisti si trovarono in un clima psicologico in cui erano praticamente sicuri di scegliere il male: erano cioè spinti verso l’omicidio.
Al di sopra di Auschwitz, nel movimento nazista c’erano molte cose che promuovevano lo sdoppiamento. Il progetto complessivo nazista, colmo di crudeltà, richiedeva uno sdoppiamento costante per poter praticare tale crudeltà. Lo sdoppiamento poteva assumere la forma di un processo graduale di compromessi su una «china scivolosa»: il lento emergere di un «sé nazista» funzionale attraverso una serie di azioni distruttive, accettate dapprima con riluttanza, seguite dal consenso a una sequenza di compiti ciascuno dei quali più incriminante, se non più atroce, dei precedenti.
Lo sdoppiamento poteva anche essere più drammatico, infuso di trascendenza, il senso (descritto da un fascista francese che entrò nelle SS) di essere una sorta di adepto ammesso in un ordine religioso, «che ora deve spogliarsi del suo passato» e «rinascere in una nuova razza europea».29 Quel nuovo sé nazista poteva assumere un senso di fusione mistica col Volk tedesco, col «destino» e con forze capaci di conferire l’immortalità. Sempre presente fu la combinazione notata prima di idealismo e di terrorismo, di un’immaginazione mirante alla distruzione e al rinnovamento, cosicché «gli dèi... appaiono sia come distruttori sia come eroi culturali, esattamente come il Führer poteva apparire come un commilitone al fronte e come un mastro costruttore».30 Himmler, specialmente nei suoi discorsi ai capi delle SS, all’interno della loro «comunità legata da un giuramento»,31 richiese il tipo di sdoppiamento necessario per impegnarsi in quella che egli considerava una crudeltà eroica, specialmente nell’uccisione degli ebrei.
Il grado di sdoppiamento non era necessariamente equivalente all’appartenenza al Partito nazista; così Hochhuth poté affermare che «la grande divisione fu quella fra nazisti [ossia persone con un sé nazista ben sviluppato] e persone dotate di normali sentimenti, non fra membri del partito e altri tedeschi».32 Ma probabilmente nessun movimento richiese mai uno sdoppiamento con un’intensità e una scala paragonabili allo sdoppiamento richiesto dal nazismo.
I medici come gruppo potrebbero essere più suscettibili di sdoppiamento di altre persone. Per esempio, un ex medico nazista sostenne che l’insensibilità dell’anatomista verso gli scheletri e i cadaveri era sufficiente a spiegare la grottesca collezione «antropologica» di crani ebrei del suo amico Hirt (vedi pp. 389-392). Benché questa spiegazione non sia certo soddisfacente, questo medico stava riferendosi a un tipo genuino non solo di ottundimento dell’emotività in generale bensì di quello proprio dei medici. Tale sdoppiamento comincia di solito con l’incontro col cadavere che egli deve sezionare, cosa che spesso si verifica addirittura nel primo giorno di lezione alla facoltà di medicina. Si sente la necessità di sviluppare un «sé medico», che consenta non solo di essere relativamente assuefatti alla morte ma anche di operare con un’efficienza ragionevole in relazione alle molteplici richieste del lavoro. Il medico ideale, senza dubbio, rimane capace di calore umano, mantenendo quello sdoppiamento a un valore minimo. Ben pochi medici riescono però a rimanere all’altezza di questa norma ideale. Poiché una motivazione psicologica per entrare nella professione medica, come hanno rivelato taluni studi, può essere quella di venire a capo di un timore insolitamente grande della morte, può darsi che, quando un medico si trova in ambienti che lo mettono in presenza della morte, questo timore lo spinga nella direzione dello sdoppiamento. Era quindi probabile che i medici attratti verso il movimento nazista in generale, e verso le SS o verso la medicina dei campi di concentramento in particolare fossero quelli che avevano sperimentato in precedenza il massimo sdoppiamento medico. Ma persino i medici con grandi simpatie naziste potrebbero avere avuto una certa esperienza dello sdoppiamento, e una tendenza verso sue ulteriori manifestazioni.
Senza dubbio la tendenza allo sdoppiamento era particolarmente forte fra i medici nazisti. Data la visione eroica trasmessa loro – come coltivatori di geni e come medici del Volk, e come terapeuti militarizzati che univano in sé il potere di vita e il potere di morte dello sciamano –, qualsiasi crudeltà potessero perpetrare si traduceva anche troppo prontamente in hybris. E la loro hybris medica fu accresciuta dal ruolo da loro svolto nei progetti di sterilizzazione e di «eutanasia», all’interno di una visione di terapia dei mali della razza nordica e del popolo tedesco.
I medici che finirono con lo sperimentare lo sdoppiamento estremo richiesto dai centri di sterminio del progetto di «eutanasia» e dai campi della morte avevano probabilmente una predisposizione insolita allo sdoppiamento. Nella destinazione cui si veniva assegnati c’era, ovviamente, un elemento di casualità, ma i medici inviati o nei centri di sterminio o nei campi della morte tendevano a essere di solito fortemente legati all’ideologia nazista. Essi potrebbero anche avere avuto tendenze schizoidi più pronunciate, o essere stati particolarmente inclini all’ottundimento dell’emotività e a un sadismo di onnipotenza, altrettante cose che contribuiscono ad accentuare lo sdoppiamento. Poiché, persino in condizioni estreme, le persone hanno la capacità di trovare situazioni verso le quali hanno una propensione psicologica, e di restare in esse, possiamo sospettare che ci sia stato anche un certo grado di autoselezione. Ebbero perciò un’importanza considerevole i caratteri psicologici precedenti del sé del singolo medico, ma un’importanza limitata alla tendenza o alla suscettibilità, e nulla più. Uno sdoppiamento considerevole si verificò infatti in persone dalle caratteristiche psicologiche più svariate.
Eccoci così tornati al riconoscimento che la maggior parte di ciò che fecero i medici nazisti rientra nella capacità potenziale – almeno in certe condizioni – della maggior parte dei medici e della maggior parte delle persone. Ma, una volta impegnato nel suo sdoppiamento ad Auschwitz, un medico nazista si separava in realtà dagli altri medici e dagli altri esseri umani. Lo sdoppiamento era il meccanismo per mezzo del quale un medico, nelle sue azioni, passava dalla realtà ordinaria al livello del demoniaco. (Ci occuperemo dei fattori operanti in questo processo nel cap. XX.)
C’è qualcosa di specificamente tedesco nello sdoppiamento? La Germania, dopo tutto, è il paese del Doppelgänger, il sosia o doppio formalizzato nella letteratura e nell’umorismo. Otto Rank, pur riconducendo questo tema alla mitologia e al dramma greco, ne sottolinea la speciale prominenza nel romanticismo letterario e filosofico tedesco, e si riferisce alla «personalità interiore scissa, caratteristica del tipo romantico».33 Tale caratterizzazione, non solo nella letteratura ma anche nel pensiero politico e sociale, si concilia con immagini come la «condizione lacerata», il «dissidio», la «spaccatura» o «conflittualità interna» (Zerrissenheit) e i «passaggi e gallerie» dell’anima tedesca.34 Nietzsche affermò tale dualità in un modo personale descrivendo se stesso a un tempo come «l’anticristo» e «il crocifisso»; e princìpi simili di «dualità nell’unità» si possono ritrovare in scrittori e poeti tedeschi anteriori, come Hölderlin, Heine e Kleist.35
In effetti, il trattamento della leggenda di Faust da parte di Goethe è una storia di sdoppiamento tedesco:
Due anime alberga il petto mio,
l’una si vuole dall’altra staccare.36
[Zwei Seelen wohnen, ach! in meiner Brust,
Die eine will sich von der anderen trennen.]
E il Faust originale, il dottore della magia, ha più di una fuggevole somiglianza con i suoi connazionali nazisti di Auschwitz. In Goethe, Faust è interiormente diviso in un sé anteriore responsabile dei suoi impegni verso il mondo, fra cui quelli dell’amore, e un secondo sé caratterizzato da hybris nella sua ricerca del potere soprannaturale dei «campi degli eccelsi avi», ossia degli spiriti superiori.h In una versione precedente della leggenda, Faust riconosce l’egemonia del suo sé malvagio dicendo a un presunto salvatore spirituale: «Sono andato più in là di quanto tu pensi e ho promesso al diavolo, col mio sangue, di essere suo per l’eternità, corpo e anima».38 Qui il suo atteggiamento assomiglia alla fedeltà del sé di Auschwitz al male. E la specifica applicazione, da parte di Thomas Mann, della leggenda di Faust all’esperienza storica nazista coglie, attraverso un protagonista musicista, la ricerca diabolica del sé di Auschwitz di un «potere creativo» illimitato: la promessa di un progresso assoluto, di una vittoria sul tempo e perciò sulla morte, se il nuovo sé avrà «il coraggio della barbarie, che è doppiamente tale perché arriva dopo il senso di umanità».39i
All’interno dell’esperienza psicologica e culturale tedesca, il tema dello sdoppiamento è potente e persistente. Inoltre, la vulnerabilità tedesca allo sdoppiamento fu senza dubbio intensificata dagli spostamenti e dalle frammentazioni storiche di simboli culturali seguiti alla Prima guerra mondiale. Chi può negare il «sapore» tedesco di tanta parte del processo di sdoppiamento, qual è descritto nel modo migliore da un brillante prodotto della cultura tedesca come Otto Rank?
Eppure il primo grande poeta a riprendere il tema di Faust non fu Goethe bensì il drammaturgo inglese Christopher Marlowe. E c’è stata una sequenza di famose versioni inglesi e americane del tema generale del doppio, dal William Wilson di Edgar Allan Poe allo Strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson, al Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, al personaggio dei fumetti Superman. In effetti, questo tema permea l’opera di scrittori di tutte le nazionalità: per esempio Le Horla di Guy de Maupassant e il romanzo Il sosia di Dostoevskij.41
È chiaro che i nazisti si appropriarono di un fenomeno universale, anche se esso aveva ricevuto uno speciale rilievo per opera della loro cultura e della loro storia. Essi non avrebbero però potuto realizzare uno sdoppiamento così diffuso senza l’esistenza di certi modelli psicologici aggiuntivi che dominarono il comportamento di Auschwitz. Queste espressioni interiorizzate dell’ambiente del campo della morte vennero a caratterizzare il sé di Auschwitz e ad avere un significato che trascese quel luogo e quel tempo.
a. Questo autore parve reagire all’idea di un pezzo separato del sé quando concluse l’articolo (What Splits in Splitting?) chiedendosi: «Perché dovremmo inventarci uno specifico atto intrapsichico di scissione per spiegare quei fenomeni come se fosse all’opera un qualche meccanismo interno per produrli?».2 Janet intende per «dissociazione» la tendenza dell’isteria a «sacrificare» o «abbandonare» certe funzioni psicologiche, così che queste diventano «dissociate» dal resto della mente e danno origine ad «automatismi» o a complessi di sintomi separati.3 Negli Studi sull’isteria, scritti assieme a Breuer, Freud parlò di «scissione della coscienza», «scissione della mente» e «scissione della personalità» come meccanismi importanti nell’isteria.4 Edward Glover si riferì alle componenti psichiche della scissione o dissociazione come «nuclei dell’io».5 E, a cominciare dall’opera di Melanie Klein, la scissione è stata associata alla polarizzazione di tutte le immagini «buone» e di tutte le immagini «cattive» all’interno del sé, un processo che potrebbe conciliarsi con lo sviluppo normale ma che, qualora dovesse assumere forme esagerate, potrebbe essere associato a turbe gravi della personalità di cui si parla oggi come di «stati borderline (o di confine)».6
c. Proprio la visione del film Der Student von Prag, alla metà degli anni Venti, fornì a Rank lo stimolo originario per un interesse, destinato a durare in lui per tutta la vita, per il tema del doppio. Rank notò che l’autore della sceneggiatura, Hanns Heinz Ewers, aveva attinto massicciamente alla Storia del riflesso perduto di E.T.A. Hoffmann.12
d. Nei suoi scritti anteriori, Rank aveva seguito Freud nel connettere la leggenda col concetto di «narcisismo», di una libido rivolta verso il proprio sé. Rank aveva dato però l’impressione di farlo con disagio, sempre insistendo sul fatto che al di là del narcisismo occhieggia il problema della morte e dell’immortalità. Nel suo posteriore adattamento, egli abbracciò audacemente il tema della morte come motivo anteriore e più fondamentale nella leggenda del narcisismo e parlò in modo un po’ sprezzante di «alcuni psicologi moderni [che] affermavano di aver trovato [in esso] una simbolizzazione del loro principio dell’amore per se stessi».14 A quell’epoca Rank aveva rotto con Freud e aveva affermato la propria posizione intellettuale.
e. Michael Franz Basch parla di un’interferenza con «l’unione di affetto e percetto senza, però, escludere il percetto dalla coscienza».19 In tal senso, il ripudio assomiglia all’ottundimento psichico in quanto altera la valenza o carica emotiva del processo di simbolizzazione.
f. Robert W. Rieber usa il termine «pseudopsicopatia» per designare quello che descrive come un «comportamento criminale selettivo collettivo» entro i tipi di sottocultura qui menzionati.25
g. James S. Grotstein parla dello sviluppo di un «essere separato, il quale vive all’interno di un individuo che ha subìto una scissione preconscia, e che ha un’esistenza indipendente, un programma di lavoro indipendente ecc.» e dal quale possono emanare «male, sadismo e distruttività» o addirittura «possessione demoniaca». Grotstein chiama questo aspetto del sé una «mente parassita» (da Colin Wilson) e ne attribuisce lo sviluppo a quegli elementi del sé che sono stati artificialmente rimossi e ripudiati molto presto nella vita.26
h. Il passo concernente le «due anime» continue: «l’una al mondo quaggiù tenacemente / in voluttà d’amor cruda s’aggrappa, / l’altra dal fango prepotentemente / ai campi degli eccelsi avi si strappa». Lo storico della letteratura tedesca Ronald Gray trova schemi di «polarità e sintesi» in varie sfere della cultura tedesca: il concetto di Lutero di un Dio che «opera per mezzo di contrari», il principio hegeliano della tesi e dell’antitesi e la dialettica marxista emergente da Hegel. In tutti questi esempi c’è la «fusione di opposti», la lacerazione del sé individuale e di quello collettivo, e la ricerca appassionata dell’unità.37 Si potrebbe quasi dire che la tradizione apocalittica tedesca – il «crepuscolo degli dèi» wagneriano e il tema generale della fine collettiva pervasa di morte – possa essere la «condizione lacerata» estesa nell’ambito più vasto della coesione e divisione umana.
i. Mann coglie la continuità nello sdoppiamento parlando del «satanismo implicito» nella psicologia tedesca, e presentando il diavolo che chiarisce alla figura di Faust che «i [miei] piccolini non fanno di te niente di nuovo e di estraneo, ma solo rafforzano ed esagerano intelligentemente ciò che tu sei».40
XX
Il medico..., se non vive in una situazione morale... i cui limiti siano molto chiari..., è molto pericoloso.
Un sopravvissuto di Auschwitz
Egli ha la capacità di virare di bordo a ogni vento o di introdursi, ostinatamente, in qualche istituzione sociale fantasticamente elaborata e irrazionale, fosse pure solo per perire con essa. [L’uomo è infatti una] creatura volubile, incostante, pericolosa, la cui mente instancabile vorrebbe provare tutte le vie, tutti gli orrori, tutti i tradimenti..., credere in tutto e non credere in nulla, uccidere per idee irreali con una ferocia maggiore di quella con cui altre creature ucciderebbero per procurarsi il cibo, e poi dimenticare in una generazione o meno quel sogno cruento che lo aveva tanto oppresso.
Loren Eiseley
L’immersione dei medici nazisti nel paradosso dell’uccisione come terapia fu cruciale nel dare il la allo sdoppiamento, poiché il sé di Auschwitz doveva vivere di quel paradosso. Nella misura in cui si abbraccia la portata estrema della visione nazista di uccidere gli ebrei per guarire la razza nordica, il paradosso scompare. Il sé di Auschwitz può vedere se stesso come fondato su un principio lodevole di «igiene razziale» e come operante verso una nobile visione di rinnovamento organico: la creazione di una vasta «comunità biotica tedesca» in cui si possano tracciare paralleli fra la vasta missione tedesca di conquista del mondo e il più piccolo sistema fisiologico intracellulare.1 Persino l’espressione anus mundi può essere associata a una missione positiva, implicante il principio della «necessità di ripulire il mondo».2 Anche la guarigione conseguita per mezzo dello sterminio poteva diventare parte della visione mirante all’immortalità, del «diritto e... obbligo umano più sacro», che è quello di «far sì che il sangue venga preservato puro e, conservando l’umanità migliore, di creare la possibilità di uno sviluppo più nobile di questi esseri».3
Il sé di Auschwitz fu il mezzo con cui il medico nazista poté apportare nelle sue uccisioni il mana di uno sciamano, di un sacerdote, di un mago. Nel caso di un tale antico guaritore, infatti, «non c’è alcun conflitto fra il mondo della fantasia in cui egli opera e il mondo della realtà in cui i suoi atti mistici sono efficaci».4 Così il medico-sciamano di Auschwitz diventa «carico di poteri»5 nella sua «terapia» mortale (vedi anche pp. 654-659). Egli è un terapeuta riconosciuto dotato di poteri speciali; le uccisioni da lui operate sono legittimate dal rovesciamento generale della dualità terapia-uccisione messa in atto dal regime, e a sua volta lo legittimano. Divenne così del tutto naturale usare un veicolo contrassegnato dalla croce rossa per trasportare gas, personale addetto alla gassificazione, e a volte anche le vittime, alle camere a gas.
Poiché il paradosso dell’uccisione come terapia compendiò la funzione complessiva del regime nazista, c’era della verità nell’immagine nazista di Auschwitz come equivalente morale della guerra. La guerra è l’unica istituzione accettata (un’istituzione altamente onorata nel caso dei nazisti) in cui si abbia un paradosso parallelo dell’uccisione come terapia. Si deve uccidere il nemico per conservare – «guarire» – il proprio popolo, la propria unità militare, se stessi. E se si seguono le regole della guerra, si guariscono anche quelli fra i nemici che non sono stati del tutto uccisi, ma solo feriti e catturati. L’immagine dell’«equivalente della guerra», con la sua rivendicazione di coraggio e sopportazione, rende «onore» al sé. Un medico nazista poteva quindi evitare una guerra in cui la sua vita sarebbe stata realmente in pericolo (quella sul fronte russo), ma partecipare a un asserito equivalente morale della guerra, in cui non si trovava ad affrontare un tale pericolo. L’analogia fu promossa ulteriormente dal bagno di sangue in cui un tale medico venne a trovarsi e al quale diede il suo contributo personale ad Auschwitz. Egli poté sperimentare un equivalente psicologico della guerra, e in certi momenti sentirsi sul «campo di battaglia della guerra razziale».6 Su questo e su molti altri problemi, una convinzione parziale poté combinarsi con la razionalizzazione.
Dei tre medici nazisti di cui ci siamo occupati dettagliatamente, Mengele fu quello più in sintonia col paradosso dell’uccisione come terapia; Wirths fu quello che si sforzò maggiormente di conservarlo, ma fu anche quello che si trovò meno a suo agio in questo compito; ed Ernst B. rimase alla sua periferia e prevalentemente riuscì a limitare le sue attività alla cura dei malati. Ma le perversioni della dualità terapia-uccisione vennero a definire tutta la realtà esterna e interna in cui questi medici si trovarono immersi. Ricordiamo, per esempio, l’accordo essenziale del dottor B. con l’insistenza del suo amico Mengele che «sarebbe un peccato, un crimine» non utilizzare la speciale opportunità che Auschwitz offriva per le ricerche sui gemelli; e l’ulteriore simpatia manifestata da B. per il medico nazista sottoposto alle «condizioni di Auschwitz», costretto a prendere decisioni istantanee durante le selezioni. Il messaggio di B. è che, alla base del giudizio di ognuno – di Mengele, del suo e persino del mio –, dovrebbe esserci il sé di Auschwitz, sviluppato in risposta al paradosso dell’uccisione come terapia.
Per il medico nazista il processo delle selezioni aveva la funzione rituale di «immersioni nella morte inscenate con cura, culminanti in una sopravvivenza onorevole e in una rinascita meritata».7 Ad Auschwitz la sopravvivenza psicologica alla dura esperienza dell’anus mundi delle selezioni gli consentiva di sperimentare quella meritata rinascita attraverso la formazione del sé di Auschwitz. Egli aveva consolidato il suo rapporto col suo gruppo di Auschwitz per mezzo di quello che veniva chiamato il «cemento del sangue» (Blutkitt),8 che significava la partecipazione diretta alla pratica di uccisione del gruppo: una politica seguita da tempo immemorabile da gruppi criminali in tutto il mondo. In tal modo il sé di Auschwitz veniva «battezzato» superando un esame di «durezza».
Come la maggior parte dei rituali funzionanti, le selezioni vennero regolarizzate nel corso del tempo, quando il sé di Auschwitz si consolidò e divenne più esperto. Il rituale accrebbe così il «senso di realtà»9 di quel sé di Auschwitz e gli fornì «esecuzioni, concretizzazioni, realizzazioni» del suo impegno.10 Nel rafforzare il sé di Auschwitz, le selezioni assolsero la funzione rituale principale di «venire a capo dell’ambivalenza oltre che dell’ambiguità» e non solo di percepire il nuovo ordine, ma anche di partecipare a esso.11 Le selezioni ritualizzarono così la pratica dell’assassinio e l’accettazione del male, rese entrambe possibili dalla crescente immersione del sé di Auschwitz nel paradosso dell’uccisione come terapia.
Le selezioni forniscono anche un dramma rituale. Sia che il sé di Auschwitz sia entrato in quel dramma con uno slancio totale (come nel caso di Mengele) o con esitazioni e conflitti (come nel caso di molti altri), la partecipazione a quella «prestazione culturale»12 presentò la tendenza ad assorbire ansie e dubbi e a fondere azioni individuali con concetti dominanti (in questo caso nazisti), come accade nel caso di prestazioni rituali in generale. Qui Auschwitz compendiò la generale preoccupazione nazista per il rituale, gran parte della quale aveva a che fare con la dualità terapia-uccisione. Il regime trasse gran parte del suo potere dalla sua ritualizzazione dell’esistente, cosicché ogni atto che esso suscitava poteva essere visto come dotato di un profondo significato mistico per il «Terzo Reich» e per la «razza ariana». Persino quando queste ritualizzazioni erano, come nel caso delle selezioni, forme di «ignoranza rituale»,13 princìpi proposti in violazione della conoscenza disponibile del comportamento umano (in questo caso teorie razziali erronee), un tale rituale poteva dare ai partecipanti una sensazione di verità.
Il paradosso della terapia come uccisione dominò a tal punto Auschwitz da creare un mondo delle selezioni. Il sé di Auschwitz funzionò con l’intesa che, quando le selezioni diminuivano in un luogo (i blocchi medici), venivano radicalmente estese in un altro (alla banchina). Al di là delle stime pragmatiche naziste delle «necessità», c’era il principio psicologico che l’atrocità genera atrocità:14 per giustificare le selezioni si doveva continuare a compierle. Un indizio sulla ragione di questo stato di cose si può trovare negli stregoni primitivi, in cui il «possesso della magia... non è una risorsa del tutto confortevole» perché «il suo possessore può trovarsi a soddisfare la dura condizione che, una volta che è in grado di usare il suo speciale talento, deve usarlo, altrimenti il potere che egli sceglie di non esercitare potrebbe ritorcersi contro la sua vita».15 In termini psicologici, possiamo dire che il potere accumulato così minaccioso per il suo possessore è il potenziale senso di colpa, che può essere scongiurato solo attraverso la continua applicazione di quel potere mortale verso un nemico. Lo stesso principio operava nell’affermazione nazista che si dovevano uccidere tutti gli ebrei, per evitare che coloro che fossero rimasti in vita o i loro figli potessero uccidere dei tedeschi. Il sé di Auschwitz entrò quindi in un circolo vizioso di uccisioni, di minaccia di senso di colpa e di ansia di morte, e di altre uccisioni per scongiurare quelle minacce psicologiche percepite.
Dal punto di vista della conservazione del paradosso dell’uccisione come terapia, il fatto che fosse il medico a fare le selezioni «rendeva perfetto» (per usare le parole del dottor B.) tale paradosso sul piano burocratico (e perciò psicologico), poiché comunicava l’idea che «fosse stato formulato un giudizio medico esatto». Ma quello stesso carattere medico assegnato alle selezioni richiedeva che il sé di Auschwitz si assumesse l’incombenza del medico di «eseguire la sua funzione [l’uccisione] in modo umanitario». Quel principio dell’«uccisione umanitaria» poteva assumere un potere considerevole per il sé di Auschwitz: il fatto di avviare i malati di tifo o i potenziali portatori della malattia alla camera a gas permetteva di controllare la malattia, così come la gassificazione di un gran numero di prigionieri deboli e malati migliorava la situazione igienica nel campo di concentramento. Se si entrava nel paradosso dell’uccisione come terapia avendo un sé di Auschwitz ben sviluppato, si poteva avere l’impressione che il paradosso avesse un senso, che «funzionasse»; e questo fatto conferiva a sua volta un sostegno al processo generale di sdoppiamento.
Un senso spiccato della professione medica come arte della guarigione poteva condurre un medico SS a conflitti, a una situazione in cui il suo sé di Auschwitz poteva non essere pienamente dominante. Nella grande maggioranza dei casi, però, quel conflitto veniva dopo il periodo di transizione superato quanto bastava perché il medico potesse svolgere il lavoro che gli si richiedeva nel campo di concentramento e perché il sé di Auschwitz diventasse adeguatamente funzionale. Questa fu in grande misura, come abbiamo visto, la situazione di Wirths ma lo stesso vale anche per uomini come Rohde, che si diceva bevesse molto, e che in un’occasione avrebbe sperimentato un problema di coscienza in una forma così acuta da sparare per frustrazione e per rabbia, ma che nondimeno «faceva esattamente le stesse cose che facevano gli altri», ossia continuava a compiere le selezioni. L’ethos dell’arte della guarigione combatte una battaglia perduta, se in generale combatte, quando il sé di Auschwitz prende il sopravvento. Quando B. mi disse che un medico SS, «dopo alcune settimane trascorse in questo ambiente... pensa “Sì”», stava descrivendomi non un’epifania improvvisa bensì il punto finale di un processo, piuttosto breve e intenso, in cui il sé di Auschwitz andava affermandosi progressivamente.
Ecco perché il giuramento ippocratico, pur essendo per il medico un impegno a praticare l’arte della guarigione e a evitare in ogni modo di uccidere o danneggiare le persone da lui curate, fu quasi abbandonato ad Auschwitz. Il giuramento fu percepito come poco più di un rituale lontano e desueto praticato ai tempi dell’università, e veniva prontamente rovesciato dal rituale, di una bruciante immediatezza, delle selezioni, oltre che dalla serie di pressioni e remunerazioni dirette verso un sé di Auschwitz liberato da residui ippocratici. In effetti, col giuramento a Hitler il medico escludeva essenzialmente gli ebrei dalle proprie responsabilità ippocratiche.
Molto importante ai fini dello sdoppiamento era l’anteriore struttura di idee di un medico nazista, la sua ideologia e il suo ethos. Persino frammenti ideologici – che erano tutto ciò a cui si riduceva l’ideologia di molti medici – potevano promuovere tale processo, diventando parte di una struttura di immagini – o ethos – anteriore, più generale. L’«ethos» comprende l’ideologia e viene spesso usato per suggerire il processo governante o centrale in un movimento, ma il suo significato anteriore è quello di struttura di credenze, evolutasi nel corso di secoli, di un gruppo culturale specifico.
Consideriamo il medico nazista più o meno tipico che si attendeva dal movimento una forma di rinnovamento nazionale; che rideva delle forme più estreme della teoria razziale nazista ma era attratto dal «razzismo scientifico» col suo accento sull’unità tedesca; che considerava la razza nordica generalmente superiore e temeva la mescolanza delle razze; che si considerava un antisemita razionale e non semplicemente un nemico fanatico degli ebrei e che aveva un atteggiamento critico verso il numero e la prominenza dei medici ebrei nelle città tedesche; che non aveva marciato nelle strade con i nazisti, ma veniva a offrire loro obbedienza e servigi in cambio di una posizione nella gerarchia e di un’uniforme militare; che non offriva volontariamente alcun grande sacrificio personale a favore della causa nazista, ma rispettava coloro che lo facevano; e che ricercava il massimo successo professionale e personale all’interno di questo movimento nazionale da poco dominante. Un tale medico, nonostante un rapporto apparentemente limitato con l’ideologia, poteva sperimentare il potere mistico dell’ethos nazista tedesco. Egli poteva anche rispondere in qualche misura alla chiamata di Auschwitz.
Ai medici di Auschwitz si chiedeva di sdoppiarsi a beneficio della rivitalizzazione, che era un bene comune (con i medici nella funzione di mediatori razziali fra il capo-eroe e la comunità ariana più vasta) e sacro (rivendicando la sua funzione ultima dai morti della Prima guerra mondiale). Hitler fu molto preciso su questo punto, dichiarando con «chiarezza cristallina» la sua dottrina «della nullità... del singolo essere umano e della sua esistenza continuata nella visibile immortalità della nazione»;16 e altrettanto chiaro fu Alfred Rosenberg nell’insistere con fermezza sulla tesi che la personalità umana viene conseguita solo quando si sia «integrati, spirito e anima, in una successione organica di migliaia [di individui] della propria razza».17a Si trova qui la possente lusinga della sostanza razziale-culturale che conferisce l’immortalità.
Nella risposta dei giovani medici a quella lusinga, l’entusiasmo per le conquiste pratiche del nazismo si fondeva con un senso di potere comune mitico. L’ethos comunitario era così forte che, persino quando si era profondamente turbati dalla politica nazista, si esitava a opporsi a essa perché ciò avrebbe significato «tu diventi un traditore e pugnali alle spalle il tuo popolo». O si aderisce alla comunità sacra o si è visti (e si vede se stessi) come traditori assassini, codardi.
Le SS erano la «comunità [di élite] nella comunità»; i loro appartenenti erano «legati da un giuramento», colmi di «spirito di corpo», costanti nel loro misto di crudeltà e di coraggio. I medici nazisti che entravano nelle SS si impregnavano di una parte di questo ethos. Ognuno di loro pronunciava il giuramento delle SS:
Giuro a te, Adolf Hitler – come Führer e cancelliere del Reich – lealtà e valore. Prometto a te e ai miei superiori, da te designati, obbedienza sino alla morte, con l’aiuto di Dio,19
e diventava in tal modo quello che un osservatore chiamò un «combattente ideologico», portasse o no sulla fibbia della propria cintura (come i comuni appartenenti alle SS) il motto delle SS: «Il mio onore significa lealtà» (Meine Ehre heisst Treue). Tale idealismo, per quanto eroso dalla corruzione di Auschwitz, fu un pungolo per i medici SS nel loro adattamento iniziale e si inquadrò nella richiesta ideologica di sdoppiamento. Noi ricordiamo l’insistenza del dottor B. sulla «fede» nell’ideologia nazista come legame con la comunità delle SS. La fede nella Gemeinschaft divenne una fonte di azione omicida e un sostegno cruciale per il sé di Auschwitz. Quel sé fu infatti una creazione non solo dell’individuo ma anche della «volontà collettiva» mistica, la versione di Auschwitz del «trionfo della volontà».
Per quanta resistenza abbiano potuto mettere in atto all’inizio contro il principio nazista-tedesco dell’uccisione come una forma difficile ma necessaria di prova personale, i medici nazisti finirono con l’accettarlo. Quando gli fu chiesto come potesse indursi a fare cose tanto terribili, Heinrich Himmler avrebbe fatto riferimento al karma del «mondo tedesco nella sua totalità», per il quale «un uomo deve sacrificare se stesso, anche se spesso è molto difficile per lui; egli non deve mai pensare a se stesso».20b Qui l’assassino rivendica a se stesso la dura prova del sacrificio. Per compiere l’uccisione rituale prescritta, egli offre sia se stesso sia le sue vittime all’immortale popolo tedesco e al suo eroe-dio, Adolf Hitler.
Ai suoi capi delle SS di rango più elevato, e in almeno un’occasione ad Auschwitz, Himmler espresse questo ethos delle uccisioni come una prova nobilitante. Egli sollevò «francamente» la questione dell’«annientamento del popolo ebraico» e irrise i deboli, persino fra i membri del partito, gli individui dal cuore tenero ciascuno dei quali aveva «il proprio ebreo perbene» che voleva salvare:
Fra tutti coloro che parlano in questo modo nessuno lo ha mai visto accadere, nessuno ha fatto questa esperienza. La maggior parte di voi deve sapere che cosa significa vedere un centinaio di cadaveri giacere l’uno accanto all’altro, o cinquecento, o mille. Avere persistito e avere resistito a casi di debolezza umana, avere mantenuto la nostra integrità: questo è ciò che ci ha resi duri. Nella nostra storia, questa è una pagina di gloria non scritta e che non sarà mai scritta.22
Il sé di Auschwitz poteva essere sperimentato come una chiamata a una tale prova e alla durezza necessaria ma difficile, e persino eroica, che essa comportava. Quella durezza era incentrata sulla razza: «Noi dobbiamo essere onesti, corretti, leali e solidali verso gli appartenenti al nostro stesso sangue, ma verso nessun altro», così che, se «10.000 donne russe cadono stremate scavando una trincea anticarro..., [questa cosa] mi interessa solo nella misura in cui la trincea anticarro a favore della Germania viene portata a termine», come si espresse Himmler nello stesso discorso tenuto a Poznan il 4 ottobre 1943. Tutto ciò doveva essere fatto nel quadro della missione delle SS mirante all’immortalità nella forma di «un ordine nazionalsocialista di uomini di stampo nordico... [i quali sono] i progenitori di future generazioni essenziali per assicurare l’esistenza eterna del popolo tedesco della Germania».23 Il «cemento di sangue» del coinvolgimento diretto (vedi p. 586) faceva parte della prova condivisa: un ufficiale di stato maggiore delle Einsatzgruppen «insistette sul principio che tutti gli ufficiali e sottufficiali» ai suoi ordini dovevano «partecipare alle esecuzioni» per «dominare» se stessi come lui aveva «dominato» se stesso. Egli stava chiedendo ai suoi uomini un equivalente nella Einsatzgruppen del sé di Auschwitz, o di quella che è stata definita in modo appropriato «un’azione eroica in una causa criminale».24
Quando la maggior parte dello sterminio di massa degli ebrei era già stata compiuta (nel maggio 1944), Himmler sottolineò che soltanto le SS avrebbero potuto svolgere quel compito, che l’uccisione «poteva essere sopportata ed eseguita solo da un’organizzazione composta dagli individui più forti, da nazionalsocialisti fanatici, profondamente impegnati nella loro missione».25 Gli ufficiali delle SS dovevano sempre «portare il peso per il nostro popolo», ossia mantenere la prontezza alla prova dell’uccisione.
Si può dire che il passaggio dall’uccisione faccia a faccia quale veniva eseguita dalle Einsatzgruppen al complesso meccanismo delle camere a gas abbia diminuito il grado di difficoltà della prova. Ma la prova restava, come pure la domanda della prontezza ad affrontarla. Il senso cosciente dei medici nazisti era quindi più quello di uno «sgradevole» dovere alla banchina, che comportava stress, fatica e durezza (quello che Karl K. chiamò eine Strapaze, «uno strapazzo») e richiedeva una grande quantità di alcol per poterlo sopportare, cosa che a sua volta conduceva all’ulteriore esperienza sgradevole di un malessere da sbornia che guastava anche la giornata seguente. Le bevute in comune nel corso della notte erano senza dubbio uno sforzo per conferire un po’ di nobiltà a quella che era un’ulteriore degradazione di un rituale criminale. Ma il senso di una prova difficile persisteva ancora, come indicarono chiaramente le parole del dottor B. quando tentò di convincermi di quanto fossero ardue le decisioni dei medici nazisti ad Auschwitz, della pressione che si esercitava sui medici nazisti nel momento della selezione («Tu devi andare, va’: non rimane alcuno spazio per la discussione»). Il fatto che Wirths insistesse nel voler fare le selezioni personalmente, piuttosto che limitarsi ad affidarle ad altri medici, era un impegno alla partecipazione personale a questa difficile prova, e probabilmente anche uno sforzo per «vincere» il proprio sé anteriore a favore di un emergente sé di Auschwitz.
La combinazione della prova e dell’ethos ci fornisce un altro punto di vista sul caso di Delmotte (vedi le pp. 420-424) e sulla funzione effettiva di un sé di Auschwitz precario. Disgustato dapprima dalle selezioni, Delmotte sentì che esse violavano il suo forte idealismo SS. Il fatto che egli venisse trattato gentilmente dai suoi superiori medici e che venisse indotto gradualmente a fare selezioni ben si accorda con le parole di Himmler sull’opportunità di tener conto delle debolezze umane. Io sospetto che nel messaggio trasmessogli da Mengele (in quanto capo designato della «squadra di riabilitazione») c’era il concetto che un vero ufficiale delle SS – un membro della speciale comunità delle SS – si assume, quando è necessario per il suo Führer e per la sua razza, proprio quei compiti che trova più ripugnanti. Quel forte argomento e le pressioni connesse conservarono la loro efficacia per il sé di Auschwitz di Delmotte, che fu rinforzato, per una curiosa ironia, anche dal sostegno «paterno» del professore prigioniero, il quale svolse con lui una funzione di guida spirituale, solo per un anno circa, sino alla fine della guerra. Poi, con la scomparsa dell’ambiente di Auschwitz, la capacità relativamente positiva di Delmotte di sperimentare un forte senso di colpa, associata al rapido riemergere del suo sé umanitario anteriore, diede senza dubbio un grande contributo al suo suicidio. Ma il principio della dura prova a favore dell’ethos e della comunità riuscì a conservare il sé di Auschwitz di Delmotte abbastanza a lungo per permettergli di svolgere il compito mortale per il quale egli era stato assegnato ad Auschwitz.c
Qui c’era un circolo vizioso, in cui i conflitti stessi concernenti il compito di uccidere che potrebbero avere pervaso il sé di Auschwitz contribuirono a dare a tale sé il senso di una prova difficile, il quale concorse a sua volta ulteriormente a diminuire la preoccupazione per ciò che si stava facendo ad altre persone. E all’affermarsi dell’ethos generale in ognuno di tali ambienti nazisti, poté accadere che un uomo agisse in modo tale da promuovere il suo sé di Auschwitz, in quanto «ci si attendeva che io facessi questo».29 Poteva essere presente anche una tendenza a procedere sempre più sulla stessa via, così che la difficile «prova» del sé di Auschwitz poteva essere accettata gradualmente.
I medici nazisti risentirono sempre l’influenza dell’ethos della rivitalizzazione, col suo centro d’interesse focalizzato sul rinnovamento biologico. Essi, i biologi medici, lavoravano alla creazione di una «comunità nazionale organicamente indivisibile», l’opposizione alla quale era considerata «il sintomo di una malattia che minaccia l’unità sana dell’... organismo nazionale».30 L’immagine del nazionalsocialismo come «nient’altro che biologia applicata» non era infatti solo la percezione di un medico tratta da un singolo discorso nazista, ma era una visione portata avanti dal movimento nazista per la costruzione di niente di meno che uno Stato evoluto secondo i princìpi della biologia. Gottfried Benn, uno dei pochi scrittori tedeschi di una certa elevatezza di princìpi che abbia abbracciato, almeno temporaneamente, la causa nazista, salutò «l’emergere di un nuovo tipo biologico, di una mutazione della storia e del desiderio di un popolo di generare se stesso». Benn era anche un medico preoccupato della «vitalità» della razza tedesca. Pare ci sia stata una preoccupazione analoga anche in Martin Heidegger – che non fu un medico bensì uno dei grandi filosofi dell’epoca moderna – nel giustificare la simpatia manifestata in passato per il nazismo come «volontà [dei tedeschi] di essere se stessi».31
La tentazione, per i medici, risiedeva nel fatto che il loro campo (quello della biologia e della terapia) doveva esser quello del ringiovanimento della nazione. La loro difficoltà consisteva nel corso omicida scelto per quel ringiovanimento e nel gruppo cui era affidato il compito della «politica razziale»: le SS. I medici SS avevano poca difficoltà ad accettare le richieste razziali di tale politica – l’accertamento di radici familiari ariane risalenti a varie generazioni fa – come parte del principio delle SS che incarnava l’idea razziale. Essi cominciarono a imbattersi in difficoltà quando, nella loro qualità di membri di questo gruppo esemplare, ci si attese che prendessero parte attivamente alle uccisioni. Per poter assolvere questo compito essi avevano bisogno di sviluppare un sé di Auschwitz, o un prodotto di sdoppiamento equivalente. Alla formazione di questo nuovo sé contribuiva la tentazione medica di raccogliere l’intero ethos nazista: di controllare l’immagine di controllo della vita nazista.
Anche l’aspetto antiebraico dell’ethos nazista era biologizzato, cosicché il medico nazista che arrivava ad Auschwitz portava con sé una parte dell’ethos degli ebrei come antirazza minacciosa. Questi stereotipi erano psicologicamente utili al sé di Auschwitz, poiché era più facile assolvere il duro compito delle selezioni se si consideravano come nemici potenzialmente mortali le persone a cui si toglieva la vita.
Ben diversi da queste immagini schematiche, astratte e primitive, degli ebrei erano i contatti specifici con colleghi ebrei in carne e ossa. Qui il risentimento e l’invidia per il gran numero – e in molti casi il successo e il talento – dei medici ebrei conducevano a un senso di soddisfazione per il fatto che essi venissero estromessi dalla medicina tedesca (fatto che tendeva ad avere come conseguenza un rapido miglioramento della posizione dei medici nazisti), assieme al senso di colpa derivante dalla consapevole complicità nel maltrattamento di uomini che erano, dopo tutto, dei colleghi. Come disse un medico che fu per breve tempo ad Auschwitz: «Si poteva sempre dire che gli ebrei erano colpevoli» in connessione col pericolo comunista e con altre difficoltà politiche, e dichiarare che erano gli «arcinemici della Germania», dopo di che «il passo per procedere al loro annientamento era lungo solo un millimetro». L’ethos antiebraico, in altri termini, era diffuso dappertutto.
Ma con quell’ethos interferivano i medici ebrei che si erano conosciuti nella vita reale, a volte nella veste di colleghi o di maestri rispettati. Un ex medico nazista, per esempio, ricordò «le grandi figure [con cui aveva studiato]: Wassermann, Morgenroth, e anche Blumenthal, l’uomo da cui ho imparato di più sulla sierologia», e mi disse che gli ebrei «scomparvero» dal suo istituto.d Benché questo medico sostenesse di non aver potuto fare nulla per impedirlo – cosa che non gli impediva di rimanere fedele alle sue ardenti concezioni naziste – il suo senso di colpa in proposito era tangibile, e questa situazione vale anche per altri medici nazisti. Potevano esserci tendenze parallele persino ad Auschwitz: Wirths, per esempio, era «corretto» e persino «compìto» verso singoli medici ebrei, che aiutava e collocava in posizioni di responsabilità, rimanendo però al tempo stesso fedele a un forte ethos nazista antiebraico. Egli conservò la sua fede antisemita, a un certo livello mantenendo blocchi medici separati per ebrei e per non-ebrei, e molto più malvagiamente svolgendo un ruolo attivo nell’eccidio degli ebrei sotto la copertura della medicina. Praticamente in tutti i casi il sé di Auschwitz tentò di bloccare immagini di ebrei in carne e ossa, potenzialmente capaci di suscitare sensi di colpa, a favore di una visione ideologica di un fine costruttivo nell’eliminazione degli ebrei o nella «risoluzione» della «questione ebraica». In un tale atteggiamento composito, come sappiamo, c’erano conflitti ma per lo più di un tipo che aveva ben poca incidenza sul lavoro del sé di Auschwitz.
Molto importante per l’ethos nazista fu la rivendicazione della logica, della razionalità e della scienza. Ad Auschwitz tale rivendicazione aveva uno speciale significato nella sua stessa assurdità. Consideriamo la descrizione di Ernst B. delle discussioni «razionali» fatte ad Auschwitz fra i medici sulla necessità di uccidere tutti gli ebrei, fornendo così una soluzione «reale» di un problema insolubile, di contro alle soluzioni irrealizzabili che erano state proposte in passato (il piano di deportarli nel Madagascar, ghetti da cui erano possibili fughe eccetera [vedi pp. 285-286]). Fu questa rivendicazione di un pensiero razionale che irritò il dottor B. quando io sollevai la questione di possibili somiglianze fra gli atteggiamenti di Auschwitz e quelli del suicidio-omicidio di massa a Jonestown nel 1978 (vedi p. 450): quest’ultimo fu una forma di follia e di scatenamento dell’emotività mentre ad Auschwitz lui e i suoi colleghi avevano preso in considerazione con cura questioni di logica e di teoria. Qui viene alla mente la «gelida logica» di Hitler, la quale operava in modo tale che (come si espresse uno studioso) «da premesse folli a conclusioni mostruose Hitler era inflessibilmente logico», e in questo modo derivò la conclusione che chi ama il genere umano deve distruggere gli ebrei.32 Questa logica mortale ha un rapporto importante con la paranoia individuale. Nella paranoia le idee, anche se deliranti o allucinatorie, tendono a essere sistematizzate logicamente, e perciò a esser convincenti per l’individuo che ne è ossessionato, e spesso anche per gli altri. La paranoia è in effetti una malattia della logica, della logica impazzita in quanto privata di restrizioni critiche di ogni sorta. Certi pensatori ideologici portano il loro ethos al confine della paranoia, o addirittura anche oltre, senza essere psicotici; essi possono essere quindi considerati «personalità paranoidi», come poteva esserlo lo stesso Hitler, anche se in alcuni casi sarebbe difficile diagnosticare una qualsiasi forma di malattia mentale.
Teorie più recenti della paranoia insistono su un sottostante timore di annientamento, del sé individuale o del genere umano in generale (idee deliranti sulla fine del mondo). Queste idee deliranti vengono chiamate talvolta «uccisione dell’anima», espressione usata in passato da un famoso paziente paranoide; e la struttura di idee e sintomi, compresi talora deliri e allucinazioni, può essere intesa come una serie di sforzi per recuperare il potere della vita, sforzi di rivitalizzazione. La logica portata all’estremo fa parte di un tale sforzo per mantenere la coesione del sé.e Una versione collettiva di questo schema è evidente in ciò che ho detto sulla Germania dopo la Prima guerra mondiale nel suo complesso: la sensazione di essere stata annientata militarmente e psichicamente, sottoposta all’«uccisione dell’anima». I capi demagogici (in particolare Hitler, ma ce ne furono anche altri) poterono toccare quel nervo scoperto dell’annientamento e dell’uccisione dell’anima in modi tali da attribuire quest’ultima a una forza esterna specificamente cattiva, gli ebrei.
Il carattere spinto all’estremo della logica del campo della morte fu un tentativo di dare coesione alla comunità di Auschwitz, che era in sé una manifestazione ultima dell’ethos tedesco-nazista della minaccia e del male ebrei: l’intero processo è parallelo agli estremi logici a cui fa ricorso il paranoico per mantenere la coesione del suo sé individuale. C’è però anche una differenza importante. La logica paranoide individuale tende a formarsi nel corso di una vita, di solito prendendo origine da un trauma precoce prontamente percepito come «assassinio dell’anima» e anche sotto l’influenza di una vulnerabilità ereditaria a stati paranoidi. L’esperienza della percezione collettiva dell’uccisione dell’anima e la risposta a essa possono attrarre in questa logica mortale adulti con una diversa formazione psicologica, come accadde nel caso dei medici nazisti. Faremo bene perciò a resistere alla tentazione di servirci del termine clinico «paranoia», anche se da tale condizione possiamo ricavare un modello parziale. Piuttosto, la logica dei nazisti rivendica quella che ho chiamato una «scienza sacra» come parte di un’ideologia totale, un’ideologia che ha totalizzato il trauma sociale originario oltre all’argomento e alla politica invocati nel nome della rivitalizzazione.34
L’ethos nazista venne così a contenere una biologia sacra, la cui logica fu assunta e attivamente perseguita dal sé di Auschwitz. La rivendicazione della logica e della razionalità fu infatti parte della rivendicazione nazista più generale di una derivazione diretta dal laboratorio di biologia. Senza dubbio anche altri movimenti – per esempio il marxismo e il comunismo sovietico – hanno rivendicato una validità scientifica. Soltanto i nazisti hanno però visto in se stessi i prodotti e i cultori della scienza della vita e dei processi vitali: delle guide, obbedienti agli ordini della biologia, del destino biologico proprio e di quello del mondo. Quale che sia stata la loro hybris, e quali che siano stati gli elementi di pseudoscienza e di scientismo contenuti in ciò che essi realmente fecero, essi si identificarono con la scienza del loro tempo.
Essi attinsero, però, a quella scienza in un modo apocalittico, sfrenatamente romantico. Di qui la fusione del «crepuscolo degli dèi» wagneriano, pervaso di morte, col positivismo più assoluto. Quali che siano state le assurdità visionarie nel programma di uccisione e risanamento, la logica della scienza fu sempre, almeno agli occhi dei nazisti, a portata di mano. Questa combinazione – in astratto apparentemente realizzabile – richiese uno sforzo mentale considerevole quando si trattò di tradurla in pratica in luoghi come Auschwitz. Lo sforzo per realizzarla fu una lotta importante per il sé di Auschwitz, una lotta resa possibile dall’affermazione che si stava scendendo, dalla stratosfera più lontana e romantica, al terreno solido della scienza. L’insistenza sulla razionalità e sulla scienza era tanto veemente quanto precaria.
Il contributo della tradizione scientifica reale a quest’ethos fu esemplificato dalla figura tipicamente tedesca di Ernst Haeckel, quel formidabile biologo convertito al darwinismo che combinò con un’ardente difesa del Volk e del nazionalismo romantico la rigenerazione razziale e l’antisemitismo.f Egli sarebbe diventato quel che Daniel Gasman ha chiamato il «principale profeta della biologia politica della Germania».35 I visionari non scientifici potevano combinare il loro Haeckel con visioni razziali occultistiche di un tipo che senza dubbio ispirò Hitler e altri razzisti in alto nelle gerarchie. Lo stesso Haeckel si mosse in quest’ultima direzione quando abbellì il proprio antisemitismo con la tesi che i meriti di Cristo derivavano dal fatto che era ebreo solo per metà.g
Haeckel abbracciò un tema molto diffuso nell’Ottocento (esso è presente per esempio nel naturalista inglese Alfred Russel Wallace, anche se non altrettanto specificamente in Darwin), secondo cui ciascuna delle razze principali dell’umanità potrebbe essere considerata una specie separata. Haeckel credeva che le varie razze umane fossero dotate di caratteri ereditari diversi non solo di colore ma anche, fatto più importante, di intelligenza, e che i caratteri fisici esterni fossero un segno di capacità morale e intellettuale innata. Egli riteneva, per esempio, che i negri, dai «capelli lanosi», fossero «incapaci di una vera cultura interiore e di uno sviluppo mentale superiore». E la «differenza fra la ragione di un Goethe, di un Kant, di un Lamarck o di un Darwin, e quella del selvaggio più basso... è molto maggiore della differenza di grado esistente fra la ragione di quest’ultimo e quella dei mammiferi “più razionali”, le scimmie antropoidi». Haeckel si spinse addirittura, a proposito di queste «razze inferiori», a sostenere che, essendo esse «psicologicamente più vicine ai mammiferi (scimmie antropomorfe e cani) che non agli europei civilizzati, noi dobbiamo assegnare un valore del tutto diverso alla loro vita» (il corsivo è mio).37 Il sé di Auschwitz poteva sentire una certa tradizione nazional-scientifica dietro la sua aspra, apocalittica, mortale razionalità.
In tutti questi modi, l’ideologia e l’ethos nazisti tedeschi poterono creare nel sé di Auschwitz una forma individuale di credenza simile alla fede delle popolazioni primitive nella magia: «Il tessuto [di questa fede] non è una struttura esterna nella quale egli [il nazista] è racchiuso... [ma] il tessuto stesso del suo pensiero, ed egli non può pensare che il suo pensiero sia sbagliato. Le sue credenze non sono nondimeno fissate in modo assoluto, ma sono variabili e fluttuanti per tener conto di situazioni diverse e per consentire osservazioni empiriche e persino dubbi».38
Il sé di Auschwitz dipendeva da una diminuzione radicale della sensibilità emotiva, dal fatto di non sperimentare psicologicamente ciò che si stava facendo ad altri. Io ho chiamato tale stato «ottundimento psichico», una categoria generale di diminuita capacità o inclinazione affettiva. L’ottundimento psichico implica un’interruzione nell’azione psichica: in quella continua creazione e ricreazione di immagini e di forme che costituisce il processo di simbolizzazione o «processo formativo» caratteristico della vita mentale umana. L’ottundimento psichico varia molto in grado dal blocco quotidiano degli stimoli eccessivi a manifestazioni estreme in risposta ad ambienti saturi di morte. È però probabilmente impossibile uccidere un altro essere umano senza ottundere la propria capacità di immedesimazione verso quella vittima.39
Il sé di Auschwitz si appellava anche ai meccanismi connessi della «derealizzazione», ossia della capacità di spogliarsi della realtà di cui si è parte, non sperimentandola come «reale».h (Questo venir meno del senso della realtà in relazione alle uccisioni non era inconciliabile con una consapevolezza della politica dello sterminio, ossia della Soluzione finale.) Un altro modello ancora è quello del «ripudio», o del rifiuto di ciò che in realtà si percepisce e del suo significato. Ripudio e derealizzazione si sovrappongono parzialmente e sono due aspetti parziali del processo generale di ottundimento. La funzione chiave dell’ottundimento nel sé di Auschwitz è quella di riuscire a evitare sensi di colpa quando si è coinvolti nelle uccisioni. Il sé di Auschwitz può allora impegnarsi nelle uccisioni sotto la copertura della medicina, una forma ultima di violenza compiuta in uno stato di sensibilità attenuata.
Certo, quando un medico nazista arrivava ad Auschwitz il suo ottundimento psichico era già ben avviato. Gran parte della sua emotività era già stata smussata dagli inizi del suo coinvolgimento con la medicina nazista, fra cui l’eliminazione di ebrei e l’uso del terrore, oltre che dalla sua partecipazione alla sterilizzazione forzata, dalla sua conoscenza dell’uccisione medica diretta («eutanasia») o dal suo rapporto con essa, e dalle informazioni che conosceva a un qualche livello di coscienza sui campi di concentramento e sugli esperimenti che in essi si facevano, se non sui campi della morte come Auschwitz. L’ottundimento era promosso non solo da questa conoscenza e dal suo senso di colpa ma anche dal principio ammirato del «nuovo spirito della freddezza tedesca».41 Inoltre, i primi risultati conseguiti dai nazisti favorirono ulteriormente tale durezza: e spesso accade che il successo produca insensibilità.
Nel discutere le forme della diminuzione di sensibilità, Ernst B. mi disse che questa era la «chiave» per capire che cosa accadde ad Auschwitz. Nel sottolineare che «ad Auschwitz si poteva reagire come un essere umano normale solo nelle primissime ore», egli stava spiegando come una persona che fosse entrata in quel luogo si sarebbe trovata avvolta quasi subito in una coltre di ottundimento. E c’era un significato simile nella domanda retorica della dottoressa Magda V.: «Voglio dire, come potete capire l’orrore di tutto ciò?».
Deve realizzarsi una transizione dal sentimento alla mancanza di sentimento, una transizione che ad Auschwitz poteva essere rapida e radicale. Essa aveva inizio con la formazione di una barriera interiore che impediva di formarsi un’esperienza psicologica di quella che era l’attività principale del campo: l’uccisione di ebrei. La grande maggioranza degli ebrei venivano uccisi al loro arrivo senza neppure essere ammessi al campo per ricevervi lo status importantissimo di avere un numero tatuato sul braccio sinistro, cosa che ad Auschwitz significava vita, per quanto precaria. L’ottundimento verso le vittime era una cosa ovvia perché, nei termini della funzione di Auschwitz, quelle vittime non esistettero mai, non varcarono mai l’ingresso del campo di concentramento. Le grandi selezioni alla banchina determinavano quella massiccia non-esistenza; e le selezioni stesse divennero psicologicamente dissociate da altre attività, relegate in un’area mentale che «non contava», ossia derealizzate e ripudiate. In un certo senso, c’era un nocciolo di verità nell’affermazione del dottor B. che le selezioni erano psicologicamente meno significative per i medici nazisti dei problemi della fame in cui si imbattevano di continuo.
Ma solo un nocciolo, poiché i medici nazisti sapevano che le selezioni significavano uccisione, e per eseguirle dovevano fare il lavoro psicologico di appellarsi a un sé di Auschwitz dalla sensibilità attenuata. Benché tali medici si differenziassero fra loro nella volontà, o disponibilità, a eseguire selezioni, essi dovevano di solito superare un qualche «blocco» (come si espresse il dottor B.) o «scrupolo» (secondo il termine preferito dalla letteratura nazista). Dopo aver fatto una prima e forse una seconda selezione, si prendeva in effetti un impegno con se stessi di smussare la propria affettività, ossia di vivere entro i sentimenti ristretti del sé di Auschwitz.
Ai fini di questa transizione, le forti bevute da me menzionate hanno una grande importanza a vari livelli. Esse fornirono, sin dall’inizio, uno stato di coscienza alterato all’interno del quale si tentò di confrontarsi in forma attenuata con le realtà minacciose di Auschwitz (le dichiarazioni melodrammatiche, e persino romanticizzate, di dubbi e la semiopposizione descritte dal dottor B.). In questo stato alterato, conflitti e obiezioni non dovettero essere considerati necessariamente una resistenza seria, non dovettero costituire un vero pericolo. Si potevano quindi esplorare i dubbi senza alcun bisogno di conferir loro realtà: si potevano derealizzare sia i dubbi sia il resto della propria nuova vita di Auschwitz. Al tempo stesso, l’alcol svolgeva una funzione centrale per un tipo di legame maschile per mezzo del quale i nuovi medici venivano integrati nella comunità di Auschwitz. Gli uomini socializzavano per il «bene comune» e persino per quella che veniva percepita fra i medici nazisti come la sopravvivenza del gruppo. Le bevute in comune facilitavano i rapporti fra gli anziani, i quali potevano esserne facilitati nel compito di offrire modelli di un sé di Auschwitz al nuovo arrivato che cercava di entrare nel regno dell’eccidio di Auschwitz. La continua partecipazione a sentimenti di gruppo e all’ottundimento psichico di gruppo, favorita dall’alcol, contribuì ulteriormente a dare forma all’emergente sé di Auschwitz.
Nel corso del tempo, il persistere dell’abitudine delle bevute in comune, specialmente in connessione con le selezioni, permise al sé di Auschwitz di prendere le distanze da quell’attività di uccisione e di rifiutarne la responsabilità. Gli ebrei come vittime riuscivano sempre meno a entrare nei processi psicologici complessivi del sé di Auschwitz. Sia che un medico nazista vedesse gli ebrei senza sentirne la presenza, sia che non li vedesse affatto, non li sperimentava più come esseri capaci di esercitare un’influenza su di lui, ossia come esseri umani. Gran parte di quel processo di transizione aveva luogo in capo a giorni o persino a ore, ma tendeva a consolidarsi in due o tre settimane.
L’ottundimento del sé di Auschwitz veniva grandemente facilitato dal carattere diffuso della responsabilità. Poiché i soldati del servizio di sanità erano più vicini al processo reale delle uccisioni, il sé di Auschwitz del singolo medico poteva facilmente pensare: «Non sono io a uccidere». Era probabile che il medico percepisse ciò che faceva come un misto di obbedienza a un ordine («Sono assegnato al servizio alla banchina»), di designazione a un ruolo («Ci si attende che io scelga prigionieri forti per il lavoro e prigionieri più deboli per il “trattamento speciale”») e di un atteggiamento desiderabile («Devo essere disciplinato e duro e superare ogni “scrupolo”»). Inoltre, dato che «è il Führer a decidere sulla vita e sulla morte di ogni nemico dello Stato»,42 la responsabilità ricade solo su di lui (o sui suoi rappresentanti immediati). Come nel caso di chi partecipava all’uccisione medica diretta («eutanasia»), il sé di Auschwitz poteva sentirsi come nulla di più che un membro di una «squadra», all’interno della quale la responsabilità era così divisa e di competenza di autorità superiori da non esistere più a livello individuale per alcun membro di quella squadra. E quando, ciò nonostante, sussisteva ancora un senso di responsabilità residuo, si poteva tornare a fare appello all’ottundimento psichico per mezzo di un compromesso numerico: «Gliene diamo dieci o quindici e ne salviamo cinque o sei».
Si poteva consolidare l’ottundimento concentrando l’attenzione sul «gioco di squadra» e sull’«assoluta correttezza» verso altri membri della squadra. Se invece la «squadra» si rendeva responsabile di qualche cosa di criminoso, si poteva mantenere l’insensibilità già conseguita affermando la propria indipendenza da essa. Ho in mente un ex medico nazista che respinse ogni addebito per gli esperimenti medici eseguiti da un gruppo cui aveva fornito materiali del suo laboratorio, anche se egli si fece vedere di tanto in tanto nel campo di concentramento ed esaminò i grafici sperimentali e i soggetti. Lo stesso medico negò ogni responsabilità anche per la decisione della «squadra» (comitato) di accantonare grandi quantità di Zyklon-B per usarlo nei campi della morte, pur avendo avuto una parte importante nel processo decisionale, poiché, qualsiasi cosa sapessero altri membri della squadra, egli non era stato informato che il gas sarebbe stato usato per uccidere. In quest’ultimo esempio, in particolare, ci rendiamo conto che l’ottundimento può essere voluto e che ci si può aggrappare nel caso di un tipo di coinvolgimento continuo del sé in esperienze che normalmente produrrebbero forti reazioni emotive (vedi nota a pp. 226-227).
Il linguaggio del sé di Auschwitz, e dei nazisti in generale, era cruciale per conseguire l’ottundimento psichico. Uno fra i principali studiosi dell’Olocausto disse di avere esaminato «decine di migliaia» di documenti nazisti senza essersi imbattuto una sola volta nella parola «uccisione», e quando finalmente la scoprì, dopo molti anni di ricerche, fu in un editto riguardante cani.43
Per designare ciò che veniva fatto agli ebrei c’erano parole diverse, parole che perpetuavano l’ottundimento del sé di Auschwitz rendendo l’omicidio non omicida. Nel caso dei medici, specificamente, la terminologia usata era tale da suggerire un comportamento responsabile militare-medico: «servizio alla banchina» (Rampendienst), o a volte anche «servizio medico alla banchina» (ärztlicher Rampendienst) o «[prigionieri] che si presentavano davanti a un medico» (Arztvorsteller). Per ciò che si faceva agli ebrei in generale c’erano, ovviamente, la «Soluzione finale della questione ebraica» (Endlösung der Judenfrage), «possibilità di soluzione» (Lösungsmöglichkeiten), l’«evacuazione» (Aussiedlung o Evakuierung), il «trasferimento» (Überstellung e Umsiedlung: quest’ultima parola suggerisce l’idea di un trasferimento di emergenza in vista di un pericolo, in attesa di una sistemazione definitiva). Persino quando si parlava di un «Kommando di gassificazione» (Vergasungskommando), questo aveva la funzione dichiarata della disinfezione. La parola «selezione» (Selektion) poteva implicare la scelta dei sani dai malati, o persino una qualche forma di funzione scientifica darwiniana avente a che fare con la «selezione naturale» (natürliche Auswahl), che certamente non aveva niente a che fare con l’uccisione.
Il medico nazista non credeva letteralmente in questi eufemismi. Persino un sé di Auschwitz ben sviluppato aveva la consapevolezza che gli ebrei non venivano trasferiti bensì uccisi, e che la «Soluzione finale» significava ucciderli tutti fino all’ultimo. Al tempo stesso, però, questo linguaggio dava ai medici nazisti la possibilità di un modo di espressione in cui l’uccisione non era più uccisione e in cui non c’era più bisogno di sentirla, o persino di percepirla, come tale. A furia di vivere immersi in un tale linguaggio, e di usarlo fra loro, i medici nazisti vennero a trovarsi legati a livello immaginativo a un ambito psichico di derealizzazione, di ripudio e di ottundimento della sensibilità affettiva.
Man mano che ci si veniva gradualmente assuefacendo ad Auschwitz, il sé di Auschwitz interiorizzava le richieste che gli venivano poste. Era sempre presente un sostegno di gruppo a favore dell’adattamento, e la vita ad Auschwitz divenne «come le condizioni meteorologiche», con la differenza di esser più prevedibile: una natura parziale, una realtà avvolgente. Quando la dottoressa Magda V. mi disse: «Il fatto era che non c’erano mai molti tedeschi attorno» non stava solo facendo un commento sul piccolo numero di SS necessario per controllare il campo, ma stava suggerendo anche un senso di un potere naturale automatizzato. Quando il sé di Auschwitz consentiva a un medico nazista di continuare a compiere le selezioni, col suo assistente che si prendeva cura di tutti i particolari e con internati che tenevano nota di tutto ciò che accadeva nel campo; quando arrivavano i trasporti, e i forni crematori fumavano; quando all’inverno seguiva la primavera e alla primavera l’estate, se il sé di Auschwitz non sentiva esattamente che «Dio è nel Suo cielo», sperimentava almeno la sicurezza di far parte di un corso regolare, inesorabile, di eventi umani.
Nel mettere Auschwitz sullo stesso piano con un’«impresa civile» ordinaria, come un «progetto di fognatura», il dottor B. rifletteva l’intensa richiesta psicologica del sé di Auschwitz di tener fermo a quell’immagine, di non concedersi alcuna partecipazione emotiva. Questo atteggiamento assomiglia a quello, descritto da Raul Hilbert, diffuso fra gli ufficiali delle ferrovie tedesche responsabili del trasporto di ebrei dai ghetti ai campi della morte, i quali «si rendevano conto di ciò che stavano facendo» e «fecero fronte a tale compito nel modo più ingegnoso, non modificando la loro routine e non ristrutturando la loro organizzazione, non mutando nulla nella loro corrispondenza o modo di comunicazione».44 Il sé di Auschwitz doveva svolgere un lavoro psicologico continuo per mantenere quel senso interno di assuefazione e di sensibilità attenuata, nell’intento di scongiurare immagini potenzialmente opprimenti del proprio rapporto con la colpa, con la morte e con l’omicidio. Esso poté conseguire in questo suo sforzo un discreto successo perché, come mi disse il dottor B., non c’era bisogno di vedere i cadaveri,i ma «solo di sentirne l’odore», e all’odore ci si abituava.
Diventando cosciente di qualche aspetto della reale atrocità cui stava prendendo parte, il sé di Auschwitz poteva passare rapidamente all’atteggiamento di rassegnato distacco di chi è «al di sopra della mischia»: pensando per esempio, come il dottor B., che tale atrocità non era diversa da altri eventi distruttivi se non «per le dimensioni... e questa è chiaramente una questione tecnica»; o insistendo, come il dottor Otto F., che, nel valutare l’era nazista, si «deve vedere non solo il male ma anche il bene... e giudicare... che cosa accadde realmente». Il sé di Auschwitz potrebbe essere pervenuto a considerare la propria sopravvivenza in mezzo a tanta morte come una prova di virtù (come continuò a dire il dottor F.), «avendo una veste assolutamente bianca» o una coscienza pura. E quella rivendicazione di virtù veniva mantenuta aggrappandosi a un senso di «onore di status» (per usare un’espressione di Max Weber),46 di buona reputazione all’interno dei costumi del proprio gruppo.
Quando Ernst B. parlò dell’atmosfera fuori del comune di Auschwitz come determinante di ogni comportamento, stava suggerendo il potere che la routine di Auschwitz aveva di ottundere e attenuare con l’assuefazione ogni partecipazione emotiva. Tale potere fu manifesto nei contributi dati alla macchina di sterminio di Auschwitz sia da Wirths sia da Delmotte, quali che fossero il loro conflitto interno e la loro umanità residua.
I medici nazisti che parlarono con me della loro esperienza di Auschwitz mi parvero messaggeri venuti da un altro pianeta. Essi stavano descrivendo un ambito di esperienza così estremo, così lontano dall’immaginazione di chiunque non vi fosse mai stato, da essere, letteralmente, una realtà separata. Tale qualità – quel distacco assoluto dall’esperienza ordinaria – forniva al sé di Auschwitz un’altra dimensione ancora di ottundimento. Mentre una parte del sé era assorbita nella routine, un’altra parte poteva sentire l’ambiente come così distinto dalla realtà ordinaria che qualsiasi cosa accadesse là semplicemente non contava. Non si poteva credere a quel che si stava facendo, neppure mentre lo si faceva. Marianne F. colse questa sensazione nei medici nazisti che la circondavano quando osservò: «Il fatto è che se fai qualcosa che è del tutto incredibile, e non riesci a crederci, non ci credi... Le camere a gas..., le case nei crematori..., case di mattoni, finestre, tendine, steccati dipinti di bianco... Nessuno ci avrebbe creduto». Una parte della situazione schizofrenica consisteva nella capacità di mobilitare il sé di Auschwitz in azioni perverse alle quali esso non potesse credere. Si aveva la sensazione che tutto ciò che si poteva fare sul pianeta Auschwitz non contasse sul pianeta Terra. E se non si crede in una cosa, quali che possano essere le prove delle proprie azioni, essa non suscita neppure una reazione emotiva in noi. Ecco perché il dottor Tadeusz S. poté dire, con amara ironia, dei medici nazisti: «Non hanno problemi morali».
Auschwitz fu un melodramma in cui gli autori si erano lasciati trascinare a tal punto dalla fantasia più sfrenata da renderlo completamente assurdo, incredibile al suo stesso regista (i medici nazisti e altri ufficiali), ai suoi protagonisti (i prigionieri), costretti a partecipare all’azione, o al suo pubblico (la popolazione locale, i tedeschi, il mondo), tanto più che ciascun gruppo all’interno di quel pubblico aveva considerevoli motivazioni aggiuntive per non prestarvi fede. Otto F., il medico nazista che fu considerevolmente implicato nella macchina dello sterminio durante il suo breve soggiorno ad Auschwitz, parlò dell’intera era nazista come di un «fenomeno temporaneo, la riunione degli elementi più svariati..., estranei alla mentalità del popolo tedesco».
Nel caso del sé di Auschwitz, in altri termini, fu proprio la bizzarria delle sue azioni – le dimensioni del male che esso conobbe – a sostenere la sua capacità, unita a una consapevolezza attenuata, di compiere quello stesso male.j
Il sé di Auschwitz oscillò fra il senso di controllo onnipotente sulla vita e la morte dei prigionieri e il senso apparentemente opposto di impotenza, di essere una rotella insignificante in un grande meccanismo controllato da altri che restavano invisibili. Questi sentimenti polarizzati furono senza dubbio diffusi fra il personale del campo della morte. Essi avevano però uno speciale significato per i medici, che di solito sperimentano entrambi gli estremi del sentimento nei confronti quotidiani con la malattia e con la morte che si accompagnano alle lotte con la loro propria ansia di morte. Questa polarità assunse dimensioni grottesche ad Auschwitz, poiché i medici nazisti, allo scopo di placare quest’ansia di morte, facevano appello a sentimenti di onnipotenza connessi a sadismo da un lato, e di impotenza e a volte di masochismo dall’altro.
È difficile, per la maggior parte di noi, immaginare che cosa significasse psicologicamente sperimentare il grado di potere che il sé di Auschwitz esercitava sulla vita e la morte di altre persone. Un medico prigioniero tentò di fare un’osservazione simile parlando dei medici nazisti come «dotati di [una forma di] potere superiore a quello degli imperatori romani». Benché la loro onnipotenza fosse ufficialmente limitata da indirizzi politici decisi più in alto – i prigionieri deboli dovevano essere uccisi e quelli più forti dovevano essere preservati per il lavoro –, in realtà la sorte dei prigionieri poteva essere decisa dall’umore o dal capriccio del medico SS. Tale onnipotenza si estendeva all’uso illimitato che si poteva fare del corpo dei prigionieri, specialmente ebrei, in connessione con esperimenti medici: anche in questo caso una caricatura crudele di comportamenti comuni che sfiorano l’onnipotenza che possono essere presenti in autentici ricercatori medici.
Tale onnipotenza riceveva un’altra dimensione ancora dal generale stato di deperimento dei prigionieri e dai loro sforzi disperati nelle selezioni nel campo per dare l’impressione di un vigore maggiore di quello che non avevano in realtà: essi si sforzavano così di marciare o correre con energia mentre in realtà erano vicini alla morte per fame, imbottivano i loro vestiti per sembrare meno scarni, o trovavano qualcosa con cui colorarsi le guance e le labbra e per nascondere il loro pallore estremo. Inoltre, sia l’onnipotenza sia il deperimento divennero essi stessi una routine, cosicché il sé di Auschwitz venne ad averne bisogno per funzionare.
Eppure queste figure onnipotenti sembravano timorose. «Avevano un grandissimo timore della morte», osservò Tadeusz S. «I più grandi assassini erano i più codardi.» E apparivano «pietrificati» (come si espresse Marianne F.) dal timore di una possibile infezione, adottando comportamenti estremi per evitare internati potenzialmente contagiosi.k Non c’è dubbio che la reputazione di onnipotenza del sé di Auschwitz assolveva chiaramente la funzione psicologica di scongiurare la propria ansia di morte. Avendo rinunciato all’impegno terapeutico, che può proteggere una persona dalla propria ansia, si aveva un bisogno costante di onnipotenza.
Ho notato ripetutamente come l’onnipotenza si fondesse col sadismo: lo «speciale tipo di sorriso» di Mengele mentre faceva le selezioni esprimeva senza dubbio anche un piacere per le sofferenze degli altri. Ma la sofferenza inflitta per mezzo di una costante minaccia di morte può essere intesa come un’espressione massimale di dominio e di controllo su un altro essere umano. Dal punto di vista del paradigma vita-morte il sadismo è un aspetto di onnipotenza, uno sforzo per abolire la propria vulnerabilità e suscettibilità alla sofferenza e alla morte.
C’è una combinazione simile nel sadismo con cui i medici SS giocavano con i sentimenti dei prigionieri, e nello sfoggio di gentilezza seguito da un’estrema crudeltà e un’evidente gioia nel mandare a morte delle persone. In effetti il sé di Auschwitz prese forma all’interno di una struttura e di attese di onnipotenza sadica cosicché, per evitare di assumere quell’atteggiamento, si richiedeva una qualche forma di resistenza interiore.
È probabile che eventuali impulsi verso l’onnipotenza presenti nei medici li abbiano attratti verso le SS e verso il sistema dei campi di concentramento. Anche qui i medici SS presentarono differenze fra loro e formarono una sorta di continuum, a seconda del grado di quegli impulsi. Un’importanza cruciale ebbe però la strutturazione dell’ambiente. Ecco perché si poteva dire che Mengele, che si situava senza dubbio al termine estremo del continuo onnipotenza-sadismo, sarebbe stato in una diversa situazione un professore-medico tedesco relativamente comune. Si può sostenere addirittura che un medico i cui impulsi verso un’onnipotenza sadica fossero stati troppo forti avrebbe avuto difficoltà a compiere ciò che gli si chiedeva ad Auschwitz, poiché quegli impulsi mal si sarebbero conciliati con l’ottundimento richiesto, e la loro espressione avrebbe potuto interferire col regolare funzionamento della tecnologia dell’eccidio. (Ricordiamo che Mengele riuscì ad armonizzare queste e altre tendenze personali con le richieste dell’ambiente.)
Eppure il sé di Auschwitz venne a trovarsi implicato in un processo di perpetuo rinforzo: esso rispondeva all’incoraggiamento a conseguire forti sentimenti di onnipotenza e li esprimeva, secondo le richieste di cui era oggetto, nella relativamente strutturata forma di Auschwitz; quell’espressione, a sua volta, creava un’ansia reale o potenziale che aveva attinenza con la morte e con l’uccisione, la quale richiedeva poi a sua volta ulteriori sentimenti di onnipotenza e sadismo per scongiurare quell’ansia. Di qui l’evidente aumento nel corso del tempo, rilevato da alcuni medici internati, dell’espressione di onnipotenza e di sadismo del sé di Auschwitz.
Auschwitz fu il centro del grande accumulo di onnipotenza e di sadismo dei nazisti, che comprendeva un’attrazione enorme per la morte e i suoi confini. Per i medici si aggiungevano le componenti delle tendenze all’onnipotenza nella medicina in generale ma più specificamente la visione del nazionalsocialismo come «niente di più di biologia applicata» (vedi pp. 184-188). Tale visione incorporò in sé anche la versione nazista mistica della «volontà collettiva», che in gran parte della filosofia tedesca era stata considerata un principio metafisico assoluto e «l’agente di una legge della natura e della storia».47 Così i nazisti credenti vedevano in se stessi dei «figli degli dèi»,48 dotati del potere di distruggere e di uccidere a beneficio della loro superiore vocazione, uomini che rivendicavano «spuri attributi di divinità».49 Tutti i nazisti accampavano qualche pretesa a questo stato trascendente, ma i medici potevano sostenere la loro onnipotenza con quelle rivendicazioni bizzarre e convincenti fatte nel nome della biologia, dell’evoluzione e della terapia. Il sé di Auschwitz poteva sentire di stare attingendo alla sorgente di energia della natura stessa nel diventare il motore del movimento nazista, o il motore della natura.
Questa metafora del «motore della natura» suggerisce il rapporto fra il senso di onnipotenza e il senso apparentemente opposto di dipendenza o di impotenza, di non esser altro che una minuscola rotella in un ingranaggio controllato da altri. Il sé di Auschwitz poteva oscillare dall’una all’altra emozione, le quali risultavano entrambe essere parte della stessa costellazione psicologica. Quelle stesse forze che gli fornivano il senso di potere su altri potevano anche farlo sentire oppresso, minacciato, praticamente annullato. Per un altro principio, suggerito dall’osservazione che «ad Auschwitz si poteva reagire come un essere umano normale solo nelle primissime ore», entra in gioco lo straordinario potere di quell’ambiente su qualsiasi sé che fosse entrato in esso.
Inoltre, il sé di Auschwitz ricercava prontamente quell’atteggiamento di impotenza come modo per rifiutare la responsabilità per quello che stava accadendo, anche se non lo si diceva mai esplicitamente: che «i prigionieri vengono qui per essere uccisi». (Il dottor B. riferì così il modo di pensare di alcuni medici: «Io non sono qui per mio desiderio... Non ho alcun potere sul fatto che qui arrivano dei prigionieri. Posso solo tentare di cavarmela nel modo migliore».) Questa resa emotiva e morale all’ambiente presentava grandi vantaggi psicologici. Il sé di Auschwitz poteva pensare: «Io non ho alcuna responsabilità per le selezioni. Io non ho alcuna responsabilità per le iniezioni di fenolo. Io sono una vittima dell’ambiente non meno di quanto lo sono i prigionieri». Più di una mera razionalizzazione retrospettiva, questo atteggiamento di rifiuto di responsabilità era ancora un altro mezzo per evitare sensi di colpa. Il sé di Auschwitz permetteva all’ambiente omicida di prendere possesso di se stesso. Esso accettava i dati di quell’ambiente: «L’eccidio di massa è la norma, cosicché è cosa lodevole compiere selezioni e salvare attraverso di esse delle persone, o fare esperimenti su prigionieri e menomarne o ucciderne alcuni di tanto in tanto, dato che essi sono in ogni caso destinati a morire». Il sé di Auschwitz poteva quindi diventare un prodotto assoluto del contesto e non c’è un modo migliore di questo per rifiutare responsabilità morali di ogni genere. Si può profondere un’energia psichica considerevole nel ricercare e conseguire lo status della pedina inerme.
Ma l’immagine più esatta potrebbe essere quella di uno strumento dell’ambiente. Uno strumento non inizia alcuna azione ma svolge in essa un ruolo tecnico importante aumentando l’abilità e l’efficienza di colui che lo usa. Qui, ovviamente, a usare gli strumenti era la dirigenza nazista: in ultima analisi, il Führer stesso. Ma dal punto di vista della concezione biomedica nazista il sé di Auschwitz era anche uno strumento del processo evolutivo, di un imperativo biologico. In questo modo la biologizzazione di Auschwitz – e della Germania nazista in generale – contribuì al sacrificio di sé e all’impotenza di un medico non meno che alla sua onnipotenza.
Il sé di Auschwitz poteva sperimentare anche i piaceri dell’obbedienza. Come infatti l’onnipotenza diviene facilmente associata al sadismo, così l’impotenza e la mancanza di potere possono essere associate al masochismo. Il timore sperimentato dal sé di Auschwitz veniva provato non solo in connessione con superiori specifici ma anche con la minaccia di essere in qualche modo scacciato dalla sua posizione di equilibrio fra potere onnipotente e debolezza impotente. Esso aveva bisogno di quell’equilibrio per scongiurare di continuo l’ansia e, soprattutto, la responsabilità. L’equilibrio nel sé di Auschwitz tendeva a essere instabile, come nel caso dello sciamano per il quale «nessuna quantità di potere... sembra abbastanza» e che vive costantemente nel «senso della sua relativa impotenza nel mondo degli spiriti».50
Quest’impotenza associata a onnipotenza era coltivata di fatto nell’intero movimento nazista. Il dottor Otto F. compendiò questa situazione dicendo che per uno studente era «una cosa ovvia» essere sottoposto a un addestramento militare con armi; una volta conseguita la laurea in medicina si era sottoposti alla Gleichschaltung (coordinazione), perché «era d’obbligo», e si dovevano anche compiere sterilizzazioni «in quanto ciò era semplicemente ordinato dall’università, la quale riceveva gli ordini dagli uffici statali della sanità»; e ad Auschwitz «si è semplicemente qui sul posto e impotenti» (benché in realtà Otto F. sia stato, almeno per breve tempo, medico capo del campo). I medici ricevevano ordini dal comandante del campo, spiegò il dottor F., ma persino quest’ultimo era intrappolato in una sorta di ricatto esercitato su di lui dal regime nazista, cosicché egli «soffriva molto» di quella situazione. Similmente, sul fatto di rimandare in servizio il personale delle Einsatzgruppen dopo averne curato i gravi traumi psichici, un ex medico nazista mi disse che «era una cosa orribile, ma non potevamo fare niente [altro]». E a proposito della cooperazione con l’uccisione medica diretta, o «eutanasia», un altro medico ricordò di avere pensato: «Beh, che cosa si può fare? Innanzitutto siamo impotenti, non possiamo modificare questa situazione».
Ma in tutte quelle situazioni, per quanto i medici nazisti si sentissero e volessero sentirsi impotenti, essi erano anche in una posizione di onnipotenza. In effetti, l’intero principio del Führer faceva di una persona a un tempo uno strumento impotente (perché era soltanto il Führer a decidere tutto) e un individuo che condivideva l’onnipotenza del Führer, svolgendo la funzione di suo agente (o strumento). Poiché la volontà del Führer era la corte di ultima istanza, essa era per ogni altro individuo un sistema per sottrarsi a ogni responsabilità. E, in effetti, persino il Führer poteva essere presentato come «inerme»: perché la malvagità dell’ebreo lo costringeva ad agire contro di lui o a fargli la guerra o perché psicologicamente il senso di impotenza del Führer era «proiettato negli ebrei» assieme al «timore di contaminazione, di impotenza... [e] della distruzione della fonte principale di identità e di potere, che veniva erosa culturalmente... dal moderno mondo di massa... più particolarmente e dolorosamente in Germania, dove una lunga tradizione patriarcale stava traumaticamente sgretolandosi».51
È un’ironia – anche se psicologicamente la cosa non sorprende – che questi uomini lottarono, pur svolgendo la loro funzione di uccisori, per continuare ad aderire al loro senso di se stessi come medici. E questo tanto più che, come ci disse il dottor B., «l’attività medica [per i medici nazisti] ad Auschwitz consisteva solo nel selezionare persone per la camera a gas». Fra gli elementi che si richiedevano perché il sé di Auschwitz di un medico potesse funzionare c’era l’asserzione dell’identità medica.
Hermann Langbein percepì l’importanza di tale identità nello sviluppo dell’uso di rivolgersi loro chiamandoli «dottore» anziché col grado militare, come si sarebbe dovuto fare, giacché tale uso, com’egli notò, creava un tono meno rigido e formale. L’uso del titolo confermava inoltre il senso che un uomo aveva di se stesso come medico e non semplicemente come ufficiale delle SS, cosa che fu senza dubbio d’aiuto a Langbein nei suoi sforzi a vantaggio della popolazione dei prigionieri, sforzi concernenti per lo più la situazione nei blocchi medici. Sappiamo che l’identità medica dei medici nazisti era stata permeata dall’ethos nazista già prima del loro arrivo ad Auschwitz. Essi erano eredi di una grande tradizione medica, che aveva manifestato una costante preoccupazione per l’etica medica: tale tradizione comprendeva tradizionalmente restrizioni all’uso di farmaci con effetti sconosciuti sui soggetti umani e la pratica frequente dei medici di sperimentare tali farmaci su se stessi. I medici tedeschi erano eredi anche di una considerevole rivalità medico-politica, e di una professione che poté incoraggiare, fino a renderla caricaturale, l’idea del medico-scienziato che si concentrava esclusivamente su un’entità nosologica al punto di dimenticarsi dell’umanità del suo paziente, e la cui posizione, specialmente se si trattava di un professore, gli dava il diritto di fregiarsi di un sapere infallibile. Benché i singoli medici presentassero differenze in relazione a questo punto – fra loro c’erano ovviamente molti terapeuti coscienziosi –, essi ebbero a disposizione, molto tempo prima dei nazisti, il modello del «Führer medico». Quest’eredità di una grande tradizione professionale in declino – molto incerta della sua condizione fra le professioni52 – rese i medici nazisti particolarmente pronti a rispondere alle promesse di una rivitalizzazione professionale, non meno che personale e nazionale.
I nazisti corteggiarono, coartarono, lusingarono, minacciarono e soprattutto «coordinarono» i medici in accordo con la loro inflessibile politica della Gleichschaltung (vedi pp. 57-59). Nello stesso tempo ampliarono l’identità del medico in quella del Führer medico militarizzato. Kurt Blome, che divenne il vice di Leonardo Conti, medico capo del Reich, colse lo spirito di quest’identità medica in un libro autobiografico, Arzt im Kampf (Medico in lotta, 1942), in cui mise con esuberanza sullo stesso piano potere medico e potere militare nella loro lotta per la vita e la morte.53 La militarizzazione della medicina cominciò nelle università, dove, come ci dice il dottor Otto F., «la maggior parte degli studenti andarono sotto le armi», come pure molti professori; e divenne motivo d’orgoglio per gli studenti di medicina essere addestrati all’uso delle armi. Molti fra i medici nazisti di maggiore anzianità e di grado più elevato avevano combattuto nei Freikorps e nella Germania nazista non si poteva conseguire un pieno prestigio medico senza avere ricevuto una preparazione militare di un certo rilievo.
Poteva esserci una confusione considerevole sulla nuova identità. Da un lato, molti fra i «veterani» medici, come Lolling e Blome, potevano essere guardati dall’alto in basso da altri medici, che li accusavano di mancare di competenza medica, di essere più nazisti che medici; ed erano sicuramente una versione medica dell’«uomo semiistruito» tipicamente nazista (vedi pp. 670-671). Quest’espressione fu usata da Joachim C. Fest per l’ideologo Alfred Rosenberg.54
Ma a quella confusione non si sottrassero neppure i medici nazisti ben istruiti, per quanto tenacemente si aggrappassero alla loro identità medica. Un ex medico nazista spese decenni, dopo essere stato condannato a Norimberga (per aver partecipato a esperimenti) e dopo avere scontato una lunga pena detentiva, a tentare di ristabilire la sua onorabilità medica; durante le nostre interviste mi chiese ripetutamente di intervenire formalmente e persino legalmente a suo favore, nonostante le mie chiare dichiarazioni iniziali che nessuna azione del genere da parte mia era neppure lontanamente possibile.
Per poter immolare gli ebrei, era necessario spogliare i medici ebrei del loro ruolo di terapeuti (come abbiamo visto nel cap. I). Già molto tempo prima della creazione del campo di concentramento di Auschwitz, fu lanciato in Germania lo slogan che «un medico ebreo non è un medico, ma un procuratore di aborti e un avvelenatore».55 Ma i medici tedeschi finirono col diventare proprio ciò che avevano accusato di essere i medici ebrei: non procuratori di aborti ma uccisori di neonati e di bambini e certamente «avvelenatori», oltre a occuparsi, ma a modo loro, del «trattamento» dei malati. L’ulteriore ironia di Auschwitz (riscontrata peraltro anche in altri campi) fu che gli unici autentici terapeuti furono i medici prigionieri, i quali erano, ovviamente, soprattutto ebrei.
I medici nazisti poterono fare un uso psicologico di tale ironia esercitando la loro attività medica attraverso i medici prigionieri di cui erano responsabili e su cui esercitavano il loro potere. Il sé di Auschwitz poté assumere la sua identità medica (promossa da hobby di carattere medico e da esperimenti «scientifici») e diventare in tal modo abile a uccidere.
Forse la massima chiave singola alla funzione medica del sé di Auschwitz fu la tecnicizzazione di tutto. Quel sé poté spogliarsi di preoccupazioni mediche immediate concentrandosi solo sugli aspetti «puramente tecnici» o «puramente professionali» (das rein Fachliche).Dimostrare «umanità» significava uccidere con efficienza tecnica.
Per il sé di Auschwitz c’è una sequenza logica: il compito di un medico è quello di alleviare le sofferenze e di esercitare un’influenza umana in ogni contesto. Quando il contesto è quello dell’eccidio di massa, quel compito significa fare appello alle abilità mediche e tecniche per diminuire la sofferenza delle vittime. Benché la logica dipenda da una visione molto tecnicizzata della funzione medica, il sé di Auschwitz può tener fermo al principio pseudo-etico dell’«uccisione umanitaria».
Quel principio fu proposto non solo dai medici di Auschwitz ma dal regime nazista in generale. Lo stesso Hitler, nel suo testamento finale prima del suicidio, contrappose la morte dolorosa «dei popoli ariani d’Europa» per fame, in battaglia o sotto le bombe, ai mezzi «più umani» con cui «i veri criminali... [dovevano] fare ammenda per le loro colpe».56
L’uso di gas tossico – prima monossido di carbonio e poi Zyklon-B – fu la conquista tecnologica che permetteva un’«uccisione umana». Di qui il consiglio dato molto presto da Grawitz, il medico capo delle SS, quando fu consultato da Himmler sull’argomento, a favore delle camere a gas: senza dubbio il mezzo tecnico fondamentale emerso in tale consultazione tecnico-medica.
Ma questi due «filantropi» si preoccupavano senza dubbio più del benessere degli uccisori che di quello delle vittime. Anche le difficoltà psicologiche sperimentate dalle Einsatzgruppen nelle uccisioni faccia a faccia (vedi pp. 223-228) furono affrontate con una forma di tecnicismo medico. Il neuropsichiatra della Wehrmacht che trattò queste difficoltà psicologiche negli uomini delle Einsatzgruppen me le descrisse – le manifestazioni generali di ansia, compresi i sogni angosciosi – nei toni clinici più distaccati. Quando gli chiesi se avesse mai avuto personalmente sogni angosciosi in relazione a tutte quelle uccisioni o al fatto di avere curato degli uccisori, mi rispose di no: «Io non ho mai ucciso nessuno» e «In quanto medici, noi non eravamo coinvolti». Mi divenne chiaro anche che lui e i suoi colleghi non modificavano in alcun modo significativo il loro approccio medico quando trattavano queste «truppe di uccisori» (com’egli le chiamò durante la nostra intervista), ma facevano semplicemente quanto era in loro potere per alleviare i sintomi e aiutare gli uomini a tornare in servizio. A volte li metteva in guardia gentilmente: «Sta’ attento ora, ti stai lagnando ma stai bene». Egli tentava di suggerirmi che, così facendo, aveva a cuore gli interessi del singolo soldato uccisore. Non c’è però alcun dubbio sul fatto che stava svolgendo la funzione del medico sospettoso nei confronti dei soldati che marcavano visita, e che insisteva nell’attenersi a criteri rigorosamente medici in decisioni concernenti l’opportunità di rimandare quegli uomini al loro dovere, ossia a continuare a uccidere. Qui l’estremo tecnicismo medico-psichiatrico ha due dimensioni: innanzitutto l’uso della propria conoscenza specializzata a vantaggio della struttura di comando della propria unità militare, la cui funzione anche in condizioni normali è l’uccisione di soldati nemici; e il carattere speciale è che il «dovere» a cui i pazienti venivano rimandati non aveva niente a che fare con la guerra e con le sue regole, ma era semplicemente quello di uccidere ebrei. Li si rimandava a una situazione produttiva di atrocità in misura estrema, a una forma di dovere la cui atrocità non era solo probabile nel caso medio, ma era precisamente il compito che veniva assegnato al singolo (vedi pp. 33-34).
Le forme più crude di uccisione nei campi nazisti, che secondo Ernst B. potevano essere considerate al livello di un’«abilità artigianale», potrebbero essere viste come fasi intermedie nel passaggio fra i compiti delle prime Einsatzgruppen e le uccisioni a un livello tecnico raffinato compiute ad Auschwitz. Fra gli esempi, qui, ci sono il ruolo importante svolto dai medici nelle connessioni del programma 14f13 fra l’«eutanasia» e i campi della morte e la funzione svolta già molto presto dai medici nello sviluppo del gas Zyklon-B, anche se sappiamo che il gas stesso e la sua applicabilità all’uccisione di esseri umani furono scoperti da esperti tecnici non medici. L’importanza di questo atteggiamento medico-tecnologico per il sé di Auschwitz è suggerita dall’affermazione di B. che, quando un suggerimento specifico di un medico per migliorare l’efficienza del crematorio risultò efficace, «egli ne fu altrettanto compiaciuto quanto [lo sarebbe un qualsiasi medico] dopo un’operazione [chirurgica] ben eseguita». Qui l’orgoglio professionale si fonde con la preoccupazione culturale tedesca per l’efficienza individuale e organizzativa. La stessa combinazione si rifletté anche nel risentimento dei medici di Auschwitz nei confronti dei loro superiori a Berlino, colpevoli di aver fornito loro attrezzature tecniche (camere a gas e crematori) insufficienti per far fronte alle richieste professionali dell’eccidio di massa.
In medicina ci sono sempre un elemento tecnico e una necessità di un modello meccanico del corpo. Il medico comune in effetti dice (o è come se lo dicesse) al paziente: «Lasciami considerare il tuo corpo come una macchina per permettermi di fare ciò che posso al servizio del tuo stato di salute generale come essere umano». Il medico nazista si atteneva però a un modello meccanico assolutizzato che si estendeva fino ad abbracciare l’ambiente. La macchina del corpo era sussunta in una più vasta macchina della morte e gli internati di Auschwitz non avevano alcuna condizione oltre a quella di dare un contributo passivo al funzionamento di tale macchina più vasta. Anche il sé di Auschwitz del medico nazista faceva parte di quella macchina dell’ambiente, e aveva l’incarico di massimizzare non solo il suo contributo, ma anche quello degli internati, al funzionamento di tale macchina. Lo straordinario successo della macchina della morte poteva dare al sé di Auschwitz l’impressione che la natura stessa stesse rispondendo: che il progetto fosse in armonia col mondo naturale.
Il fatto di impegnarsi semplicemente nel lavoro medico, ad Auschwitz o altrove, era per i medici un modo per tecnicizzare il loro rapporto con l’eccidio di massa. Quando io chiesi al dottor Otto F. se, nel corso del suo esteso servizio medico con la polizia e con le SS (al di fuori del suo breve soggiorno ad Auschwitz), si fosse mai imbattuto in atrocità o in esempi di eccidi di massa nazisti, la sua risposta fu che aveva lavorato moltissimo a fondare ospedali e a elaborare programmi medici, tanto che a volte lavorava da quattordici a sedici ore al giorno. Più specifica del sé di Auschwitz dei medici fu l’intensità con cui Wirths cercò, ogni volta che ne ebbe la possibilità, di svolgere lavoro medico. Un esempio parallelo non medico è l’affermazione con cui Rudolf Höss descrisse i suoi sforzi sovrumani per costruire e rendere funzionale Auschwitz, dichiarando: «Vivevo solo per il mio lavoro».57
Le cose, per il sé di Auschwitz, si complicavano quando esso eseguiva qualcosa di simile a un’azione medica nel processo stesso di uccidere: per esempio, quando esaminava il grado di emaciazione degli internati di un blocco medico come criterio per giudicare se mandarli o no alla camera a gas. Persino in quel caso, il senso anche momentaneo di svolgere una funzione medica potrebbe avere diminuito specificamente la consapevolezza di uccidere. Lo stesso potrebbe valere per i giudizi di natura medica, come quelli per cui il sovraffollamento e l’esigenza di conservare buone condizioni igieniche imponevano la selezione di un gran numero di persone per le camere a gas; anche qui, per quanto la cosa, considerata dall’esterno, possa apparire assurda, il sé di Auschwitz poteva ancora prendere le distanze dalle uccisioni grazie alla sensazione di stare svolgendo una funzione medica. Come si espresse un medico prigioniero: «Un medico rimane sempre un medico; anche un medico che tortura rimane sempre un medico» cosicché, come medico, egli deve «giustificarsi dinanzi a se stesso».
Giustificarsi dinanzi a se stesso come medico era ciò che stava facendo Ernst B. quando suggerì che, aiutando altre persone ad Auschwitz, vi trovò la sua funzione medica, la quale gli impedì poi di lasciare quel posto; e ciò che stava facendo Wirths nella sua persistente rivendicazione della purezza medica. Ma la verità, come la espresse un sopravvissuto, era che nessun medico, nell’intero sistema tedesco dei campi di concentramento, «conseguì alcuna distinzione per il suo lavoro come medico». Quest’affermazione suggerisce nel modo più preciso che il lavoro del medico nell’ambito del progetto nazista nei campi di concentramento significava la rinuncia alla propria responsabilità medica. Qui un momento psicologico importante è quello del medico SS che esprime il suo «sacro terrore del contagio» (nelle parole di Kogon),58 evitando in modo assoluto il contatto con i pazienti affetti da tifo e da altre malattie infettive. Questo atteggiamento comportava un’uscita dalla sfera dell’etica professionale ippocratica del medico come terapeuta. Il sé di Auschwitz non poteva psicologicamente permettersi una tale interpretazione e cercava di evitarla aggrappandosi a ogni possibile frammento di identità medica residua.
Un aspetto di tale lotta fu la glorificazione del proprio ruolo da parte di qualche medico nazista. Il dottor Otto F., per esempio, mi disse che «dal principio alla fine esistette uno spiccato atteggiamento medico, e in tutto ciò che è stato finora pubblicato in proposito non c’è una parola di vero». Egli continuò poi presentando una serie di affermazioni non confortate da prove, secondo cui i medici assegnati ad Auschwitz avrebbero opposto resistenza al processo di uccisione, e parlò di un dovere «di cui io sono debitore... verso i miei colleghi caduti durante la guerra» di testimoniare del loro coraggio nell’avversità. Si potrebbe dire che egli stava ancora sostenendo l’equiparazione del servizio ad Auschwitz col servizio al fronte, pur esprimendo al tempo stesso i sentimenti reali di una missione di sopravvivenza, per quanto male intesa, riferendosi ai medici suoi colleghi rimasti uccisi nel periodo in cui egli prestò servizio militare. Significativamente, tali medici nazisti che avrebbero manifestato la loro opposizione all’eccidio non misero mai in atto nessuno dei pochi casi di genuina resistenza medica ai nazisti: come quella di Ewald nell’opporsi all’uccisione medica diretta o «eutanasia» (vedi pp. 121-129); o la resistenza più discreta a tale programma da parte di uomini come Karl Bonhoeffer (vedi pp. 120-121). Se lo avessero fatto, avrebbero evidenziato ancor più il contrasto fra il loro comportamento e una vera resistenza. Quel che quei medici cercarono invece di fare fu di difendere il buon nome della medicina tedesca del tempo, come mezzo per rivendicare a se stessi una sorta di virtù medica automatica, riflessa.
La maggior parte dei medici nazisti che lavoravano nei lager fuggirono all’approssimarsi degli eserciti alleati. Altri, meno identificabili come persone associate ad attività criminali, mi parlarono orgogliosamente di incontri fra colleghi, e a volte anche di un lavoro medico congiunto, con medici alleati subito dopo la resa. Quale che sia il grado di esattezza, o l’eventuale esagerazione, di questi racconti, e il possibile bisogno di qualche medico alleato di vedere nei colleghi tedeschi persone meno corrotte di quanto non fossero in realtà, rimane l’intenso sforzo dei medici nazisti di riconnettersi con la sfera ippocratica come modo per sostenere che non l’avevano mai lasciata.
Tornati alle loro case, essi proseguirono, per la maggior parte, il tentativo di deporre il loro sé di Auschwitz o il loro sé nazista e di vedere se stessi (e ovviamente di rappresentare se stessi al mondo) come medici di stampo conservatore, essenzialmente rispettabili e moderati, nella Germania del dopoguerra. Un incentivo che li indusse a farsi intervistare da me fu il desiderio di trovarsi di fronte a un altro medico e di rafforzare in tal modo il loro senso di sé come terapeuti. Essi avevano ovviamente un atteggiamento ambivalente, dato il loro residuo sdoppiamento e la loro sensazione abbastanza esatta che io volessi scandagliare il loro sé di Auschwitz o il loro sé nazista. Se si fossero rifiutati di vedermi, avrebbero suggerito – a se stessi, se non a me – che il sé nazista era ancora molto grande ai loro occhi e che doveva essere protetto. Quel che molti di loro volevano da me era un’opportunità di potenziare il loro sé di terapeuti e di riceverne la conferma, nella fattispecie, da un americano o da un ebreo americano. E quel sé di terapeuti tendeva a esser loro disponibile professionalmente. Persino i medici nazisti che erano stati coinvolti direttamente nelle uccisioni poterono cominciare o riprendere a praticare la medicina nelle loro zone di origine e diventare medici coscienziosi, molto stimati.l Di qui la strana odissea in tre parti da medico-terapeuta prenazista a medico-uccisore nazista a medico-terapeuta postnazista.
Quel che questi medici non potevano fare psicologicamente era di affrontare il sé nazista o il sé di Auschwitz nel suo rapporto con le uccisioni mediche. Su questo punto ci fu una collusione, cosciente e inconscia, fra molti esponenti della professione medica tedesca postbellica. Val la pena di rilevare, per esempio, la protezione fornita a Heyde da altri medici prima che egli venisse portato in tribunale, oltre alla sua strana morte (vedi pp. 170-171). E persino un uomo come Ewald, che mostrò un coraggio considerevole nell’opporsi alle uccisioni mediche dirette, distrusse documenti che avrebbero potuto implicare altri psichiatri in quel progetto distruttivo e che forse potevano sollevare qualche interrogativo anche su se stesso. Ma la collusione medica più imponente sotto questo aspetto fu l’ostracismo dato dalla professione medica tedesca all’eminente psicoanalista Alexander Mitscherlich, colpevole di un impegno eccessivo nel voler fare piena luce sui suoi crimini.m
Proprio per non esser stato affrontato e discusso, il sé nazista o di Auschwitz presentava la tendenza a riemergere in momenti strani: la nostalgia di Ernst B. per certi aspetti del periodo nazista, in cui la gente aveva la sensazione di avere degli obiettivi da raggiungere; e il tentativo di vari medici da me intervistati di testimoniare sull’epoca nazista a modo loro, coprendo i crimini di medici nazisti e difendendo la reputazione della medicina tedesca. L’incapacità di un medico di confrontarsi col sé nazista o di Auschwitz lo lasciava senza una chiarezza morale sul proprio sé contemporaneo.
La sorte dei medici nazisti dopo la sconfitta fu assai varia. Alcuni si uccisero, probabilmente in numero relativamente più alto rispetto ad altre professioni. Altri gruppi di medici furono giustiziati dopo essere stati condannati a morte da tribunali sotto il controllo degli Alleati a Norimberga e altrove, e poi da tribunali tedeschi. Molti furono condannati a pene detentive, che furono considerate in generale lievi in relazione ai crimini commessi. Altri, come Mengele, fuggirono e non furono mai più ripresi. Un numero considerevole tornò a praticare la medicina, e continuò a praticarla sino all’età del pensionamento o sino alla loro morte naturale o finché, come accadde in qualche caso, si scoprì che erano stati criminali di guerra e li si sottopose tardivamente a processo. Molti stanno esercitando ancor oggi. Il processo di sdoppiamento e il sé residuale nazista o di Auschwitz hanno però continuato a persistere in loro e hanno inciso significativamente sul loro atteggiamento e sulla loro vita. Per questa ragione, tedeschi più giovani poterono dirmi che non c’era alcuna speranza di poter salvare quella generazione.
Un medico prigioniero che, nel periodo in cui fu ad Auschwitz, lottò con tutte le sue forze per poter mantenere la sua identità di terapeuta, mi chiese un po’ retoricamente: «Auschwitz può essere un vero riflesso della realtà medica?». Egli tentava di richiamare la mia attenzione sul carattere estremo delle condizioni da cui era derivata la profonda corruzione medica. Un medico tedesco antinazista, parlando con me della mia ricerca, mi chiese: «Che cosa ci è permesso di fare ad altre persone? Qual è il limite?». Un medico ex nazista che aveva trascorso un breve periodo in un centro di uccisione per pazienti psichiatrici, discutendo ogni futuro principio di eutanasia, chiese: «Chi dovrebbe occuparsene? Un medico? Un boia?». Come disse Nyiszli: «Fra tutti i criminali e gli assassini, il tipo più pericoloso è il medico criminale».61 Il pericolo del medico, come possiamo renderci conto oggi, consiste nella sua capacità di sdoppiarsi in un modo che conferisca uno speciale potere al suo sé omicida, anche se egli continua ad ammantarsi di purezza medica.
Infine, il sé di Auschwitz acquista una percezione di significato maggiore. Le sue attività assumono una logica e uno scopo e vengono a sembrare appropriate all’ambiente e al suo ethos complessivo. Ciò che il sé diventa è non solo accettabile ma significante.
Una tale percezione di significato è un mezzo importante per evitare i sensi di colpa. Essa fa parte inoltre di una propensione universale verso la costruzione di buoni motivi mentre si partecipa a un comportamento malvagio. Questa propensione è una delle dimensioni più notevoli dell’adattabilità umana, della capacità dell’uomo (per usare le parole di Loren Eiseley) «di virare di bordo a ogni vento o di introdursi, ostinatamente, in qualche istituzione sociale fantasticamente elaborata e irrazionale, fosse pure solo per perire con essa».62 Nessuna realtà ci è infatti data direttamente o pienamente in quanto esseri umani. Noi dobbiamo piuttosto «costruirci» interiormente tale realtà sulla base di ciò che apportiamo nella nostra interiorità ai dati «esterni». Ogni costruzione del genere, ogni realtà, è influenzata da tutti gli aspetti della nostra psiche, la quale è influenzata a sua volta dalla storia individuale e culturale e persino dall’evoluzione della specie. Al tempo stesso, noi siamo esseri affamati di significato, viviamo di immagini di significato. Auschwitz rende anche troppo chiaro il principio che la psiche umana può creare significato dal nulla.
Il significato deriva in parte dalla routine in quanto tale. Gli accadimenti quotidiani e il ritmo ambientale ad Auschwitz divennero (come suggerisce l’etimologia della parola) una route o un cammino, una direzione dell’essere interiore oltre che di quello esteriore. Riferire a un ufficio, parlare con colleghi, fare il proprio giro nel blocco medico, spendere un po’ di tempo nelle proprie ricerche, conferire con ufficiali del lager e con funzionari prigionieri sulla dieta e su procedimenti sanitari, emanare ordini medici e disciplinari, scambiarsi di tanto in tanto un aneddoto divertente o raccontare una barzelletta, compiere selezioni all’arrivo di un trasporto, partecipare a pranzi o a serate di intrattenimento con colleghi ufficiali: tutte queste cose vennero a formare congiuntamente una forma di vita, all’interno della quale la mente poteva costruire coerenza e significato. L’intera vasta istituzione era indirizzata sulla stessa «route», comprendente attività esercitate sotto costrizione dai medici prigionieri oltre che da altri internati. Essa era, in tal senso, una missione totale – nella quale erano impegnati tutti –, anche se la natura della missione poteva essere mantenuta così vaga da non dare il senso che ci fosse una missione.
Attraverso la confusione creata dalla mistificazione medica della situazione «come se», le selezioni stesse assumevano per il medico SS un significato: egli stava salvando qualche ebreo; il «problema ebraico» era in via di «soluzione»; egli si preoccupava di migliorare le condizioni sanitarie del campo, stava diminuendo il pericolo di epidemie, stava attenuando il rischio di sovraffollamento.
Per il sé di Auschwitz la routine quotidiana, in cui avevano un posto di rilievo le selezioni, era totalizzata: il significato veniva a risiedere nel compimento delle proprie attività quotidiane, piuttosto che nella natura o nell’impatto di tali attività. Poiché però la realtà di Auschwitz era tutta «sossopra» (come si espresse un sopravvissuto), «nulla vi sembrava strano». Auschwitz poté infine essere vista addirittura come un luogo il cui stesso carattere estremo permetteva una discussione più libera e franca del significato, come nelle descrizioni fatte dal dottor B. delle sue vivaci discussioni con Mengele sui pro e i contro della Soluzione finale. Al tempo stesso, non contestando il progetto di Auschwitz, si mantenevano le proprie connessioni organizzative significanti, il proprio prestigio di status. E quando si era fra le massime autorità ad Auschwitz, come nel caso di Wirths o di Höss, si traeva un significato enorme dal proprio lavoro. Ma persino mentre uccideva, il sé di ogni medico di Auschwitz poteva conservare l’impressione di esercitare una mediazione fra l’uomo e la natura, e quindi di servire in tal modo la vita.
L’ideologia nazista prestava un sostegno considerevole a tutte le strutture di significato. Al di sotto della routinizzazione assoluta, per esempio, il sé di Auschwitz poteva avere la tacita sensazione di far parte di un processo di purificazione, in cui stava realizzando le leggi della «storia naturale e della biologia dell’uomo».63 Anziché essere un semplice antisemita, come chiunque altro, il nazista poteva vedersi all’avanguardia di quello che venne chiamato l’«antiebraismo biologico». Anche se un po’ turbato dall’eccidio di massa, poteva vedere in esso una parte di una combinazione necessaria di distruzione e creazione sulla quale nell’ideologia nazista si insisteva continuamente. Qualunque significato si desse a questi eventi non era quello dell’assassinio, perché, come disse un ex medico nazista con riferimento all’«eutanasia»: «C’era una certa... sensibilità che non potesse essere così... [che] non si potesse semplicemente uccidere un malato mentale o... un vecchio o un deficiente. Capisce quel che voglio dire?». Tale «sensibilità» era quello che io ho chiamato derealizzazione e ripudio: il significato, nel centro della morte o ad Auschwitz, non era che si stavano assassinando delle persone inermi, ma qualcos’altro: che si stava facendo il proprio dovere, che si stava conseguendo una durezza eroica, che si stava combattendo la lotta biologica suprema.
La struttura di significato di Auschwitz dipendeva in grande misura dall’uso di «colpevolizzare la vittima».64 L’insistenza di Mengele sulla tesi che gli zingari fossero geneticamente responsabili della grave forma di cancrena della guancia che li colpiva, il noma; il disgusto di Ernst B. per il fatto che fra gli zingari non avvenisse una distribuzione equa del cibo; l’accusa ricorrente ai medici prigionieri per le condizioni terribili dei loro pazienti e per i frequenti decessi che si verificavano fra loro, erano psicologicamente tutt’uno. L’accusa poteva avere conseguenze molto gravi: un gruppo di medici prigionieri polacchi venne mandato a una morte quasi certa nel Kommando di punizione, assieme ai loro pazienti infetti, a causa di un’epidemia di tracoma. Come commentò il dottor Henri Q., questo metodo fu «quanto meno originale, riuscì a bloccare l’epidemia di tracoma e permise ai tedeschi di compiere le loro uccisioni con la convinzione di avere le mani pulite. La struttura di significato imposta era che i tedeschi non avevano alcuna colpa, essendo stati «costretti» a prendere misure rigorose dalla negligenza dei medici prigionieri.
Queste nozioni trovano uno stretto parallelo nel famoso discorso «monito» di Hitler, da lui tenuto il 30 gennaio 1939 al Reichstag: «Se la finanza internazionale diretta dagli ebrei dentro e fuori dell’Europa dovesse far precipitare i popoli in una Seconda guerra mondiale, il risultato finale non sarebbe la bolscevizzazione dell’universo, ossia la vittoria dell’ebraismo, ma bensì lo sterminio della razza ebraica in Europa!».65 La spiegazione psicologica solita che Hitler stesse «proiettando» negli ebrei le sue proprie intenzioni è abbastanza vera. Probabilmente più importante era però il racconto (o l’esperienza di significato collettiva) che Hitler stava costruendo, in cui le vittime designate, già identificate come la fonte del «male fondamentale del mondo», potevano essere viste ora come una minaccia militare alla nazione ariana, e quindi come il gruppo responsabile del successivo bagno di sangue.
Come nel caso del sé di Auschwitz la posizione di Hitler era che, essendo gli ebrei, sul piano biologico e su quello esistenziale, un luogo permanente di male e una persistente minaccia, ricadeva su di loro la colpa di tutto ciò che si doveva fare per vanificare la minaccia ed estirpare il male. In altri termini, poiché, in quanto ebrei (e, in misura minore, polacchi), i medici prigionieri erano per definizione malvagi, erano colpevoli di negligenza medica e di ogni altro male che si riscontrava nel campo: una posizione che il sé di Auschwitz poteva adottare pur dipendendo al tempo stesso dalle abilità professionali dei medici prigionieri per conservare la propria identità professionale.
Quando un medico nazista si infuriava per un piccolo errore commesso da un medico prigioniero su una cartella medica – cosa tanto più degna di nota quando si consideri l’entità delle falsificazioni attuate in tutti i documenti di Auschwitz –, tale collera aveva una funzione psicologica importante. Era lo sforzo del sé di Auschwitz di tener fermo alla situazione «come se» di un’attività medica irreprensibile e di stornare un potenziale senso di colpa attaccando l’altro piuttosto che confrontarsi con se stesso.66 Ma le accuse alle vittime possono estendersi anche a riflessioni retrospettive su Auschwitz, come quelle dello stesso Höss. Il comandante del campo attribuì l’alto tasso di mortalità fra gli ebrei al «loro stato psicologico», addossò all’«oro degli ebrei» il «disfacimento del campo» (ossia l’estesa corruzione che vi regnava) e disse che i prigionieri ebrei a Dachau «avevano cercato di proteggere se stessi in modo tipico, corrompendo i loro compagni di prigionia». Höss si premurò di chiarire la sua opposizione verso gli atteggiamenti volgari diffusi a quel tempo sul problema dell’antisemitismo, condannando Julius Streicher e il suo famigerato settimanale «Der Stürmer» per il suo «disgustoso sensazionalismo» e per la sua pornografia, accusandolo di avere arrecato danno alla causa di un «antisemitismo serio».67
Höss suggerisce ancora una volta la ricerca di significato da parte del sé di Auschwitz sulla base di una storia, all’interno della quale una persona può sostenere di avere fatto ogni sforzo per essere ragionevole e umana di fronte a provocazioni straordinarie, ma non poté fare a meno di indicare, sia pure con riluttanza, nella propria vittima designata la fonte del male e del pericolo; cosa che richiedeva a sua volta che si prendesse in mano la cosa, come avrebbe fatto ogni persona responsabile e dalle idee chiare. O, in modo più soggettivo: «Dio sa che ci provai. Feci del mio meglio con loro. Ma essendo quello che erano, continuavano a spargere il loro veleno e danneggiavano i miei compatrioti e me stesso, cosicché non mi rimase altra scelta».
Colpevolizzare la vittima era molto importante per il processo di sdoppiamento che dava origine al sé di Auschwitz e per la funzione del medico nazista all’interno del paradosso dell’uccisione come terapia.
L’elemento di «recitazione» nel sé di Auschwitz, specialmente durante le selezioni, aveva un’importanza considerevole per l’esperienza del significato. Mengele, ovviamente, è in questo caso l’esempio primario, il protagonista dello spettacolo di Auschwitz, i cui «movimenti eleganti e rapidi» riflettevano la percezione di stare svolgendo nell’ambiente di Auschwitz un lavoro dotato di un significato. Ma il suo rapporto col significato, per quanto esagerato, rifletteva caratteri del sé di Auschwitz che erano condivisi anche da altri. Nelle continue manifestazioni di onnipotenza e di sadismo, fornite con disinvoltura, era implicito il suggerimento che questo grado di controllo crudele sui prigionieri fosse naturale e giusto.
Particolarmente significante era la sensazione che Mengele facesse le cose giuste: che uccidesse senza batter ciglio quando qualcuno doveva morire; che insistesse nel salvare coloro che dovevano essere risparmiati, anche quando opponevano resistenza aggregandosi senza saperlo alla fila sbagliata. Come ogni attore di talento, Mengele sentiva interiormente la sua parte e la rendeva credibile, aiutando in tal modo altri attori a convincersi che potessero avere senso parti simili alla sua.
Lo stile di Mengele allo «spettacolo» delle selezioni era in parte quello del «maschio» nazista: uniforme delle SS di un nero immacolato con stivali da cavallerizzo e frustino, portamento esageratamente eretto con atteggiamento schivo, severo, assieme a una lieve boriosità militare e a un’aura di autorità assoluta su tutti. Dietro questa immagine, era il sé di Auschwitz ad alimentare la sua distaccata correttezza, la sua prontezza alla prova della morte (ad Auschwitz si trattava principalmente di infliggerla ad altri) e, soprattutto, il suo culto della durezza eroica, sempre disponibile per dominare o distruggere gli «altri» designati con un’assoluta assenza di compassione o di empatia. Benché quegli «altri» designati ad Auschwitz e altrove fossero principalmente ebrei e a volte slavi, zingari e non ariani in generale, potevano essere anche tedeschi: nemici politici, omosessuali, subordinati, familiari e donne (vedi la nota a p. 672).
Il sé di Auschwitz conferì un carattere medico a questo ideale nazista maschilista consentendogli in tal modo di avanzare un’ulteriore pretesa a un potere ultimo e a un’immortalità simbolica. In questa combinazione, il sé di Auschwitz chiarì specialmente fino a qual punto il potere antiempatico del maschio possa esser mobilitato per scongiurare ogni forma di ansia di morte, compresa quella associata al timore dell’omosessualità e a quello delle donne e all’erosione della propria ideologia ed eticità. Tutto questo ci conduce all’ambito delle uccisioni come mezzo specifico per controllare la morte (argomento di cui ci occuperemo nell’ultimo capitolo), un ambito sempre abitato da una perversa espressione di virilità.
Già sappiamo dell’accesso del sé di Auschwitz al significato attraverso «hobby» medici, fra cui esperimenti, e attraverso altre «realizzazioni mediche». Auschwitz fornì tanto a Mengele quanto a Wirths un’opportunità di progressi scientifici: al primo attraverso i suoi studi sui caratteri ereditari in gemelli identici, e al secondo nella cosiddetta scoperta di una nuova forma molto efficace di disinfezione (per mezzo dello Zyklon-B), che poteva permettere di controllare e prevenire epidemie di tifo. L’idea di poter compiere progressi scientifici era altrettanto stimolante per i grandi sterilizzatori di Auschwitz, Schumann e Clauberg, i quali ebbero entrambi l’idea di poter combinare tali progressi con risultati pratici di rilievo nella politica razziale.
Tutto questo ci suggerisce che per il sé di Auschwitz ci fossero sufficienti opportunità per creare una propria versione di significato. La sottostruttura di caos e di nichilismo fece di Auschwitz un ambiente in cui, come si espressero vari ex prigionieri, «era possibile tutto». Si poteva trovare un significato nell’uccisione di un numero molto grande di persone (come nel caso di Mengele), in uccisioni più moderate (come nel caso della maggior parte dei medici nazisti SS) o nel salvare vite umane, pur vivendo in armonia con le uccisioni (come nel caso di B.). Sappiamo anche che certe strutture di significato potevano diventare causa di situazioni di forte disagio per il sé di Auschwitz: i conflitti di Delmotte e di Ernst B. sul problema delle selezioni sono un esempio in proposito. Auschwitz si dimostrò però abbastanza flessibile da riasserire un significato in entrambi i casi: sia nel caso del dottor B., che riuscì a evitare le selezioni (e ad aiutare i prigionieri), sia nel caso di Delmotte, che invece le eseguì. A Wirths Auschwitz offrì l’opportunità di una crociata morale con miglioramenti praticamente per tutti, certamente per gli assassini. Anche il comportamento impulsivo di Rohde di esplodere dei colpi di pistola subito dopo avere compiuto le selezioni (e di bere parecchio) fu una rottura di significato, ma anche qui Auschwitz fu abbastanza flessibile da permettergli la sua protesta espressionista come modo per consentirgli di continuare le selezioni senza soluzioni di continuità. I dubbi sul significato sono inevitabili all’interno di istituzioni e di movimenti, religiosi e profani. Essi sono in effetti ingredienti necessari in quanto rivelano aree di difficoltà e ispirano metodi di funzionamento che non hanno bisogno di fondarsi su una convinzione ideologica totale.
Quanto al sé di Auschwitz, il dubbio poteva essere sommerso dal forte richiamo della visione biologica, oltre che dal bisogno di elementi etici e ideologici, per quanto frammentari, che permettessero di sopravvivere psichicamente in quel paese di morte.
In altri termini, il sé di Auschwitz era altamente motivato verso quella che Mircea Eliade ha chiamato la «trasformazione del caos in cosmo», verso quelle azioni che «organizzano il caos dandogli le sue forme e le sue norme».68 Ad Auschwitz, «cosmo» significava ethos vitale, e gli uomini cercavano disperatamente strutture significanti che si armonizzassero con l’ethos. Eppure si potrebbe dire, per il sé di Auschwitz sviluppato dai medici, ciò che Susanne Langer disse degli Inca e dell’omicidio sacrificale: «Il loro ethos aveva sempre una peculiare fragilità, giacché estremi di pompa regale si mescolavano a estremi altrettanto grandi di crudeltà e arretratezza... particolarmente evidenti nel contrasto fra... le loro burocrazie e concetti di ordine e autorità da un lato e il livello bassissimo del loro pensiero religioso [o, nel caso dei nazisti, ideologico], dall’altro».69
L’ethos nazista di Auschwitz fu reso «fragile» dal carattere estremo della sua ferocia omicida; eppure, come abbiamo osservato, fu sostenuto da elementi polivalenti di significato che erano in grado di operare all’interno di tale fragilità. Ancora una volta, troviamo (come Loren Eiseley in una delle due epigrafi a questo capitolo) che l’uomo può conferire significato a qualsiasi cosa.70
Benché lo sdoppiamento possa essere inteso come un processo diffusissimo, presente in qualche grado nella vita della maggior parte delle persone se non di tutte, noi ci siamo occupati di una sua versione distruttiva: lo sdoppiamento del persecutore. I tedeschi dell’epoca nazista vennero a compendiare in modo paradigmatico questo processo, non perché fossero intrinsecamente più malvagi di altri popoli, ma perché riuscirono a servirsi di questa forma di sdoppiamento per attingere al potenziale umano generale, morale e psicologico, per mobilitare il male su vasta scala e per incanalarlo in funzione di un eccidio sistematico.
Benché lo sdoppiamento del persecutore possa verificarsi praticamente in ogni gruppo, una speciale capacità di un tale sdoppiamento è forse prerogativa degli appartenenti a vari tipi di professioni: medici, psicologi, preti, generali, uomini di stato, scrittori, artisti. In essi a un sé umano anteriore può associarsi un «sé professionale» disposto ad aderire a un progetto distruttivo, ad arrecare danno ad altri o addirittura a ucciderli.
Consideriamo la situazione di uno psichiatra americano durante la Guerra del Vietnam. Curando veterani del Vietnam, io fui sorpreso dalla speciale animosità che manifestavano contro «cappellani e strizzacervelli». Risultò che molti di questi veterani avevano sperimentato un misto di avversione e di conflitto psicologico (due sentimenti difficili da distinguere fra loro nel pieno della lotta nel Vietnam) ed erano stati affidati alle cure o di un cappellano o di uno psichiatra (o di un loro aiutante) a seconda di quale fosse l’orientamento del soldato stesso o del suo diretto superiore. Il cappellano o lo psichiatra tentavano di aiutare il militare a superare le sue difficoltà e a continuare a combattere, cosa che nel Vietnam significava partecipare alle atrocità quotidiane, in una situazione produttiva di atrocità, o quanto meno assistervi. In tal modo il cappellano o lo psichiatra, senza rendersene conto, minavano quello che in seguito il soldato avrebbe considerato il suo ultimo residuo di umanità in quella situazione. Tanto il cappellano quanto lo psichiatra potevano comportarsi in quel modo solo perché avevano subìto una forma di sdoppiamento che dava origine a un «sé militare» al servizio dell’unità militare e del suo progetto di lotta. Una ragione per cui il cappellano o lo psichiatra andavano così facilmente soggetti a una tale forma di sdoppiamento era la loro fiducia mal riposta nella loro professione e nel loro sé professionale: il loro assunto che, in quanto membri di una professione che aveva una finalità terapeutica, qualsiasi cosa avessero fatto avrebbe condotto alla guarigione. In questo caso, il sé militare poteva pervenire a sussumere in sé il sé professionale. Così gli psichiatri di ritorno dal Vietnam, nel reinserirsi nelle loro situazioni cliniche e d’insegnamento in America, sperimentarono lotte psicologiche non meno gravi di quelle di altri veterani del Vietnam.71
Consideriamo anche il caso di un fisico che è, per la maggior parte, una persona sensibile, dedita alla famiglia e fortemente contraria a violenze di qualsiasi genere. Egli può subire una forma di sdoppiamento, dalla quale può emergere quello che possiamo chiamare il suo «sé delle armi nucleari». Egli può partecipare attivamente alla produzione di tali armi, sostenere che esse sono necessarie per la sicurezza nazionale e per controbilanciare le armi sovietiche, e può addirittura difenderne l’uso in certe circostanze come teorico di una guerra nucleare limitata. È proprio il suo impegno umano verso la democrazia e verso la famiglia (il suo sé anteriore) a permettergli di rivendicare un’umanità simile per il suo sé delle armi nucleari, nonostante il suo contributo alla produzione di ordigni che potrebbero uccidere milioni di persone. Egli può fare ciò che fa perché il suo sdoppiamento fa parte di un equilibrio psicologico funzionale.72
Alla luce delle informazioni recenti di cui disponiamo sui professionisti impegnati negli eccidi di massa, possiamo affermare che il secolo in corso sia il secolo dello sdoppiamento? O, dato il potenziale sempre maggiore di professionalizzazione del genocidio, questa distinzione apparterrà al secolo XXI? Oppure ancora, possiamo chiederci in modo un po’ più sommesso, non è possibile interrompere questo processo, innanzitutto dandogli un nome?
a. Rosenberg aggiunse che «il nuovo stile tedesco... è lo stile di una colonna in marcia, non importa dove o verso quale meta essa sia diretta».18 La colonna in marcia rappresenta perfettamente la fusione degli individui in una comunità aggressivamente onnipotente, perfettamente disciplinata, sempre pronta alla violenza e sempre in movimento.
b. Thomas Mann colse questo principio nel romanzo Doctor Faustus, descrivendo le Réflexions sur la violence di Georges Sorel, uno scritto anteriore alla Prima guerra mondiale, come un antecedente dell’ideologia nazista. Connettendo la sorte della verità a quella dell’individuo, e indicando per entrambe una «svalutazione», l’opera di Sorel «apriva... uno stacco ironico fra verità e forza, verità e vita, verità e comunità», mostrando che, poiché «questa è di gran lunga in vantaggio su quella», si abbandonò la verità a vantaggio della «fede formatrice della comunità».21
c. Esistono paralleli psicologici fra il caso di Delmotte e quello di un nazista molto più prestigioso, il generale Erich von dem Bach-Zelewski, che diresse le Einsatzgruppen nella Russia centrale (vedi p. 223-224). Himmler concepì un acuto interesse per il caso del suo «generale preferito», conferendo telefonicamente con Grawitz, che punì severamente per non avergli trasmesso informazioni complete sulle condizioni di Bach-Zelewski e per quello che considerò un trattamento psicologico insufficiente da parte del medico.26 Il generale guarì nondimeno abbastanza rapidamente se è vero che qualche mese dopo era già tornato a massacrare ebrei come nuovo comandante in capo delle formazioni antipartigiane in Russia. L’«esaurimento nervoso» di BachZelewski si era manifestato all’inizio del marzo 1942. Nel settembre di quello stesso anno egli scrisse a Himmler raccomandandoglisi per la nuova posizione, essendo il più esperto fra gli alti ufficiali in compiti di polizia.27 Bach-Zelewski aveva una fama, persino all’interno delle SS, per la brutalità insolita manifestata in attività come la repressione della rivolta di Varsavia.
Pur manifestando la massima sollecitudine per le condizioni di salute di BachZelewski durante la sua malattia, il Reichsführer si irritò molto quando il generale, al tempo del suo esaurimento nervoso, chiese se non si potesse fermare l’uccisione degli ebrei nell’Est, e rispose rabbiosamente: «È un ordine del Führer. Gli ebrei sono i propagatori del bolscevismo... Se lei non riesce a tenere il naso fuori dalla faccenda degli ebrei, vedrà che cosa potrà capitarle!».28 Per chi non fosse in grado di sopportare la dura prova che gli era imposta, era all’ordine del giorno la terapia della simpatia, finché egli non fosse in condizione di tornare al duro cimento. La simpatia, però, veniva subito meno quando si metteva in discussione la linea politica che stava dietro la prova. Possiamo fortemente sospettare che tanto Bach-Zelewski quanto Delmotte interiorizzarono il desiderio di indurirsi secondo i criteri vigenti nelle SS come mezzo per guarire dalle loro difficoltà psicologiche.
d. August von Wassermann (1866-1925), sierologo, sviluppò la reazione di Wassermann (o semplicemente la «wassermann»), per la diagnosi della sifilide e fu, per qualche tempo, direttore del Kaiser Wilhelm Institut a Berlino-Dahlem; Julius Morgenroth (1871-1924), batteriologo, lavorò con Paul Ehrlich; e Franz Blumenthal (1878-?), importante dermatologo e sierologo, lavorò con Wassermann ed emigrò nel 1934 negli Stati Uniti (e fu perciò l’unico di questi medici a «sparire»).
e. La sequenza da Freud a ricerche contemporanee di Ida Macalpine, di Richard Hunter e di Harold F. Searles è da me discussa in The Broken Connection e collocata all’interno di un paradigma di simbolizzazione della vita e della morte.33
f. Haeckel fu un autore citato di continuo nella rivista «Archiv für Rassen- und Gesellschaftsbiologie (Archivio di biologia razziale e sociale)», che fu pubblicata dal 1904 al 1944, e che divenne uno fra gli organi principali per la propagazione di idee eugeniche e della pseudoscienza nazista.
g. Più precisamente, il vero padre di Cristo sarebbe stato, secondo Haeckel, un «ufficiale romano che aveva sedotto Maria».36
h. Alexander e Margarete Mitscherlich sottolinearono il tipo di derealizzazione diffuso fra i nazisti in generale, sia nel periodo in cui furono al potere sia dopo la guerra.40
i. Quando la routine si fu consolidata, un assistente poteva guardare attraverso lo spioncino per confermare che tutte le persone all’interno della camera a gas fossero morte. O, persino quando guardava il medico stesso, egli non «vedeva» necessariamente le vittime, ossia non le sentiva come esseri umani. Virtualmente gli unici appartenenti alle SS di Auschwitz che sembrarono sentire più direttamente di essere degli assassini furono quelli implicati di persona nella gassificazione, compresi i Desinfektoren della sanità. Non tutti andavano ad «aprire il loro cuore» con Höss; alcuni manifestavano sadismo, e soltanto uno era «calmo e rilassato, senza impazienze e senza espressione» (ossia reso assolutamente insensibile).45 Potremmo dire che questi uomini si assunsero per la maggior parte il carico dei sentimenti di colpa per i medici nazisti e per altri ufficiali di Auschwitz di alto rango, fra cui lo stesso Höss.
j. Di qui l’affermazione, fatta parlando direttamente con me da Alexander Mitscherlich, che la maggior parte dei tedeschi della generazione del nazismo furono incapaci di affrontare la colpa perché le sue dimensioni sarebbero state troppo schiaccianti. In altri termini, essi non poterono permettersi allora o non possono permettersi ora di acquistarne una piena consapevolezza.
k. Le persone malate che si dovevano evitare erano, ovviamente, soprattutto gli ebrei, che erano proprio gli agenti della presunta «contaminazione» dell’intera razza nordica. I nazisti combinavano questi livelli di contaminazione nel loro slogan «Ebrei, pidocchi, tifo!». Il fatto che un medico nazista evitasse i pazienti ebrei era sia un aiuto al realizzarsi di una profezia (i nazisti costringevano realmente gli ebrei in situazioni in cui essi sviluppavano il tifo, cosicché diventavano realmente infettivi e pericolosi) sia una vivida metafora che poteva ulteriormente cementare la costellazione di onnipotenza del medico nazista e il suo impulso a immolare gli ebrei.
l. Un esempio è costituito dal dottor Kurt Heissmeyer, che nel campo di concentramento di Neuengamme condusse crudeli esperimenti medici su venti bambini ebrei fornitigli da Auschwitz. Contagiati sperimentalmente con la tubercolosi, essi furono uccisi su richiesta di Heissmeyer così che non potessero testimoniare. Furono uccisi inoltre due medici francesi, due inservienti d’ospedale olandesi e ventiquattro prigionieri di guerra russi. Dopo la guerra, Heissmeyer se ne tornò a casa sua a Magdeburgo, oggi nella Germania Est, dove fu molto stimato come specialista di malattie polmonari e di tubercolosi.59
m. Secondo il dottor Mitscherlich, la prima relazione sui crimini medici tedeschi pubblicata da lui e dal suo collaboratore Fred Mielke sparì immediatamente dalle librerie; i medici tedeschi si erano accordati per comprare l’intera tiratura in modo da impedire che il libro fosse letto da chiunque altro.60
XXI
Vivere significa uccidere.
Ernst Jünger
In un tempo buio l’occhio comincia a vedere.
Theodore Roethke
Lo sdoppiamento facilita il genocidio. E benché il diavolo di Thomas Mann dichiari che il tedesco «è proprio la mia lingua preferita»,1 noi sappiamo abbastanza bene che il diavolo sa parlare qualsiasi lingua. Il genocidio è un’azione potenziale di qualsiasi nazione.
Eppure furono proprio i nazisti a fornire l’occasione per dare un nome legale a un crimine molto antico. La parola «genocidio» (dal greco genos, «razza, stirpe», e dalla desinenza derivata dal latino -cidio, «uccisione») fu coniata nel 1946 come «negazione del diritto di esistere a interi gruppi umani». La Convenzione sul Genocidio, approvata dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1948, associò il concetto con l’uccisione, il danneggiamento grave o l’interferenza con la continuità della vita (per mezzo della prevenzione delle nascite o del trasferimento forzato dei bambini) di un «gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso».2 Significativamente, la definizione originaria della parola da parte di colui che la coniò, Raphael Lemkin, parla di «un’antica pratica nel suo sviluppo moderno», include in essa azioni a lungo termine miranti alla «distruzione dei fondamenti essenziali della vita di gruppi nazionali» e limita il concetto a tentativi di distruggere gruppi nella loro interezza o totalità biologica.3
In questo libro ci siamo occupati principalmente del cosiddetto «Olocausto», un’espressione usata esclusivamente per il genocidio perpetrato dai nazisti a danno degli ebrei: un genocidio unico per le sue dimensioni, per la sua organizzazione burocratica a sostegno dell’annientamento e per l’ostinata concentrazione su un gruppo di vittime disperse in tutto il mondo. È però significativo che, in accordo con la loro visione biologica, i nazisti abbiano tentato il genocidio anche a danno di altri gruppi: zingari, russi e polacchi. Esamineremo ora alcuni fra i temi psicostorici del genocidio nazista per derivarne princìpi più generali. Mi riferirò ad altri genocidi, in particolare all’annientamento da parte dei turchi di circa un milione di armeni nel 1915: senza alcuna pretesa di completezza ma solo per mostrare che gli stessi princìpi sono suscettibili di un’applicazione più vasta; essi potrebbero essere applicati in effetti a esempi recenti di genocidio in Cambogia, nel Bangladesh, in Nigeria, nel Paraguay e in Unione Sovietica. Più che una teoria ben definita del genocidio vorrei suggerire una sequenza di tipi collettivi che si riscontrano in almeno certe forme di genocidio.
Al cuore del problema c’è la domanda: Perché tutto un popolo? Qual è la fonte dell’impulso a distruggere un gruppo umano nella sua totalità? Non si può affrontare concettualmente questo problema senza soddisfare due richieste fondamentali: si deve considerare una combinazione di forze psicologiche e storiche, ed esser sensibili a questioni di morte e di uccisione e al loro rapporto con la vita individuale e collettiva. Un tale approccio dev’essere anche abbastanza flessibile per potersi connettere con una varietà di eventi storici, alcuni dei quali imprevisti e addirittura senza precedenti.
La teoria freudiana non può far fronte con i suoi strumenti a queste richieste, ma anche quelli di noi che vorrebbero applicare teorie alternative sono nondimeno figli di Freud.4a Otto Rank, che fu fra i primi seguaci di Freud per staccarsi successivamente dal maestro, è qui una figura chiave, essendo una fra le fonti principali del paradigma della morte e della continuità della vita – o della simbolizzazione della vita e della morte – da me usato in questo libro e in altre opere nel corso di vari accenni. Un dogma centrale di quel modello era che gli esseri umani uccidono per affermare il loro potere sulla vita. Si può dunque aggiungere ora a quel dogma l’immagine di curare una malattia mortale, cosicché il genocidio potrebbe diventare una forma assoluta di uccisione nel nome del risanamento.
Il modello da me proposto comprende una percezione della malattia collettiva, una visione della terapia e una serie di motivazioni, esperienze e richieste dei perpetratori del genocidio nella loro ricerca di tale terapia.
La malattia percepita è un’immersione sperimentata collettivamente nelle immagini di morte, un senso condiviso della «malattia mortale» di Kierkegaard. È il lato senza speranza della lacerazione storica (o psicostorica), del crollo delle forme e fonti di significato simboliche in precedenza condivise da un particolare gruppo umano. Quel senso collettivo di immersione nella morte, sul piano fisico e su quello spirituale, non avrebbe potuto esser maggiore di quello provato in Germania dopo la Prima guerra mondiale. Il trauma maggiore era però cominciato molto tempo prima. La lotta tedesca con quella che è stata chiamata la disperazione antimoderna6 risale almeno all’ultima metà dell’Ottocento, tanto che Fritz Stern intitolò The Politics of Cultural Despair il suo studio, edito nel 1961, dell’ideologia tedesca prehitleriana. E attribuì a uno fra i principali creatori di tale ideologia, Paul de Lagarde, la motivazione di un «Crescente disgusto per la modernità» che lo condusse a esplorare nel corso di vari decenni «le cause, i sintomi e la cura del collasso spirituale tedesco».7
La confusione del primo dopoguerra, l’esperienza della Repubblica di Weimar come «un’epoca di dissoluzione, senza una guida», fu almeno in parte una continuazione di quel processo anteriore. A quel tempo la cultura tedesca aveva cominciato a dividersi in due campi: gli sperimentalisti artistici e sociali che tentavano ogni varietà di forme nuove in una grande febbre di creatività e di eccesso; e i restaurazionisti politici di destra che «disprezzavano proprio quel libero spirito di sperimentazione».8
Entrambi i campi dovevano fare i conti con un’intensa esperienza di perdita. C’era un senso immediato di disintegrazione, di separazione e di stasi; e un grave crollo nella connessione umana più vasta, nella simbolizzazione della continuità culturale o dell’immortalità collettiva. Così uno storico poté descrivere l’atmosfera politica in Germania dal 1919 al 1923 come «gravata da un senso oppressivo, quasi escatologico, di rovina».9 L’atmosfera era dominata, in altri termini, da un’attesa dei «novissimi», sia dalla morte sia da un senso di sventura.
Questo clima era intensificato dal perpetuo senso culturale tedesco di «spaccatura», o dalla «condizione di lacerazione» menzionata in precedenza. È importante anche un corollario culturale, quella che potremmo chiamare la fame tedesca di immortalità: la ricerca costante di esperienze di trascendenza e di affermazioni di significato ultimo e di connessione. Goethe si fece beffe di quella fame di immortalità quando dichiarò, nel 1826: «Sono vent’anni circa da quando l’intera razza dei tedeschi cominciò a “trascendere”. Se dovessero mai rendersi conto di questo fatto, sembreranno molto strani a se stessi».10b
Ma la Prima guerra mondiale contiene la chiave della percezione tedesca prenazista, pregenocidio, di una malattia storica collettiva. In tale esperienza noi troviamo infatti non solo l’immersione nella morte a una scala straordinaria, ma anche un’esperienza così intensa di essere sopravvissuti a una catastrofe da rimanere di difficile comprensione ancor oggi. La Prima guerra mondiale rappresentò per la Germania ancora un’altra dimensione psicologica cruciale, l’esperienza profonda di una rigenerazione fallita.
Lo scoppio della guerra fu contrassegnato da esultanza o da una «febbre guerresca» nella maggior parte dei belligeranti. Per i tedeschi, però, la situazione fu subito straordinaria, cosicché, «a prescindere dalla posizione sociale o dalla convinzione politica, l’agosto 1914 fu un’esperienza sacra». Persino Stefan Zweig, lo scrittore ebreo-austriaco in seguito associato a un intenso sentimento antimilitarista, disse a quel tempo: «Ognuno di noi è chiamato a gettare il suo io infinitesimo nella massa incandescente che dev’essere purificata da ogni egoismo».11
Thomas Mann, col suo pensiero tipicamente involuto, si riferì alla guerra come a una «brutalità per ragioni intellettuali, una volontà fondata su ragioni intellettuali di diventare degni del mondo, di conseguire una posizione adeguata nel mondo» e concluse che «l’intera virtù e bellezza della Germania... si svela solo in guerra».12 E la relativa letteratura espressionistica del tempo – il cui slogan, Rausch, significa «ubriacatura» o «ebbrezza» – aveva una visione della «guerra come un Armagedon la cui fine dovrà significare una rinascita in un mondo migliore», la creazione di un «Uomo nuovo», un’«unione con tutta l’umanità» o una qualche combinazione affine di compiacimento nel pensiero della morte con «un benvenuto... all’estinzione» e «l’unione mistica col cosmo».13
Da questa ebbrezza non rimasero immuni teorici sociali e guide intellettuali come Max Weber, Friedrich Meinecke o addirittura Sigmund Freud. Weber indicò con orgoglio nei tedeschi un «popolo di grande cultura..., esseri umani che vivono in una cultura raffinata, i quali possono nondimeno affrontare coraggiosamente gli orrori della guerra (cosa che non porrebbe alcun problema a un senegalese!) tornando poi, nonostante ciò, fondamentalmente persone perbene come la maggior parte dei nostri soldati, ossia genuinamente umani».14 (Per quanto si possa essere riluttanti a comparare Max Weber con Heinrich Himmler, qui c’è un chiaro parallelo con i discorsi del secondo sulla nobiltà dell’impresa dei tedeschi di ammazzare un così gran numero di ebrei e di rimanere persone «perbene».) Meinecke si spinse ancor oltre, ricordando, a distanza di trent’anni e di due guerre, che «l’esultanza delle giornate dell’agosto 1914 [fu] uno dei ricordi più preziosi e indimenticabili del tipo più alto», contenendo in sé la previsione di «un rinnovamento interno di tutto il nostro Stato e di tutta la nostra cultura».15 Quanto a Freud, per un paio di settimane fu «totalmente inebriato... Era eccitato, irritabile e cadeva in continui lapsus»; era scosso dalle sconfitte austriache, ma «si rallegr[ava]... delle vittorie germaniche».16
Con la sconfitta, i tedeschi adulti si trovarono a essere i sopravvissuti più distrutti, vittime di una grande strage inferta e patita a una scala senza precedenti e della morte altrettanto traumatica di visioni nazionali e sociali, del significato stesso. Ci furono gravi crisi individuali, specialmente fra gli artisti tornati dalla guerra. Un esempio eminente fu quello di Max Beckmann, il quale disse di non avere sofferto ferite fisiche, ma piuttosto «ferite dell’anima»: un grottesco complesso di immagini di morte che popolarono successivamente tutta la sua vita e la sua arte. Altri artisti espressionisti sperimentarono «ferite spirituali» simili, creando «un’atmosfera di capacità inventiva dolorosa..., di isterico abbandono alle speranze più sfrenate e alla disperazione più inverosimile».17
Ma ci fu anche una reazione più abbrutita dei sopravvissuti, qual è esemplificata nella sequenza dello stesso Hitler: innanzitutto, il ricordo che «quelle ore [l’inizio della guerra] sembrarono come... una liberazione... [e] io caddi in ginocchio e ringraziai il cielo col cuore colmo di gratitudine per avermi concesso la buona sorte di avermi fatto vivere in questo tempo». Poi il suo servizio militare altrettanto entusiastico e la chiara disponibilità a rischiare la vita per tale «liberazione». Quindi la definizione dei tempi, dopo la sconfitta, come «interiormente malati e putridi» e nondimeno «in movimento verso una grande metamorfosi». La sua susseguente visione e azione sociale può essere intesa come uno sforzo per ricreare «quel momento mirabile [all’inizio della Prima guerra mondiale] per ripulirlo da tutte le impurità e per preservarlo, così che questa volta si potesse raggiungere l’obiettivo del 1914: di dotare la Germania di una base politica adatta alla scala dei tempi».18
Pare ci siano stati paralleli ben precisi nell’esperienza storica della Turchia prima dell’eccidio in massa degli armeni nel 1915. Nell’Impero ottomano, per l’intera seconda parte dell’Ottocento, c’era stata un’atmosfera di progressiva «decadenza e disintegrazione», assieme a una lotta continua, anche se perdente, per l’unificazione spirituale e politica. I turchi sperimentarono anche forme umilianti di rigenerazione fallita nelle loro disastrose imprese militari durante la Guerra balcanica del 1912 (una sconfitta ignominiosa subìta per mano dei loro ex schiavi e protetti, i greci e i bulgari) e nella loro abortita campagna di Russia nel 1915, quando erano alleati dei tedeschi. Vahakn N. Dadrian osserva che i turchi si andarono orientando verso l’idea del genocidio man mano che la loro percezione della situazione passò «dalla condizione di un mero logorio a quella della crisi, di una crisi subitanea, e infine del cataclisma della guerra».19
La fase della malattia comprende, quindi, l’esperienza di una perdita collettiva e dell’immersione nella morte; la promessa di una rivitalizzazone redentrice, fra cui la totale fusione del sé con una collettività mistica; l’assoluto dissolvimento di tale promessa, seguito da un’esperienza recente e intensa di immagini collettive di morte e di equivalenti di morte; e il conseguente originarsi dell’intenso desiderio di una «cura» commisurata nella sua totalità alla «malattia».
Si sviluppa un febbrile desiderio collettivo di una cura. Ma qualsiasi visione che voglia presentarsi come una cura deve contenere la promessa di una vitalità di cui tutti devono esser ammessi a partecipare, e una rinnovata fiducia nell’immortalità collettiva. Nel nostro secolo, qualsiasi visione del genere ha molte probabilità di essere connessa con un senso di nazione, con quello che chiamiamo «nazionalismo». L’elemento nazionale perviene a combinare unione spirituale biologica, a fornire una mescolanza dell’immortale sostanza culturale e razziale di un qualsiasi gruppo particolare. Si può parlare così di un «organismo nazionale», nei termini sia di una continuità biologica generale sia di una considerazione della propria società come simile a un organismo biologico, con «bisogni di un suo sviluppo appropriato». Quei bisogni diventano «valori supremi» che assumono la precedenza su qualsiasi altra cosa poiché, se non vengono perseguiti, l’organismo morirà.20
Isaiah Berlin insiste sul nazionalismo come una risposta a «ferite inflitte da una società a un’altra», ma una risposta che richiede anche «una nuova visione della vita» attorno alla quale organizzare l’esperienza collettiva. In tal modo immagini nazionalistiche poterono sostituire «la Chiesa o il principe o il governo della legge o altre fonti di valori ultimi», poterono «attenuare... il dolore della ferita per la coscienza di gruppo, chiunque potesse averla inflitta» e diventare «incarnazioni delle concezioni che gli uomini avevano di se stessi come una comunità, una Gemeinschaft». Ignorare il nazionalismo significa quindi ignorare «la potenza esplosiva generata dalla combinazione di ferite mentali non ancora guarite, comunque causate, con l’immagine della nazione come una società formata dai vivi, dai morti e da coloro che non sono ancora nati».21
I nazisti attinsero a immagini della sostanza razziale e culturale tedesca – a miti o ai cavalieri teutonici o agli imperatori germanici (Carlomagno e Federico il Grande) o ai medici (Paracelso) – culminanti nel comandamento di Hitler: «Non avrai altro Dio oltre alla Germania!».22
Hitler e i nazisti fornirono una visione della cura che si concentrava sulla nazione ma faceva molto di più. Pur essendo in un certo senso un «grido espressionista»,23 tale visione della cura fu anche un potente messaggio ai tedeschi, la promessa che, di fronte a coloro che hanno «rovinato deliberatamente la Germania..., io vi guiderò, ognuno di voi, a un futuro glorioso».24 Hitler offrì una visione che permetteva alla maggior parte dei tedeschi di guardare alla sua ascesa al potere «non come alla creazione di uno Stato poliziesco autoritario, bensì come al sorgere di un’epoca di recupero e di rigenerazione della comunità di vita tedesca».25 In altri termini, fra le varie visioni contemporanee, quella di Hitler offriva nel modo più efficace la promessa di vitalità e di immortalità nazionale: una promessa grandiosa di una cura della «malattia mortale».
Per muovere nella direzione del genocidio, la cura dev’essere totale. Diventa una questione di tutto o nulla, altrettanto assoluta nella propria rivendicazione della verità e nel suo rifiuto di rivendicazioni alternative.
Il clima culturale della Germania del primo dopoguerra era compatibile col totalitarismo: uno stato d’animo smoderato, di «eccesso spesso ridicolo» nell’espressionismo letterario e artistico. Quali che possano essere i risultati imponenti conseguiti in questo periodo, molti esperimenti artistici si consumarono in una confusione satura di morte, in cui non era affatto chiaro se si protestasse contro la violenza o se la si abbracciasse. Un tipico dramma espressionistico poteva includere uno qualsiasi degli eventi descritti qui di seguito:
Scheletri marciano in parata come soldati e fanno ruzzolare crani in gran numero; una testa mozzata in un sacco col suo ex proprietario; una donna bela il proprio amore dionisiaco a un caprone; un padre cavalca suo figlio frustandolo, un figlio insegue lussuriosamente sua madre attorno a un tavolo, prende forma una società per l’Abbrutimento dell’Io. Un uomo si guadagna da vivere mangiando topi vivi... Un cassiere di banca sta con le braccia distese davanti a un crocifisso, e i suoi ultimi ansiti prima di morire suggeriscono per caso le parole «Ecce Homo».26
Molti artisti lottarono contro questo totalitarismo aprendosi alla sofferenza e alla morte (Max Beckmann si ispirò nella sua pittura alle sue «ferite spirituali» della Prima guerra mondiale) e mantenendo uno spirito di esplorazione e di gioco. Altri artisti sentirono l’attrazione dell’assoluto. Fu Hans Johst, romanziere e drammaturgo espressionista e in seguito presidente della Camera per la Letteratura del Reich, a usare per primo la frase resa in seguito famosa da Göring: «Quando sento la parola cultura, estraggo la mia rivoltella».c Era quella l’unica cura per la malattia della Germania.
Un’ideologia totalitaria evita il pungiglione della morte nella sua rivendicazione dell’invincibilità e dell’onnipotenza. Essa propone la propria pretesa all’immortalità e la propria verità esclusiva in manipolazioni psicologiche specifiche dell’ambiente che ho descritto altrove: controllo dell’ambiente (di ogni forma di comunicazione); manipolazione mistica (sforzi continui di controllo del comportamento dall’alto, mantenendo l’apparenza della spontaneità dal basso); richiesta di purezza (accuse costanti di colpevolezza e di vergogna nel nome di un ideale irrealizzabile di assoluta devozione e abnegazione); il culto della confessione (esposizione rituale di sé al «possessore» totalitario di ogni sé); la scienza sacra (che combina la deificazione del Verbo con la pretesa di un’autorità scientifica profana altrettanto assoluta); ideologizzazione del linguaggio (in cui vengono assorbite soluzioni definitive, che mettono fine all’uso critico del pensiero, per i problemi umani più complessi); dottrina sulla persona (così che la prova dell’esperienza individuale debba essere sussunta o negata dal sistema di idee); la concessione dell’esistenza (la linea ultima e inevitabile tracciata fra coloro che hanno un diritto a esistere e coloro che non posseggono tale diritto).28 Quest’ultimo punto, la concessione dell’esistenza, è il principio più vasto, che abbraccia tutti gli altri, tanto se espresso in un modo puramente metaforico quanto, come nel caso dei nazisti, in modi direttamente omicidi.
In effetti, il movimento nazista apportò un nuovo valore letterale alla concessione dell’esistenza, facendo dell’esistenza di ogni individuo una cosa da valutarsi in relazione ai danni o benefici per la salute biologica del gruppo.
Soltanto questo approccio totale può condurre al risanamento dalla malattia, così che il principio del Führer, il culmine del totalitarismo nazista, poté essere abbracciato non solo dalle persone incolte ma anche da intellettuali, acutamente consapevoli della loro «condizione lacerata», come per esempio l’economista e storico dell’economia noto internazionalmente Werner Sombart, che dichiarò nel 1935:
L’arte della discussione è finita. Nessuna discussione bensì la decisione domina ora la scena. La creazione di una volontà politica si verifica oggi in un modo del tutto diverso. Non è più il modo indiretto di influire sull’opinione pubblica, ma il modo diretto del principio del Führer. Questo è un fatto che può esser valutato in modi diversi. Io, per parte mia, dico: «Grazie a Dio è così!».29
Il moderno stato totalitario rivendica sempre un principio superiore: in questo caso la purificazione della razza migliore del mondo come mezzo per curare la malattia umana prevalente. E ricordiamo la dichiarazione di Werner Best della cura nazista come il «principio politico del totalitarismo», all’interno del quale ogni idea alternativa dev’essere «trattata spietatamente, come il sintomo di una malattia che minaccia l’unità sana dell’organismo nazionale indivisibile» (vedi p. 216).30
Si rende totale il corpo politico come mezzo per controllare il caos e la mancanza di forma: un principio sottolineato particolarmente nella creazione di uno Stato imperiale tedesco – il Reich – a partire da un gruppo disunito di entità regionali.d Proprio questo intendeva Hitler quando mise a confronto «la dottrina semplificante della nullità e insignificanza del singolo essere umano, e il continuare della sua esistenza nell’immortalità visibile della nazione».32 Anziché essere singoli individui, le persone – almeno quelle in possesso dei necessari requisiti biologici – potevano condividere questo potere di immortalità dello Stato e della razza. Si poteva pervenire addirittura a credere allo specifico totalitarismo storico contenuto nell’affermazione che «tutta la storia tedesca... dev’esser vista solo come la preistoria del nazionalsocialismo».33
Di nuovo, troviamo indicazioni dell’esistenza di correnti simili nella situazione turca. I «Giovani Turchi», che tentavano di riformare l’Impero ottomano, si misero alla guida di «un’importante campagna per modificare la struttura sociale della società ottomana come antidoto alla discordia e al conflitto interni, e anche come mezzo per recuperare la gloria imperiale, panturca». La loro cura comprese «un misto di ideologie religiose e politiche» e «il genocidio divenne un mezzo per [determinare] un mutamento... radicale nel sistema».34
Il totalitarismo in uno Stato nazionale, quindi, è probabile che emerga soprattutto come una cura per una «malattia» che presenti un pericolo di morte; e la persecuzione, la violenza e il genocidio sono aspetti potenziali di tale cura.
Parte della cura è l’esperienza della trascendenza: di uno stato psichico così intenso che il tempo e la morte scompaiono. La cura deve mantenere, o almeno evocare periodicamente, tale esperienza psichica. Il proprio senso della trascendenza si fonde con l’immagine della vita senza fine del proprio popolo. In tale esperienza – o promessa – di estasi, si può essere pronti a uccidere, o almeno ad approvare l’uccisione.
È probabile in effetti che la trascendenza sia connessa all’uccisione, spesso alla guerra o all’attesa della guerra. Fra gli esempi si possono citare le guerre di religione del passato e le loro espressioni contemporanee, oltre agli analoghi secolari di tali guerre di religione. La febbre guerresca del 1914 menzionata in precedenza, con la sua previsione di vittoria e di liberazione nazionale, fissò una norma per la trascendenza nazista. E quel momento del 1914 attinse, a sua volta, a memorie storiche anteriori. Consideriamo le parole di un «liberal-nazionale» tedesco a proposito del ritorno a Berlino, nel 1866, delle truppe prussiane vittoriose (sull’Austria): «Mi sentivo più legato alla dea della bellezza e alla madre delle grazie che al potente dio della guerra, ma i trofei della guerra esercitano un fascino magico persino sul figlio della pace... Il proprio spirito procede assieme alle schiere infinite di uomini che acclamano il dio del momento: il successo [militare]».35
Hitler divenne un agente di questa trascendenza grazie sia al suo genio oratorio-demagogico sia alla fame tedesca di trascendenza. Quando egli invocava princìpi di «“onore”, “patria’’, “Volk”, “lealtà” e “sacrificio”..., i suoi uditori tedeschi non solo prendevano le sue parole con la massima serietà ma se ne facevano guidare come dal messaggio di un salvatore».36 Ognuna di queste parole rappresentava infatti un principio trascendente, un mezzo per offrire il sé a un dominio supremo che forniva un senso di immortalità confinante con l’onnipotenza. La «volontà del Führer» poteva diventare allora una «legge cosmica»37 poiché il suo messaggio di rivitalizzazione poteva invocare l’esperienza della trascendenza, e collocarla all’interno di una struttura di pensiero e di un programma di azione.
Albert Speer mi descrisse l’impressione straordinaria che si provava sentendo parlare Hitler per la prima volta. Fu nel 1930: in quel periodo di difficoltà economiche e di violenza politica, Speer, un giovane architetto all’università, sembrava non avere futuro. Ricordava che da ragazzo aveva fatto parte di un gruppo di volontari che alla fine della Prima guerra mondiale si erano recati alla stazione ferroviaria a salutare i soldati che tornavano a casa («Fu terribile, terribile, spaventoso. [Erano] sporchi, disordinati, davvero un esercito sconfitto») e di avere provato una «sensazione come di lutto per quella situazione». In quel momento apparve Hitler, rivolgendosi a un pubblico universitarioe con toni di voce misurati e comunicando il semplice messaggio che «si può cambiare tutto»; la Germania sarebbe potuta ridiventare grande, e i singoli tedeschi avrebbero potuto spogliarsi del loro senso di colpa e di perdita, abbracciando questo glorioso futuro. Speer provò una sorta di rapimento, si sentì «ebbro» o in uno stato di coscienza alterato, e dovette andarsene a camminare da solo nei boschi fuori Berlino per «assorbire» ciò che stava accadendogli. Egli mi stava descrivendo una classica esperienza di trascendenza, uno stato estatico di sentirsi fuori da se stesso e trascinato da una forza più grande di lui che poteva connettere o riconnettere un individuo con i princìpi spirituali supremi. Da quel giorno in poi, egli appartenne a Hitler e venne a condividere la sua sfera di onnipotenza e di potere, cosicché poté descrivere l’intera èra nazista «come un sogno». Egli rimase confuso dal potere che Hitler deteneva su di lui, potere che risaliva a quel primo discorso.
Speer si riferiva al senso quasi continuo di trascendenza che egli e altri tedeschi sperimentarono durante il periodo nazista. Data l’invocazione da parte di Hitler di una forma di «redenzione» nazionale, di un «Reich spirituale rinnovato, realizzato in una cornice politica... eppure anche al di là della politica», ogni piccolo evento, e in realtà ogni singolo momento, poteva essere connesso con la trascendenza, col fine messianico del Reich del Millennio. Questa qualità di trascendenza associata al regime poteva aiutare l’individuo a evitare la consapevolezza del proprio comportamento corrotto ed egoistico, come avvenne sicuramente nel caso di Speer e di altri.
I nazisti furono eredi di una forma estrema di nazionalismo romantico, di culto del «Reich sacro, divino» invocato da scrittori, filosofi e capi di movimenti giovanili del secolo precedente. Esso aveva a che fare con «la connessione intima fra reazione politica e romanticismo letterario» e comprendeva forti elementi di pietismo protestante oltre che emozioni religiose cattoliche affini.38
Tutto questo si combinava con la specifica onnipotenza ideologica nazista, contribuendo a creare la sensazione di essere quei particolari «figli degli dèi» che avevano il diritto di uccidere, in uno spirito descritto da uno di loro come: «Se tu non sarai mio fratello, ti cadrà la testa dal collo».39 Questa situazione trovò un’esemplificazione nella «comunità unita da un giuramento» di cui entravano a far parte i membri delle SS, i quali, sentendo di essere investiti di una speciale missione per il Führer e per la razza, affrontavano i loro compiti di sterminio potendo contare costantemente su un «morale alto».
La trascendenza, come ogni altra cosa, fu biologizzata, come nell’«espressionismo scientifico» di Ernst Haeckel (vedi pp. 599-600) e nella genetica mistica di Fritz Lenz («Gli igienisti razziali vogliono lavorare anche nella vigna del Signore»).40 Inoltre, sotto il nazismo la scienza fu manipolata in modo tale che non solo essa non criticò gli assunti erronei associati a questo morale alto ma si unì essa stessa alla trascendenza. Ci fu persino un tentativo di creare una «fisica ariana», tentativo fondato sulla tesi che «la scienza – come ogni altra cosa prodotta dall’uomo – è condizionata dalla razza e dal sangue».41
La critica di Goethe, fatta più di un secolo prima, della «fame di trascendenza» tedesca, fu notevole per avere incluso in tale categoria non solo la filosofia trascendentale ma anche la fisica newtoniana. Goethe fu probabilmente il primo a vedere che persino quello che in seguito fu chiamato positivismo poteva essere associato al misticismo e alla trascendenza,42 cosa che troviamo esemplificata, per esempio, da Josef Mengele. Considerando se stesso un rivoluzionario scientifico, Mengele poté diventare «Dio che giocava a fare il medico», abbracciando lo stato trascendente reso disponibile da una versione nazista della scienza altamente romanticizzata, positivistica e in ultima analisi genocida.
Nel caso dei turchi, quale che fosse il loro atteggiamento verso la scienza, essi proposero una visione mistica di panturanismo (o «turchificazione») «che si ricollegava a una mitica unità preistorica fra i popoli turanici fondata sull’origine razziale».43 E non si può dubitare dell’esperienza di trascendenza dei nazionalisti turchi nel loro ritorno all’islamismo fondamentalista come chiamata a una crociata contro gli armeni-cristiani, il tutto in funzione di una nuova visione di gloria ottomana.
L’esperienza della trascendenza, quindi, anticipa il genocidio e prefigura, in misura considerevole, uno stato di trascendenza che può diventare associato, direttamente o per procura, allo stesso eccidio.
La «malattia» a cui i nazisti stavano tentando di far fronte era la morte stessa, la morte resa incontrollabile dalla «moderna necrofilia» della Prima guerra mondiale. Così, Hugo Ball scrisse della «morte, che lavora in modo sistematico, simulando la vita..., bestiale, mostruosa eppure irreale».44f Un modo per venire a capo di un ambiente storico saturo di morte è quello di abbracciare la morte stessa come mezzo di cura. I nazisti lo fecero in una varietà di modi: con un culto romantico della morte e con la creazione di «un culto degli avi in cui i morti erano più importanti dei vivi»; con un’arte «profondamente impregnata di morte» (per esempio gli eroi nordici) come «un preludio all’iniziazione nella comunità»; e specialmente tornando a mobilitare i morti martirizzati della Prima guerra mondiale nell’affermazione di compiere in loro nome una missione destinata a conferire l’immortalità e ad annientare i nemici dello Stato tedesco. Hitler, come profeta e come salvatore, venne a rappresentare il capo martirizzato e a fungere da anello di congiunzione con la nuova comunità dei vivi. L’avanguardia «risanatrice» era costituita dalle Waffen ss, il cui «compito supremo era quello di infliggere e di accettare la morte»; di cercare le missioni più pericolose, di cercare la morte stessa se necessario, e di uccidere con totale durezza. Nella visione generale di risanamento rientrava anche l’attività dei singoli membri delle SS, che fungevano da strumenti della purificazione razziale.46 Avendo superato il test supremo della salute e della cura, le SS potevano rappresentare i morti sacri e avere l’autorizzazione a uccidere senza alcun limite.
Il genocidio richiese sia un gruppo specifico di vittime sia certi rapporti con quel gruppo. Se il loro preciso interesse biologico permetteva ai nazisti di estendere i loro sforzi genocidi a zingari, russi e polacchi, gli ebrei rimasero però il bersaglio centrale e la vittima psicologica più specifica della dinamica genocida nazista.
Gli uccisori nazisti dovevano vedere le loro vittime come un pericolo assoluto, una minaccia di «infezione» del «corpo nazionale tedesco» e (come nelle ultime tre parole del testamento di Hitler) un «veleno ebraico mortale». Similmente, gli «ebrei avvelenatori della Kultur stavano infiltrandosi nel mondo dell’arte, e il pericolo generale di una «ebraizzazione interiore» e di una «contaminazione razziale» era percepito come una minaccia fondamentale alla continuità e immortalità biologica e biosociale.47 Inoltre gli ebrei – o il concetto dell’ebreo – erano equiparati a ogni forma di degenerazione e decomposizione associate alla morte, compresi l’omosessualità, la confusione urbana, il liberalismo, il capitalismo e il marxismo. Goebbels poté usare immagini mediche dirette nel dichiarare: «Il nostro, qui, è un compito chirurgico... [dobbiamo praticare] delle incisioni drastiche o, in caso contrario, un giorno l’Europa morirà del morbo ebraico».48
Potrebbe esserci anche un’universalizzazione del presunto male della vittima, come nell’affermazione di Hitler «Se... l’ebreo conquista le nazioni di questo mondo, la sua corona diventerà il serto funebre dell’umanità, e questo pianeta passerà di nuovo attraverso l’etere, vuoto di umanità, come faceva migliaia di anni or sono».g La vittima, sostiene Hitler, se non sarà uccisa, distruggerà ogni persona e ogni cosa. Là dove la minaccia è così assoluta e così definitiva – dove la lotta diventa un «combattimento fra esseri umani e subumani», per usare l’espressione di Himmler – il genocidio diviene non solo appropriato, bensì una necessità urgente. Una tale lotta dev’essere «combattuta fino all’ultimo uomo, finché l’una o l’altra parte non sia stata eliminata senza lasciare traccia» (il corsivo è mio). Una volta che sia stata stabilita la necessità del genocidio, gli uccisori possono assumere il tono più indifferente del suggerimento di Himmler che «l’antisemitismo è esattamente la stessa cosa dello spidocchiamento».50
In un’altra opera ho parlato di pretese rivali all’immortalità – al potere spirituale supremo – come causa di persecuzione. Per alcuni gruppi cristiani gli ebrei sono sia i creatori sia i distruttori del modo di immortalità teologico cristiano, essendo visti come coloro che rifiutarono, tradirono o uccisero Gesù. A questo modello generale i tedeschi apportarono uno status descritto da Freud come quello di «cristiani mal battezzati», di persone che, nonostante la loro apparente cristianizzazione, aderivano tenacemente ai loro sentimenti e modi d’esser pagani, precristiani.51 Questa potrebbe ben essere stata una fonte della vulnerabilità tedesca, nel corso dei secoli, a minacce al loro sistema di fede cristiano e in definitiva al loro senso di immortalità.
Per esempio, durante le epidemie di peste del Medioevo, dappertutto in Europa gli ebrei furono accusati di avere propagato la Morte Nera, e spesso specificatamente di avere avvelenato l’acqua dei pozzi. Anche se in Germania la mortalità per la peste fu relativamente inferiore a quella di altri paesi, i pogrom contro gli ebrei vi furono condotti con particolare ferocia, così come particolarmente esasperato vi fu il fenomeno dei flagellanti, bande fanatiche di cristiani che percuotevano se stessi ritualmente e che si volgevano violentemente anche contro gli ebrei.52 Più significante per la Germania nel suo atteggiamento persecutorio contro gli ebrei è la sua funzione di «paese dei miti antisemiti». Il mito dell’Ebreo errante, pur essendo stato anticipato altrove, prese forma in Germania nel Cinquecento e all’inizio del Seicento: il vecchio scarno, dai capelli bianchi e dalla lunga barba, condannato a vagare per tutta la Terra sino al secondo Avvento di Gesù per essersi fatto beffe di lui in giovinezza e per essersi unito con entusiasmo alla plebe che gridava: «Crocifiggilo!». L’espressione tedesca per l’«Ebreo errante», der ewige Jude, significa «l’ebreo eterno»: è uno spettro esecrando, una figura che non può né vivere né morire e che rimane un amalgama di assassino, cadavere e residuo sopravvissuto. Egli è contaminato dalla morte ma sopravvive a tutti (dell’Ebreo errante si dice che «ha seppellito gli egizi, i greci e i romani») e rappresenta perciò l’incarnazione definitiva del contagio superstite, del portatore di un’infezione mortale.53
Una seconda importante componente culturale nel rapporto storico dei tedeschi con gli ebrei consiste nell’avere attribuito alla persecuzione ragioni comunitarie (gemeinschaftlich) e in definitiva biologiche. Gli ebrei si erano non solo integrati nella moderna cultura tedesca ma avevano aiutato a plasmarla cosicché, mentre alcuni ebrei emancipati si procuravano rispetto intellettuale come studiosi di Goethe e di Kant, in un altro angolo della mente tedesca erano considerati come «parvenus..., figli e nipoti del ghetto»,54 come persone fondamentalmente estranee, tanto più minacciose a causa della profondità della loro apparente integrazione culturale.
Tale tendenza a comprendere l’idea della comunità, o Gemeinschaft, nei termini di un romanticismo biologico si prestava non solo a un «misticismo razziale», ma anche a un ricorso all’autorità della scienza per denigrare gli ebrei. La coniazione in Germania, nel 1879, del termine «antisemitismo» (Antisemitismus) fu in effetti la rivendicazione di una base scientifica della necessità di escludere gli ebrei dalla Gemeinschaft tedesca minacciata. E nel 1886 Paul de Lagarde, un famoso professore di orientalistica ed eminente pensatore cristiano, poté denunciare gli ebrei come «stranieri» e «nient’altro che un veicolo di decomposizione», e continuò, in termini che ci sono familiari, dichiarando che «con le trichine e con i bacilli non si scende a patti..., essi devono essere sterminati il più rapidamente e radicalmente possibile».55 Queste immagini mediche, e altri riferimenti alla minaccia dell’«avvelenamento del sangue» da parte della «nuova germanicità ebreizzata», contribuirono a conservare la rivendicazione della scienza e persino di un magnanimo umanitarismo.56 Così un riformatore pedagogico alla svolta del secolo volle combinare uno «Stato organico» che superasse le differenze di classe con un mezzo per liberare la Germania dallo «spirito ebraico».57 Persino il lamento apparentemente mite dello storico Treitschke – «Gli ebrei sono la nostra disgrazia» – faceva parte di un opuscolo incentrato sulla Gemeinschaft che esprimeva un timore di morte razziale, un timore che fu espresso direttamente da Richard Wagner: «Che noi tedeschi specialmente periremo a causa loro è sicuro».58
Martin Lutero, «il più tedesco fra tutti i tedeschi, il più pio fra tutti i pii»,59 combinò forme comunitarie e teologiche di antisemitismo. Significativamente, egli fu il primo difensore degli ebrei, che voleva diventassero «di un sol cuore con noi». Di fronte all’insuccesso della missione di convertirli e farli diventare parte della comunità spirituale e biologica cristiano-protestante tedesca, li denunciò però come «figli del Diavolo» che, «essendo stranieri, non dovrebbero possedere niente» e che erano, inoltre, profondamente pericolosi: «Sappi, o Cristo adorato... che, a parte il Diavolo, non hai alcun nemico più velenoso, più disperato, più amaro di un vero ebreo che cerca veramente di essere un ebreo». Per Lutero gli ebrei erano un ricordo intollerabile di rivendicazioni cristiano-tedesche corrotte a un’immortalità spirituale e comunitaria assolutizzata. Con la loro stessa esistenza, gli ebrei sovvertivano quelle rivendicazioni. («Questi cani si fanno beffe di noi e delle nostre religioni!»)60 Senza dubbio Lutero si batteva per molte altre cose, compresa l’interiorizzazione della coscienza: quello che Erik Erikson chiamò «the meaning of meaning it».61
Ma la missione stessa di Lutero approfondì il potere psicologico del suo messaggio antisemitico. Si potrebbe quindi dire che lo sviluppo di un «cristianesimo nordico», quattrocento anni dopo, «completò l’opera di Lutero», con Hitler e Lutero «entrambi al servizio del benessere del popolo tedesco».62 Il principio genocida della distruzione degli ebrei nel nome del risanamento dei tedeschi non è nuovo.
Percepito così come una minaccia assoluta alla vita del proprio popolo, il gruppo vittimizzato viene visto come portatore di morte, e perciò come l’incarnazione del male. Più che semplicemente nonumano o pagano, esso è pericolosamente antiumano o anti-Dio (o antiCristo). La malattia di cui esso è veicolo assume la forma di un’infezione che colpisce altre persone con la contaminazione della morte e con una debolezza mortale: Hitler accennò con disprezzo alla «coscienza, quest’invenzione degli ebrei» e alla compassione giudaicocristiana per la debolezza. Soltanto il genocidio, l’eliminazione totale della malattia, può proteggere una persona dalla debolezza, e nell’atto stesso del genocidio si può venire a capo delle vestigia della malattia della debolezza mortale già presenti in se stessi, come (nel caso dei nazisti) «fratellanza..., umanitarismo [e] “pacifismo”».63 Di qui le immagini parallele nel genocidio: il portatore della malattia mortale minaccia di estinzione il proprio popolo, cosicché è assolutamente necessario distruggerlo prima che possa mettere in atto questa minaccia.
Nel genocidio c’è una soglia: il passaggio dall’immagine all’atto. L’esperienza nazista non suggerisce un singola causa o un singolo stimolo evocatore, quanto piuttosto una sequenza di eventi e atteggiamenti e di tentativi di risoluzione di problemi (i ghetti, difficili da controllare; le rivalità fra i gruppi SS, sempre più dominanti, e altre istituzioni naziste e fra singoli capi nazisti), all’interno di un’atmosfera sempre più omicida (il programma di «eutanasia»; il sistema dei campi di concentramento sempre più in espansione; la febbre di guerra delle prime vittorie e l’imminente invasione della Russia). A partire dall’inizio del 1941, dalle autorità naziste vennero una serie di «ordini demoniaci»,64 che espressero in modo sempre meglio definito una politica consistente non solo nell’uccisione di ebrei, bensì di tutti gli ebrei. Come ho suggerito nel capitolo VI, ci sono prove del fatto che un ordine specifico per la Soluzione finale sia stato trasmesso da Göring a Heydrich il 31 luglio 1941, ma che tale ordine fosse stato in realtà richiesto da Heydrich e abbozzato da Eichmann.65 Gran parte delle spinte che condussero a quell’ordine potrebbero essere venute da strati inferiori ai massimi livelli dell’autorità nazista, ma sempre come espressione di desideri noti di Hitler e di coloro che lo circondavano. Secondo un’opinione plausibile, Hitler, senza avere emanato alcun decreto a suo nome, avrebbe chiarito nel modo più esplicito ai suoi subordinati il desiderio che si varcasse tale soglia, che si passasse ad attuare il genocidio degli ebrei. In questa combinazione di spinte e di deliberazione – ed è significativo che gli studiosi siano incerti sulla possibilità di identificare un singolo ordine che avrebbe dato l’avvio alla Soluzione finale66 – si raggiunse un punto in cui prese forma la consapevolezza collettiva che si dovesse annientare il gruppo designato. La consapevolezza collettiva diventa rapidamente una volontà collettiva quando coloro che sono addetti alla realizzazione del progetto vi si applicano sulla base di percezioni di ciò che ci si attende da loro, percezioni che fanno appello a un’inclinazione anteriore e a un anteriore sdoppiamento adattivo. Nel caso dei nazisti, tale processo genocida era probabilmente già ben avviato prima dell’introduzione di un piano sistematico per il genocidio, quale si riflette nelle discussioni di Himmler con Höss sulla creazione di una fabbrica della morte per gli ebrei ad Auschwitz.
Il superamento di quella soglia del genocidio richiede un esteso repertorio anteriore di immagini ideologiche di valore imperativo. Si deve fare questa cosa, vederla nella prospettiva di un fine da realizzare, nella cornice di una visione utopistica di armonia, unità, integrità nazionale. Quando Hitler scrisse in Mein Kampf che «questo mondo appartiene solo al forte uomo “intero” e non al debole “mezzo” uomo», parlava a favore della speciale virtù di coloro che sono forti, vigorosi e sani.h
Tale visione fu, per i nazisti, più fondamentale di qualsiasi mito singolo sugli ebrei (come quello dell’intento dei «savi Anziani di Sion» di distruggere il mondo) come «giustificazione» del genocidio. La giustificazione è sviluppata più ampiamente sulla base di molte fonti nelle quali l’immagine della distruzione dell’intera collettività delle vittime designate è associata alla robusta rivitalizzazione del proprio popolo e della propria razza. È probabile che ci sia una prefigurazione o una prova nella forma di un anteriore evento genocida di proporzioni minori: nel caso dei nazisti l’uccisione medica diretta o il progetto di «eutanasia». Il genocidio minore sviluppa la tecnologia (gas velenoso), il personale (unità mediche) e le strutture istituzionali (centri di uccisione) per il genocidio su scala maggiore. Ma l’evento anteriore fa anche qualcosa di più: fornisce la sensazione condivisa, specialmente nell’élite, che è una cosa che si può fare; che si può passare da immagini relativamente amorfe di immolazione e di selezione all’atto dell’omicidio totale; e che la cosa sembra funzionare: un problema viene risolto e c’è un senso di compimento, un movimento verso la salute.
I primi uccisori diventano un’élite scientifica e morale e formano un motore spirituale di necessità biologica. La parte restante della popolazione non è giudicata pronta per una conoscenza completa; man mano che il raggio dell’azione omicida si spinge verso l’esterno, in un sistema sempre più vasto di ordine e polizia, di sistemazione burocratica e tecnologica viene manifestandosi una certa ambivalenza fra il senso di un segreto vergognoso e l’orgoglio di ciò che si è compiuto. È sempre presente il grande triage – l’idea che occorra condannare alcuni per salvare altri – nella giustapposizione di Himmler dell’«annientamento del popolo ebraico» con minuziosi programmi per «selezionare il sangue nordico-tedesco» allo scopo di promuovere «le qualità creative, eroiche e vitali del nostro popolo».68 Tale immagine di rivitalizzazione assoluta si applicava tanto alla prova del genocidio quanto allo sterminio su scala maggiore.
I nazisti attinsero a rapporti mitici fra guarigione e uccisione che ebbero un’antica espressione nello sciamanismo, nella purificazione religiosa e nel sacrificio umano, ed evocarono tutt’e tre queste fonti in modi che rivelano altre cose sulla loro motivazione psicologica. Così lo sciamano dell’Asia centrale e settentrionale, pur essendo principalmente un guaritore che si serve di riti estatici, è anche uno «psicopompo», colui che guida le anime dei morti nell’oltretomba. Alcune culture distinguono fra sciamani «bianchi», che hanno rapporti con gli dèi, e sciamani «neri», che possono avere rapporti con «cattivi spiriti» e sono quindi pericolosi.69 In generale lo sciamano bianco applica la magia della guarigione, lo sciamano nero la magia dell’uccisione.
La cultura tedesca, con la sua tendenza verso visioni storiche apocalittiche, impregnate del senso della morte, ha maggiori propensioni di altre ad aggrapparsi a questo rapporto fra uccisione e guarigione e fra i morti e i vivi. Dopo la Prima guerra mondiale i tedeschi svilupparono un «culto dei caduti» particolarmente forte, insistendo sulla persistente importanza del contributo dei morti, come soldati che combattono e uccidono, alla Patria. La Commissione per le Tombe di Guerra tedesche contrappose al mare di fiori e al modesto riconoscimento ai morti tributato in cimiteri britannici, americani e francesi il motivo «tragico-eroico» e la «celebrazione del sacrificio eroico» da parte dei tedeschi.70 Ma poiché la morte doveva essere vinta, un educatore nazista deplorò le fotografie di morti e feriti, perché esse «non possono mostrare la gioia che essi provarono compiendo il sommo sacrificio».71
Come versione cinquecentesca di un buono sciamano, i nazisti avevano a disposizione tanto la figura storica quanto la mitologia di Paracelso. In una versione nazista, il medico-alchimista svizzero-tedesco vince la grande sofferenza, gravi malattie e la disperazione nel nome di un’utopistica visione völkisch. E in un’altra lotta valorosamente per «vincere la morte» (vedi p. 54).72 In quanto soldati della biologia, tutti i medici nazisti dovevano essere in prima fila nella lotta per uccidere la morte. Tutti i medici nazisti, in altri termini, dovevano diventare sciamani, e molti di loro, in particolare, sciamani neri, nella loro partecipazione ritualistica a processi di uccisione nel nome del risanamento della tribù o del popolo.
Il genocidio è una risposta a un timore collettivo di contaminazione e di profanazione. Esso dipende da un impulso verso la purificazione simile a quello che trova un’espressione collettiva in culture primitive. Esso apporta però a tale impulso un’insistenza moderna, molto più mortale, sulla salute e sull’igiene: nel caso dei nazisti sull’igiene razziale. Mary Douglas ha mostrato che la preoccupazione per la contaminazione, sia che la definiamo magica o religiosa, ha attinenza con sistemi simbolici che si occupano del «rapporto dell’ordine col disordine, dell’essere col non essere, della forma con l’informe, della vita con la morte».73 Nei rituali di purificazione primitivi contro la contaminazione, «l’impurità o sporcizia è ciò che dev’essere escluso se si deve mantenere un modello».74 E il problema ultimo è la morte: «Come al centro di ogni simbolismo di contaminazione c’è il corpo, così il problema finale a cui la prospettiva della contaminazione conduce è la disintegrazione corporea».75
Le immagini di contaminazione sono associate a molte forme di persecuzione implicanti classe e casta oltre che colore e razza. Il gruppo tradizionale giapponese dei reietti è quello degli eta, che significa letteralmente «pieni di contaminazione», «pieni di sporcizia» o «grande corruzione». La parola stessa è tabù, come se persino chi la pronuncia rischiasse di essere contaminato dalla corruzione del gruppo dei paria. Come molti di tali gruppi perseguitati, gli eta sono stati associati per molto tempo a occupazioni disprezzate e profananti, fra cui quelle connesse all’uccisione di animali e al maneggiamento di rifiuti umani, di pelli di animali e di cadaveri, ossia le attività «incentrate... sul sangue, sulla morte e sulla sporcizia».76
Anche gli ebrei sono stati spesso associati alla morte e alla corruzione, ma in modi ancor più pericolosi per gli altri: accuse di essere avvelenatori e propagatori della peste, di praticare la negromanzia, di bere sangue nel corso di cerimonie o di praticare l’uccisione di bambini cristiani come sacrificio rituale per una messa nera. Anche gli ebrei, nel corso della loro storia, sono stati confinati alle stesse occupazioni impure praticate dagli eta in Giappone, così come sono stati associati al denaro o all’«usura», termine che significa «prestare denaro a interesse», ma con una connotazione di disonestà, di bruttura e di tabù molto vicina alla contaminazione. Il simbolismo del denaro come «guadagno sporco», «escrescenza malvagia» e anche «sostanza immortale» (in senso mistico e magico) suggerisce la sua relazione alle feci e alla morte da un lato ma anche al modo di conseguire l’immortalità dall’altro. Ma, venendo associati a quello che era percepito generalmente come un modo illegittimo e contaminato di immortalità, gli ebrei divennero ancor più soggetti a persecuzioni. Gli ebrei tedeschi potrebbero essere considerati come vittime di élite, come nel caso di Gerson von Bleichröder, il banchiere di Bismarck e «Rothschild tedesco». Rispettato e insieme oltraggiato, egli divenne un esempio archetipo per gli antisemiti del decennio 1870-1880, i quali videro in lui il «potere ebraico [che] era diventato una minaccia mortale per la vita tedesca».77 Avendo relegato gli ebrei, per mezzo delle anteriori persecuzioni, a questo sistema di immortalità corrotto, contaminato dalla morte, i persecutori si sentirono nondimeno superati da loro nella propria aspirazione all’immortalità. Perciò le successive crudeltà tedesche potrebbero esser viste come una nuova persecuzione degli ebrei, ancora in connessione col bisogno di purificazione.
Il genocidio nazista può essere inteso in effetti come uno spietato processo di purificazione. Ma i princìpi di purificazione furono sussunti sotto il moderno principio del «materialismo medico», consistente nell’invocare spiegazioni igieniche corporee per cose spirituali e psicologiche. L’esempio retrospettivo classico è la visione di Mosè come «amministratore illuminato della pubblica igiene più che come un capo spirituale», poiché certi suoi precetti davano un contributo a migliorare la salute corporea dell’individuo.78i
Il materialismo medico può coprire sistemi di simboli strettamente paralleli a quelli di rituali di purificazione primitivi. Ma nel suo interesse concreto per il corpo, per la biologia, il materialismo medico si presta direttamente a progetti di purificazione che uccidono in nome del risanamento. Una purificazione orientata in senso medico comprendeva l’eliminazione dei malati inguaribili e delle persone affette da tare ereditarie oltre che delle persone considerate sessualmente devianti, fra cui particolarmente gli omosessuali.
Nel loro principio di raccogliere l’evoluzione dalla natura per impedire all’umanità di essere «annientata dai fenomeni degenerativi» (per riprendere le parole di Lorenz [vedi p. 191]), i nazisti stavano proponendo la loro versione radicale della purificazione biologica, si potrebbe dire evoluzionistica. I medici, dopo avere sottoposto se stessi alla purificazione (Hitler insistette sulla purificazione della professione medica – ossia sull’eliminazione dal suo seno degli ebrei e degli oppositori politici – così che essa diventasse capace di assumersi la «direzione razziale»), divennero i purificatori di professione, i «soldati biologici vigili», attenti a segnalare e a eliminare qualsiasi cosa strana o imperfetta, che potesse contaminare col suo contagio il corpo sano della nazione. Il razzismo scientifico e l’igiene mentale erano i princìpi medico-materialistici in omaggio ai quali i nazisti uccidevano in nome della purificazione. Soprattutto, si doveva «purificare il sangue», un’immagine che in tutto il suo pieno significato e con le espressioni a essa connesse («sangue e suolo», «bandiera del sangue», «Ordine del Sangue» e «pensare col sangue») suggerisce quello che un commentatore chiamò «il misterioso rapporto della natura organica con quella inorganica».79 La «purificazione del sangue» diventa un mezzo per rendere sacre quelle entità mistico-immortali che sono la razza e la comunità ariane. Fu qui di nuovo utile l’invocazione di Paracelso, assurto ora a grande purificatore della storia stessa.j C’era infatti una lunga tradizione tedesca, esemplificata dallo stesso Paracelso ed espressa da vari movimenti giovanili e adulti, verso la purificazione dello spirito e del corpo. I nazisti invocarono tale tradizione in un violento attacco a tutto ciò che contaminava ai loro occhi la vita urbana, i rapporti umani, il comportamento sessuale e l’esperimento sociale.
I nazisti svilupparono anche il metodo di purificazione medica per eccellenza, applicato alla purificazione dei geni e della razza: quello delle selezioni. L’affermazione centrale che «il nazionalsocialismo non è altro che biologia applicata» potrebbe essere intesa in modo ancor più fondamentale come «il nazionalsocialismo non è nient’altro che purificazione biologica applicata». Fu in quest’orientamento che un autore nazista dichiarò che il medico era stato «restituito al sacerdozio e alla santità della sua vocazione»; e che un altro autore sostenne che «i medici potrebbero essere i veri salvatori della razza umana».81 Abbiamo visto questo materialismo medico visionario associato a varie idee occulte, come nel caso di Rudolf Hess e di Johann S., che fu in parte un seguace di Hess (vedi pp. 184-187). Quando il dottor S. si immerse nella sua purificazione personale attraverso la guerra, in risposta all’incombente sconfitta e ad altre disillusioni nei confronti del movimento nazista, stava, per così dire, tentando di purificare la sua purificazione, di trovare l’espressione più semplice (o più pura) del confronto vita-morte. L’impulso di purificazione, una volta affermatosi, può non lasciarsi soppiantare tanto facilmente, e quando la sua violenza cade in discredito può prestarsi a forme di uccisione alternative.
L’obiettivo della purificazione nazista, come quello dei popoli primitivi, era quello di «creare un singolo universo, simbolicamente coerente».82 Tanto i nazisti quanto i primitivi cercavano qualità di «totalità e di completezza», oltre che di «perfezione fisica», ma i nazisti erano assai più estremisti di qualsiasi popolo primitivo nella loro adesione letterale ai princìpi e nella loro mortale applicazione del materialismo medico e di un’alta tecnologia a uno scopo spirituale assoluto.
I nazisti erano infatti molto meno a loro agio nel loro rapporto con se stessi di quanto non fossero i popoli primitivi: in quanto movimento moderno impegnato nel tentativo di ripristinare, per mezzo dei loro procedimenti di purificazione, un passato di perfetta armonia che non era mai esistito, essi erano infatti costretti a compiere azioni che erano inevitabilmente compensative e più disperate. Prendendo l’avvio da moderne forme collettive di disorganizzazione e di frammentazione del sé, la loro purificazione era condannata a fallire. Non è possibile, semplicemente, creare da un punto di vista psichico moderno un «universo primitivo indifferenziato» all’interno del quale un principio del Führer diventi la fonte di ogni giudizio sulla vita, la morte e l’uccisione. Si sospetta, in effetti, che sia stata l’impossibilità stessa del progetto a trasferirlo dal piano della mera persecuzione a quello del genocidio. Come nelle culture primitive, infatti, «la magia... si trova in una non-struttura»,83 cosicché in culture moderne il genocidio può trovarsi nell’ideale irrealizzabile di una purificazione medico-igienica totale.
La purificazione tende a essere associata a vittime sacrificali tanto su un piano religioso quanto su un piano profano, nell’epoca contemporanea come nell’antichità. Il genocidio può essere inteso come un tentativo di trasformare in vittima sacrificale un popolo intero.
La pratica del sacrificio umano fu perseguita non solo per placare gli dèi, ma per impegnarsi con loro in uno scambio di potere vitale reciprocamente corroborante. Gli aztechi del Messico, per esempio, ancora nel Quattrocento e poco prima della Conquista spagnola, consideravano un loro sacro dovere la conservazione di uno stato di guerra senza fine per procurarsi prigionieri da offrire in sacrificio agli dèi, «allo scopo di preservare l’universo dalla minaccia quotidiana di annientamento».84 Per poter fornire questo servizio, però, gli dèi dovevano essere a loro volta nutriti dall’uomo, «mantenuti in vita dalla vita stessa, dalla magica sostanza che si trova nel sangue dell’uomo..., “il prezioso liquido”... di cui si nutrono gli dèi». Come nel caso dei nazisti, in un contesto molto diverso, l’uccisione sacrificale di massa divenne parte di un vasto progetto di rivitalizzazione connesso all’«identità nazionale e allo zelo collettivo» in questioni politiche e a «fanatismo... [e] dinamismo instancabile» in combattimento.85
Ma le differenze storiche sono importanti: per gli aztechi l’uccisione di massa veniva eseguita sempre in modo rituale come estensione di un’ideologia e di un ethos che avevano dietro di sé una lunga tradizione; mentre per i nazisti l’uccisione era eseguita attraverso la tecnologia ed era un passo storico che non aveva precedenti. Il genocidio nazista era mantenuto segreto, tranne che all’élite interna delle SS, mentre l’uccisione sacrificale degli aztechi era pubblica e celebrata.
Per i nazisti come per gli aztechi, il «sacrificio umano era “un’alchimia per trasformare la morte in vita”». La componente terapeutica era forte in entrambi i casi: nel caso dei nazisti terapia per la razza ariana e in quello degli aztechi terapia per gli dèi, il cui stato di debolezza o di sofferenza, o di dispiacere per non essere stati nutriti a sufficienza, aveva condotto a calamità e ad altri eventi nefasti («La prescrizione per curare tali sofferenze soprannaturali era inevitabilmente quella di compiere altri sacrifici, cosa che richiedeva nuove vittorie per catturare prigionieri»).86 In entrambi i casi, quale che fosse il repertorio di immagini soprannaturali, la terapia era orientata in definitiva a migliorare la forza vitale del proprio gruppo.
Entrambi i gruppi uccidevano e continuarono a uccidere nonostante le prove crescenti del fatto che le uccisioni stesse interferivano con la sopravvivenza dello Stato: con la conduzione della guerra nel caso dei nazisti e con l’intera esistenza sociale ed economica di un impero esausto nel caso degli aztechi. Tanto gli uni quanto gli altri dovevano continuare a «uccidere» la morte. Era vero infatti per il nazista come per l’azteco che ognuno di loro «poté insistere a offrire sangue in cambio della vita, finché la sua intera religione non divenne un baluardo emotivo attorno allo spettro della morte».87
La perversione nazista di forze psicologiche umane primarie fu prefigurata da Joseph de Maistre, reazionario cattolico dell’inizio dell’Ottocento, che avrebbe esercitato un’influenza sul posteriore sviluppo del fascismo europeo:
dai bruchi sino all’uomo, la legge di natura è la distruzione violenta degli esseri umani. La Terra intera, immersa di continuo nel sangue, non è altro che un altare immenso su cui ogni cosa vivente dev’esser sacrificata senza fine, senza limitazioni, senza tregua sino alla fine del mondo, all’estinzione del male, alla morte della morte.88
In altri termini, per estinguere il male e per uccidere la morte occorre non solo la violenza, ma una violenza senza fine: una qualche forma di genocidio.89
Quando diventa totale – ossia genocida – la terapia violenta attinge a tutti gli aspetti della cultura di chi la attua.
I nazisti attinsero a vigorose spinte culturali tedesche verso una politica, una società e una persona unificate, pienamente fuse assieme. L’individuo stesso non doveva più essere ossessionato dal proprio timore di disintegrazione, o da conflitti su possibilità alternative in competizione fra loro; non doveva più essere soggetto alla «condizione lacerata propria dei tedeschi». Egli doveva invece diventare parte di un’«unità monolitica, cementata dal sangue e dal destino».90 Nell’applicare tale terapia comunitaria, i nazisti crearono qualcosa di simile a un «tempo razziale» come dimensione suprema in cui doveva aver luogo la lotta cosmica per la salute della razza ariana contro l’infezione ebraica: suprema, perché questa lotta avrebbe dovuto determinare l’esito di eventi nel tempo storico convenzionale (la Prima guerra mondiale, Weimar eccetera). Nella sua natura primigenia e atemporale, il «tempo razziale» fu una controparte volgarizzata di quello che Mircea Eliade ha chiamato il «tempo mitico»,91 e collegò ogni atto dell’eccidio di massa a una visione di unità mistica.
La terapia violenta dovette attingere, per quanto in modo selettivo, alla tradizione intellettuale esistente. I nazisti trovarono tale tradizione in Nietzsche, che interpretarono come se avesse raccomandato la guerra come cura per la debolezza, e la coltivazione di «quel profondo odio impersonale, quella crudeltà omicida a sangue freddo associata a una buona coscienza, quello zelo comunitario di organizzazione per la distruzione del nemico» come una via per il risanamento collettivo.92k Soprattutto, la visione di Nietzsche era una visione di una malattia e una terapia radicali. La condizione, dichiarò Nietzsche, non era quella dell’individuo malato bensì di quello malaticcio, espressione con cui egli intendeva esprimere la persona afflitta da una perpetua debolezza e preoccupazione per la moralità.93 Nietzsche continuava dicendo che «si è sani quando... si sente che il “morso” della coscienza è come un cane che morde una pietra, quando ci si vergogna del proprio rimorso», e che si può attribuire «più salute dell’anima» a un criminale che «non denigra la sua azione dopo averla compiuta» che non al peccatore che «si umilia dinanzi alla croce».94
Certo, i nazisti si guardarono bene dal dire qualcosa sui ripetuti motteggiamenti da parte di Nietzsche dello sciovinismo tedesco («“Tedesco” era diventato un argomento. Deutschland, Deutschland über alles un principio; i teutoni.... l’“ordine morale del mondo” nella storia»),95 del loro antisemitismo e della «moralità di razze e classi». Quel che importava era che Nietzsche poteva apportare a una visione della terapia quello che egli stesso chiamava «il magico potere degli estremi» e la sua dichiarazione: «Noi dobbiamo essere dei distruttori».96
Quella visione nietzschiana unilaterale fu più importante per i nazisti di qualsiasi sistema psicologico formale. Essi appoggiarono ricerche di psicologia scientifica miranti a dimostrare il ruolo dell’ebreo come «anti-tipo», costruito biologicamente e sociologicamente in modo da avere un effetto «disintegratore» sulla comunità tedesca più ampia.97 Eppure i nazisti avevano una certa simpatia per la psichiatria junghiana, particolarmente al tempo della collaborazione di Jung con la psichiatria nazista e della sua insistenza sulle distinzioni fra l’inconscio «ariano» e quello ebreo.98 Ma, più fondamentalmente, i nazisti rifiutarono la psicologia introspettiva perché, come sosteneva Rosenberg, «l’anima nordica non è contemplativa e... non si perde nella psicologia individuale, ma... sperimenta caparbiamente leggi cosmico-spirituali».99
È probabile che i progetti di genocidio ricerchino forti connessioni psicologiche con siffatte «leggi cosmico-spirituali», piuttosto che utilizzare un sistema o approccio psicologico esatto. In effetti i nazisti stavano in guardia contro il tipo di sperimentazione col sé – quello che io chiamo l’uomo proteiforme (vedi pp. 679-680) – che la psicologia è propensa a documentare o persino a incoraggiare.100 Inoltre, tanto la psicologia quanto la sperimentazione col sé erano associate ai loro occhi con l’influenza ebraica, oltre a essere antitetiche con la visione monolitica del sé, del popolo e della società.l
La cura proposta è impossibile da realizzare, ma il genocidio può dare l’impressione, almeno per qualche tempo, di approssimarsi a tale cura e di risolvere problemi importanti. I nazisti, per esempio, risolsero il problema dei ghetti difficili da controllare, da cui potevano uscire ebrei, e fecero interiorizzare a un gran numero di persone l’idea del Reich come comunità mistica.101 All’interno di tale cornice mistica, l’uccisione della maggior parte degli ebrei poteva ricreare per Hitler e per altri nazisti una qualità di esperienza che ricordava il diffuso senso condiviso di trascendenza all’inizio della Prima guerra mondiale. Benché nessuno di questi elementi fosse di per sé sufficiente per garantire alla terapia un successo continuo, essi aiutarono i nazisti in generale, e i medici di Auschwitz in particolare, a superare i loro limiti in misura sufficiente per poter dare il loro contributo alle uccisioni.
L’uccisione terapeutica aveva come proprio obiettivo finale tutti i tedeschi non meno che tutti gli ebrei? Questo è il problema contenuto nella domanda se l’itinerario di Hitler non contenesse fin dal principio una Götterdämmerung – un «crepuscolo degli dèi» o una massiccia autodistruzione – del proprio popolo.
Senza dubbio alla fine Hitler ordinò una tale Götterdämmerung, la demolizione di tutte le strutture industriali, dei trasporti, delle comunicazioni e degli approvvigionamenti, e se Speer e altri non fossero intervenuti ci sarebbe stata una strage su una scala così grande da approssimarsi a un autogenocidio.102 Hitler aveva sempre presentato la terapia del genocidio in termini di totalità: o la razza ariana o la razza ebraica doveva uscirne distrutta. Egli disse a Speer che, se la guerra fosse stata perduta, anche il popolo tedesco sarebbe stato «perduto», cosicché non occorreva affatto preoccuparsi dei suoi bisogni per la sopravvivenza. In altri termini, la cura era fallita: i tedeschi si erano dimostrati deboli e indegni. In tale luce, le ultime parole del testamento di Hitler, che riaffermavano la necessità di distruggere gli ebrei, erano una difesa di una terapia corretta che non si era rivelata però del tutto efficace. Il suicidio dello stesso Hitler potrebbe essere inteso nel quadro della necessità da lui percepita che l’intero popolo tedesco condividesse una sorte sacrificale simile, forse in vista di una futura risurrezione politica.
Chi attua il genocidio uccide per guarire se stesso come pure il suo popolo. Non avendo però la possibilità di mandare a effetto una terapia completa – egli non potrà mai riuscire a ucciderli tutti o a eliminare l’origine di tale infezione – deve usare il proprio popolo e se stesso per garantire la continuazione del sacrificio. La sua visione della cura diventa allora ancora più confusa; egli può rivolgere la sua violenza verso se stesso (e verso il suo popolo) per attuare il destino meritato come purificazione finale. Divenuta ora un suicidio collettivo (in realtà è il capo che conduce con sé il suo popolo nella morte), ha il messaggio orientato verso il futuro che la terapia del genocidio deve continuare. Nello stesso modo in cui «il sangue di Cristo nel Sacramento doveva essere sostituito dal sangue del caduto in guerra tedesco»,103 così il sangue del proprio popolo e di se stesso doveva ora integrare quella banca di sangue mitica.
Il processo può essere ancor più paradossale: esattamente come nell’uccidere se stessi si riaffermano princìpi di conseguimento dell’immortalità, così l’autogenocidio del proprio popolo, generato principalmente da un capo, cerca di asserire la conquista dell’immortalità da parte dell’intero popolo. L’individuo o il gruppo che attua l’uccisione, in altri termini, realizza la guarigione attraverso la propria autodistruzione. Non può esserci, in tal caso, alcun pericolo di un’infezione occulta, di una «giudaizzazione interiore». La purificazione e il sacrificio sono assoluti. L’autodistruzione potrebbe ben essere l’unico esito logico di un genocida veramente fedele al suo impegno.
Quando si cura una malattia, è lecito tutto. L’immagine della terapia si presta al mito corroborante della violenza di Stato e alla realizzazione letterale di tale mito. Gli atteggiamenti associati al nazionalismo moderno – la guarigione delle ferite del proprio gruppo biologico – possono trasferire facilmente il mito sul terreno del genocidio. Il mito della cura collettiva può allora essere associato a una cosmologia e persino approssimarsi a una religione di Stato incentrata sulla biologia. Vengono istituiti riti e rituali che organizzano sempre più il significato della vita delle singole persone attorno alla lotta per curare la razza ferita aggredendo senza soste la fonte della sua infezione. Nazionalismi diversi possono dare al processo la loro colorazione – «Ogni paese sviluppa la propria malattia, la propria medicina e il proprio medico»104 – ma l’estensione del genocidio è connessa all’immagine dell’uccidere per curare.
Possiamo parlare quindi di un fondamentalismo medico. In tutti i fondamentalismi, i quali sono di solito religiosi o politici, c’è il senso di una profonda minaccia a quelli che sono considerati convinzioni e simboli fondamentali, e un’invocazione compensatrice di un testo sacro (la Bibbia, il Corano, il Mein Kampf) come guida letterale per ogni forma di azione.105 La storia si ferma, così che possa essere applicata la terapia omicida. Benché la medicina non possa provvedere ad attuare le prescrizioni del testo sacro, si può tornare alle antiche pratiche degli sciamani e degli stregoni, da cui ci si poteva attendere che uccidessero per guarire. I medici, come pure i medici spirituali carismatici, sono sciolti dagli obblighi ippocratici. George Santayana scrisse nel 1915: «I tedeschi hanno brancolato per quattrocento anni nel tentativo di ripristinare il loro primitivo paganesimo»,106 e noi possiamo dire che hanno infine trovato i mezzi per recuperarlo nel loro fondamentalismo medico.
Susan Sontag ha scritto che «il concetto di malattia non è mai innocente» e che «descrivere un fenomeno presentandolo come un cancro è un incitamento alla violenza».107 Gli armeni furono descritti come «un cancro, una proliferazione maligna che assomiglia all’esterno a un piccolo foruncolo ma che, se non sarà estirpato dal bisturi di un esperto chirurgo, ucciderà il paziente».108 (Similmente, gli Ache, un gruppo di indios dell’America Latina che vengono cacciati dai paraguaiani, sono descritti da questi ultimi come «“ratti rabbiosi”; e i ratti rabbiosi devono essere sterminati».109 Anche i medici turchi svolsero una parte importante nel genocidio degli armeni; uno di loro, secondo un testimone, avrebbe detto: «La mia turchità prevalse sulla mia missione medica».110 Anche i capi turchi affermarono il loro bisogno di distruggere gli armeni come modo per rivitalizzare il loro impero, di risanare il loro popolo.
Qui il medico in camice bianco sostituisce il prete in abito talare nero come arbitro della morte e dell’immortalità. La figura medica, il soldato biologico, diventa di fatto un generale biologico nella campagna per uccidere la morte.
Il compito è sisifeo più che utopistico: per quante persone si uccidano non si potrà mai portare a buon fine la soluzione desiderata. Così si continua a tentare, si continua a uccidere, ci si impegna nel principio di uccidere non solo le proprie vittime ma ognuna di loro fino all’ultima. Le immagini primarie sono quelle della morte, dell’immortalità e della cura omicida.
Il genocidio richiede due gruppi di persone: un’élite professionale che formuli il compito dell’uccisione e che sovrintenda ad esso, e uccisori di professione che lo attuino. Già molto tempo prima che le persone che faranno parte di questi gruppi vengano scelte per svolgere tali compiti, esse sono influenzate da quella che può essere chiamata un’atmosfera di genocidio. Pare che nell’aria ci sia un sentore di morte, storie di uccisioni in massa a cui non si crede e al tempo stesso si crede. Diventa una sorta di via di mezzo, qualcosa che si sa e non si sa, o che si fa senza rendersene conto chiaramente, o che si sa e non si fa.111 È una combinazione di conoscenza e di ottundimento, ma la conoscenza filtra e si fa strada.
Può esserci un periodo di impasse e di confusione – quale si verificò in Germania attorno al marzo 1941 –, durante il quale prende forma la dinamica del genocidio. Il progetto di uccisione viene a essere percepito come l’unica «soluzione» generale di una serie di dilemmi. Iniziative dal basso (fondate su percezioni di ciò che il capo o i capi desiderano) convergono con atteggiamenti, ordini e messaggi indiretti dall’alto, in una sequenza che difficilmente può essere ricondotta a un documento specifico, ma che nondimeno assume una forma definita, viene attuata in modo sistematico e implica un gran numero di persone che lavorano di concerto all’attuazione del programma. Il processo è a un tempo arcano e segreto da un lato e comune e quasi rispettabile dall’altro.
I progetti di genocidio richiedono la partecipazione attiva di professionisti colti – medici, scienziati, ingegneri, capi militari, avvocati, clero, professori di università e altri insegnanti –, i quali uniscano i loro sforzi per creare non solo la tecnologia del genocidio ma gran parte della sua giustificazione ideologica, del suo clima morale e del suo processo organizzativo.
Per una curiosa ironia questi stessi gruppi professionali, raggruppati assieme come «intellettuali», saranno probabilmente un particolare oggetto di spregio per il regime che pratica il genocidio. Rolf Hochhuth, per esempio, ha parlato di Hitler come della culminazione di «una lunga tradizione di disprezzo per gli intellettuali, per la ragione e per le cose dello spirito». In effetti i capi del regime erano inclini a mettere questo gruppo colto sullo stesso piano con la razza che doveva essere annientata: «Nel momento in cui Goebbels cominciò a parificare gli ebrei con gli intellettuali, il suo odio per loro divenne omicida».112
Hitler riconobbe che il regime aveva bisogno di particolari gruppi di professionisti, i quali dovevano essere trasformati in funzionari; egli invitò terapeuti e pensatori ad assumere la guida nella distruzione della terapia e del pensiero come li si era conosciuti in precedenza. Infatti il principio della distruzione dello spirito, orchestrato dalle persone più colte, precede, accompagna e motiva l’intero processo del genocidio.
La disponibilità dei professionisti ad adattarsi ad ambienti estremi, compresi quelli in cui si pratica il genocidio, è suggerita dalla sequenza a noi familiare nella professione medica tedesca: da medici comuni (prima del 1933) a medici nazisti (1933-1945), a medici comuni (dopo il 1945). I medici riflettono la tendenza più generale a rivendicare i loro meriti per aver conservato, in condizioni di coercizione, la funzione di una professione, specialmente di una professione terapeutica, anche quando tale coercizione comprese la partecipazione al genocidio.
Ricordiamo la descrizione di Heyde, lo psichiatra che aveva la direzione del progetto di «eutanasia», come di «un nazista che non era in realtà uno scienziato ma che, con l’aiuto della scienza, divenne il portavoce dei nazisti». Quando un tale «aiuto della scienza» comprende una pretesa di agire in nome del risanamento, il professionista può spingersi sino alle plaghe più remote del male. Tale viaggio richiede il tipo di immersione nell’ideologia che contiene la promessa di una concezione del mondo unificata e di una conoscenza messa al servizio di un fine appassionato, un’immersione alla quale le persone colte sono particolarmente inclini.
Consideriamo l’accettazione da parte di due vincitori di Premi Nobel del concetto di «fisica ariana» e l’insistenza di un grande psicoanalista sulle nette distinzioni che esisterebbero fra psicologia «ariana» ed «ebraica».113 Gli intellettuali possono accettare anche troppo di buon animo di essere sollevati dal peso del pensiero, come spiegò Karl Stern descrivendo «una peculiare qualità di irrazionalismo» che si impadronì dei colleghi tedeschi dell’istituto psichiatrico in cui egli lavorava – «un misticismo che si opponeva alla Ragione» – ma che, possiamo aggiungere, venne sempre a farlo nel nome della scienza.114
Persino membri del gruppo perseguitato possono unirsi a questo processo di portare la scienza quasi dappertutto. Otto Weininger, che era un ebreo, descrisse il giudaismo come «la più forte negazione», come «l’abisso sopra cui s’erge il cristianesimo» e come «il peccato originale» di Cristo.115m Weininger non solo esprime uno straordinario odio di sé, ma mostra in quale misura la psicologia e le scienze sociali, in particolare, possano essere ideologizzate in direzioni mortali, sempre in nome della scienza.
Mentre la dinamica collettiva è in funzione, i singoli professionisti possono avere la sensazione di stare compiendo qualcosa che scuote la terra, che «crea qualcosa di nuovo». La violazione più grottesca della ragione può essere salutata come un’innovazione mirabile, specialmente nel caso di studiosi di livello internazionale, come Erich Jaensch (che pretese di «dimostrare» la psicologia dell’«antitipo» ebraico).117 La dinamica del genocidio offre al professionista una tentazione considerevole di diventare il «motore spirituale» del mutamento, della rivoluzione, del rinnovamento.
Professionisti e intellettuali hanno anche altre inclinazioni: verso il ricorso al principio del Führer come antidoto contro l’isolamento e la debolezza; verso una violenza romanticizzata e un culto della durezza come negazione della debolezza, della mollezza e degli «scrupoli»; verso tutto ciò che è rozzo e primitivo come modo di ripudiare la ricercatezza e la mondanità. La maggior parte di queste inclinazioni implicano rivendicazioni dell’onnipotenza nel nome dell’umiltà, richiami al sacrificio in cui il gruppo sacrificale è composto dalle vittime designate del regime. Queste contraddizioni possono essere mantenute, ed è possibile convivere con esse, attraverso lo speciale talento per lo sdoppiamento proprio del professionista. Soltanto il professionista può diventare uno stregone omicida pur continuando a rivendicare la sua funzione di guaritore, come il batteriologo nazista di talento – «di poco più di trent’anni... molto sicuro di sé» – che fece lezioni ad alti ufficiali nazisti su un siero da lui preparato, «una goccia [del quale]... basterebbe a uccidere un uomo... senza lasciar traccia», e presentò questi e altri particolari «in modo così chiaro e calmo come se stesse facendo una lezione scolastica su un argomento banalissimo».118 Si doveva essere dei veri professionisti per impegnarsi nell’attività medica nello stile di Auschwitz, che (per usare le parole di B.) «consisteva... solo nel selezionare persone per la camera a gas». Peggio ancora, si potevano fare queste cose con la convinzione che esse fossero «in accordo con la storia naturale e con la biologia dell’uomo» e che facendole ci si stava comportando da guaritori e salvatori.
Il secondo gruppo, meno istruito, è quello che ha per lo più il compito di procedere materialmente alle uccisioni. Sono questi uomini a sparare sulle vittime, o a introdurre le compresse del gas, e il loro ruolo, per quanto diminuito, non è eliminato neppure nel potenziale genocidio nucleare. Anziché formulare i princìpi o la tecnologia dell’uccisione, essi agiscono sulla base di tali formulazioni ed eseguono il lavoro. Avendo opportunità limitate, è probabile che facciano dell’uccisione la loro unica professione; essi diventano gli artigiani dell’uccisione o i tecnologi dell’eccidio di massa.
Essi possono condividere la maggior parte delle disposizioni e risposte psicologiche col gruppo più colto, e possono certamente abbracciare ideologie che fanno dell’eccidio di massa una forma di purificazione o di risanamento. Ma piuttosto che considerare se stessi come scienziati che applicano una conoscenza superiore, essi attingono a uno «spirito di corpo» il senso di una lotta comune del tipo più impegnativo. Il loro indurimento è sottolineato con grande energia e connesso a princìpi culturali di mascolinità (o a volte di forza femminile), oltre che a uno speciale impegno e spirito di sacrificio: per usare le parole di Himmler, non sono solo comuni soldati ma «combattenti ideologici». Essi vengono incoraggiati a considerare l’opportunità, che abbracciano, di valutare il loro progetto di genocidio come un’operazione militare: un’operazione consistente nello stroncare i «partigiani», come nel caso delle Einsatzgruppen; o nel «combattere» sul «campo di battaglia razziale» contro il «pericoloso nemico ebreo».
Himmler formulò in modo abbastanza preciso la situazione psicologica quando, parlando delle truppe cui era affidato il compito di uccidere, si riferì alla «via fra le due... possibilità: di diventare troppo brutali..., spietati e ormai privi di qualsiasi rispetto per la vita umana, o di diventare deboli ed essere spinti sul punto di un crollo nervoso»; e aggiunse che «il passaggio fra questa Scilla e questa Cariddi è terribilmente stretto». Pur essendo in errore nel concludere che quella via era stata intrapresa «senza alcun danno mentale e spirituale per i nostri uomini e per i nostri capi»,119 Himmler stava esplorando i limiti della capacità umana di ottundimento e di sdoppiamento a beneficio dell’uccisione di massa. Né l’ottundimento e lo sdoppiamento erano resi superflui dalla superiore tecnologia dell’eccidio usata ad Auschwitz, come ci viene suggerito da un Blockführer di Birkenau, che fu sentito dire, dopo avere bevuto in abbondanza: «Madre mia, se sapessi che tuo figlio è diventato un assassino!».120
È probabile che gli organizzatori del genocidio combinino lo spirito di corpo con la mobilitazione letterale della criminalità. I turchi fecero ampio uso di criminali nel genocidio degli armeni, e i nazisti fecero lo stesso nel portare ad Auschwitz un grande contingente di criminali per servirsene nell’organizzazione e nella gestione del campo. Criminalità tradizionale e spirito di corpo possono chiaramente venir combinati, come quando le SS adottarono la politica di accogliere volentieri nei loro ranghi dei criminali e di usarli nell’attuazione delle uccisioni. I nazisti fecero ampio uso anche di altri gruppi esterni, fra cui tedeschi etnici provenienti da varie parti d’Europa, ucraini, lettoni e lituani.
Questi gruppi di uccisori di professione potevano esercitare un’attrazione su uomini con tratti psicologici distruttivi che possono essere considerati psicopatici, ma anche su uomini con tendenze all’onnipotenza e al sadismo, all’aggressività e alla violenza, e con inclinazioni all’ottundimento mentale e allo sdoppiamento che rientrano in una gamma sociale ordinaria. Tale è la riserva umana potenziale di questi tratti che essi possono combinarsi anche troppo facilmente con elementi di ideologia e di disciplina militare per formare unità capaci di uccidere con grande efficienza.
Professionisti dell’omicidio e uccisori di professione tendono a fondersi in molti modi. Una connessione è costituita dall’«uomo semi-istruito» o «semi-intellettuale» comune fra i nazisti (vedi p. 616). Questi può assumere una posizione di preminenza nel genocidio apportando al progetto certi elementi necessari: l’infarinatura di conoscenza che può permettere a una persona di ideologizzare radicalmente la sfera professionale e di abbracciare senza riserve false teorie; rabbia e invidia verso coloro che hanno un’autentica competenza professionale; e tendenze verso un comportamento distruttivo e violento (a volte una psicopatia conclamata) oltre che verso lo sdoppiamento e un ottundimento morale. Questi uomini semi-istruiti abbondano tanto fra i professionisti dell’omicidio quanto fra gli uccisori professionali.
Come abbiamo appreso dai medici nazisti e dai loro assistenti, le funzioni possono essere rovesciate: i professionisti dell’omicidio possono anche uccidere direttamente, e gli uccisori di professione possono dare un contributo alla pianificazione e alla tecnologia. Ognuno può partecipare all’uccisione. Quando richiamiamo alla mente immagini come quella del dottor Pfanmüller, che mostrava orgogliosamente ai visitatori un bambino scheletrico che egli stava facendo morire di fame, o di Mengele che utilizzava una tecnica medica inappuntabile mentre iniettava fenolo nel cuore della vittima o di Klehr, che eseguiva la stessa iniezione senza avere avuto il beneficio di una formazione medica, ci riesce difficile distinguere un tipo di uccisore dall’altro.
In effetti i due gruppi sono attratti l’uno verso l’altro dal segreto condiviso, che è in realtà un segreto di Pulcinella; da un miscuglio di ideologia, ethos, corruttibilità; e dal cumulo del male. Assieme, essi costituiscono un’élite omicida. Essi godono di speciali privilegi e assumono un’aura più che naturale. Persino quando uccidono, possono essere considerati la norma per la purificazione infinita che giustifica l’omicidio, i «figli degli dèi». Le SS, per esempio, avrebbero costituito il tipo nordico ideale oltre ad assumersi la responsabilità della virtuale eliminazione di tutti gli altri. E se altre persone del proprio popolo dovessero essere incluse come possibili vittime nel progetto di genocidio, cosa sempre possibile, gli uccisori di élite dovrebbero sopravvivere, o almeno dovrebbero essere gli ultimi a morire. Da un lato la macchia della loro contaminazione è destinata con ogni probabilità ad aumentare, ai loro occhi come a quelli di altri. Dall’altro, però, essi diventano i portatori della immortale sostanza razziale-culturale. Solo morendo eroicamente, o sopravvivendo senza fine – le due cose sono legate strettamente –, essi possono promuovere ed esprimere il progetto di immortalità di cui sono al servizio.
Non si può dire che per il genocidio si richieda un qualsiasi particolare livello di tecnologia: i turchi uccisero circa un milione di armeni per mezzo di fucilazioni, bastonature, percosse, lavoro forzato, fame e altre forme di tortura. I nazisti uccisero milioni di ebrei con gli stessi rozzi metodi, anche senza il beneficio delle camere a gas.
Le tecnologie superiori rendono l’eccidio più efficiente, sia dal punto di vista del tempo impiegato sia da quello del numero delle persone uccise, alleviando al tempo stesso il carico psicologico degli uccisori. Un chiaro esempio è costituito dalla sequenza nazista dalla fucilazione faccia a faccia a iniezioni di sostanze mortali alle camere a gas, dal monossido di carbonio al cianuro: la sequenza, per parafrasare Ernst B., dal pre-artigianato all’artigianato alla tecnologia moderna. La sequenza aiuta a eliminare l’ostacolo dell’empatia, permettendo di non sentire le proprie vittime come esseri umani propri simili.
Quando Auschwitz toccò il punto più alto della sua efficienza, l’uccisione in ventiquattr’ore di più di ventimila ebrei, i cui corpi furono bruciati in crematori o in fosse aperte, «la capacità di distruzione si avvicinò al punto di diventare illimitata». Ora, dopo anni «di costante applicazione di tecniche amministrative»,121 il sistema di uccisione di Auschwitz poté essere descritto dal dottor B. come «perfetto».
Nel corso del processo di perfezionamento la tecnologia stessa venne sempre più a dominare il campo di attenzione di coloro che davano attuazione pratica al genocidio. Così i nazisti poterono raggiungere un livello di efficienza di funzionamento in cui (di nuovo per usare un’espressione del dottor B.) «l’etica non svolgeva alcuna parte: la parola non esiste». La tecnologia aiuta a creare un mondo ermetico in cui ognuno è motivato a contribuire a far «funzionare» le cose. E tale preoccupazione assume un senso di quotidianità, di normalità.
Albert Speer scrisse di avere «sfruttato il fenomeno della devozione spesso cieca del tecnico al suo compito... Queste persone non avevano... alcuno scrupolo circa le loro attività». Speer vide in se stesso il massimo rappresentante di una tecnocrazia che aveva usato senza alcun rimorso tutta la sua conoscenza in un attacco all’umanità.122 Benché Speer tentasse in qualche misura di nascondersi dietro la tecnologia nel minimizzare la propria passione ideologica, sottolineò correttamente il successo dei nazisti nel tradurre le proprie azioni più omicide in problemi tecnici. L’espressione «modernismo reazionario» è appropriata per designare la combinazione propria del regime della tecnocrazia con visioni e strutture premoderne.n La parte «reazionaria» della psiche del regime era antitecnologica; e proprio tale contraddizione nei confronti della tecnologia e del modernismo – che non è tanto una contraddizione quanto l’ambivalenza più estrema – è probabilmente un aspetto caratteristico dei regimi genocidi.
La ricerca razionalizzata di una «Soluzione finale della questione ebraica» implicava l’idea di risolvere un problema nel modo più definitivo o «finale». Da cima a fondo, la parte di ogni esecutore nella soluzione del problema può essere quindi considerata essenzialmente tecnica. E questa impostazione può essere insidiosa, giacché la tecnologia non richiede il livello concettuale del pensiero scientifico ma tende invece a creare un centro di interesse sulla funzione e sul suo mantenimento. Le persone strettamente connesse a questo compito – specialmente quando lo abbracciano per evitare di percepirsi come uccisori – è probabile che si modellino su di esso. Di più, la creazione stessa della tecnologia dell’eccidio è resa possibile da quelle stesse «manette» (espressone della disposizione mentale tecnologica)o che vengono trasmesse sempre più dalla moderna società industriale. In quanto funziona – o finché funziona –, la tecnologia può essere percepita prontamente come parte dell’ordine naturale delle cose, un aspetto della natura.
La presa di distanza e l’alterazione della disposizione di spirito morale conseguenti all’uso della tecnologia furono illustrate in modo illuminante dalla correlazione sorprendente fra atteggiamento e quota di volo riscontrata nei piloti ed equipaggi americani di aerei militari nel Vietnam e in Cambogia. I piloti e gli equipaggi dei B-52, che sganciavano le bombe da quote così alte da non vedere nulla delle loro vittime, tendevano a parlare esclusivamente di abilità professionale e di prestazione; coloro che volavano su cacciabombardieri avevano di tanto in tanto la possibilità di vedere la gente al suolo e tendevano ad avere almeno una lieve inclinazione a spiegare o a giustificare quel che facevano; i piloti e gli equipaggi degli elicotteri da combattimento vedevano invece tutto e potevano sperimentare la paura, l’orrore, i dubbi e il senso di colpa sentiti dai militari che combattevano al suolo.125
Questo beneficio psicologico per coloro che mettono direttamente in atto le uccisioni è ciò che rende l’alta tecnologia della distruzione compatibile col genocidio. Questo progresso è terrificante se lo si considera in connessione con i moderni arsenali di armi nucleari. I costanti antagonismi ideologici fra Stati Uniti e Unione Sovietica sono accompagnati dall’adozione di armi nucleari, e addirittura dal culto delle stesse, da parte delle due superpotenze, che vedono in esse fonti supreme di «sicurezza» e di «potere» a sostegno della vita. Questo tipo di «nuclearismo»126 combina un tecnicismo moralmente cieco con una genuflessione reverente dinanzi a soggetti onnipotenti in grado di fare ciò che in passato poteva fare solo Dio: distruggere il mondo.
Non sorprende, quindi, che oggi gli americani amino fare giochi di guerra con fucili o armi automatiche individuali; o unirsi a gruppi di survivalist che comprano terreni in località isolate, si allenano regolarmente al tiro al bersaglio e accumulano cibi in scatola per essere pronti nell’eventualità dell’olocausto nucleare. Qui opera una nostalgia profonda e violenta per i giorni in cui un uomo aveva bisogno di padroneggiare solo la tecnologia più semplice per proteggere se stesso e la propria famiglia, in contrapposizione al genocidio tecnologico che incombe su tutti noi.127
Una delle ragioni per cui i fautori del genocidio riescono ad arruolare molte persone per mettere in atto il loro progetto consiste nel fatto che «la fede nel ruolo decisivo della tecnica è... passata dai filosofi alla cultura più generale».128 In connessione con l’evoluzione di idee naziste, Theweleit ha parlato del «fascino della macchina» nel suggerire che si potrebbe «vivere... senza avere alcun sentimento», trasformando il proprio corpo in una «forma d’acciaio». Proprio quella «forma d’acciaio» consente di uccidere con indifferenza, senza provare dolore.129
La burocrazia rende possibile l’intera sequenza del genocidio: organizzazione, persistenza della funzione, acquisizione di un atteggiamento di distacco, ottundimento emotivo e sdoppiamento del sé.
La burocrazia contribuisce a rendere irreale il genocidio. Essa diluisce ancor più l’impatto di eventi omicidi che, già di per sé, sono difficili da credersi. In questo senso possiamo dire che la burocrazia deamplifica il genocidio: essa attenua i toni emotivi e intellettuali associati all’uccisione, primariamente per gli esecutori, ma anche per gli assistenti e le vittime. Nel processo ha una funzione centrale lo smorzamento del linguaggio, l’uso non solo di eufemismi («reinsediamento» o «deportazione» invece di uccisione) ma anche di certi termini in codice (per esempio, «trattamento speciale»), che sono abbastanza specifici nel designare atti omicidi da mantenere l’efficienza burocratica, al punto da dar loro una speciale priorità, contribuendo al tempo stesso a creare l’impressione che non si stiano affatto uccidendo delle persone bensì che si stia facendo qualcosa di benigno. Questa deamplificazione del linguaggio – con l’ottundimento emotivo, la negazione e la perdita di coscienza che a essa si accompagnano – può estendersi sino al punto di conseguire un relativo silenzio, mantenendo in tal modo quel miscuglio di segreto e di conoscenza solo parziali che è probabile circondino il genocidio.
Max Weber, pur riconoscendo la necessità delle burocrazie, si rese acutamente conto del pericolo che rappresentavano, specialmente per lo spirito. Egli paragonò la burocrazia alla «macchina senz’anima» di una «mente oggettificata» e vide il fenomeno dell’organizzazione burocratica «attivamente impegnata a fabbricare il guscio di schiavitù all’interno del quale gli uomini saranno forse costretti a vivere un giorno, impotenti quanto i fellah dell’antico Egitto».130 Il progetto nazista di genocidio dimostrò che la struttura umana poteva essere resa relativamente «senz’anima» e simile a una «macchina», e che la mente degli assassini burocratici poteva essere «oggettificata» quanto bastava per far sì che l’uccisione venisse raramente sperimentata in termini umani, nella forma di esseri viventi che uccidevano altri esseri viventi. Una parte importante della funzione burocratica consiste nell’isolare gli assassini da influenze esterne, così che preoccupazioni intraburocratiche diventino l’intero universo del discorso. Quel che può risultarne è stato chiamato un «pensiero di gruppo», un processo per mezzo del quale delle burocrazie possono prendere decisioni che risulteranno disastrose per tutte le persone interessate e, considerate retrospettivamente, del tutto inappropriate e irrazionali. Irving Janis attribuisce un «pensiero di gruppo» al bisogno collettivo di coesione e di unità e al desiderio di evitare il tipo di conflitto che è generato dall’esistenza di voci di dissenso.131 Quando per il gruppo interessato è una burocrazia genocida, c’è un forte impulso, sia dall’esterno sia dall’interno, a creare barriere assolute di pensiero e di sentimento fra sé e il mondo esterno. Solo in tal caso si possono mantenere le strane assunzioni di virtù all’interno del gruppo: ideologiche («Stiamo facendo questo per la rivitalizzazione del nostro popolo»), tecniche («Ciò che è più efficiente è meglio per tutti») e terapeutiche («Noi stiamo risanando la nostra razza e stiamo procedendo il più umanamente possibile»).
La burocrazia del genocidio contribuisce anche ai sentimenti collettivi di inevitabilità. La complessità dell’organizzazione burocratica trasmette un senso dell’inesorabile: che si può continuare tranquillamente (come esecutori o come vittime) perché tanto non ci si può far nulla. La struttura e funzione della burocrazia – l’attuazione del genocidio – diventano in sé la giustificazione razionale, poiché la chiarezza della connessione di causa ed effetto cede il posto a un senso non solo di inevitabilità ma anche di necessità.
Per mettere in atto il genocidio si possono arruolare anche troppo facilmente burocrazie ausiliari, come nel caso dell’organizzazione delle ferrovie tedesche per trasportare gli ebrei nei campi della morte, le quali si assunsero il nuovo compito attenendosi rigorosamente alla loro routine burocratica consueta (vedi p. 606).132
In certe circostanze anche le burocrazie delle vittime possono essere costrette a partecipare alla propria immolazione (come, per esempio, nel caso degli Judenräte [consigli ebraici], o di quei medici prigionieri che collaborarono strettamente con i nazisti [vedi cap. XIII]). La deamplificazione burocratica da parte dei carnefici può contribuire a tale partecipazione delle vittime, e alla loro presa di distanza e resistenza alla verità sull’eccidio di massa dei loro simili. (Di qui l’incapacità di molti ebrei, in Germania e in Europa, di riconoscere il pericolo cui erano esposti e la relativa inattività della maggior parte degli ebrei americani nonostante le prove crescenti del genocidio degli ebrei in Europa.)
La combinazione di un relativo silenzio e del grande raggio d’azione della burocrazia mise quest’ultima nella posizione migliore per pianificare i particolari del genocidio. Un tale coinvolgimento originario nella pianificazione contribuisce a sua volta alla normalizzazione, da parte della burocrazia, di un universo genocida.133 L’eccidio di massa è dappertutto, ma nello stesso tempo (attraverso gli sforzi della burocrazia) non è in nessun luogo. Nella realtà ci si viene a trovare di fronte solo a un corso di eventi a cui la maggior parte delle persone nell’ambiente (come il dottor B. disse dei medici di Auschwitz) vengono a dire sì. Dire no significherebbe portare la persona fuori da tale corso, fuori dalla normale esistenza sociale, fuori dalla realtà. Si cerca invece il percorso più «umano» all’interno del progetto in corso.
Eppure è un errore parlare di burocrazia come di un’organizzazione «monolitica» e «senza volto». Ci sono delle facce ben precise, anche se nascoste e fuse in una massa. E l’apparente monolito può abbracciare posizioni divergenti e contrastanti. Questi conflitti fanno parte della dinamica di qualsiasi burocrazia, persino in una situazione totalitaria. Le persone presentano differenze considerevoli nel contributo che danno al funzionamento di una burocrazia, e le burocrazie stesse variano nel loro rapporto verso i regimi politici. Le burocrazie possono dare origine a iniziative per attuare il genocidio, persino a livelli relativamente bassi (come abbiamo visto nel caso dei burocrati nazisti, compresi i medici). È probabile che una tale iniziativa rifletta l’acuto senso che un individuo o un gruppo ha di ciò che i capi del regime desiderano, desiderio su cui le burocrazie, almeno quelle totalitarie, sono esattamente sintonizzate.
L’attività burocratica contribuisce successivamente anche alla copertura del genocidio, non solo smorzando le reazioni dei singoli individui, ma anche servendo a occultare i singoli esecutori. Il tentativo dei medici tedeschi di sopprimere la verità del loro profondo coinvolgimento nel genocidio nazista è un esempio pertinente, anche se in definitiva quel tentativo fallì; ci furono casi analoghi anche nel caso del genocidio degli armeni.
La burocrazia, quindi, fa molto per trasformare la rete dell’eccidio in una macchina e per deamplificare il processo dell’uccisione per tutte le persone che vi hanno parte: l’esperienza di uccidere per gli esecutori e la realtà dell’uccisione per gli spettatori e per le vittime potenziali. Ma la deamplificazione e l’occultamento della realtà per opera della burocrazia non vanno scambiati per assenza di responsabilità.
Nessun sé individuale è intrinsecamente cattivo, omicida, genocida. Eppure, in certe condizioni, ogni sé è virtualmente capace di diventare tutte queste cose. Un sé non è una cosa o una persona, ma una rappresentazione o simbolizzazione globale di un singolo organismo, qual è sperimentato da una particolare persona e (in modi connessi, ma per nulla identici) da altre persone.134p Per sottolineare i suoi aspetti di attività, movimento e mutamento, possiamo parlare di «processo del sé».
Un estremo ottundimento emotivo può condurre, come abbiamo visto, a un processo del sé amorale; e ottundimento e sdoppiamento possono produrre un processo del sé malvagio, nel quale il sé perde talvolta la capacità di distinguere fra bene e male. Eppure il processo del sé malvagio può comprendere lotte di coscienza in grado di spingere una persona nella direzione dell’eccidio di massa fondato su princìpi. Quando il principio a cui ci si richiama assume un tono fortemente terapeutico, proprio allora il processo del sé può muovere facilmente verso il genocidio.
La capacità del sé di adottare un tale corso di azione è sempre influenzata da correnti ideologiche presenti nell’ambiente. Di nuovo, nei termini di processo del sé, la sequenza da medico comune a medico nazista a medico comune suggerisce il potere straordinario di un ambiente di emettere un «appello» al genocidio. Tutto ciò che si è detto qui sulla risposta del sé a tale appello dipende in modo importante da strutture di idee di natura collettiva, da una forma mentale condivisa piuttosto che da un sé isolato.
Eppure le diverse persone hanno una diversa disponibilità a un comportamento amorale o malvagio. Il comportamento dei tedeschi sotto il nazismo ha ispirato studi della «personalità autoritaria».136 Io stesso ho suggerito l’importanza, ai fini del genocidio, di certi caratteri del processo del sé nella cultura tedesca: tendenze al senso di colpa e all’autocondanna; tendenze a divisioni interne della «condizione lacerata» come inclinazioni allo sdoppiamento e a un comportamento di tipo faustiano; tendenze verso impegni del tipo tutto o nulla o verso un totalitarismo ideologico; e tendenze verso una fame di immortalità ossessionata dalla morte. I tedeschi non hanno però un monopolio in nessuno di questi tratti o in processi del sé malvagi propri del sé potenzialmente genocida. È sufficiente, per rendersene conto, considerare la situazione in cui giovani americani idealisti, che lavoravano in un ospedale come coscienziosi obiettori di coscienza alla guerra e alla violenza, giunsero al punto di «aiutare a uccidere»137 pazienti mentali deteriorati. Benché il loro comportamento non possa certo essere considerato genocida, queste persone dalla sensibilità etica notevolmente sviluppata furono indotte dal loro ambiente a cooperare a uccisioni.
Una superstite di Auschwitz si spinse ancor oltre: vedendo in televisione Eichmann e il pubblico ministero israeliano assieme durante il processo, ebbe la sgradevole sensazione che i due uomini «avessero qualcosa di simile... [nel] loro aspetto». E pur «rimproverando» se stessa per questa sensazione e pur essendone «molto scandalizzata», non riuscì a liberarsene. Essa aveva una chiara consapevolezza delle colpe di Eichmann, e non aveva alcuna particolare critica da rivolgere al suo accusatore. Piuttosto, la sua sgradevole percezione di un’apparente somiglianza rifletteva la sua lotta interiore con l’idea che anche altre persone, il suo proprio popolo e, in certe situazioni, anche lei stessa potevano essere capaci di un comportamento malvagio.
È probabile che il movimento del sé verso il genocidio sia sospinto da un forte senso di una missione di sopravvivenza, che può comprendere un bisogno terapeutico a sé. Durante la guerra si vive un’immersione reale o simbolica nella morte o un trauma spirituale collettivo (o entrambe le cose nel caso dei tedeschi nella Prima guerra mondiale); ci si impegna in una ricerca disperata di significato e di rivitalizzazione; soprattutto, si cerca di liberarsi, con una terapia di psicologia individuale, dalle immagini di morte da cui si è travagliati. Un problema psicologico decisivo è in quale misura si possa vedere la propria terapia nella totale eliminazione del gruppo a cui si attribuisce la perpetuazione dell’afflizione o della malattia. In ogni caso, il sé genocida è spinto dalla propria lotta contro la disintegrazione; in effetti la rabbia contro le vittime può derivare in parte da uno spostamento di quest’equivalente di morte, dalla rabbia per il proprio timore di disintegrazione. La rabbia può anche creare, nell’uccisore, una presa di distanza psicologica dall’atto di infliggere la morte.
L’ideologia fascista può avere una particolare attrattiva per la lotta del sé del sopravvissuto contro la disintegrazione perché offre, a tutti i livelli, una promessa di unità, di fusione. Essa si occupa inoltre della paura della morte glorificando la morte, e persino venerandola. Mentre la propria morte come guerriero viene idealizzata, il sé sfugge per lo più alla morte – riesce a uccidere la morte – uccidendo altri. A questa situazione può conseguire facilmente un circolo vizioso in cui si uccide, in cui si ha bisogno di continuare a uccidere per mantenere la propria terapia, e si cerca un processo continuo di sopravvivenza omicida, immortale, terapeutica. Si può allora raggiungere lo stato di richiedere un senso di perpetua sopravvivenza attraverso l’uccisione di altri, al fine di tornare a sperimentare senza fine quello che Elias Canetti ha chiamato il «momento del potere»,138 ossia il momento della terapia.
Al di là dell’esperienza nazista o turca, certi caratteri del sé contemporaneo e della sua esperienza di lacerazione storica potrebbero renderlo particolarmente vulnerabile a questa direzione del genocidio. Ho in mente per esempio un’acuta fame di significato dovuta alla perdita di punti di riferimento simbolici, alla confusione sulle infinite immagini di possibilità a cui si è esposti, unitamente alle lotte intensificate con la paura della morte, connesse alle immagini di annientamento o persino di estinzione suscitate dalle armi nucleari. Da questa situazione possono scaturire oscillazioni fra lo stile proteiforme (ripetute modificazioni nei coinvolgimenti e nelle credenze del sé) e lo stile compresso (restringimento compensativo dei coinvolgimenti del sé e ricerca di una singola via alla verità).139 Questa lotta compensativa contro l’esperimento proteiforme può assumere la forma di varie sorte di purificazione sociale e può condurre a una sequenza collettiva dallo sconvolgimento al totalitarismo alla persecuzione al genocidio.
Ci sono altre possibilità. Date talune condizioni ambientali in grado di potenziare la vita, il sé può evitare lo sdoppiamento della direzione genocida e muovere invece verso princìpi di integrità. Il nostro modello qui può essere quello che io chiamo il «sé incarnato»: un sé comprendente una misura di unità e di consapevolezza del corpo e della persona in relazione a se stesso e agli altri. La percezione che il neonato ha del proprio corpo è cruciale per l’inizio dello sviluppo di un senso del sé, e noi possiamo parlare di una sequenza nella consapevolezza dal corpo all’organismo alla persona nello sviluppo del concetto dell’«Io». Con la susseguente simbolizzazione, nel corso dell’infanzia e dell’età adulta, princìpi intellettuali ed etici si combinano con immagini del corpo e della persona. Lungo questa via ci sono vari trabocchetti, nella forma di tipi di dissociazione e di sdoppiamento che conducono a un «sé disincarnato», in cui questi vari elementi non hanno più coesione fra loro. La nostra comprensione del sé incarnato comprende un processo simbolico o formativo continuo, con la costante creazione o ricreazione di immagini e di forme; una consapevolezza di progetti sociali e storici maggiori attorno a sé; e una capacità di far fronte all’idea della propria morte come collegata ai più ampi princìpi della continuità della vita o di un’interconnessione umana più vasta. Un senso del proprio sé incarnato ci consente di dire, con William Barrett: «Noi siamo sempre più di qualsiasi macchina che possiamo costruire».140
Vale la pena di sottolineare che il problema non è mai semplicemente, o neppure primariamente, un problema di psicologia individuale. Correnti collettive o spingono un gran numero di persone nella direzione della dissociazione e della disincarnazione o, per contrasto, incoraggiano o addirittura nutrono il sé incarnato, più integrato. Gli individui presentano nondimeno differenze in grado di quella che io chiamo incarnazione, e perciò nella capacità di evitare le forme distruttive di sdoppiamento associate alla persecuzione e al genocidio.
La profilassi contro le direzioni genocide del sé deve perciò comprendere sempre un esame critico delle ideologie e delle istituzioni nella loro interazione con stili di processo del sé. Abbiamo visto che ciò vale in modo speciale per certi professionisti. Per esempio, il medico con un forte senso del sé incarnato ha una maggiore probabilità di rimanere fedele ai princìpi universali della terapia di contro alle pressioni ideologiche che vorrebbero fargli assumere un atteggiamento contrario. Egli sarebbe meno soggetto di quanto non siano stati la maggior parte dei medici nazisti ad assumere o un’identità professionale tecnicizzata («Io sono un terapeuta di professione e nient’altro e non sono in alcun modo responsabile per Auschwitz; perciò continuo a procedere per la mia strada e quando mi è possibile guarisco dei malati») o un’identità professionale ideologizzata («Come medico del Volk e come cultore di geni, la mia partecipazione alle uccisioni è al servizio della guarigione della razza nordica»). Se però le pressioni distruttive, ideologiche e comportamentali sono abbastanza grandi, praticamente ogni sé professionale può avviarsi nella direzione del genocidio.
Il professionista riesce a prepararsi a tali esigenze mantenendo un equilibrio fra quelli che io chiamo sostegno e distacco, chiaro impegno etico e abilità tecnica. La «vocazione» di un medico dovrebbe comprendere un impegno, in ogni condizione, ai princìpi ippocratici della guarigione. Il sé incarnato esige sia una costante consapevolezza critica di progetti maggiori che richiedono obbedienza sia un’empatia ugualmente pervasiva, un sentimento di solidarietà verso tutti gli altri esseri umani.
a. Anche George Kren e altri rilevano l’inadeguatezza del pensiero freudiano classico per affrontare il problema dell’Olocausto e guardano provvisoriamente, per una teoria più pertinente, a Jung e a Wilhelm Reich. Israel W. Charny suggerisce l’utilità dell’opera giovanile di Rank, in connessione con la quale cita Ernest Becker e me stesso.5
b. Qui seguo un principio tradizionale di una trinità di influenze che incidono su ogni forma di comportamento collettivo: universali psicobiologici (un universale è qualcosa di comune a tutti i popoli in tutte le culture e in tutte le epoche); l’enfasi culturale (ciò a cui viene data un’espressione particolarmente intensa nel corso di una lunga esperienza culturale); e forze storiche recenti (quelle correnti di un periodo storico specifico, identificabile, che agiscono sulle altre due parti della trinità). In questo caso l’universale psicobiologico sarebbe suscettibile di immagini di morte in risposta a menomazioni a livelli della funzione psicologica sia vicini sia lontani; le forze storiche culturali sarebbero la «condizione lacerata» perennemente del sé tedesco; e le forze storiche pertinenti sarebbero la rapida industrializzazione e modernizzazione dell’ultima parte dell’Ottocento e l’immersione nella morte e nella disillusione che seguì alla Prima guerra mondiale.
c. La frase originaria di Johst era: «Quando sento la parola cultura, tolgo la sicura alla mia rivoltella».27
d. Il sociologo conservatore Georg Weippert lodò il principio della «totalità del potere» e di «un solo capo» nel compito «onnicomprensivo» di conseguire un Reich come «missione della Germania in questo mondo».31
e. Speer disse che Hitler aveva due modi di parlare distinti: uno semplice, capace di suscitare forti emozioni in un pubblico comune; e un’«analisi storica» più accurata, ma non meno «eccitante», per le persone istruite.
f. Ball stava attaccando il materialismo e la macchina e dichiarò che «credere nella materia è credere nella morte».45
g. La citazione è tratta da Mein Kampf. Eberhard Jäckel sottolinea che, in edizioni posteriori, l’espressione fu «opportunamente» modificata in «milioni di anni fa».49 Questo fatto suggerisce che Hitler, o i redattori che avevano simpatia per le sue idee, credevano abbastanza nel concetto da volerlo presentare nella sua forma più «ragionevole».
h. La frase precedente di Hitler dice (il corsivo è suo): «Se il potere di combattere per la propria salute (egli aveva parlato prima di “degenerazione” prodotta dalla prostituzione e dalla sifilide) non esiste più, finisce la competizione per la vita in questo mondo di lotta».67
i. L’espressione «materialismo medico», usata in origine da William James, è stata sviluppata nel modo da me usato qui da Mary Douglas. Norman O. Brown, nel corso di una conversazione personale, mi disse di un maestro di scuola in un istituto di preti che fece colpo sui suoi allievi dicendo che Mosè era un «ufficiale sanitario». L’insegnante si considerava un «modernista» e ricollegava costantemente fatti narrati nella Bibbia con princìpi scientifici.
j. Qui il riferimento è al Paracelso di Richard Billinger, quale fu presentato nel dramma omonimo messo in scena al Festival di Salisburgo nel 1943. Erwin Guido Kolbenheyer aveva scritto negli anni 1925-1926 un’influente trilogia su Paracelso che fu ripresa dai nazisti; in essa Paracelso cerca virtualmente di eliminare la storia sostituendola con una forma divina di natura.80
k. Nietzsche non ebbe nulla a che fare con l’«ideologia tedesca» incentrata sulla nazione e sulla razza, che rimase a lungo preminente nella vita intellettuale tedesca e che fu specificamente importante per lo sviluppo dell’ideologia nazista. Visionari culturali indipendenti di grande rilievo, come Nietzsche, che abbiano invocato metaforicamente l’uccisione come terapia sono probabilmente necessari perché movimenti impegnati nell’attuazione di programmi genocidi possano legittimare la loro applicazione letterale del principio dell’uccisione in nome del risanamento.
l. Eppure coloro che perpetrano il genocidio potrebbero assumere essi stessi caratteri proteiformi, mentre sperimentano con una manipolazione e violenza senza fine sull’uomo.
m. Il libro di Weininger Geschlecht und Charakter (Sesso e carattere), edito nel 1903, sarebbe stato ammirato da Hitler per la sua polarità di attributi positivi ariani e di disumanità ebraica.116
n. L’espressione è di Jeffrey Herf. Egli vede in Ernst Jünger (vedi p. 182) un precursore-chiave del modernismo reazionario, e attinge allo studio di Klaus Theweleit sulla fantasia fascista maschile per identificare in Jünger il prototipo di «uomo marziale» che ha bisogno di dicotomie come uomo-donna, diga-fiume, purezza-sporcizia, altezza-bassezza per conseguire il dominio sul femminino sia in lui sia fuori di lui.123
Portare testimonianza
La storia non è finita, non è neppure ancora diventata storia, e la vita segreta che essa contiene può erompere domani in te o in me.
Gershom Scholem
Nel completare questo libro sono colmo di molti sentimenti diversi: sollievo all’idea che i medici nazisti abbiano finito di frequentare questo mio studio, senso di disagio per la consapevolezza dei limiti del mio lavoro, di rabbia verso gli assassini nazisti e verso i medici nazisti in particolare, e una certa soddisfazione per essere giunto al termine della mia fatica. La mia mente corre avanti e indietro fra le stanze in cui ho conversato con medici nazisti e immagini di ebrei in fila per le selezioni ad Auschwitz e di malati di mente gassati nei centri della morte. Fin dal principio sono stato in guardia contro il rischio di permettere che tali conversazioni lasciassero fuori le vittime.
Eppure è stato proprio nelle stanze in cui ho intervistato i medici nazisti che ho compiuto gran parte della mia ricerca, e in un modo che mi imponeva di considerare i responsabili medici dell’eccidio, quale che sia stato il loro rapporto con il male, come esseri umani e nient’altro. Questo compito mi imponeva una forma di empatia verso i medici nazisti: dovetti immaginare me stesso calato nella loro situazione, non per giustificarli ma per tentare di conseguire una conoscenza della suscettibilità umana al male. La logica della mia posizione era abbastanza chiara: soltanto una qualche misura di empatia, pur con tutte le riserve del caso, poteva permettere di comprendere le componenti psicologiche del male anti-empatico in cui molti di tali medici nazisti si erano impegnati.
Ma quale che fosse tale logica, sembrava una cosa strana e scomoda nutrire un’empatia per quanto piccola (e persino con una piena consapevolezza della distinzione fra empatia e simpatia) per i partecipanti a un progetto tanto criminoso, e diretto specificamente contro il mio popolo, contro di me. Se non riuscii mai a risolvere perfettamente questo problema, ne venni però a capo prendendo coscienza del fatto che la mia empatia doveva servire a una presentazione critica delle azioni e delle esperienze psicologiche di quei medici. A volte ci si cala nella situazione di un’altra persona non per aiutarla, ma per descriverne e valutarne motivazioni e comportamento.
Persino allora non si fa altro che istituire un contatto umano, evitando quella che Erik Erikson ha chiamato «pseudospeciazione», ossia il vedere altri esseri umani come appartenenti a una specie diversa.1 Un commentatore che aveva simpatia per la mia impresa suggerì che si sarebbe potuto evitare nel modo migliore di cadere nella pseudospeciazione con i medici nazisti «insistendo nel separare la persona fallibile dal male delle sue azioni, conservando la nostra identificazione con l’una e condannando al tempo stesso le altre». Egli vide in questo atteggiamento una corrispondenza psicologica col detto di Gesù: «Ama i tuoi nemici». Pur trovando toccante questo suggerimento, mi parve però che esso non cogliesse del tutto il mio senso della situazione. Una volta, infatti, che un individuo compie una cattiva azione, diventa parte di quel male, e il male diventa parte di lui. Quell’azione o quelle azioni hanno richiesto probabilmente un certo sdoppiamento, con la formazione di un sé malvagio. E benché si debba riconoscere che noi tutti siamo esseri umani fallibili, potenzialmente capaci di tali azioni malvagie, dobbiamo sottolineare anche la distinzione esistente fra male potenziale e male reale.
Il senso aveva senza dubbio a che fare con la mia incertezza circa l’atteggiamento morale appropriato da tenere e forse anche col timore di poter essere contagiato. Ovviamente stavo prendendo contatto anche con aspetti molto più comuni, aspetti anche troppo umani di questi medici. Qualunque soddisfazione potesse venirmi da quel contatto, essa era molto ridotta dall’assenza virtualmente completa in loro di un confronto morale, di un riconoscimento dei loro momenti di male o addirittura della misura in cui erano stati parte di un progetto malvagio. Benché tale distacco morale non mi impedisse di apprendere molto sulle loro motivazioni psicologiche, esso limitava grandemente ogni possibilità di quello che potrebbe essere chiamato un incontro umano genuino. Esso riduceva anche «la risonanza affettiva» fra di noi, e perciò la mia empatia per loro, giacché l’empatia è dopo tutto un processo a doppio senso.
Dal mio lato si pose il problema dei limiti, di empatia e di tempo, in cui dovevo mantenere la comunicazione con un medico per dividere le sue esperienze nel suo mondo nazista. Il mio comportamento psicologico consistette nel modificare il mio senso del sé quanto bastava per immaginare il suo atteggiamento in relazione agli eventi che mi veniva descrivendo; al tempo stesso, si trattava per me di eseguire altre due manovre: portare all’interno del quadro le vittime, e mantenermi fedele a un contesto etico dipendente dal mio senso del sé. Questo atteggiamento è in accordo con la concezione attuale dell’empatia, la quale «non va equiparata all’identificazione, ma anzi è in un certo senso in contrasto con essa..., [poiché] noi entriamo in empatia con ciò che la persona sta cercando di comunicarci, non con la persona o con la sua condotta». L’empatia ha un aspetto cognitivo importante e può essere intesa, nel modo più semplice, come un «venire a conoscere». Lo stesso osservatore, Michael Basch, scrive anche che «l’empatia implica la risonanza con l’emotività inconscia dell’altro e il rivivere la sua esperienza, mantenendo però intatta l’integrità del proprio sé».2 Io venni a vedere in questa tensione concernente l’empatia la chiave del mio approccio, e forse dello studio in generale.
Tutta l’empatia a cui riuscii a fare appello fu messa al servizio di qualcos’altro: ossia l’impulso a portare testimonianza. Benché io non possa far valere le prerogative di un vero sopravvissuto, un tale impulso prende forma rapidamente in chiunque studi con impegno l’eccidio di massa perpetrato dai nazisti. Il mio tipo di testimonianza fu una testimonianza psicologica e morale, intrecciata a un forte interesse per questioni concernenti il futuro dell’umanità.
Anche la forma della mia testimonianza è insolita, nel senso che essa concerne gli aguzzini e deriva in gran parte dalle loro parole, e nondimeno differisce radicalmente dalla testimonianza che la maggior parte di loro intese rendere attraverso di me. Ciò che mi diede la possibilità di portare una testimonianza diversa furono i contributi di vittime e sopravvissuti. I medici prigionieri sopravvissuti, attraverso le osservazioni e la prospettiva da loro forniti, diedero un sostegno al mio proprio senso del sé e al mio modo di portare testimonianza.
Quel che io ho tentato di descrivere è stata una particolare sequenza di azioni umane implicate in una particolare forma di eccidio di massa e di genocidio: quella dell’uccisione sotto l’egida della medicina. La mia testimonianza concerne il fatto che dei medici uccisero e che lo fecero nel nome della medicina, e comprende domande circa il come e il perché.
Ma la mia testimonianza non si esaurisce nello studio dei nazisti. Io desidero estrarre da ciò che essi fecero tutto ciò che può essere a noi psicologicamente utile conoscere oggi. I medici nazisti si sdoppiarono in modi omicidi; ma quello stesso meccanismo può operare in altre circostanze e in altre persone. Lo sdoppiamento fornisce un principio di connessione fra il comportamento omicida dei medici nazisti e il potenziale universale di un tale comportamento. Lo stesso vale per la capacità di uccidere senza fine nel nome del risanamento nazional-razziale. In certe condizioni quasi tutti – con ben poche eccezioni – potrebbero rispondere a un appello collettivo di eliminare fino all’ultimo i membri di un presunto gruppo di portatori del «germe della morte».
Non voglio certo concludere da questa premessa che «noi tutti siamo nazisti». Noi non siamo tutti nazisti. Una tale accusa elimina proprio quel tipo di distinzione morale che abbiamo bisogno di fare. Una di queste distinzioni concerne il modo in cui, pur col nostro potenziale universale per l’omicidio e per il genocidio, noi ci asteniamo per lo più da un tale male. Una terapeuta sensibile, costernata nello scoprire i suoi impulsi a schiaffeggiare una paziente che era diventata turbolenta, mi scrisse su questo «problema della nostra umanità quotidiana». Ma noi impariamo dai nazisti non solo la distinzione cruciale fra impulso e atto, bensì anche l’importanza critica di grandi correnti ideologiche nel connettere impulsi e atti in modi che sfocino nell’eccidio di massa. Quelle connessioni e i modi in cui si passa dalle idee agli atti sono la mia testimonianza: non la condanna morale indifferenziata di tutti.
C’è però anche un’ulteriore testimonianza che io non posso evitare di dare: l’incidenza di questo studio per la tecnologia nucleare del genocidio che incombe oggi su tutti noi. L’Olocausto che abbiamo esaminato può aiutarci a evitare il prossimo. Noi abbiamo bisogno di considerare solo il pericolo di un possibile trasferimento alla minaccia delle armi nucleari non soltanto dello sdoppiamento individuale ma anche di tutti questi princìpi del genocidio: il timore del «germe della morte», di una malattia contagiosa (il comunismo sovietico o il capitalismo americano) che minaccia la vita del gruppo (gli Stati Uniti o l’Unione Sovietica); una promessa di una cura rivitalizzante attraverso una visione assolutizzata (di virtù americana e di male sovietico, o viceversa) che giustifichi il fatto di «ammazzarli tutti fino all’ultimo» ed escluda la dimensione suicida di tale visione; la mobilitazione di rivendicazioni di altruismo spirituale e di verità scientifica, e di opportunità di trascendenza, mentre si preme per lo sterminio nel nome del risanamento; la designazione per questo compito di professionisti dell’omicidio e di uccisori professionali, assieme a una tecnologia sempre più perfezionata e a una complessa organizzazione burocratica che deamplifichino radicalmente le azioni genocide; e, infine, la creazione di un modello del sé genocida attraverso tipi collettivi di «nuclearismo» (accettazione di queste armi per l’attrazione che esercitano il loro potere supremo e la loro alta tecnologia) e visioni di purificazione idealistica e di sacrificio supremo estesi persino alla lusinga di Armagedon.
Tutto questo dovrà accadere inevitabilmente? Una parte è già accaduta, ma il resto non deve accadere necessariamente. Ogni testimone ci mette in guardia contro il pericolo di una qualche forma di ripetizione di ciò che si è osservato, per incoraggiare tutto ciò che può impedire una tale ripetizione. Si ascolta quello che Loren Eiseley chiamò «l’oscuro mormorio che sale dall’abisso sotto di noi, e che ci attrae con un fascino misterioso»,3 e ci si rende conto che il mormorio è il nostro, un bisbiglio di pericolo che dobbiamo udire prima che si trasformi in un grido di genocidio senza speranza.
Tutto questo fa parte, per me, del significato di questo studio, ma vorrei concludere con due immagini che continuano a riverberare dentro di me.
La prima riguarda Auschwitz. Io mi recai al campo alcuni anni fa e mi furono mostrati i molti oggetti che vi vengono conservati, oggetti che non lasciano nulla da aggiungere, nella loro spietata eloquenza, sul male che degli esseri umani possono fare ad altri esseri umani. Ma l’immagine che mi colpì più profondamente fu quella più semplice: una stanza piena di scarpe, per lo più di neonati.
La seconda immagine deriva da una conversazione che ebbi con un medico ebreo sopravvissuto alla detenzione ad Auschwitz, il quale mi raccontò la sua storia e divenne mio amico. Egli mi descrisse come, a un certo punto, egli e alcuni altri medici prigionieri furono travolti da una marea di pazienti moribondi, mentre altre persone sofferenti chiedevano il loro aiuto. Essi fecero tutto ciò che era nelle loro possibilità, dispensarono le poche aspirine che avevano, ma non mancarono mai di offrire qualche parola di rassicurazione e di speranza. Egli scoprì, quasi con sorpresa, che le sue parole avevano un effetto, e che «in quella situazione erano realmente d’aiuto». E concluse che, tenendo fermo alla propria determinazione di cercare di curare, anche nelle condizioni più sfavorevoli, si rimaneva impressionati «dal molto che si poteva fare».
Anthology: International Auschwitz Committee, Anthology, 3 volumi, in 7 parti, Warsaw 1971-1972. Collezioni di articoli pubblicati in origine negli anni 1961-1967 nel periodico polacco «Przeglad Lekarski» (Rivista di Medicina).
BDC: Berlin Document Center (Centro documentazione di Berlino).
Hadamar Trial: The Hadamar Trial: Trial of Alfons Klein, Adolf Wahlmann, Heinrich Ruolf, Karl Willig, Adolf Merkle, Irmgard Huber, and Philipp Blum, a cura di Earl W. Kintner, William Hodge, London 1949.
Processo Heyde: Processo a Werner Heyde, Gerhard Bohne e Hans Hefelmann, Generalstaatsanwalt Frankfurt, Js 17/59 (GStA), 4 VU 3/61, Strafkammer des Landgerichts Limburg/Lahn.
JAMA: «Journal of the American Medical Association».
Mengele/Haifa: Wo ist Mengele?, Archivi Friedmann, Haifa.
Nuremberg Medical Case: Tribunali militari di Norimberga, United States of America v. Karl Brandt et al., Case I («The Medical Case»), 2 voll., Washington 1947, e le tra-scrizioni relative, National Archives, Washington.
Trascrizione Wolken: Originale tedesco di articoli di Otto Wolken nel Museo Statale Polacco di Auschwitz.
YVAG: Yad Vaschem Archive, Gerusalemme.
I numeri fra parentesi quadre rimandano alla nota, dello stesso capitolo, in cui vengono forniti gli estremi bibliografici completi dell’opera citata. Le date fra parentesi si riferiscono alla prima edizione.
1. Ippocrate, Opere, a cura di M. Vegetti, UTET, Torino 1965, pp. 393-394.
1. Hannah Arendt, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, Viking, New York 1963 (trad. it. di P. Bernardini, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964).
2. Otto Rank, Beyond Psychology, Dover, New York 1958 (1941).
3. Robert Jay Lifton, The Life of the Self: Toward a New Psychology, Basic Books, New York 1983 (1976); The Broken Connection: On Death and the Continuity of Life, Basic Books, New York 1983 (1979).
4. Vedi Lifton, Broken Connection [3], cap. I.
5. George L. Mosse, The Crisis of German Ideology: Intellectual Origins of the Third Reich, Grosset & Dunlap, New York 1964, p. 4 (trad. it. di F. Saba Sardi, Le origini culturali del terzo Reich, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 13).
6. Robert Jay Lifton, Revolutionary Immortality: Mao Tse-Tung and the Chinese Cultural Revolution, W.W. Norton, New York 1971 (1968).
7. Vedi Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, Quadrangle, Chicago 1967 (1961); Richard L. Rubenstein, The Cunning of History: Mass Death and the American Future, Harper & Row, New York 1975; Arendt, Eichmann [1]. Non ho potuto consultare pienamente l’edizione ampliata del libro di Hilberg, uscita da troppo poco tempo: The Destruction of the European Jews, 3 voll., ed. riveduta e definitiva, Holmes & Meier, New York 1985.
8. Hilberg, Destruction [7], p. 256.
9. Una versione edita, leggermente diversa, si trova in Ella Lingens-Reiner, Prisoners of Fear, Gollancz, London 1948, pp. 1-2.
10. Adolf Hitler, Mein Kampf, Houghton Mifflin, Boston 1943 (1925-1926), p. 435 (trad. it. del II vol. La mia battaglia, 16a ed., Bompiani, Milano 1941 [1934], p. 83).
11. Ibid., pp. 150, 300-308, 312-313 (trad. it. del I vol. La mia vita, 13a ed., Bompiani, Milano 1942). Per trattazioni accademiche delle metafore di Hitler (e di autori anteriori) per indicare gli ebrei, vedi Eberhard Jäckel, Hitler’s Weltanschauung: A Blueprint for Power, Wesleyan University Press, Middletown, Conn. 1972 (1969); Rudolph Binion, Hitler Among the Germans, Elsevier, New York 1976; Lucy S. Dawidowicz, The War Against the Jews, 1933-1945, Holt, Rinehart & Winston, New York 1975, pp. 19-21, 55-56; Uriel Tal, Christians and Jews in Germany: Religion, Politics and Ideology in the Second Reich, 1870-1914, Cornell University Press, Ithaca 1975, pp. 259-289.
12. Hans Buchheim, cit. in Helmut Krausnick, The Persecution of the Jews, in Krausnick et al., Anatomy of the SS State, Walker, New York 1968 (1965), p. 15.
13. Hilberg, Destruction [7], p. 12.
14. J.P. Stern, Hitler: The Führer and the People, Fontana/Collins, Glasgow 1971, p. 70. La celebrazione di quell’impulso religioso fu compendiata dalla gigantesca adunata di Norimberga del 1934, il cui tema, «Il trionfo della volontà» (Triumph des Willens), divenne il titolo del famoso film di Leni Riefenstahl. La Riefenstahl, in un’intervista a un mio assistente, disse che era stato lo stesso Hitler a fornire lo slogan.
15. Mosse, German Ideology [5], p. 103 (trad. it., p. 151).
16. Himmler, citato in Krausnick, Persecution [12], p. 14.
17. George L. Mosse, Toward the Final Solution: A History of European Racism, Fertig, New York 1978, p. 77.
18. Hitler, Mein Kampf [10], pp. 397-398 (trad. it. del II vol., La mia battaglia, 16a ed., Bompiani, Milano 1941 [1934], p. 36).
19. Nuremberg Medical Case, specialmente vol. I, pp. 8-17 (l’atto d’accusa) e 27-74 (dichiarazione d’apertura del pubblico ministero Telford Taylor, 9 dicembre 1946); intervista personale con James M. McHaney, pubblico ministero nel Processo ai medici.
1. Fritz Lenz, Menschliche Auslese und Rassenhygiene, vol. II di Erwin Bauer, Eugen Fischer e Fritz Lenz, Grundriss der menschlichen Erblichkeitslehre und Rassenhygiene, J.F. Lehmanns Verlag, München 1923, p. 147. Edizione ampliata di quest’opera, 1927, in particolare, per i lettori americani: Human Heredity, Macmillan, New York 1931. Su Davenport e Cold Spring Harbor, vedi Daniel J. Kevles, In the Name of Eugenics: Genetics and the Uses of Human Heredity, Alfred A. Knopf, New York 1985, pp. 44-56.
2. George L. Mosse, Toward the Final Solution: A History of European Racism, Harper & Row, New York 1978, p. 81.
3. Albert Edward Wiggam, New Decalogue of Science, Bobbs-Merrill, Indianapolis 1923, pp. 25-26.
4. J[acob] P. Landman, Human Sterilization: The History of Sexual Sterilization Movement, Macmillan, New York 1932, pp. 4-5.
5. Helmut Krausnick, The Persecution of the Jews, in Krausnick et al., Anatomy of the SS State, Walker, New York 1968 (1965), pp. 16-17.
6. Human Sterilization in Germany and United States, JAMA, 102 (1934), pp. 1501-1502; vedi Kevles, Eugenics [1], pp. 113-117.
7. Kevles, Eugenics [1], p. 116.
8. Ibid., p. 117.
9. Adolf Hitler, Mein Kampf, Houghton Mifflin, Boston 1943 (1925-1926), rispettivamente pp. 403-404 e 257, trad. it. del II vol. La mia battaglia, 16a ed., Bompiani, Milano, 1941 [1934], p. 35; trad. it. del I vol. La mia vita, 13a ed., Bompiani, Milano 1942).
10. JAMA, 101 (1933), pp. 866-867; 102 (1934), pp. 630-631, 1501; 103 (1934), pp. 849-850. W.W. Peter, Germany’s Sterilization Program, «American Journal of Public Health», 24 (1934), p. 187.
11. JAMA, 105 (1935), p. 1999.
12. JAMA, 104 (1935), p. 2109 (Wagner); 101 (1933), p. 867; 106 (1936), p. 1582.
13. JAMA, 106 (1936), p. 1582.
14. JAMA, 103 (1934), pp. 766-767, 850; 106 (1936), pp. 58, 308-309.
15. JAMA, 104 (1935), p. 2110;
16. JAMA, 102 (1934), p. 57; 103 (1934), p. 1164; 104 (1935), p. 2110.
17. JAMA, 104 (1935), p. 1183.
18. JAMA, 105 (1935), p. 1051.
19. W[alter] von Baeyer, Die Bestätigung der NS-Ideologie in der Medizin unter besonderer Berücksichtigung der Euthanasie, «Universitätstage», 5 (1966), p. 64; Ernst Klee, «Euthanasie» im NS-Staat: Die «Vernichtung lebensunwerten lebens», S. Fischer, Frankfurt/M. 1983, p. 86. Gran parte del mio manoscritto era già completata quando apparve questo libro importante, ma l’ho usato per confermare e integrare informazioni tratte da altre fonti. Un altro studio recente importante è Gisela Bock, Racism and Sexism in Nazi Germany: Motherhood, Compulsory Sterilization and the State, in When Biology Became Destiny: Women in Weimar and Nazi Germany, a cura di Renate Bridenthal, Atina Grossmann e Marion Kaplan, Monthly Review, New York 1985, pp. 271-296.
20. JAMA, 105 (1935), pp. 1052-1053.
21. Ernst Rüdin, Zehnjahre nationalsozialistischer Staat, «Archive für Rassen- und Gesellschaftsbiologie», 36 (1942), p. 321.
22. Robert Wistrich, Who’s Who in Nazi Germany, Macmillan, New York 1982, p. 261. Vedi anche B. Schultz, Ernst Rüdin, «Archive für Psychiatrie und Zeitschrift für Neurologie», 190 (1953), pp. 189-195.
23. Giudice Goetz e Wagner, cit. in JAMA, 106 (1936), p. 1582; documento di partito in JAMA, 105 (1935), p. 1051.
24. Rudolf Ramm, Ärztliche Rechts- und Standeskunde: Der Arzt als Gesundheits- erzieher, 2a ed. riv., W. de Gruyter, Berlin 1943, pp. IV, 43, 79-80.
25. Ibid., pp. 101, 135.
26. Ibid., pp. 154-156.
27. Ibid. Vedi Kurt Blome, Arzt im Kampf: Erlebnisse und Gedanken, J.A. Barth, Leipzig 1942.
28. Bernward J. Gottlieb e Alexander Berg, Das Antlitz des Germanischen Arztes in vier Jahrhunderten, Rembrandt-Verlag, Berlin 1942, pp. 3, 51-52.
29. Joachim Mrugowsky, Einleitung, in Christoph Wilhelm Hufeland, Das ärztliche Ethos: Christoph Wilhelm Hufelands Vermächtnis einer fünfzigjähringen Erfahrung, J.F. Lehmann, München-Berlin 1939, pp. 14-15, 22; vedi pp. 7-40.
30. Hanns Löhr, Über die Stellung und Bedeutung der Heilkunde im nationalsozialistischen Staate (1935), cit. in George L. Mosse, ed., Nazi Culture: Intellectual, Cultural and Social Life in the Third Reich, Grosset & Dunlap, New York 1968, p. 229.
31. Hippokrates: Gedanken arztlicher Ethik aus dem Corpus Hippocraticum, vol. I: Ewiges Arzttum, a cura di Ernst Grawitz, Volk und Reich Verlag, Prag-Amsterdam-Berlin-Wien 1942, p. 5.
32. Werner Leibbrandt, 27 gennaio 1947, Nuremberg Medical Case, vol. II, p. 81.
33. Ramm, Ärztliche Standeskunde [24], p. 19. Sulla relativa esaltazione del dolore da parte dei nazisti, vedi Michael H. Kater, Medizinische Fakultäten und Medizinstudenten: Eine Skizze, in Ärtze im Nationalsozialismus, a cura di Fridolf Kudlien, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1985, p. 93.
34. Nuremberg Medical Case, vol. I, p. 58.
35. Ramm, Ärztliche Standeskunde [24], pp. 80-83.
36. Mrugowsky, Einleitung [29], pp. 9-10, 14.
37. George L. Mosse, Masses and Man: Nationalist and Fascist Perceptions of Reality, Fertig, New York 1980, p. 81.
38. Cit. in Karl Dietrich Bracher, The German Dictatorship: The Origins, Structure and Effects of National Socialism, Praeger, New York 1970 (1969), p. 232.
39. Vedi Kater, Medizinische Fakultäten [33], pp. 82-92.
40. Michael H. Kater, Hitlerjugend und Schule im Dritten Reich, «Historische Zeitschrift», 228 (1979), pp. 609-610.
41. Michael H. Kater, The Nazi Party: A Social Profile of Members and Leaders, 1919-1945, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1983, pp. 112, 134-135.
42. Bracher, Dictatorship [38], pp. 247-248.
43. Wistrich, Who’s Who [22], p. 330.
44. Heinrich Class, cit. in Lucy S. Dawidowicz, The War Against the Jews, 1933-1945, Holt, Rinehart & Winston, New York 1975, p. 36.
45. Alfred D. Low, Jew in the Eyes of Germans: From the Enlightenment to Imperial Germany, Institute for the Study of Human Issues, Philadelphia 1979, pp. 371-372.
46. Ibid., p. 371.
47. Kater, Nazi Party [41], p. 342 nota 180; Kater, Medizinische Fakultäten [33], pp. 94-95.
48. Heinrich Lammers, cit. in Geoffrey Cocks, Psychotherapy in the Third Reich: The Göring Institute, Oxford, University Press, New York-Oxford 1985, p. 91.
49. Dichiarazione di apertura del pubblico ministero Telford Taylor, 9 dicembre 1946, Nuremberg Medical Case, vol. I, p. 57.
50. JAMA, 100 (1933), p. 1877.
51. Dichiarazione di Taylor [49], vol. I, pp. 57-58.
52. Bracher, Dictatorship [38], pp. 268-269.
53. Vedi Kater, Medizinische Fakultäten [33], pp. 94-104.
54. Vedi Kater, Hitlerjugend [40] e Nazi Party [41], pp. 97-100.
55. JAMA, 107 (1936), pp. 979-980. Su Laughlin, vedi Kevles, Eugenics [1], pp. 102-104, 118. Per le opinioni di Kennedy vedi The Problem of Social Control of the Congenital Defective: Education, Sterilization, Euthanasia, «American Journal of Psychiatry», 99 (1942), pp. 13-16.
56. JAMA, 110 (1938), p. 298.
57. Kater, Medizinische Fakultäten [33], pp. 94-104; Leo Alexander, The Medical School Curriculum in War-Time Germany, Combined Intelligence Objectives Sub-Committee, N. 24 (Medicina), Filza N. XXVII-71.
58. Karl Saller, Die Rassenlehre des Nationalsozialismus in Wissenschaft und Propaganda, Progress-Verlag, Darmstadt 1961; JAMA, 104 (1935), p. 2010.
59. Richard Hanser, A Noble Treason: Students Against Hitler, Putnam, New York 1970, rispettivamente pp. 187, 22, 117.
60. JAMA, 112 (1939), p. 1982.
61. JAMA, 106 (1936), pp. 1214-1215; 113 (1939), p. 2163.
62. Sul movimento naturistico, vedi Cocks, Psychotherapy [48], pp. 138-143; Kater, Medizinische Fakultäten [33], pp. 91-93; JAMA, 103 (1934), pp. 1164-1165 («casa della salute»); 112 (1939), p. 1740.
63. Stephan Leibfried e Florian Tennstedt, Berufsverbote und Sozialpolitik, 1933: Die Auswirkungen der nationalsozialistischen Machtergreifung auf die Krankenkassenverwaltung und die Kassenärzte, Universität Bremen, Bremen 1981, pp. 67-76, 210-213; Cocks, Psychotherapy [481], pp. 87-89.
64. Dr. M. Stämmler, Das Judentum in der Medizin, «Ärzteblatt für Norddeutschland» (1938), cit. in Leibfried e Tennstedt, Berufsverbote [63], pp. 307-312.
65. Ministro degli Interni Wilhelm Frick, cit. in JAMA, 105 (1935), p. 1998; vedi 106 (1936), p. 136.
66. Kater, Nazi Party ([41], pp. 112-114, 134-137; JAMA, 106 (1936), pp. 1214-1215. Sulle leggi di Norimberga e la legislazione connessa, vedi Raul Rilberg, The Destruction of the European Jews, Quadrangle, Chicago 1967 (1961), pp. 42-53, e Helmut Krausnick, The Persecution of the Jews, in Krausnick et al., Anatomy of the SS State, Walker, Chicago 1968 (1965), pp. 23-43.
67. Jan Sehn, Carl Claubergs verbrecherische Unfruchtbarmachungsversuche and Häftlings-Frauen in den Nazi-Konzentrationslagern, «Hefte von Auschwitz», 2 (1959), pp. 3-31.
68. Larry V. Thompson, «Lebensborn» and the Eugenics Policy of the «ReichsführerSS», «Central European History», 4 (1971), p. 55.
69. Mare Hillel and Clarissa Henry, Of Pure Blood, McGraw-Hill, New York 1976 (1975), pp. 55, 116-126, 191-203.
70. Alexander Mitscherlich e Fred Mielke, The Death Doctors, Elek Books, London 1949, p. 17 (ed. orig., Medizin ohne Menschlichkeit, trad. it. di P. Bernardini Marzolla, Medicina disumana. Documenti del «Processo dei medici» di Norimberga, Feltrinelli, Milano 1967, p. 13).
71. Ernst Mann [Gerhard Hoffmann], Die Erlösung der Menschheit vom Elend, F. Fink, Weimar 1922, p. 39.
1. Vedi Foster Kennedy, The Problem of Social Control of the Congenital Defective: Education, Sterilization, Euthanasia, «American Journal of Psychiatry», 99 (1942), pp. 13-16. Le tesi di Kennedy furono combattute da Leo Kanner, il principale specialista di psichiatria dell’infanzia dell’America di quei tempi, che, comunque, era favorevole alla sterilizzazione. Vedi, di Kanner, Exoneration of the Feebleminded, «American Journal of Psychiatry», 99 (1942), pp. 17-22.
2. Adolf Jost, Das Recht auf den Tod: Sociale Studie, Dieterich’sche Verlagsbuchhandlung, Göttingen 1895; Klaus Dörner, Nationalsozialismus und Lebensvernichtung, «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte», 15 (1967), pp. 123-124. Sullo sfondo intellettuale, vedi Amnon Amir, Euthanasia in Nazi Germany (tesi di dottorato inedita, State University of New York, Albany 1977).
3. Karl Binding e Alfred Hoche, Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens: Ihr Mass und ihre Form, F. Meiner, Leipzig 1920. Su Binding e Roche, vedi Ernst Klee, «Euthanasie» im NS-Staat: Die «Vernichtung lebensunwerten Lebens», S. Fischer, Frankfurt/M. 1983, pp. 19-25.
4. Binding, Rechtliche Ausführung, in Freigabe [3], pp. 16-37.
5. Hoche, Ärztliche Bemerkungen, in Freigabe [3], pp. 46-47, 54-58.
6. Ibid., pp. 61-62.
7. Dörner, Lebensvernichtung [2], p. 129.
8. Adolf Dörner, Lehrbuch der Mathematik für höhere Schulen, 1935 (ed. riv. 1936), cit. in Processo Heyde, pp. 33-36.
9. Walter Schultze, cit. in Klee, «Euthanasie» [3], p. 47.
10. Ibid., pp. 76-77, 163-165.
11. Erwin Leiser, Nazi Cinema, Macmillan, New York 1974 (1968), pp. 89-94, 143-145. Su Unger, vedi Klee, «Euthanasie» [3], pp. 79, 342-343. Il romanzo di Helmut Unger è Sendung und Gewissen, Brunnen Verlag, Berlin 1935.
12. Leiser, Cinema [11], pp. 146-149; Heinz Höhne, The Order of the Death’s Head: The Story of Hitler’s SS, Coward-McCann, New York 1969 (1966), pp. 423-427.
13. Deposizione del professor Böhm, 12 luglio 1961, Processo Heyde, pp. 41-42. Nei dibattimenti furono nominati anche il dottor Walter Gross dell’Ufficio di Politica razziale e il ministro-presidente Walter Schultze.
14. Deposizione di Otto Mauthe, 20 dicembre 1961, Processo Heyde, pp. 42-43.
15. Deposizione Brandt, 4 febbraio 1947, Nuremberg Medical Case, trascrizione, pp. 2409-2410, e vol. I, p. 849; anche Processo Heyde, pp. 51-52. Vedi anche Lothar Gruchmann, Euthanasie und Justiz im Dritten Reich, «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte», 20 (1972), pp. 238-239, sulle richieste generali di eutanasia in relazione a malati incurabili nel 1938-1939; in assenza di una legge esse furono indirizzate alla Cancelleria di Hitler.
16. Deposizione Brandt [15]. Vedi anche la relazione di Hans Hefelmann, 31 agosto e 7-14 novembre 1960, Processo Heyde, pp. 48-51, 53-54; e Gruchmann, Euthanasie und Justiz [15], pp. 240-241.
17. Trascrizione Brandt [15], p. 2410.
18. Processo Heyde, pp. 53-54.
19. Ordine segreto, 18 agosto 1939, «oggetto: dovere di riferire su neonati con malformazioni ecc.», riprodotto integralmente in Klee, «Euthanasie» [3], pp. 80-81.
20. Processo Heyde, pp. 53-54.
21. Ibid., pp. 66-72.
22. Deposizione Hefelmann, 7-14 novembre 1960, Processo Heyde, p. 66.
23. Sui questionari e gli esperti, vedi Processo Heyde, pp. 74-177.
24. Deposizione Hefelmann, 7-9 dicembre 1960, Processo Heyde, p. 149.
25. Processo Heyde, p. 117.
26. Ibid., pp. 116-117; i centri sono elencati alle pp. 128-131.
27. Deposizione Heinze, 27 settembre 1961, Processo Heyde, pp. 150-151.
28. Campione di lettera ai genitori, 30 settembre 1941, Processo Heyde, p. 111; vedi pp. 100-116.
29. Deposizione del dottor Valentin Faltlhauser, 22-23 aprile 1948; e infermiera Mina Wörle, 7 maggio 1948 (Istituto di Kaufbeuren), Processo Heyde, pp. 143-147.
30. Deposizione Hefelmann, 7-14 novembre 1960, Processo Heyde, p. 123.
31. Sull’ampliamento delle categorie, vedi Processo Heyde, pp. 82-90, 131-134.
32. Ibid., pp. 165-172.
33. Deposizione Lehner, cit. in Klee, «Euthanasie» [3], pp. 88-89.
34. Deposizione Lammers, 7 febbraio 1947, Nuremberg Medical Case, trascrizione, pp. 2687-2688; in Processo Heyde, pp. 178-179, si datano quegli avvenimenti «al più tardi in luglio».
35. Processo Heyde, p. 203; vedi pp. 201-206. Vedi anche Doc. 630-PS, Nuremberg Medical Case, vol. I, p. 893; deposizione Brandt, 4 febbraio 1947, trascrizione pp. 2407-2408.
36. Deposizione Brandt [35], p. 2407.
37. Hermann Pfannmüller, cit. in Gerhard Schmidt, Selektion in der Heilanstalt 1939-1945, Evangelisches Verlagsanstalt, Stuttgart 1965, p. 34; vedi pp. 34-35.
38. Alice Platen-Hallermund, Die Tötung Geisteskranker in Deutschland, Verlag der Frankfurter Hefte, Frankfurt/M. 1948, p. 18; Gruchmann, Euthanasie [15], p. 241.
39. Processo Heyde, p. 180.
40. Deposizione Hefelmann, 31 agosto 1960, ibid., pp. 187-190, 319-320; Klee, «Euthanasie» [3], p. 83.
41. Gruchmann, Euthanasie und Justiz [15], pp. 277-278.
42. Deposizione Mennecke, 2 dicembre 1946, Processo Heyde, pp. 307- 313.
43. Dottor Walter Schmidt, cit. in Alexander Mitscherlich e Fred Mielke, Doctors of Infamy: The Story of the Nazi Medical Crimes, Henry Schuman, New York 1949 (1947), p. 94 (ed. orig., Medizin ohne Menschlichkeit, trad. it. di P. Bernardini Marzolla, Medicina disumana. Documenti del «Processo dei medici» di Norimberga, Feltrinelli, Milano 1967, p. 141).
44. Deposizione Mennecke, 2 dicembre 1946, Processo Heyde, p. 313. Vedi anche Processo Heyde, p. 196, sulla segretezza; pp. 197, 313, su de Crinis; e passim, pp. 193-201, 307-313.
45. Professor dottor Kranz in NS-Volksdienst, cit. nella protesta del pastore Paul Braune contro l’eutanasia, Processo Heyde, p. 496.
46. Sulla RAG come camuffamento, vedi Processo Heyde, pp. 226-232; sui questionari, vedi Processo Heyde, pp. 207-224.
47. Deposizione Ewald, 24 marzo 1960, Processo Heyde, pp. 215-216.
48. Deposizione Mennecke su un incontro al Tiergarten 4 nell’autunno del 1940, 2 dicembre 1946, Processo Heyde, pp. 312-318; vedi pp. 224, 343-346.
49. Processo Heyde, pp. 324-332, vedi pp. 321-323, 333, su azioni simili.
50. Ibid., pp. 217-221, 346-349.
51. Ibid., pp. 350-358.
52. Ibid., pp. 372-376.
53. Ibid., pp. 376-378, 407-409.
54. Deposizione di August Becker, 21 aprile 1960, Processo Heyde, p. 295.
55. Processo Heyde, p. 380.
56. Deposizione Heyde, 12 ottobre-22 dicembre 1961, Processo Heyde, pp. 292-293.
57. Deposizione Becker, 21 aprile 1960, Processo Heyde, pp. 293-295.
58. Deposizione Brandt (traduzione inglese), Norimberga, 1 ottobre 1945 (Archivi Nazionali).
59. Processo Heyde, rispettivamente pp. 388-389, 255-256, 268-269, 306; Helmut Ehrhardt, Euthanasie und die Vernichtung «lebensunwerten» Lebens, Ferdinand Enke Verlag, Stuttgart 1965, p. 35; Klee, «Euthanasie» [3], pp. 226-232. Per un’analisi dell’età dei membri e dei capi del Partito nazista, vedi Michael Kater, The Nazi Party: A Social Profile of Members and Leaders, 1919-1945, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1983, pp. 139-148.
60. Deposizione Ullrich, 4-27 settembre 1961, Processo Heyde, p. 388.
61. Deposizione di Hans Bodo Gorgass, 15 agosto 1960, Processo Heyde, pp. 383-384.
62. Processo Heyde, pp. 447-448.
63. Deposizione di Paul Reuter, 14-15 marzo 1946, Processo Heyde, p. 391.
64. Commento al processo, Processo Heyde, p. 391.
65. Ernst Klee, Tot und seziert: Bilder eines Albums und die Schrecken der Euthanasie, «Die Zeit», 5 ottobre 1984.
66. Deposizione di Benedikt Härtls, 9 marzo 1946, Processo Heyde, p. 394.
67. Processo Heyde, pp. 396-399; vedi anche pp. 399-406.
68. Klee, Tot und seziert [65], pp. 409-416; Klee, «Euthanasie» [3], p. 344.
69. Deposizione di Gerhard Bohne, 10 settembre 1959, Processo Heyde, p. 417.
70. Mitscherlich e Mielke, Doctors [43], p. 105 (trad. it., p. 152); Florian Zehethofer, Das Euthanasieproblem im Dritten Reich am Beispiel Schloss Hartheim (1938-1945), «Oberösterreichische Heimatsblätter», 32 (1978), p. 55; Processo Heyde, pp. 360-368.
71. Klee, «Euthanasie» [3], pp 343-344.
72. Sugli sforzi propagandistici per fare accettare il progetto di «eutanasia», vedi Klee, «Euthanasie» [3], pp. 76-77, 163-165, 342-344.
73. Wolfgang Scheffler, Judenverfolgung im Dritten Reich 1933-1945, Colloquium Verlag, Berlin 1960, p. 35.
74. Sulla formulazione della Soluzione finale, vedi Lucy S. Dawidowicz, The War Against the Jews, 1933-1945, Holt, Rinehart & Winston, New York 1975, pp. 70-128; Gerald Fleming, Hitler and the Final Solution, University of California Press, Berkeley 1984 (1982); Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, Quadrangle, Chicago 1967 (1961), pp. 257-266.
75. Commento al Processo Heyde, p. 451.
76. Klee, «Euthanasie» [3], pp. 258-260.
77. Hermann Pfannmüller, cit. in Schmidt, Selektion [37], p. 68.
78. Ibid., p. 67.
79. Klee, «Euthanasie» [3], pp. 261-263.
80. Su Lublin, vedi Hilberg, Destruction [74], pp. 136-138; 292.
81. Klee, «Euthanasie» [3], pp. 260-261; Fleming, Final Solution [74], pp. 26-27. In una sua lettera (9 novembre 1985), Ernst Klee mi ha confermato («con grande probabilità») la natura fittizia dell’indirizzo di Chełm/Cholm. Anche Henry Friedländer (in una lettera del 16 dicembre 1985) mi ha fornito informazioni su questo problema.
82. Klee, «Euthanasie» [3], pp. 95-98, 112-114, 367-379; Hilberg, Destruction [74], pp. 177-256.
83. Klee, «Euthanasie» [3], pp. 401-416.
84. Ibid., pp. 367-379; Christopher R. Browning, Fateful Months: Essays on the Emergence of the Final Solution, Holmes & Meier, New York 1985, cap. 1.
1. Helmut Ehrhardt, Euthanasie und Vernichtung «lebensunwerten» Lebens, Ferdinand Ertke Verlag, Stuttgart 1965, p. 37. Ehrhardt potrebbe avere esagerato la portata di questa resistenza silenziosa, ma essa è comunque chiaramente esistita.
2. Gerhard Schmidt, Selektion in der Heilanstalt 1939-1945, Evangelisches Verlagswerk, Stuttgart 1965, pp. 54-55.
3. L. Schlaich a Hans Frank, 6 settembre 1940 (copia a Lammers), Nuremberg Medical Case, vol. I, pp. 854-855.
4. Geoffrey Cocks, Psychotherapy in the Third Reich: The Göring Institute, Oxford University Press, New York 1985, p. 172; Eberhard Bethge, Dietrich Bonhoeffer: Man of Vision, Man of Courage, Harper & Row, New York 1970 (1967), pp. 592-593.
5. Bethge, Bonhoeffer [4], p. 212; vedi Cocks, Psychotherapy [4], pp. 105-106.
6. Bethge, Bonhoeffer [4], p. 212.
7. Deposizione Ewald, 3 giugno 1960, Processo Heyde, pp. 553-556. Vedi Ernst Klee, «Euthanasie» im NS-Staat: Die «Vernichtung lebensunwerten Lebens», S. Fischer, Frankfurt/M. 1983, pp. 224, 274-275.
8. Deposizione Ewald [7], pp. 554-556.
9. Vedi Cocks, Psychotherapy [4]. Vedi anche Rose Spiegel, Survival, Psychoanalysis and the Third Reich, “Journal of the American Academy of Psychoanalysis», 13 (1985), pp. 521-536; Arthur H. Finer, Psychoanalysis During the Nazi Regime, “Journal of the American Academy of Psychoanalysis», 13 (1985), pp. 537-550; Rose Spiegel, G. Chrazanowsky e Arthur H. Finer, On Psychoanalysis and the Third Reich, «Contemporary Psychoanalysis», 11 (1975), pp. 477-510.
10. Memorandum Ewald (copia, senza data), Processo Heyde, pp. 554-561.
11. Ibid., pp. 561-564.
12. Ibid., pp. 564-565. Per la corrispondenza risultante, vedi pp. 567-572.
13. Gutachten über... Dr. Ewald (Hochschulgruppe Göttingen des NSD-Dozentenbundes), 9 gennaio 1939 (BDC: Ewald).
14. Ibid. Vedi anche la lettera del Kreisleiter di Göttingen alla Gauleitung Süd-Hannover-Braunschweig, 8 marzo 1939 (BDC: Ewald).
15. Il Kreisleiter alla Gauleitung [14].
16. Il Kreisleiter di Göttingen allo Schatzrat Friese (Hannover), 21 marzo 1938 (BDC: Ewald).
17. L’Ortsgruppenleiter Mengershausen al Kreisleiter dottor Gengler (Göttingen), 23 settembre 1938; il Kreisleiter di Göttingen a Ewald, 6 ottobre 1938; Ewald alla Kreisleitung di Göttingen, 8 ottobre 1938 (BDC: Ewald).
18. Ewald a Heyde e Conti, 21 agosto 1940 (BDC: Ewald).
19. Roger Manvell e Heinrich Fraenkel, The Canaris Conspiracy: The Secret Resistance to Hitler in the German Army, David McKay, New York 1969, p. 33; Peter Hoffmann, The History of the German Resistance, 1933-1945, MIT Press, Cambridge, Mass. 1977, p. 91.
20. Klee, «Euthanasie» [7], p. 223.
21. Per informazioni biografiche su Ewald, vedi Klee, «Euthanasie» [7], pp. 216-217.
22. Fredric Wertham, A Sign for Cain: An Exploration of Human Violence, Macmillan, New York 1966, pp. 178-179.
23. Testimonianza oculare della capo infermiera, 5 giugno 1946; testimonianza (di seconda mano, attraverso Götz) del direttore commerciale, 6 giugno 1946, Processo Heyde, pp. 336-339.
24. Boeckh al ministro dell’Interno del Reich, 7 novembre 1940, Processo Heyde, pp. 328-332. Vedi Klee, «Euthanasie» [7], pp. 244-247.
25. Klee, «Euthanasie» [7], pp. 247-248.
26. Ibid., pp. 216-219.
27. Schmidt, Selektion [2], pp. 82-93.
28. Lothar Kreyssig al ministro della Giustizia Gürtner, 8 luglio 1940, cit. in Klee, «Euthanasie» [7], p. 209. Vedi Philippe Aziz, Doctors of Death, Ferni Publishers, Geneva 1976, vol. IV, p. 107.
29. Von Löwis, cit. in Aziz, Doctors of Death [28], pp. 100-104; vedi anche p. 116 sugli atteggiamenti di Himmler.
30. Rapporto segreto dell’Absberg Ortsgruppenleiter, 24 gennaio 1941; il Gendarmerieposten di Absberg al Landrat Gunzenhausen, 24 febbraio 1941; rapporto segreto del Gaustabsamt Sel/Pf. all’SS-Sturmbahnführer Friedrich (Norimberga), copia a Hefelmann, 1 marzo 1941, Processo Heyde, pp. 360-368.
31. Perizia del presidente del consiglio ecclesiastico Ernst Wilm al tribunale di Francoforte sulle reazioni dei protestanti all’«eutanasia», 3 gennaio 1963, Generalstaatsanwaltschaft Frankfurt/M.: JS 20/61, vol. I, 3 (44); Klee, «Euthanasie» [7], p. 284.
32. Klee, «Euthanasie» [7], pp. 201-202; vedi pp. 35, 48, 62, 201-205.
33. Ibid., pp. 201-216, 278-289, 320-326, 421-424. Vedi anche Anneliese Hochmuth, Der Widerstand Bethels gegen die Tötung psychisch Kranker, eine Dokumentation, in Der Krieg gegen die psychisch Kranken: Nach «Holocaust»: Erkennen-Trauern-Begegnen, a cura di Klaus Dörner et al., Psychiatrie-Verlag, Rehburg-Loccum 1980, pp. 160-162. (Nella Hochmuth la cronologia non è del tutto chiara.)
34. Klee, «Euthanasie» [7], p. 34.
35. Ibid., p. 39.
36. Ibid., pp. 210-211.
37. Braune, Denkschrift, Betrifft: Planwirtschaftliche Verlegung von Insassen der Heil- und Pflegeanstalten (Vertraulich), 9 luglio 1940, Processo Heyde, pp. 496-501.
38. Ibid., pp. 506-507.
39. Ibid., pp. 510-512.
40. Klee, «Euthanasie» [7], pp. 340-341, 355; Lothar Gruchmann, Euthanasie und Justiz im Dritten Reich, «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte», 20 (1972), p. 244.
41. Braune, Denkschrift [37], pp. 513-514.
42. Klee, «Euthanasie» [7], pp. 221-223.
43. Ibid., pp. 337-338.
44. Aziz, Doctors of Death [28], vol. IV, pp. 92-95. Vedi Klee, «Euthanasie» [7], pp. 334-335.
45. Aziz, Doctors of Death [28], vol. IV, pp. 94-95. Il sermone di Galen del 3 agosto 1941 è pubblicato in Krieg, a cura di Dörner [33], pp. 112-124, vedi pp. 124-128.
46. Aziz, Doctors of Death [28], vol. IV, pp. 95-96.
47. Ibid., p. 97.
48. Klee, «Euthanasie» [7], p. 335.
49. Ibid., pp. 335-337; Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, Quadrangle, Chicago 1967 (1961), pp. 299-300.
50. Aziz, Doctors of Death [28], vol. IV, pp. 98-99.
51. Himmler a Brack e Bouhler, 19 dicembre 1940, Processo Heyde, pp. 577-578. Himmler rispondeva alla lettera di von Löwis [29].
52. Deposizione Hefelmann, 6-15 settembre 1960, Processo Heyde, pp. 681-682; vedi anche p. 680.
53. Klee, «Euthanasie» [7], p. 340.
54. Ibid., p. 341.
1. Ernst Klee, «Euthanasie» im NS-Staat: Die «Vernichtung lebensunwerten Lebens», S. Fischer, Frankfurt/M. 1983, p. 440.
2. Friedrich Mennecke, cit. in Alexander Mitscherlich e Fred Mielke, Doctors of Infamy: Tlu Story of the Nazi Medical Crimes, Henry Schuman, New York 1949, p. 116 (ed. orig., Medizin ohne Menschlichkeit, trad. it. di P. Bernardini Marzolla, Medicina disumana. Documenti del «Processo dei medici» di Norimberga, Feltrinelli, Milano 1967, p. 169).
3. Vedi il caso di Emma E. in Gerhard Schmidt, Selektion in der Heilanstalt 1939-1945, Evangelisches Verlagswerk, Stuttgart 1965, pp. 121-124.
4. Processo Heyde, pp. 83-86; Klee, «Euthanasie» [1], pp. 379-389.
5. Mitscherlich e Mielke, Doctors [2], p. 116 (trad. it., p. 169).
6. Klee, «Euthanasie» [1], pp. 291-293, 341-342, 351; Eugen Kogon et al., Nationalsozialistische Massentötungen durch Giftgas: Eine Dokumentation, S. Fischer, Frankfurt/M. 1983, p. 59.
7. Klee, «Euthanasie» [1], pp. 329-330.
8. Ibid., pp. 429-430.
9. Ibid.
10. Schmidt, Selektion [3], pp. 129-131.
11. Ibid., pp. 131-132.
12. Klee, «Euthanasie» [1], p. 430.
13. Schmidt, Selektion [3], pp. 130-132.
14. Ibid., pp. 132-145.
15. Deposizione del dottor Hans Gorgass al processo di Hadamar, Francoforte, febbraio-marzo 1947 (4 KLs 7/47, Landgericht Frankfurt). Questo fu il secondo processo al personale di Hadamar, tenuto in un tribunale tedesco anziché sotto un’autorità di occupazione britannica. In esso furono implicati tanto Gorgass quanto Wahlmann.
16. Klee, «Euthanasie» [1], p. 336.
17. Ibid., p. 170.
18. Hadamar Trial, specialmente pp. 162-163, 174-187.
19. Deposizione di Weimar nel processo di Hadamar del 1947 [15].
20. Deposizione Wahlmann, 12 ottobre 1945, Hadamar Trial, pp. 162-163.
21. Deposizione di Heinrich Ruoff, 12 ottobre 1945, Hadamar Trial, p. 176.
22. Deposizione di Irmgard Huber, 11 ottobre 1945, Hadamar Trial, p. 119.
23. Deposizione Wahlmann, 12 ottobre 1945, Hadamar Trial, p. 163; vedi pp. 162, 247.
24. Ibid., p. 167.
25. Klee, «Euthanasie» [1], pp. 446-454.
1. Michael H. Kater, Medizinische Fakultäten und Medizinstudenten: Eine Skizze, in Ärzte im Nationalsozialismus, a cura di Fridolf Kudlien, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1985, p. 123.
2. Vedi Hans Buchheim, Command and Compliance, in Helmut Krausnick et al., Anatomy of the SS State, Walker, New York 1968 (1965), p. 373.
3. Sigmund Freud, Standard Edition of the Works of Sigmund Freud, a cura di James Strachey, Hogarth Press, London 1955 (1923), vol. XIV, p. 27 nota.
4. Philippe Aziz, Doctors of Death, Femi Publishers, Geneva 1976, vol. IV, p. 26.
5. Ibid., pp. 14, 17.
6. Su Morell, ibid., pp. 48-52; Alan Bullock, Hitler: A Study in Tyranny, ed. riv., Harper & Row, New York 1962, pp. 718, 766 (trad. it., Hitler. Studio sulla tirannide, Mondadori, Milano 1956); e Albert Speer, Inside the Third Reich: Memoirs, Macmillan, New York 1970, pp. 104-105.
7. Aziz, Doctors of Death [4], vol. I, p. 33.
8. Vedi Speer, Inside [6], pp. 330-332, 465-466, 576-577.
9. Aziz, Doctors of Death [4], vol. IV, p. 14. Aziz sostiene di avere intervistato un «Hans Kressler» nel 1973. I documenti del tempo si riferivano a un bambino di Knauer.
10. Vedi Ernst Klee, «Euthanasie» im NS-Staat: Die «Vernichtung lebensunwerten Lebens», S. Fischer, Frankfurt/M. 1983, pp. 321-328, 424.
11. Affidavit of Eduard Woermann, 18 January 1947, concerning discussions of Karl Brandt and Pastor Bodelschwingh on Euthanasia, Nuremberg Medical Case, vol. I, p. 873.
12. François Bayle, Croix gammée contre caducée: Les expériences humaines en Allemagne pendant la deuxième guerre mondiale, Commission Scientifique Française des Crimes de Guerre, Neustadt (Palatinat) 1950, pp. 62-64.
13. Aziz, Doctors of Death [4], vol. I, p. 16.
14. Ibid., p. 248.
15. Ibid., p. 252.
16. Heyde, Lebenslauf (autobiografia), 1 gennaio 1939, Processo Heyde, pp. 5-6; vedi anche pp. 1-4. Sul lavoro di Heyde nei servizi segreti, vedi Walter Schellenberg, The Labyrinth: Memoirs, Harper, New York 1956, pp. 87, 91-92.
17. Schellenberg, Labyrinth [16], p. 92.
18. Klee, «Euthanasie» [10], p. 414.
19. Pfannmüller, cit. in Gerhard Schmidt, Selektion in der Heilanstalt, 1939- 1945, Evangelisches Verlagsanstalt; Stuttgart 1965, p. 18.
20. Deposizione Pfannmüller, 27-28 giugno 1960, Processo Heyde, p. 224; Hermann Langbein, Im Namen des deutschen Volkes: Zwischenbilanz der Prozesse wegen national-sozialistischen Verbrechen, Europa Verlag, Wien 1963, pp. 73, 170-171.
21. Geoffrey Cocks, Psychotherapy in the Third Reich: The Göring Institute, Oxford University Press, New York 1985, p. 97.
22. Ibid., pp. 171-174. Lo Stabsführer des Sicherheitshauptamtes Taubert al Reichsführer-SS, 6 febbraio 1936; l’Oberführer Glatzel alla SS-Personalkanzlei, 14 febbraio 1939 (BDC: de Crinis). Sull’occultamento degli appartenenti alle SS coinvolti nel programma T4, vedi la deposizione del dottor Werner Kirchert, 2 maggio 1960, Processo Heyde, pp. 227-229. Sulla missione dei servizi segreti, vedi Schellenberg, Labyrinth [16], pp. 67-73.
23. Schellenberg, Labyrinth [16], pp. 338, 387-388; Cocks, Psychotherapy [21], pp. 214-215; Gerhard Jaeckel, Die Charité: Die Geschichte des berühmtesten deutschen Krankenhauses, Hestia, Bayreuth 1963, pp. 377-385.
24. Cocks, Psychotherapy [21], p. 286 n. 93.
25. Jaeckel, Charité [23], p. 385.
26. Walter Ritter von Baeyer, in Psychiatrie in Selbstdarstellungen, a cura di Ludwig J. Pongratz, Hans Haber, Bern-Stuttgart-Wien 1977, p. 16; Klee, «Euthanasie» [10], p. 203.
27. Klaus Dörner, Nationalsozialismus und Lebensvernichtung, «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte», 152 (1967), p. 134.
28. Baeyer [26], p. 16; comunicazione personale.
29. Klee, «Euthanasie» [10], pp. 396-401; Benno Müller-Hill, Tödliche Wissenschaft: Die Aussonderung von Juden, Zigeunern und Geisteskranken 1933-1945, Rowohlt, Reinbeck b. Hamburg 1983, pp. 69-71, 169-174; documenti sulla ricerca di Schmidt in BDC: Schmidt. Sull’uso di cervelli ottenuti dal progetto T4, vedi anche Leo Alexander, Neuropathology and Neurophysiology, including Electroencephalography, in Wartime Germany, Combined Intelligence Objectives Sub-Committee, N. 24, Medicine (1945), pp. 14-22.
30. Processo Heyde, pp. 339-411.
31. Ibid., pp. 396-405.
32. Eberl a Lonauer, 16 luglio 1940, Processo Heyde, pp. 404-405.
33. Ibid., pp. 466-467.
34. Eberl al Comitato del Reich, 10 settembre 1940, Processo Heyde, p. 483. Vedi Klee, «Euthanasie» [10], p. 397, che cita Brandt sulla «fuga» dei buoni medici dalla psichiatria.
35. Ibid., pp. 376-377; NS-Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse, a cura di Adalbert Rückerl, DTV, München 1977, pp. 208-209, 295; Eugen Kogon et al., Nationalsozialistische Massentötungen durch Giftgas: Eine Dokumentation, S. Fischer, Frankfurt/M. 1983, pp. 162, 180-182.
36. George L. Mosse, Toward the Final Solution: A History of European Racism, Harper & Row, New York 1978, p. 87.
37. Daniel Gasman, The Scientific Origins of National Socialism: Social Darwinism in Ernst Haeckel and the German Monist League, Elsevier, New York, 1971, p. 160. Vedi George L. Mosse, The Crisis of German Ideology: Intellectual Origins of the Third Reich, Grosset & Dunlap, New York 1964, p. 4 (trad. it. di F. Saba Sardi, Le origini culturali del Terzo Reich, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 13).
38. Vedi Robert G.L. Waite, Vanguard of Nazism: The Free Corps Movement in Postwar Germany, 1918-1923, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1952, pp. 26-28. La frase citata è tratta da una «storia semiufficiale» dei sottufficiali tedeschi di un certo Conte von Ledebur.
39. Ibid., p. 281.
40. Jeffrey Herf, Reactionary Modernism: The Reconciliation of Technology and Unreason in Weimar Germany and the Third Reich, tesi di dottorato inedita, Brandeis University, Waltham, Mass. 1980, pp. 74-88; pubblicata con correzioni col titolo Reactionary Modernism: Technology, Culture and Politics in Weimar and the Third Reich, Cambridge University Press, Cambridge 1985, p. 63.
41. Mosse, Final Solution [36], p. 106.
42. Herf, Reactionary Modernism [40, 1980], pp. 101-119.
43. Vedi Herf, Reactionary Modernism [40, 1985], pp. 42-43.
44. Ibid., pp. 101-102, 107.
45. Robert Wistrich, Who’s Who in Nazi Germany, Macmillan, New York 1982, p. 329.
46. Theodore N. Kaufman, Germany Must Perish!, Argyle Press, Newark 1941.
47. Leonard L. Heston e Renate Heston, The Medical Casebook of Adolf Hitler, Stein & Day, New York 1982, pp. 113-115, 73-103 suggeriscono che fosse dipendente dalle anfetamine; il dottor F.C. Redlich mette in dubbio questa diagnosi (comunicazione personale, 1984).
48. George L. Mosse, Death, Time and History, in Masses and Man: Nationalist and Fascist Perceptions of Reality, Fertig, New York 1980, p. 73.
49. Frank Rector, The Nazi Extermination of Homosexuals, Stein & Day, New York 1981.
50. Rolf Hochhuth, A German Love Story, Little, Brown, Boston 1980 (1978), pp. 143-144.
1. Deposizione Mennecke, 17 gennaio 1947, Nuremberg Medical Case, vol. I, p. 832. Mennecke sostenne che quelle prime visite non fecero parte del programma 14f13, ma erano piuttosto un esame generale dei malati mentali.
2. Amnon Amir, Euthanasia in Nazi Germany (tesi di dottorato inedita, State University of New York, Albany 1977), pp. 297-301.
3. Ibid., p. 300; Hans-Günther Seraphim, perito sul «Trattamento speciale» e sul programma 14f13 (10 maggio 1960), «Generalstaatsanwaltschaft» Frankfurt/M., JS 20/61, vol. I/3 (44).
4. Eugen Kogon et al., Nationalsozialistische Massentötungen durch Giftgas: Eine Dokumentation, S. Fischer, Frankfurt/M. 1983, p. 66.
5. Deposizione Nitsche, 2 maggio 1947, Processo Heyde, p. 611.
6. Ernst Klee, «Euthanasie» im NS-Staat: Die «Vernichtung lebensunwerten Lebens», S. Fischer, Frankfurt/M. 1983, pp. 345-347; Kogon, Massentötungen [4], pp. 66-71; Processo Heyde, pp. 606-612.
7. Klee, «Euthanasie» [6], pp. 349-350.
8. Friedrich Mennecke a sua moglie, 24 novembre 1941, Processo Heyde, p. 639. Vedi anche Amir, Euthanasia [2], pp. 305-306.
9. Processo Heyde, pp. 646-648; Klee, «Euthanasie» [6], p. 348, riproduce una di queste fotografie con diagnosi scritta a mano.
10. Klaus Dörner, Nationalsozialismus und Lebensvernichtung, «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte», 15 (1967), p. 145.
11. Seraphim, Special Treatment [3]; Processo Heyde, pp. 604-609.
12. Seraphim, Special Treatment [3].
13. Processo Heyde, pp. 603-612.
14. Amir, Euthanasia [2], pp. 305-307.
15. Seraphim, Special Treatment [3].
16. Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz, Europaverlag, Wien 1972, p. 114 (trad. it. parziale di D. Ambroset, Uomini ad Auschwitz, prefazione di Primo Levi, Mursia, Milano 1984, p. 103).
17. Klee, «Euthanasie» [6], pp. 352-355; Kogon, Massentötungen [4], pp. 77-78.
18. Amir, Euthanasia [2], p. 305.
19. Vedi, per esempio, la lettera di Mennecke del 25 novembre 1941 in Processo Heyde, p. 623. Le lettere di Mennecke a sua moglie si trovano in Processo Heyde, pp. 613-646; e sono state pubblicate in Hermann Langbein, Wir haben es getan: Selbstporträts in Tagebüchen und Briefen, 1939-1945, Europaverlag, Wien 1964, pp. 24-30.
20. Rapporto del 1944 di Morgen sulla corruzione nei campi, cit. in Seraphim, Special Treatment [3].
21. Kogon, Massentötungen [4], pp. 76-77; Klee, «Euthanasie» [6], pp. 354-355.
22. Documenti delle SS, soprattutto Lebenslauf (autobiografia), 13 giugno 1937 (BDC: Mennecke).
23. Klee, «Euthanasie» [6], pp. 120-121.
24. Mennecke al giudice istruttore, 2 novembre 1946, in Langbein, Wir haben [19], p. 19.
25. La foto, senza Steinmeyer, è riprodotta in Klee, «Euthanasie» [6], p. 226. Mennecke al direttore dell’ospedale di Lohr, 20 ottobre 1940, in Langbein, Wir haben [19], p. 20.
26. Langbein, Wir haben [19], pp 38-39.
27. Klee, «Euthanasie» [6], pp. 340-341, 355; Lothar Gruchmann, Euthanasie und Justiz im Dritten Reich, «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte», 20 (1972), p. 244.
28. Florian Zehethofer, Das Euthanasieproblem im Dritten Reich am Beispiel Schloss Hartheim (1938-1945), «Oberösterreichische Heimatsblätter», 32 (1978), pp. 58-60.
29. Klee, «Euthanasie» [6], pp. 372-373.
30. Sul passaggio dal progetto T4 allo sterminio di massa nell’Est, vedi Zehethofer, Hartheim [28], pp. 55-56; Christopher R. Browning, Fateful Months: Essays on the Emergence of the Final Solution, Holmes & Meier, New York 1985, capp. I, 3; Gitta Sereny, Into That Darkness: From Mercy Killing to Mass Murder, McGraw Hill, New York 1974: Adalbert Rückerl, NS-Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse, DTV, München 1977; Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, ed riv. e definitiva, Holmes & Meier, New York 1985, vol. III, pp. 872-873, 894-895; e gli studi svolti da Yves Ternon e Socrate Helman, Le Massacre des aliénés: Des théoriciens nazis aux praticiens SS, Casterman, Paris 1971; Les médiciens allemands et le national-socialisme, Casterman, Paris 1973, e Histoire de la médecine SS, Casterman, Paris 1970.
31. Konrad Lorenz, Durch Domestikation verursachte Störungen arteigenen Verhaltens, «Zeitschrift für angewandte Psychologie und Charakterkunde», 59 (1940), pp. 66, 71.
32. Le discussioni che ho avuto con Raul Hilberg e Yehuda Bauer mi sono state di grande aiuto per capire l’evoluzione di questa mentalità.
1. Annotazione di diario (5 settembre 1942) e deposizione (Cracovia, 18 agosto 1947), in Kremers Tagebuch, «Hefte von Auschwitz», 13 (1971), p. 42, 107 nota 36. Trad. ingl. in KL Auschwitz Seen by the SS, Fertig, New York 1984, p. 215.
2. Ibid.; Antoni Kepiński, «Anus Mundi», in Anthology, vol. I, parte seconda, p. 2.
3. L’analisi di queste attività mediche e non mediche si fonda su interviste fatte a medici nazisti e a medici prigionieri e sulle seguenti fonti principali: Rudolf Höss, Commandant of Auschwitz: The Autobiography of Rudolf Hoess, World, Cleveland 1959, e Die nichtärztliche Tätigkeit der SS-Ärzte im K.L. Auschwitz (L’attività non medica dei medici SS nel campo di concentramento di Auschwitz) [fotografia del ms del 1947 (documento processuale)], in Hefte von Auschwitz, 2 (1959), pp. 81-84; Bernd Naumann, Auschwitz: A Report on the Proceedings Against Robert Karl Ludwig Mulka and Others Before the Court of Frankfurt, Pantheon, New York 1966 (1965); Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz, Europaverlag, Wien 1972 (trad. it. parziale di D. Ambroset, Uomini ad Auschwitz, prefazione di Primo Levi, Mursia, Milano 1984), e Der AuschwitzProzess: eine Dokumentation, 2 voll., Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt/M. 1965, così come gli articoli nella serie Anthology (1971) e molti di quelli editi nella rivista Hefte von Auschwitz (dal 1959 in poi), pubblicati dal Museo Statale Polacco di Auschwitz.
4. Majdanek aveva qualche somiglianza con Auschwitz per quanto concerneva la sua politica, ma su una scala considerevolmente minore. Vedi Adalbert Rückerl, NS-Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse, DTV, München 1977, pp. 28-29; Josef Marszalek, Majdanek, Hamburg 1982; Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, ed riv. e definitiva, Holmes & Meier, New York 1985, vol. III, pp. 899, 1219.
5. Trascrizione del verdetto del Processo di Auschwitz a Francoforte, 19-20 agosto 1965 (4 Ks 2/63), p. 74; Raul Hilberg, The Destruction of European Jews, Quadrangle, Chicago 1967 (1961), pp. 150-151.
6. Jean-François Steiner, Treblinka, Simon & Schuster, New York 1967 (1966), p. 110.
1. Vedi Hans Mommsen, The Reichstag Fire and Its Political Consequences, in Republic to Reich: The Making of the Nazi Revolution, a cura di Hajo Holborn, Pantheon, New York 1972, pp. 129-222.
2. Martin Broszat, The Concentration Camps 1933-1945, in Helmut Krausnick et al., Anatomy of the SS State, Walker, New York 1968 (1965), p. 430; vedi pp. 400-420, 429-430.
3. Ibid., pp. 431-435 (su Eicke); Rudolf Höss, Commandant of Auschwitz: The Autobiography of Rudolf Hoess, World, Cleveland, pp. 83-94.
4. Broszat, Camps [2], pp. 450-452; Ota Kraus e Erich Kulka, The Death Factory. Document on Auschwitz, Pergamon, Oxford 1966, pp. 36-40, 283; Tadeusz Iwaszko, Die Häftlinge, in Auschwitz: Geschichte und Wirklichkeit des Vernichtungslagers, Rowohlt Taschenbuch Verlag, Reinbek bei Hamburg 1980 (1978), pp. 59-66; trascrizione Wolken, pp. 214-215; comunicazione personale di Helen Tichauer (nota come «Zippi aus der Schreibstube»), una ex prigioniera che lavorò nell’ufficio del campo femminile ad Auschwitz-Birkenau, e che fu responsabile fra le altre cose della produzione e distribuzione dei distintivi.
5. Broszat, Camps [2], pp. 416-427.
6. Eugen Kogon, The Theory and Practice of Hell, Berkley Books, New York 1980 (1950), pp. 142, 149.
7. Ibid., pp. 145-151.
8. Broszat, Camps [2], p. 430.
9. Kogon, Theory and Practice [6], p. 150.
10. Ibid., p. 146.
11. Benjamin B. Ferencz, Less Than Slaves: Jewish Forced Labor and the Quest for Compensation, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1979.
12. Höss, Commandant [3], p. 83.
13. Broszat, Camps [2], p. 481; Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, Quadrangle, Chicago 1967 (1961), pp. 181-185.
14. Joseph Borkin, The Crime and Punishment of I.G. Farben, Free Press, New York 1978, pp. 115-127.
15. Hilberg, Destruction [13], pp. 596-600.
16. Höss, Commandant [3], p. 146.
17. Hilberg, Destruction [13], p. 596.
18. Lucy S. Dawidowicz, The War Against the Jews, 1933-1945, Holt, Rinehart & Winston, New York 1975, pp. 134-135; Hilberg, Destruction [13], pp. 555-574; Gerald Fleming, Hitler and the Final Solution, University of California Press, Berkeley 1985 (1982), pp. 24-25.
19. Höss, Commandant [3], pp. 205-206.
20. Ibid., p. 205; vedi Hilberg, Destruction [13], pp. 563-564.
21. Höss, Commandant [3], p. 206.
22. Hilberg, Destruction [13], p. 262; vedi anche pp. 257-262.
23. Ibid., p. 265; vedi pp. 262-266.
24. Per un’utile analisi della storia della Soluzione finale e del ruolo che vi giocò Hitler, vedi l’introduzione di Saul Friedländer a Fleming, Final Solution [18], pp. VII-XXXVI. Fleming sostiene che l’ordine di Hitler era implicito e noto, anche se naturalmente non era stato messo per iscritto. Vedi anche Christopher R. Browning, Fateful Months: Essays on the Emergence of the Final Solution, Holmes & Meier, New York 1985, cap. 1.
25. Höss, Commandant [3], p. 163.
26. Ernst Klee, «Euthanasie» im NS-Staat: Die «Vernichtung lebensunwerten Lebens», S. Fischer, Frankfurt/M. 1983, pp. 368-369; Hilberg, Destruction [13], pp. 218-219.
27. Hilberg, Destruction [13], p. 646.
28. Heinz Höhne, The Order of Death’s Head: The Story of Hitler’s SS, Coward, McCann, New York 1970 (1967), p. 363.
29. Höss, Commandant [3], p. 206.
30. Ibid., pp. 206-207.
31. Ibid., pp. 207-208.
32. Ibid., p. 162; comunicazione personale di Erich Kulka e Yehuda Batier.
33. Ibid., p. 211.
34. Ibid., p. 221.
35. Hilberg, Destruction [13], pp. 567-571; Borkin, Farben [14], pp. 122-123.
36. Borkin, Farben [14], p. 123; Hilberg, Destruction [13], pp. 570-572.
37. Pierre Joffroy, A Spy for God: The Ordeal of Kurt Gerstein, Harcourt, Brace, Jovanovich, New York 1971, pp. 207-209. Vedi anche Saul Friedländer, Kurt Gerstein ou l’ambiguïté du bien, Casterman, Paris 1967 (trad. it. di M.T. Lanza, Kurt Gerstein o l’ambiguità del bene, Feltrinelli, Milano 1967).
38. Hilberg fornisce una stima considerevolmente maggiore della quantità di Zyklon-B usata ad Auschwitz, in Destruction [13], pp. 570-571.
39. Höss, Commandant [3], pp. 162-163.
40. Ibid., p. 163.
41. Ibid.
42. Friedrich Entress, cit. in Hilberg, Destruction [13], p. 555.
1. Trascrizione Wolken, p. 125.
2. Ibid., p. 177.
3. YVAG: O3/1202 (Yehuda Bauer).
4. Loet Van Duin (pseud.), The Other Side of the Moon: The Life of a Young Physician from Holland in Auschwitz, manoscritto inedito, 1980.
5. Mengele/Haifa: 7 (Joshua Rosenblum).
6. Ibid.
7. Konrad Morgen, cit. in Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz, Europaverlag, Wien 1972, p. 336 (trad. it. parziale di D. Ambroset, Uomini ad Auschwitz, prefazione di Primo Levi, Mursia, Milano 1984, p. 309).
8. Trascrizione Rosenblum [5].
9. Ibid.
10. Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, Quadrangle, Chicago 1967 (1961), p. 629.
11. Langbein, Menschen [7], pp. 420-421 (trad. it., p. 386).
12. Rudolf Höss, Commandant of Auschwitz: The Autobiography of Rudolf Hoess, World, Cleveland 1959, p. 171.
13. Ibid., p. 212.
14. Ibid., pp. 212-213; vedi pp. 176-179.
15. Hermann Langbein, cit. in Bernd Naumann, Auschwitz: A Report on the Proceedings Against Robert Kart Ludwig Mulka and Others Before the Court at Frankfurt, Praeger, New York 1966 (1965), pp. l02-l03.
16. Kremers Tagebuch, «Hefte von Auschwitz», 13 (1971), p. 41 (diario, 2 settembre 1942); anche in KL Auschwitz Seen By the SS, Fertig, New York 1984, p. 214.
1. F.K. Kaul, Ärzte in Auschwitz, VEB Verlag Volk und Gesundheit, Ost-Berlin 1968, pp. 160-161.
2. Vedi Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, Quadrangle, Chicago 1967 (1961), pp. 557, 586-588.
3. Trascrizione Wolken, p. 38.
4. Ibid., p. 228.
5. Ibid., pp. 265-266; anche P IIIh Auschwitz 562, Wiener Library, London.
6. Mengele/Haifa, p. 25 (Magdalena Wertesz).
7. Trascrizione Wolken, p. 229.
8. Filip Müller, Sonderkommando: Three Years in the Gas Chambers at Auschwitz, Routledge & Kegan Paul, London 1979, pp. 108-109, pp. 115-116.
9. Ibid., p. 116.
10. Władysław Fejkiel, Health Service in the Auschwitz I Concentration Camp/Main Camp, in Anthology, vol. II, 1, pp. 5-8.
11. Ibid., p. 15.
12. Joseph Borkin, The Crime and Punishment of I.G. Farben, Free Press, New York 1978, pp. 117-119, 124.
13. Ibid., p. 126.
14. Benjamin B. Ferencz, Less Than Slaves: Jewish Forced Labor and the Quest for Compensation, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1979, p. 22.
15. Borkin, Farben [12], pp. 124-125.
16. Farben, rapporto settimanale da Auschwitz, cit. in Borkin, Farben [12], p. 119.
17. Kaul, Ärzte [1], pp. 160-161.
18. Témoignages Strasbourgeois: De l’Université aux camps de concentration, Les Belles Lettres, Paris 1954 (1947), p. 463.
19. Sentenza contro Josef Klehr nella trascrizione del processo di Auschwitz, 19-20 agosto 1965 (4 Ks 2/63), pp. 584-586.
20. Hermann Langbein, Der Auschwitz-Prozess: Eine Dokumentation, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt/M. 1965, pp. 583-590.
21. YVAG, P IIIh Auschwitz 126 (dottor Lucie Adelsberger).
22. Ibid.
1. Hermann Langbein, Der Auschwitz-Prozess: Eine Dokumentation, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt/M. 1965, vol. I, p. 144.
2. Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz, Europaverlag, Wien 1972, p. 377; vedi pp. 406-410 (trad. it. parziale di D. Ambroset, Uomini ad Auschwitz, prefazione di Primo Levi, Mursia, Milano 1984, p. 346; vedi pp. 373-377).
3. Bernd Naumann, Auschwitz: A Report on the Proceedings Against Robert Karl Ludwig Mulka and Others Before the Court at Frankfurt, Pantheon, New York 1966 (1965), p. 62.
4. Ibid., pp. 63-66; Langbein, Menschen [2], pp. 402-403 (trad. it., pp. 369-371).
5. Langbein, Menschen [2], pp. 460-463 (trad. it., pp. 426-428); Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, Quadrangle, Chicago 1967 (1961), pp. 579-580.
6. Fritz Stern, Gold and Iron: Bismarck, Bleichröder and the Building of the German Empire, Alfred A. Knopf, New York 1977, p. 512.
7. Deposizione di Miklos Nyiszli, 28 luglio 1945, davanti alla Commissione di Budapest per l’assistenza agli ebrei ungheresi deportati.
8. Olga Lengyel, Five Chimneys: The Story of Auschwitz, Ziff-Davis, Chicago, 1947, p. 62.
1. Désiré Haffner, Pathological Aspects of the Concentration Camps at AuschwitzBirkenau, Imprimérie Union Coopérative, Tours 1946, mimeografato, p. 21.
2. Loet Van Duin (pseudon.), The Other Side of the Moon: The Life of a Young Physician from Holland in Auschwitz, manoscritto inedito, 1980.
3. Ibid.
4. Ibid.
5. Elie A. Cohen, The Abyss: A Confession, W.W. Norton, New York 1973 (1971), pp. 88-89.
6. Trascrizione Wolken, p. 126.
7. Olga Lengyel, Five Chimneys: The Story of Auschwitz, Ziff-Davis, Chicago 1947, pp. 99-101.
8. Cohen, Abyss [5], p. 100.
1. Olga Lengyel, Five Chimneys: The Story of Auschwitz, Ziff-Davis, Chicago 1947, pp. 89-94.
2. Su Rohde e le donne, vedi Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz, Europaverlag, Wien 1972, pp. 400-401 (trad. it. parziale di D. Ambroset, Uomini ad Auschwitz, prefazione di Primo Levi, Mursia, Milano 1984, pp. 367-368).
3. F.K. Kaul, Ärzte in Auschwitz, VEB Verlag Volk und Gesundheit, Ost-Berlin 1968, pp. 212-218.
1. Mavis M. Hill e L. Norman Williams, Auschwitz in England: A Record of a Libel Action, Stein & Day, New York 1965; Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz, Europaverlag, Wien 1972, pp. 255-257 (trad. it. parziale di D. Ambroset, Uomini ad Auschwitz, prefazione di Primo Levi, Mursia, Milano 1984, pp. 238-240).
2. Langbein, Menschen [1], p. 255 (trad. it., p. 238).
3. Samuel Steinberg, cit. in Langbein, Menschen [1], pp. 255-256 (trad. it. p. 238); Dering, in Hill e Williams, Auschwitz in England [1], p. 63.
4. Langbein, Menschen [1], p. 256 (trad. it., p. 239).
5. Ibid., p. 257 (trad. it., p. 240).
6. Hill e Williams, Auschwitz in England [1], p. 53; vedi pp. 16-18, 54, 69. Leon Uris, Exodus, Doubleday, New York 1958, p. 146 (trad. it. Exodus, Mondadori, Milano 1973); nelle edizioni successive del libro, il brano su Dehring (è questa la grafia usata nel romanzo) omette il numero controverso e insiste sul fatto che era prigioniero.
7. Langbein, Menschen [1], p. 257 (trad. it., p. 240); Hill e Williams, Auschwitz in England [1], pp. 25, 269-271.
8. Su Samuel vedi Langbein, Menschen [1], pp. 262-264 (trad. it., pp. 243-246).
9. Ibid., p. 263 (trad. it., pp. 244-245).
10. Ibid., p. 264 (trad. it., p. 245).
1. Stanisław Klodziński, Phenol in the Auschwitz-Birkenau Concentration Camp, in Anthology, vol. I, 2, p. 100.
2. Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz, Europaverlag, Wien 1972, pp. 47-48 (trad. it. parziale di D. Ambroset, Uomini ad Auschwitz, prefazione di Primo Levi, Mursia, Milano 1984, p. 42).
3. Deposizione Klodziński in Hermann Langbein, Der Auschwitz-Prozess: Eine Dokumentation, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt/M. 1965, vol. II, p. 579.
4. Deposizione Fejkiel. Storie simili sono frequenti: vedi, per esempio, Miklos Nyiszli, Auschwitz: A Doctor’s Eyewitness Account, Frederick Fell, New York 1960, cap. 8 (trad. it. Medico ad Auschwitz, Longanesi, Milano).
5. Klodziński, Phenol [1], p. 113; vedi la deposizione di Klodziński, che dice da 30 a 40, e quella di Czesław Sowul, che dice 80, in Langbein, Auschwitz-Prozess [3], vol. II, p. 767; sull’uccisione di 120 bambini, vedi Bernd Naumann, Auschwitz: A Report on the Proceedings Against Robert Karl Ludwig Mulka and Others Before the Court at Frankfart, Praeger, New York 1966 (1965), pp. 152-185.
6. Deposizione Schuler, 20 luglio 1945, Nuremberg Medical Case, vol. I, p. 687; vedi pp. 684-694.
7. Affidavit di Hoven, 24 ottobre 1946, Nuremherg Medical Case, vol. I, pp. 685-686. Vedi Eugen Kogon, The Theory and Practice of Hell, Berkley Books, New York 1980 (1950), pp. 155-163.
8. Deposizione Klodziński, in Langbein, Auschwitz-Prozess [3], vol. II, p. 584.
9. Langbein, Menschen [2], pp. 48-51 (trad. it., pp. 42-46).
10. Władysław Fejkiel sottolinea il ruolo delle sconfitte militari tedesche nel miglioramento delle cure mediche in Health Service in Auschwitz. I Concentration Camp/Main Camp, in Anthology, vol. II, 1, pp. 21-22.
11. Miklos Nyiszli, Auschwitz: A Doctor’s Eyewitness Account, Frederick Fell, New York 1960, pp. 53-56.
12. Klodziński, Phenol [1], pp. 103-104.
13. Ibid., pp. 109-110.
14. Deposizione Klodziński, in Langbein, Auschwitz-Prozess [3], vol. II, p. 584.
15. Testimonianza Fabian, cit. in Naumann, Auschwitz [5], p. 291.
16. Klodziński, Phenol [1], pp. 104-105.
17. Testimonianza Weiss, cit. in Naumann, Auschwitz [5], p. 295.
18. Ibid., pp. 191-192.
19. Langbein, Menschen [2], pp. 379-380 (trad. it., p. 348).
20. Langbein, cit. in Mavis M. Hill e L. Norman Williams, Auschwitz in England: A Record of a Libel Action, Stein & Day, New York 1965, p. 155; su Entress, vedi anche Langbein, Menschen [2], pp. 377-379 (trad. it., pp. 346-348).
21. Langbein, Menschen [2], p. 378 (trad. it., pp. 346-347).
22. Ibid.
23. Ibid. (trad. it., p. 347).
24. Ibid., pp. 377-378 (trad. it., pp. 346-347).
25. Ibid., pp. 212-213 (trad. it., p. 196).
26. Ibid., p. 213 (trad. it., p. 197).
27. Ibid. (trad. it., p. 196).
28. Ibid. (trad. it. p. 197).
29. Dottor Emil de Martini, cit. in Naumann, Auschwitz [5], p. 157.
30. Dottor Johann Kremer, cit. in Naumann, Auschwitz [5], p. 161.
31. Dottor Tadeusz Paczula, cit. in Langbein, Menschen [2], p. 440 (trad. it., p. 407).
32. Ibid., pp. 441-442 (trad. it., pp. 408-409).
33. Stanisław Glowa, cit. in Naumann, Auschwitz [5], p. 184; vedi anche pp. 137, 152, 162.
34. Paczula, cit. in Langbein, Menschen [2], p. 441 (trad. it., p. 408).
35. Josef Farber, cit. in Langbein, Auschwitz-Prozess [3], vol. II, p. 579.
36. Farber, cit. in Naumann, Auschwitz [5], p. 264.
37. Ibid., p. 410; vedi pp. 412-413, 425; Langbein, Menschen [2], p. 440 (trad. it., p. 406); Langbein, Auschwitz-Prozess [3], pp. 894-896.
38. Naumann, Auschwitz [5], p. 410.
39. Karl Lill, cit. in Langbein, Menschen [2], pp. 440-441 (trad. it., p. 407).
40. Stanisław Glowa, cit. in Naumann, Auschwitz (5), p. 183.
41. Glowa, cit. Ibid., pp. 185-186. Vedi le deposizioni di Tadeusz Holuj, Ota Fabian e Ludwig Wörl in Langbein, Menschen [2], pp. 483-484 (trad. it., pp. 447-448).
42. Langbein, Menschen [2], p. 483 (trad. it., p. 447); deposizioni di Glowacki e Klodziński in Langbein, Auschwitz-Prozess [3], vol. II, pp. 766, 768.
43. Naumann, Auschwitz [5], pp. 412-413, 421-422.
1. Deposizione inedita della dottoressa Kleinova (Praga), sul periodo da lei trascorso al Blocco 10.
2. Adelaide Hautval, Survey of the Experiments Performed in the Women’s Camps at Auschwitz and Ravensbruck (deposizione inedita), e comunicazione personale.
3. Sulla prostituzione ad Auschwitz, vedi Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz, Europaverlag, Wien 1972, pp. 454-455 (trad. it. parziale di D. Ambroset, Uomini ad Auschwitz, prefazione di Primo Levi, Mursia, Milano 1984, pp. 419-420).
4. Jan Sehn, Carl Claubergs verbrecherische Unfruchtbarmachungsversuche an Häftlings-Frauen in den Nazi-Konzentrationslager, «Hefte von Auschwitz», 2 (1959), pp. 3-31 (vedi p. 16 sul sistema della formalina). Höss, cit. in F.K. Kaul, Ärzte in Auschwitz, Verlag Volk und Gesundheit, Ost-Berlin 1968, pp. 277-278.
5. Kaul, Ärzte [4], p. 278.
6. PIIIh (Auschwitz) 863, Wiener Library, Londra.
7. Sehn, Claubergs Unfruchtbarmachungsversuche [4], p. 15.
8. BDC: Clauberg.
9. Sehn, Claubergs Unfruchtbarmachungsversuche [4], pp. 15-16. Vedi anche Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, Quadrangle, Chicago 1967 (1961), pp. 605-606.
10. Clauberg a Himmler, 30 maggio 1942 (NO-211), Nuremberg Medical Case, vol. I, pp. 724-727.
11. Brandt a Clauberg, 10 luglio 1942 (NO-213), Nuremberg Medical Case, vol. I, p. 729.
12. Pokorny a Himmler, ottobre 1941 (NO-35), Nuremherg Medical Case, vol. I, pp. 713-714.
13. Sentenza di assoluzione di Pokorny, Nuremberg Medical Case, vol. II, p. 294.
14. Clauberg a Himmler, 7 giugno 1943 (NO-212), Nuremberg Medical Case, vol. I, pp. 730-732.
15. Langbein, Menschen [3], p. 386 (trad. it., p. 354).
16. Sehn, Claubergs Unfruchtbarmachungsversuche [4], p. 26.
17. PIIIh (Auschwitz) 659, Wiener Library, Londra.
18. Philippe Aziz, Doctors of Death, Ferni, Geneva 1976, vol. II, p. 236, vedi anche pp. 175, 235-237; Sehn, Claubergs Unfruchtbarmachungsversuche [4], pp. 14, 26-27.
19. Aziz, Doctors [18], vol. II, pp. 240-241.
20. Sehn, Claubergs Unfruchtbarmachungsversuche [4], pp. 31-32.
21. Sui complessi di Clauberg per la sua statura anormalmente piccola, vedi Langbein, Menschen [3], p. 387 (trad. it., p. 355).
22. Brack a Himmler, 28 marzo 1941 (NO-203), Nuremberg Medical Case, vol. I, p. 720.
23. G.M. Gilbert, cit. in Joachim C. Fest, The Face of the Third Reich: Portraits of the Nazi Leadership, Pantheon, New York 1970 (1963), p. 121.
24. Michael H. Kater, Das «Ahnenerbe» der SS, 1936-1945: Ein Beitrag zur Kulturpolitik des Dritten Reiches, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 1974, pp. 17-24, 47-53, 227-264.
25. Willi Frischaur, Himmler: The Evil Genius of the Third Reich, Beacon Press, Boston 1953, p. 28.
26. Fest, Face [23], pp. 116, 122.
27. Deposizione Brack, maggio 1947, Nuremberg Medical Case, vol. I, pp. 732-733.
28. Brack a Himmler, 23 giugno 1942 (NO-205), Nuremberg Medical Case, vol. I, pp. 721-722; Himmler a Brack (controfirmata da Brandt), 11 agosto 1942 (NO-206), Nuremberg Medical Case, vol. I, p. 722.
29. Stanisław Klodziński, «Sterilization» and Castration with the Help of X-Rays in the Concentration Camps: The Crimes of Horst Schumann, in Anthology, vol. I, parte seconda, p. 61.
30. Ibid., pp. 59-63.
31. Hautval, Survey [2].
32. Mavis M. Hill e L. Norman Williams, Auschwitz in England: A Record of a Libel Action, Stein & Day, New York 1965, pp. 149-151, 178.
33. Désiré Haffner (manoscritto originale).
34. Vedi Aziz, Doctors of Death [18], vol. II, pp. 183-185.
35. Hill e Williams, Auschwitz in England [32], pp. 18-19; Klodziński, Sterilization [29], pp. 64-65.
36. Hill e Williams, Auschwitz in England [32], pp. 18-19.
37. Aziz, Doctors [18], vol. II, pp. 229-230.
38. Ibid., p. 228-235.
39. Ibid., p. 235.
40. René Mar, in Témoignages Strasbourgeois: De l’Université aux camps de concentration, Les Belles Lettres, Paris 1954 (1947), pp. 251-262.
41. Hilberg, Destruction [9], pp. 608-609; Eichmann Interrogated: Transcripts of the Israeli Police, a cura di Jochen von Lang (con Claus Sibyll), Ferrar, Straus & Giroux, New York 1983, pp. 167-175.
42. Alexander Mitscherlich e Fred Mielke, Doctors of Infamy: The Story of the Nazi Medical Crimes, Henry Schumann, New York 1949, pp. 81-89 (ed. orig. Medizin ohne Menschlichkeit, trad. it. di P. Bernardini Marzolla, Medicina disumana. Documenti del «Processo dei medici» di Norimberga, Feltrinelli, Milano 1967, pp. 126-137); Hilberg, Destruction [9], pp. 608-609; Kater, Ahnenerbe [24], pp. 245-255.
43. Vedi Eugen Kogon, Theory and Practice of Hell, Berkley Books, New York 1980 (1950), pp. 155-167; Mitscherlich e Mielke, Doctors [42], pp. 44-79 (trad. it., pp. 81-121); Kater, Ahnenerbe [24], passim.
44. Kater, Ahnenerbe [24], pp. 245-255; vedi nota 41.
45. Mitscherlich e Mielke, Doctors [42], pp. 88-89 (trad. it., pp. 133-134); Nuremberg Medical Case, vol. I, pp. 738-759.
46. Su Hirt, vedi anche Aziz, Doctors [18], vol. III, pp. 193-255; Frederick Kasten, The Bizarre Case of Nazi Anatomy Professor August Hirt, comunicazione presentata al convegno del 1985 dell’American Historical Association.
47. Langbein, Menschen [3], p. 398 (trad. it., p. 366).
48. Jan Olbrycht, The Nazi Health Office Actively Participated with the S.S. Administration in Auschwitz, in Anthology, vol. I, 1, pp. 188-189; deposizione Władysław Fejkiel in Bernd Naumann, Auschwitz: A Report on the Proceedings Against Robert Karl Ludwig Mulka and Others Before the Court at Frankfurt, Praeger, New York 1966 (1965), p. 155; deposizioni di Olbrycht e Klodziński, in Hermann Langbein, Der Auschwitz-Prozess: Eine Dokumentation, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt/M. 1965, vol. II, pp. 676-677.
49. Nuremberg Medical Case, vol. I, pp. 684-695; Hilberg, Destruction [9], pp. 569-570, 602.
50. Stanisław Klodziński, Criminal Pharmacological Experiments on Inmates of the Concentration Camp in Auschwitz, in Anthology, vol. I, 2, pp. 15-43; vedi anche Jan Mikulski, Pharmakologische Experimente im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau, «Hefte von Auschwitz», 10 (1967), pp. 3-18; Olga Lengyel, Five Chimneys: The Story of Auschwitz, Ziff-Davis, Chicago 1947, pp. 4, 175.
51. Langbein, Menschen [3], p. 389 (trad. it., p. 357).
52. Deposizione dinanzi alla Corte suprema polacca, in Jan Sehn, The Case of the Auschwitz S.S. Physician J.P. Kremer, in Anthology, vol. I, 1, p. 233.
53. Kremers Tagebuch, «Hefte von Auschwitz», 13 (1971), pp. 42, 49.
54. Sehn, Case [52], pp. 211-214; Tagebuch [53], pp. 56-58 (3 e 4 dicembre 1942; 13 gennaio 1943), 64 (10 giugno 1943), 69-72 (26 dicembre 1943; 24 febbraio 1944).
55. Tagebuch [53], p. 70 (26 dicembre 1943).
56. Langbein, Menschen [3], p. 389 (trad. it., p. 357); deposizione Karwowski in Langbein, Auschwitz-Prozess [48], vol. II, p. 578; Olbrycht, Nazi Health Office [48], pp. 187-188.
57. Deposizione del «signor Stern, avvocato a Parigi», The Horrors of Auschwitz (manoscritto inedito).
58. SS im Einsatz: Eine Dokumentation über das Verbrechen der SS, a cura di Heinz Schumann e Heinrich Kühnreich, 7a ed. riv., Deutscher Militarverlag, Ost-Berlin 1964, p. 349.
59. Mengele/Haifa, 35 (Sarah Hönigsmann).
60. Olbrycht, Nazi Health Office [48], p. 186.
61. YVAG, 2039 (dr. Aharon Beilin).
62. Langbein, Menschen [3], pp. 381-382 (trad. it., p. 350).
63. L. Simonius, On Behalf of Victims of Pseudo-Medical Experiments, «International Review of the Red Cross, Geneva», gennaio 1973, p. 13; Internationaler Suchdienst Arolsen, Pseudo-medizinische Versuche im KL Auschwitz-Monowitz: Elektroschock-Behandlungsversuche, 15 febbraio 1973.
64. Georges Wellers e Robert Waitz, Recherches sur la dénutrition prolongée dans les camps de déportation, «Revue Canadienne de Biologie», 6 (1947).
65. Günther Schwarberg, The Murders at Bullenhuser Damm: The SS Doctor and the Children, Indiana University Press, Bloomington 1984 (1980).
66. Walther Darré, ministro dell’Agricoltura, cit. in Robert Cecil, The Myth of the Master Race: Alfred Rosenberg and Nazi Ideology, Dodd, Mead, New York 1972, p. 144.
1. Vedi Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz, Europaverlag, Wien 1972, p. 357 (trad. it. parziale di D. Ambroset, Uomini ad Auschwitz, prefazione di Primo Levi, Mursia, Milano 1984, pp. 329-330).
2. Ibid., pp. 56-60 (trad. it., pp. 51-54).
3. Hans Buchheim, Command and Compliance, in Helmut Krauscnick et al., Anatomy of the SS State, Walker, New York (1965), p. 373. Buchheim esamina qui le ragioni accettabili per evitare ordini nell’ambiente nazista.
1. Ernst Schnabel, Anne Frank: A Portrait in Courage, Harcourt, Brace, New York 1958.
2. Ira Levin, The Boys from Brazil, Random House, New York 1976 (trad. it. di A. Dell’Orto, I ragazzi venuti dal Brasile, Mondadori, Milano); Rolf Hochhuth, The Deputy, Grove Press, New York 1964 (1963); pp. 31-32 (trad. it. di I. Pizzetti, Il Vicario, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 55-57).
3. The Search for Dr. Mengele, intervista di Harry Reasoner, «60 Minutes», 11 marzo 1979.
4. Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz, Europaverlag, Wien 1972, pp. 384-385 (trad. it. parziale di P. Ambroset, Uomini ad Auschwitz, prefazione di Primo Levi, Mursia, Milano 1984, p. 353).
5. Helmut von Verschuer, cit. in Benno Müller-Hill, Tödliche Wissenschaft: Die Aussonderung von Juden, Zigeunern und Geisteskranken 1933-1945, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1984, p. 129.
6. Josef Mengele, Rassenmorphologische Untersuchung des vorderen Unterkieferabschnittes bei vier rassischen Gruppen, Università di Monaco di Baviera, 1935, pubblicato in «Morphologisches Jahrbuch», 79 (1937), pp. 60-117.
7. Josef Mengele, Sippenuntersuchungen bei Lippen-Kiefer-Gaumenspalte, «Zeitschrift für menschliche Vererbungs- und Konstitutionslehre», 23 (1938).
8. Josef Mengele, Zur Vererbung der Ohrfisteln, «Der Erbarzt», 8 (1940), pp. 59-60.
9. Langbein, Menschen [4], p. 385 (trad. it., p. 353).
10. Ibid., p. 384 (trad. it., p. 352); Müller-Hill, Wissenschaft [5], p. 72.
11. Deposizione di Klaus Dylewski (senza data) per il processo di Francoforte a Mengele.
12. Beurteilung des SS Hauptsturmführers (R) Dr. Josef Mengele, 19 agosto 1949 (BDC: Mengele).
13. Deposizione di Arie Fuks, in Bernd Naumann, Auschwitz: A Report on the Proceedings Against Robert Karl Ludwig Mulka and Others Before the Court at Frankfurt, Pantheon, New York 1966 (1965), p. 272.
14. Olga Lengyel, Five Chimneys: The Story of Auschwitz, Ziff-Davis, Chicago 1947, p. 144.
15. Wieslaw Kielar, Anus Mundi: 1500 Days in Auschwitz-Birkenau, Times Books, New York 1970, p. 180.
16. Efraim Stiebelmann, cit. in Langbein, Menschen [4], p. 143 (trad. it., p. 130). Lo stesso fatto è citato da Margaret R. Englander in A Mother’s Story, parte quarta di Mengele of Auschwitz (con Flora Rheta Schreiber), «New York Times» Syndicate, 4 maggio 1975.
17. Mengele/Haifa: 27 (Tova Gruenberger, nata Weiss); 14 (Emil Herzel).
18. Englander, Mother’s Story [16].
19. Lengyel, Five Chimneys [14], pp. 144-145.
20. Ibid.
21. Gisella Perl, I Was a Doctor in Auschwitz, International Universities Press, New York 1948, pp. 120-121.
22. Lengyel, Five Chimneys [14], p. 145.
23. Englander, Mother’s Story [16].
24. Mengele/Haifa: 5 (Aluka Scendefi, nata Agnes Weiss).
25. Mengele/Haifa: 32 (anonimo).
26. Mandato di cattura, Amtsgericht Freiburg/Br., 5 giugno 1959 (YVAG).
27. JAMA, 106 (25 gennaio 1936), p. 308.
28. Ibid.
29. Deposizione di Arpad Hajdu (Budapest), 4 maggio 1972, al processo di Mengele a Francoforte.
30. Miklos Nyiszli, Auschwitz: A Doctor’s Eyewitness Account, Frederick Fell, New York 1960, pp. 39-40.
31. Deposizione di Miklos Nyiszli, 28 luglio 1945, di fronte alla Commissione di Budapest per l’assistenza agli ebrei ungheresi deportati.
32. Nyiszli, Auschwitz [30], p. 59.
33. Mengele/Haifa: 29 (Zivi Ernst Spiegel).
34. Una copia del film è disponibile al Museo di Auschwitz.
35. Müller-Hill, Wissenschaft [5], p. 129.
36. Ibid.
37. Nyiszli, Auschwitz [30], p. 60.
38. Deposizione Nyiszli [31].
39. Nyiszli, Auschwitz [30], pp. 64-65.
40. Langbein, Menschen [4], p. 383 (trad. it., p. 352).
41. Englander, Mother’s Story [16].
42. Loet Van Duin (pseudon.), The Other Side of the Moon: The Life of a Young Physician from Holland in Auschwitz, manoscritto inedito, 1980.
43. Lengyel, Five Chimneys [14], p. 174.
44. Nyiszli, Auschwitz [30], pp. 138-139.
45. Perl, Doctor [21], p. 122.
46. Nyiszli, Auschwitz [30], pp. 33, 171.
47. Mengele, Rassenmorphologische Untersuchung [6], p. 61.
48. Nyiszli, Auschwitz [30], p. 171.
49. Ibid., p. 133.
50. Horst von Glasenapp, comunicazione personale, 7 agosto 1980.
51. Nyiszli, Auschwitz [30], p. 137.
52. Ibid., p. 222.
53. Lengyel, Five Chimneys [14], pp. 145-146.
54. Ibid., p. 146.
55. Ibid.
56. Deposizione Nyiszli [31].
57. Hochhuth, The Deputy [2], p. 32 (trad. it., p. 57).
58. Lengyel, Five Chimneys [14], p. 144.
59. Sulla reazione tedesca al film Holocaust (Olocausto) della NBC, trasmesso nel 1978 negli Stati Uniti e l’anno seguente nella Germania Federale e in molti altri paesi, vedi Peter Märthesheimer e Ivo Frenzel, Im Kreuzfeuer: Der Fernsehfilm «Holocaust», Fischer Taschenbuch Verlag, Frankurt/M. 1979; e Der Krieg gegen die psychisch Kranken: Nach «Holocaust», a cura di Klaus Dörner et al., Psychiatrie-Verlag, Rehburg-Loccum 1980.
60. Vedi la serie Der Fall Mengele, basata sugli appunti ritrovati di Mengele e sui ricordi di suo figlio in «Bunte» (20 giugno-28 luglio 1985). Vedi anche Robert Jay Lifton, What Made This Man Mengele?, «New York Times Magazine», 25 luglio 1985, pp. 16-25. La «prova definitiva» che lo scheletro riesumato era quello di Mengele fu fornita nel marzo 1986 per mezzo di documenti odontoiatrici («New York Times», 28 marzo 1986, p. A8).
1. Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz, Europaverlag, Wien 1972, pp. 411-412 (trad. it. parziale di D. Ambroset, Uomini ad Auschwitz, prefazione di Primo Levi, Mursia, Milano 1984, p. 378).
2. Ibid., p. 432 (trad. it., p. 398).
3. Documentario prodotto da Rolf Orthel e Hans Fels, trasmesso per la prima volta alla televisione olandese il 18 aprile 1985 (comunicazione di Hermann Langbein).
4. Fragebogen zum Verlobungs- und Heiratsgesuch (domanda di matrimonio delle SS), 10 novembre 1936; Wirths a Himmler, 12 novembre 1936 (a proposito del permesso di matrimonio); documento di promozione delle SS, luglio 1944 (BDC: Wirths).
5. Per informazioni biografiche, vedi anche Langbein, Menschen [1], pp. 422-424 (trad. it., pp. 388-390).
6. Langbein, Menschen [1], pp. 413-414 (trad. it., pp. 380-381).
7. Ibid., pp. 48-49 (trad. it., pp. 43-44).
8. Ibid., pp. 49-51 (trad. it., pp. 41-44).
9. Ibid., pp. 417-418 (trad. it., pp. 383-384).
10. Ibid., pp. 56-58 (trad. it., pp. 51-53).
11. Ibid., p. 413 (trad. it., pp. 396-397).
12. Ibid., p. 415 (trad. it., p. 382).
13. Questa immagine di sé si riflette nell’autogiustificazione di Wirths, scritta durante la prigionia in Inghilterra nell’estate del 1945.
14. Langbein, Menschen [1], p. 426 (trad. it., p. 391).
15. Ibid., pp. 426-427 (trad. it., pp. 392-393).
16. Karl Lill ad Albert Wirths, 2 febbraio 1946; Lill alla moglie di Wirths, 2 dicembre 1976. Sull’evacuazione, vedi Langbein, Menschen [1], p. 431 (trad. it., p. 397).
17. Langbein, Menschen [1], pp. 427-428 (trad. it., pp. 393-394).
18. Ibid., pp. 428-430 (trad. it., pp. 394-396).
19. Höss, cit. in Langbein, Menschen [1], pp. 413-414 (trad. it., pp. 380-381).
20. Hermann Langbein, Die Stärkeren: Ein Bericht, Stern, Wien 1949, p. 100.
21. Sugli esperimenti sul tifo, vedi Langbein, Menschen [1], pp. 428-430 (trad. it., pp. 394-396).
22. Ibid., pp. 186-187 (trad. it., p. 174) (sull’offerta di entrare nelle SS); Langbein parla sul fatto di essere mezzo ebreo a p. 19 (trad. it., p. 13).
23. Ibid., pp. 413-414 (trad. it., p. 381).
24. Ibid., p. 420 (trad. it., p. 386); Langbein nel documentario [3].
25. Bernd Naumann, Auschwitz: A Report on the Proceedings Against Robert Karl Ludwig Mulka and Others Before the Court at Frankfurt, Praeger, New York 1966 (1965), pp. 62-66; Langbein, Menschen [1], pp. 485-486 (trad. it., pp. 449-450).
26. Documentario [3].
27. Wirths alla moglie, 7 settembre 1942.
28. Ibid.
29. Ibid.
30. Wirths alla moglie, 23 luglio 1943.
31. Wirths alla moglie, 24 agosto e 22 settembre 1943.
32. Wirths alla moglie, 22 settembre 1943.
33. Wirths alla moglie, 22 settembre, 24 agosto 1943, 29 novembre 1944.
34. Wirths alla moglie, 24 agosto 1943.
35. Wirths alla moglie, 22 settembre 1943.
36. Documentario [3].
37. Wirths alla moglie, 26-27 novembre, 17-18 dicembre 1944.
38. Wirths alla moglie, 17 dicembre 1944, 5 gennaio 1945.
39. Wirths alla moglie, 26-27 novembre, 17-18 dicembre 1944, 1 e 5 gennaio 1945.
40. Wirths alla moglie 14 gennaio, 24 maggio, 5 e 15 luglio 1945.
41. Wirths alla moglie, 19 dicembre 1944.
42. Kremers Tagebuch, «Hefte von Auschwitz», 13 (1971), p. 52 (4 novembre 1942).
43. Wirths alla moglie, 29 novembre 1944.
44. Wirths alla moglie, 2 gennaio 1945.
45. Wirths alla moglie, 14 gennaio 1945.
46. Documentario [3].
47. Wirths alla moglie, 7 settembre 1942; autodifesa di Wirths [13]. Sulla fine delle grandi selezioni e sulla demolizione di Auschwitz all’avvicinarsi delle truppe russe, vedi Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, Quadrangle, Chicago 1967 (1961), p. 631; Miklos Nyiszli, Auschwitz: A Doctor’s Eyewitness Account, Frederick Fell, New York 1960, pp. 190-200.
48. Wirths alla moglie, 29 novembre 1944; Wirths ai genitori, 13 dicembre 1944. Brani di lettere ai genitori sono citati in Langbein, Menschen [1], pp. 421-422.
49. Wirths alla moglie, 23 luglio 1943.
50. Wirths alla moglie, 24 agosto 1943.
51. Wirths alla moglie, 24 luglio 1945, 1° gennaio 1945.
52. Wirths alla moglie, 27 novembre 1944.
53. Filip Müller (con Helmut Freitag), Sonderkommando: Three Years in the Gas Chamber at Auschwitz, Routledge & Kegan Paul, London 1979, p. 160.
54. Wirths alla moglie, 26 e 29 novembre, 17 dicembre 1944, 5 gennaio 1945.
55. Langbein, Menschen [1], pp. 430-431.
56. Vedi ibid., pp. 424-425.
57. Autodifesa di Wirths [13].
58. Wirths alla moglie, 13 gennaio 1945.
59. Autodifesa di Wirths [13].
60. Ibid.
61. Wirths alla moglie, 23 luglio 1943.
62. Autodifesa di Wirths [13]; Langbein, Menschen [1], p. 431.
63. Autodifesa di Wirths [13].
64. Ibid.
65. Wirths ai genitori, 13 dicembre 1944; la prima frase è riprodotta in Langbein, Menschen [I], pp. 421-422.
66. Wirths alla moglie, 24 maggio 1945.
67. Ibid.
68. Wirths alla moglie, 24 maggio e 5 luglio 1945.
69. Wirths alla moglie, 15 luglio 1945.
70. Ibid.
71. Autodifesa di Wirths [13]; valutazione militare dell’SS-Hauptsturmführer dottor Eduard Wirths, 3 luglio 1944; valutazione professionale di Wirths data da Lolling, 5 luglio 1944 (BDC: Wirths).
72. Appunti di Wirths sulla visione di Dio di Nietzsche, riprodotti da Nietzsche: Sein Leben in Selbstzeugnissen. Briefen un Berichten, a cura di Friedrich Würzbach, Propyläen Verlag, Berlin 1942, pp. 44-45 (scritti sul verso di orari di aerei).
73. Leslie H. Farber, The Ways of the Will: Essays toward a Psychology and Psychopathology of Will, Basic Books, New York 1966, vedi cap. IV.
74. Karl Lill ad Albert Wirths, 2 dicembre 1946.
75. Langbein, Menschen [1], p. 428.
76. Lill ad Albert Wirths, 2 dicembre 1946; Lill alla moglie di Wirths, 2 dicembre 1976.
77. Ibid.
78. Documentario [3].
79. Albert Wirths al presidente della corte al processo di Auschwitz a Francoforte, 12 settembre 1964.
1. Paul W. Pruyser, What Splits in Splitting?, «Bulletin of the Menninger Clinic», 39 (1975), pp. 1-46.
2. Ibid., p. 46. Vedi anche Jeffrey Lustman, On Splitting, in The Psychoanalytic Study of the Child, a cura di Kurt Eissler et al., vol. 19 (1977), pp. 19-54; Charles Rycroft, A Critical Dictionary of Psychoanalysis, Basic Books, New York 1968, pp. 156-157.
3. Vedi Pierre Janet, The Major Symptoms of Hysteria: fifteen lectures given in the Medical School of Harvard University, Macmillan, New York 1907, e Les médications psychologiques, Alcan, Paris 1919. Vedi anche Leston Havens, Approaches to the Mind, Little, Brown, Boston 1973, pp. 34-62; e Henri F. Ellenberger, The Discovery of the Unconscious, Basic Books, New York 1970, pp. 364-417 (trad. it. di W. Bertola, A. Cinato, F. Mazzone, R. Valla, La scoperta dell’inconscio. Storia della psichiatria dinamica, Boringhieri, Torino 1976, vol. I, pp. 387-481).
4. Sigmund Freud e Josef Breuer, Studies on Hysteria, in Standard Edition of the Works of Sigmund Freud, a c. di James Strachey, Hogarth Press, London 1955 (1893-1895), vol. II, pp. 3-305 (ed. orig. Studien über Hysterie, Franz Deuticke, Leipzig-Wien 1895; trad. it., Studi sull’isteria, in Opere, Boringhieri, Torino 1966-1980, vol. 1).
5. Edward Glover, On the Early Development of Mind: Selected Papers on Psychoanalysis, International Universities Press, New York 1956 (1943), vol. I, pp. 307-323.
6. Melanie Klein, Notes on Some Schizoid Mechanisms, «International Journal of Psychoanalysis», 27 (1946), pp. 99-110; e Otto F. Kernberg, The Syndrome, in Borderline Conditions and Pathological Narcissism, Jason Aronson, New York 1973, pp. 3-47.
7. Henry V. Dicks, Licensed Mass Murder: A Socio-Psychological Study of Some SS Killers, Basic Books, New York 1972.
8. Vedi, per esempio, Erik H. Erikson, Identity: Youth and Crisis, W.W. Norton, New York 1968 (trad. it. di G. Raccà, Gioventù e crisi di identità, Armando, Roma 1974); Heinz Kohut, The Restoration of the Self, International Universities Press, New York 1977; Henry Guntrip, Psychoanalytic Theory, Therapy and the Self, Basic Books, New York 1971; e Robert Jay Lifton, The Broken Connection: On Death and the Continuity of Life, Basic Books, New York 1983 (1979).
9. William James, The Varieties of Religious Experience: A Study in Human Nature, Collier, New York 1961 (1902), p. 144.
10. I due principali studi di Rank su questo fenomeno sono The Double: A Psychoanalytic Study, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1971 (1925) (ed. orig., Der Doppelgänger, Leipzig-Wien 1914; trad. it. di M.G. Cocconi Poli, Il doppio, il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, SugarCo, Milano 1979); e The Double as Immortal Self, in Beyond Psychology, Dover, New York 1958 (1941), pp. 62-101.
11. Rank, Double [10], pp. 3-9 (trad. it., pp. 15-21); Rank, Beyond Psychology [10], pp. 67-69. Su Der Student von Prag, vedi Siegfried Kracauer, From Caligari to Hitler: A Psychological History of the German Film, Princeton University Press, Princeton 1947, pp. 28-30 (trad. it. di G. Baracco e C. Doglio, Cinema tedesco. Dal «Gabinetto del dottor Caligari» a Hitler, Mondadori, Milano 1973).
12. E.T.A. Hoffmann, Story of the Lost Reflection, in Eight Tales of Hoffmann, a cura di J.M. Cohen, London 1952 (trad. it., La storia del riflesso perduto, in Romanzi e racconti, trad. it. di C. Pinelli, A. Spaini e G. Vigola, Einaudi, Torino 1969).
13. Rank, Beyond Psychology [10], p. 98.
14. Ibid.
15. Sull’«artista-eroe» di Rank, vedi Rank, Beyond Psychology [10], pp. 97-101.
16. Rank, Double [10], p. 76 (trad. it., pp. 96-97).
17. Ibid. (trad. it., p. 96).
18. Rank, Beyond Psychology [10], p. 82.
19. Michael Franz Basch, The Perception of Reality and the Disavowal of Meaning, «Annual of Psychoanalysis», 11, International Universities Press, New York 1982, p. 147.
20. Ralph D. Allison, When the Psychic Glue Dissolves, «HYPNOS-NYTT», dicembre 1977.
21. Le prime due influenze sono descritte in George B. Greaves, Multiple Personality: 165 Years After Mary Reynolds, «Journal of Nervous and Mental Diseases», 168 (1977), pp. 577-596. Il terzo elemento è stato sottolineato da Freud in The Ego and the Id, in Standard Edition of the Works of Sigmund Freud, a c. di James Strachey, Hogarth Press, London 1955 (1923), vol. XIX, pp. 30-31 (trad. it. di C. Musatti, L’Io e l’Es, cap. 3, in Opere, Boringhieri, Torino, 1966-1980, vol. IX).
22. Ellenberger, Unconscious [3], pp. 394-400.
23. Margaretta K. Bowers et al., Theory of Multiple Personality, «International Journal of Clinical and Experimental Hypnosis», 19 (1971), p. 60.
24. Vedi Lifton, Broken Connection [8], pp. 407-409; e Charles H. King, The Ego and the Integration of Violence in Homicidal Youth, «American Journal of Orthopsychiatry», 45 (1975), p. 142.
25. Robert W. Rieber, The Psychopathy of Everyday Life, manoscritto inedito.
26. James S. Grotstein, The Soul in Torment: An Older and Newer View of Psychopathology, «Bulletin of the National Council of Catholic Psychologists», 25 (1979), pp. 36-52.
27. Vedi Robert Jay Lifton, Home From the War: Vietnam Veterans, Neither Victims Nor Executioners, Basic Books, New York 1984 (1973).
28. Rudolf Höss, cit. in Karl Buchheim, Command and Compliance, in Helmut Krausnick et al., Anatomy of the SS State, Walker, New York 1968 (1965), p. 374.
29. Christian de La Mazière, The Captive Dreamer, Saturday Review Press, New York 1974, pp. 14, 34.
30. John H. Hanson, Nazi Aesthetics, «The Psychohistory Review», 9 (1981), p. 276.
31. Werner Picht, sociologo, cit. in Heinz Höhne, The Order of Death’s Head: The Story of Hitler’s SS, Coward-McCann, New York 1970 (1966), pp. 460-461.
32. Rolf Hochhuth, A German Love Story, Little, Brown, Boston 1980 (1978), p. 220.
33. Rank, Beyond Psychology [10], p. 68.
34. Koppel S. Pinson, Modern Germany: Its History and Civilization, 2a ed., Macmillan, New York 1966, pp. 1-3 (l’ultima frase è tratta da Nietzsche, Al di là del bene e del male).
35. Ronald Gray, The German Tradition in Literature, 1871-1945, Cambridge University Press, Cambridge 1965, pp. 3, 79.
36. Faust, cit. in Pinson, Germany [34], p. 3 (trad. it. di L. Scalero, Il primo Faust, Rizzoli, Milano 1949, p. 45).
37. Gray, Tradition [35], pp. l-3.
38. Walter Kaufmann, Goethe’s Faust, Doubleday, New York 1961, p. 17.
39. Thomas Mann, Doctor Faustus: La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico, trad. it. e introduzione di E. Pocar, Mondadori, Milano 1968 (1947), p. 297.
40. Ibid., p. 304.
41. Rank, Der Doppelgänger [10], vedi anche Robert Rogers, A Psychoanalytic Study of the Double in Literature, Wayne State University Press, Detroit 1970.
1. Paul Brohmer, The New Biology: Training in Racial Citizenship, 1933, in George L. Mosse, ed., Nazi Culture: Intellectual, Cultural and Social Life in the Third Reich, Grosset & Dunlap, New York 1968, pp. 81-90.
2. Antoni Kepiński, «Anus mundi», in Anthology, vol. I, 2, p. 2.
3. Adolf Hitler, Mein Kampf, Houghton Mifflin, Boston 1943 (1925-26), p. 402 (trad. it. del II vol. La mia battaglia, 16a ed., Bompiani, Milano 1941 [1934], p. 41).
4. Susanne K. Langer, Mind: An Essay on Human Feeling, vol. III, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1982, p. 70.
5. Ibid., p. 83.
6. Vedi Hitler, Mein Kampf [3], pp. 398-497 (trad. it., pp. 38-45).
7. Robert Jay Lifton, The Broken Connection: On Death and the Continuity of Life, Basic Books, New York 1983 (1979), p. 74.
8. Leo Alexander, introduzione a Alexander Mitscherlich e Fred Mielke, Doctor of Infamy: The Story of the Nazi Medical Crimes, Henry Schumann, New York 1949 (1947), p. XXXII.
9. Erik H. Erikson, Ontogeny of Ritualization in Man, «Philosophical Transactions of the Royal Society of London», 251, serie B (1966), p. 343.
10. Clifford Geertz, The Interpretations of Culture: Selected Essays, Basic Books, New York 1973, p. 114.
11. Erikson, Ontogeny [9], pp. 339, 345.
12. M. Singer, cit. in Geertz, Interpretations [10], p. 113.
13. Dorothea Lee, cit. in Langer, Mind [4], p. 59.
14. Robert Jay Lifton, Home From the War: Vietnam Veterans, Neither Victims Nor Executioners, Basic Books, New York 1984 (1973), capp. 2, 5 e 6.
15. Langer, Mind [4], p. 79.
16. Hermann Rauschning, Hitler Speaks: A Series of Political Conversations with Adolf Hitler on his Real Aims, T. Butterworth, London 1939, p. 222.
17. Robert C. Cecil, The Myth of the Master Race: Alfred Rosenberg and Nazi Ideology, Dodd, Mead, New York 1972, p. 147.
18. Ibid.
19. Heinz Höhne, The Order of Death’s Head: The Story of Hitler’s SS, CowardMcCann, New York 1970 (1966), p. 147.
20. Himmler, cit. in Felix Kersten, The Memoirs of Doctor Felix Kersten, a cura di Herma Briffault, Doubleday, Garden City, N.Y. 1947, p. 151.
21. Thomas Mann, Doctor Faustus: La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico, trad. it. e introduzione di E. Pocar, Mondadori, Milano 1968 (1947), p. 435.
22. Himmler, cit. in Lucy S. Dawidowicz, The War Against the Jews, 1933-1945, Holt, Rinehart & Winston, New York 1975, p. 149.
23. Himmler, cit. in Roger Manvell e Heinrich Fraenkel, Heinrich Himmler, Heinemann, London 1965, pp. 135-136.
24. Così Karl Hennicke, descrivendo il suo ufficiale superiore, in Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, Quadrangle, Chicago 1967 (1961), p. 215; Hans Buchheim, Command and Compliance, in Helmut Krausnick et al., Anatomy of the SS State, Walker, New York 1968 (1965), p. 328 («causa criminale»).
25. Himmler (maggio 1944), cit. in Buchheim, Command and Compliance [24], p. 366.
26. Hilberg, Destruction [24], pp. 215-216; Höhne, Death’s Head [19], p. 363.
27. Hilberg, Destruction [24], p. 243; Höhne, Death’s Head [19], pp. 544- 545.
28. Höhne, Death’s Head [19], p. 363.
29. Vedi Buchheim, Command and Compliance [24], pp. 334-343.
30. Werner Best, cit. in Martin Broszat, The Concentration Camps, in Krausnick et al., Anatomy [24], p. 427.
31. Ronald Gray, The German Tradition in Literature, 1871-1945, Cambridge University Press, Cambridge 1965, pp. 81-82 (su Benn e Heidegger).
32. James H. McRandle, The Track of the Wolf: Essays on National Socialism and Its Leader, Adolf Hitler, Northwestern University Press; Evanston Ill., 1965, p. 125, attribuisce l’espressione «gelida logica» a Hannah Arendt. La Arendt, comunque, aveva notato che lo stesso Hitler «amava» riferirsi alla «freddezza glaciale» della logica umana (Ideologie und Terror, in Offener Horizont: Festschrift für Karl Jaspers, Piper, München 1953, p. 244).
33. Lifton, Broken Connection [7], pp. 222-238. Vedi anche Daniel Schreber, Memoirs of My Nervous Illness, a c. di Ida Macalpine e Richard A. Hunter, William Dawson, London 1955 (ed. orig. Denkwürdigkeiten eines Nervenkranken, Oswald Mutze, Leipzig 1903; trad. it. di F. Scardanelli e S. De Waal, a cura di R. Calasso, Memorie di un malato di nervi, Adelphi, Milano 1974); è Harold F. Searles, Collected Papers on Schizophrenia and Related Subjects, International Universities Press, New York 1965.
34. Robert Jay Lifton, Thought Reform and the Psychology of Totalism: A Study of «Brainwashing» in China, W.W. Norton, New York 1963, pp. 427-429.
35. Daniel Gasman, The Scientific Origins of National Socialism: Social Darwinism in Ernst Haeckel and the German Monist League, Elsevier, New York 1971, p. 150.
36. Ibid., p. 157.
37. Ibid., pp. 39-40.
38. E.E. Evans-Pritchard, The Logic of African Science and Witchcraft, in Max Marwick, ed., Witchcraft and Sorcery: Selected Readings, Penguin, Baltimore 1970, p. 327.
39. Sull’ottundimento psichico e la violenza insensibile, vedi Robert Jay Lifton, Death in Life: Survivors of Hiroshima, Basic Books, New York 1983 (1968); Lifton, Home from the War [14]; Lifton, The Life of the Self Toward a New Psychology, Basic Books, New York 1983 (1976); e Lifton, Broken Connection [7].
40. Alexander e Margarete Mitscherlich, The Inability to Mourn, Grove Press, New York 1975 (1967) (ed. orig., Die Unfähigkeit zu trauern. Grundlagen kollektiven Verhaltens, Piper, München 1967; trad. it., Germania senza lutto. Psicoanalisi del postnazismo, Sansoni, Firenze 1970).
41. Vedi la lettera da un amico nella Luftwaffe, in Friedrich Percyval Reck-Malleczewen, Diary of a Man in Despair, Macmillan, New York 1970, p. 89. Sull’idea affine di «durezza» vedi Buchheim, Command and Compliance [24], pp. 334-343.
42. Sul modo di intendere la nozione «È desiderio del Führer», vedi Gerald Fleming, Hitler and the Final Solution, University of California Press, Berkeley 1984 (1982), specialmente pp. 126-139.
43. Raul Hilberg, Confronting the Moral Implications of the Holocaust, «Social Education», 42 (1978), p. 275; Hilberg, Destruction [24], p. 216.
44. Hilberg, Moral Implications [43], p. 273.
45. Höss, cit. in Buchheim, Command and Compliance [24], p. 374.
46. Fred. E. Katz, A Sociological Perspective to the Holocaust, «Modern Judaism», 2 (1982), p. 280.
47. J.P. Stern, Hitler: The Führer and the People, Fontana/Collins, Glasgow 1971, pp. 70-71.
48. Citazione da una lettera di un amico nella Luftwaffe, in Reck-Malleczewen, Diary [41], p. 87.
49. Cecil, Myth [17], pp. 2-3.
50. Langer, Mind [4], pp. 79-80.
51. Geoffrey Cocks, Psyche and Swastika: «Neue Deutsche Seelenheilkunde» 1935-1945, tesi di dottorato University of California, Los Angeles 1975, pp. 332-333.
52. Michael Kater, Proftssionalization and Socialization of Physicians in Wilhelmine and Weimar Germany, «Journal of Contemporary History», 20 (1985), pp. 677-701.
53. Kurt Blome, Arzt im Kampf: Erlebnisse und Gedanken, J.A. Barth, Leipzig 1942.
54. Joachim C. Fest, The Face of the Third Reich: Portraits of the Nazi Leadership, Pantheon, New York 1970 (1963), p. 542.
55. Stephan Leibfried e Florian Tennstedt, Berufsverbote und Sozialpolitik, 1933: Die Auswirkungen der nationalsozialistischen Machtergreifung auf die Krankenkassenverwaltung und die Kassenärzte, Universität Bremen, Bremen, 1981.
56. Hilberg, Destruction [24], p. 635.
57. Rudolf Höss, Commandant of Auschwitz: The Autobiography of Rudolf Hoess, World, Cleveland 1959 (1951), p. 121.
58. Eugen Kogon, The Theory and Practice of Hell, Berkley Books, New York 1980 (1950), p. 150.
59. Vedi Günther Schwarberg, The Murders at Büllenhuser Damm, Indiana University Press, Bloomington 1984 (1980).
60. Alexander Mitscherlich, comunicazione personale.
61. Miklos Nyiszli, cit. in Léon Poliakov, Auschwitz, Julliard, Paris 1964, p. 115.
62. Loren Eiseley, Man, the Lethal Factor, manoscritto inedito.
63. Professor Franz Hamburger, in un discorso di inaugurazione della Società Medica di Vienna controllata dai nazisti, riportato in JAMA, 112 (1939), p. 1982.
64. Vedi William Ryan, Blaming the Victim, ed. riv., Vintage, New York 1976.
65. Hitler in un discorso al Reichstag, 30 gennaio 1939, cit. in Dawidowicz, War Against the Jews [22], p. 106 (trad. it. cit. da Walther Hofer, Il nazionalsocialismo. Documenti 1933-1945, trad. it. di S. Bologna, Feltrinelli, Milano 1964, p. 237).
66. Lifton, Broken Connection [7], pp. 302-334.
67. Höss, Commandant [57], pp. 142-146.
68. Vedi Mircea Eliade, The Sacred and the Profane: The Nature of Religion, Harcourt, Brace, New York 1959 (1957), pp. 29-32 (ed. orig., Le sacré et le profane, Gallimard, Paris 1965; trad. it. di E. Fadini, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1973).
69. Langer, Mind [4], p. 181.
70. Eiseley, Lethal Factor [62], cit. in Lifton, Broken Connection [7], pp. 292, 297.
71. Lifton, Home [14], cap. 6.
72. Steven Kull, Nuclear Nonsense, «Foreign Policy», 20 (primavera 1985) pp. 28-52.
1. Thomas Mann, Doctor Faustus: La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico, trad. it. e introduzione di E. Pocar, Mondadori, Milano 1968 (1947), p. 275.
2. Leo Kuper, Genocide: Its Political Use in the Twentieth Century, Vale University Press, New Haven 1981, pp. 19-23, 210-214.
3. Ibid., p. 22.
4. Robert Jay Lifton, The Broken Connection: On Death and the Continuity of Life, Basic Books, New York 1983 (1979).
5. George M. Kren, Psychohistory, Psychobiography and the Holocaust, «Journal of Psychohistory», 13 (1984) pp. 40-45; Israel W. Charny, A Contribution to the Psychology of Genocide. Sacrificing Others to the Death We Fear Ourselves, «Israel Yearbook on Human Rights», 10 (1980), pp. 98, 102-103. Vedi anche Charny (con Chanon Rapaport), How Can We Commit the Unthinkable?: Genocide, The Human Cancer, Westview Press, Boulder, Col. 1982.
6. Theodore H. von Laue, Adolf Hitler: Expressionist and Counter revolutionary, manoscritto inedito.
7. Fritz Stern, The Politics of Cultural Despair: A Study in the Rise of the Germanic Ideology, University of California Press, Berkeley 1961, p. 33.
8. Vedi John H. Hanson, Nazi Aesthetics, «The Psychohistory Review», 9 (1981), pp. 251-281.
9. Robert C. Cecil, The Myth of the Master Race: Alfred Rosenberg and Nazi Ideology, Dodd, Mead, New York 1972, p. 93.
10. Goethe, Art and Antiquity, cit. in Erich Heller, The Disinherited Mind: Essays in Modern German Literature and Thought, 3a ed., Barnes & Noble, New York 1971, p. 101. Sul comportamento collettivo vedi Robert Jay Lifton, On Psychohistory, in Explorations in Psychohistory: The Wellfleet Papers, a cura di Lifton e Eric Olson, Simon & Schuster, New York 1974, pp. 21-41.
11. Von Laue, Hitler [6].
12. Thomas Mann, Frederick and the Great Coalition, 1915, cit. in Ronald Gray, The German Tradition in Literature, 1871-1945, Cambridge University Press, Cambridge 1965, pp. 39-40 (trad. it. di N. Carli, Federico e la Grande Coalizione, Studio Tesi, Pordenone 1986).
13. Ibid., pp. 48-49.
14. Weber, lettera dell’aprile 1915, cit. in Gray, German Tradition [12], p. 37.
15. Meinecke, cit. in von Laue, Hitler [6].
16. Ernst Jones, The Life and Work of Sigmund Freud, Basic Books, New York 1955, vol. II, pp. 171-172 (trad. it. A. Novelletto e M. Cerletti Novelletto, Vita e opere di Freud, Il Saggiatore, Milano 1962; ed. su licenza, Garzanti, Milano 1977, vol. II, pp. 217, 218).
17. Gray, Tradition [12], p. 49; Hilton Kramer, Rediscovering the Art of Max Beckmann, «New York Times Magazine», 19 agosto 1984, pp. 28-34.
18. Hitler, Mein Kampf, Houghton Mifflin, Boston 1943 (1925-1926), pp. 161, 435 (trad. it. del I vol., La mia vita, 13a ed., Bompiani, Milano 1942; trad. it. del II vol., La mia battaglia, 16a ed., Bompiani, Milano 1941 [1934], p. 83).
19. Vahakn N. Dadrian, The Rote of Turkish Physicians in the World War I Genocide of Ottoman Armenians, «Holocaust and Genocide Studies», I (1986); Dadrian, The Common Features of the Armenian and Jewish Cases of Genocide: A Comparative Victimological Perspective, in Israel Drapkin e Emilio Viano, Victimology: A New Focus, vol. IV, D.C. Heath, Lexington, Mass. 1974, pp. 99-120. Vedi anche Helen Fein, Accounting for Genocide: Victim – and Survivors – of the Holocaust, Free Press, New York 1979, pp. 10-18.
20. Isaiah Berlin, Nationalism: Past Neglect and Present Power, «Partisan Review», 46 (1979), pp. 337-358.
21. Ibid.
22. Martin Bormann ad Alfred Rosenberg, 22 febbraio 1940, cit. in Koppel S. Pinson, Modern Germany: Its History and Civilization, 2a ed., Macmillan, New York 1966, p. 497.
23. Von Laue, Hitler [6].
24. Il politico nazionalista Hans Schlange-Schoeningen, 1948, cit. in Pinson, Germany [22], p. 500.
25. Otto Meissner, segretario del Presidente del Reich (sotto Ebert, Hindenburg e Hitler), cit. in Pinson, Germany [22], p. 500.
26. Gray, Tradition [12], pp. 48-49.
27. Robert Wistrich, Who’s Who in Nazi Germany, Macmillan, New York 1982, p. 162.
28. Robert Jay Lifton, Thought Reform and the Psychology of Totalism: A Study of «Brainwashing» in China, W.W. Norton, New York 1963, cap. 22.
29. Werner Sombart, cit. in Pinson, Germany [22], p. 502.
30. Werner Best, cit. in Martin Broszat, The Concentration Camps 1933-1945, in Helmut Krausnick et al., Anatomy of the SS State, Walker, New York 1968 (1965), pp. 426-427.
31. George Weippert, The Reich as German Mission, 1934, cit. in Karl Dietrich Bracher, The German Dictatorship, Praeger, New York 1970 (1969), p. 251.
32. Hitler, Mein Kampf [18], pp. 442-451 (trad. it., pp. 91-102).
33. Professor Walter Frank, 1936, cit. in Cecil, Myth [9], p. 150.
34. Vedi Dadrian, Turkish Pkysicians e Common Features [19].
35. Gustav Mevissen, cit. in Pinson, Germany [22], pp. 139-140.
36. Ibid., pp. 483-484.
37. Friedrich Percyval Reck-Malleczewen, Diary of a Man in Despair, Macmillan, New York 1970 (1966), p. 65.
38. Sull’idea di Reich, vedi Uriel Tal, «Political Faith» of Nazism Prior to the Holocaust, conferenza annuale del 1978 della Cattedra Jacob e Shoshona Schreiber di Storia ebraica contemporanea, Tel Aviv University, Tel Aviv 1978, p. 24, e Nazism as a Political Faith, «Jerusalem Quarterly», 15 (1980), pp. 70-90.
39. Lettera da un amico nella Luftwaffe, cit. in Reck-Malleczewen, Diary [37], pp. 87-89.
40. Fritz Lenz, Menschliche Auslese und Rassenhygiene, J.F. Lehmanns Verlag, München 1923, p. 337.
41. Philipp Lenard, premio Nobel per la fisica, cit. in Alan D. Beyerchen, Scientists Under Hitler: Politics and the Physics Community in the Third Reich, Yale University Press, New Haven 1977, p. 131.
42. Heller, Disinherited Mind [10], pp. 101-104.
43. Dadrian, Turkish Physicians [19].
44. Hugo Ball, cit. in John H. Hanson, Psychohistorical Perspectives on the European Avant-garde, manoscritto inedito.
45. Ibid.
46. Hanson, Nazi Aesthetics [8], p. 252 (sul culto degli avi). Sulle Waffen-ss, vedi Heinz Höhne, The Order of the Death’s Head: The Story of Hitler’s SS, Coward-MacCann, New York 1970 (1967), p. 461; vedi anche il capitolo XVI.
47. Hanson, Nazi Aesthetics [8], pp. 260-261.
48. Goebbels, cit. in Rolf Hochhuth, A German Love Story, Little, Brown, Boston 1980 (1978), p. 18.
49. Hitler, cit. in Eberhard Jäckel, Hitler’s Weltanschauung: A Blueprint for Power, Wesleyan University Press, Middletown, Conn. 1972 (1969), pp. 54, 131 nota 17.
50. Himmler, cit. in Hans Buchheim, Command and Compliance, in Krausnick et al., Anatomy [30], p. 338.
51. Ho discusso il concetto di colpevolizzazione e persecuzione religiosa in The Broken Connection [4], pp. 314-315.
52. Robert S. Gottfried, The Black Death: Natural and Human Disaster in Medieval Europe, Simon & Schuster, New York 1979, pp. 52-53, 68-69, 73-74.
53. Adolf Leschnitzer, The Magic Background of Modern Anti-Semitism: An Analysis of the German-Jewish Relationship, International Universities Press, New York 1969 (1956), pp. 99, 112-120, 221 nota 7. Vedi anche Jäckel, Weltanschauung [49]; Rudolph Binion, Hitler Among the Germans, Elsevier, New York 1976; Vanberto Morais, A Short History of Anti-Semitism, W.W. Norton, New York 1976.
54. Hermann Glaser, The Cultural Roots of National Socialism, Croom, Helm, London 1978, p. 79.
55. Ibid., pp. 220, 225-226; Paul de Lagarde, cit. in Stern, Cultural Despair [7], pp. 62-63.
56. Glaser, Roots [54], p. 226.
57. Hermann Lietz, cit. in G[eorge] L. Mosse, The Mystical Origins of National Socialism, «Journal of the History of Ideas», 22 (1961), pp. 94-95.
58. Glaser, Roots [54], p. 224.
59. Ibid., pp. 126-127.
60. Léon Poliakov, The History of Anti-Semitism: From the Time of Christ to the Court Jew, Vanguard, New York 1965, pp. 216-226 (ed. orig., Histoire de l’antisémitisme, 3 voll., Calmann-Lévy, Paris 1957-1968; trad. it., Storia dell’antisemitismo, 3 voll., La Nuova Italia, Firenze 1974-1976).
61. Erik Erikson, Young Man Luther: A Study in Psychoanalysis and History, W.W. Norton, New York 1958, cap. 6.
62. W. Beumelburg, cit. in Glaser, Roots [54], p. 197.
63. Ibid., pp. 221-222.
64. Deposizione di Werner Leibbrandt, Nuremberg Medical Case, vol. I, p. 81.
65. Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, Quadrangle, Chicago 1967 (1961), pp. 262-263.
66. Conversazione personale con Raul Hilberg e Yehuda Bauer. Per una buona analisi recente, vedi Saul Friedländer, Introduction, in Gerald Fleming, Hitler and the Final Solution, University of California Press, Berkeley 1984 (1982), pp. VII-XXXIII; e Christopher R. Browning, Fateful Months: Essays on the Emergence of the Final Solution, Holmes & Meier, New York 1985.
67. Hitler, Mein Kampf [18], p. 257.
68. Vedi Buchheim, Command and Compliance [50], p. 362; Höhne, Death’s Head [46], pp. 309-329.
69. Mircea Eliade, Shamanism: Archaic Techniques of Ecstasy, Princeton University Press, Princeton 1972 (1951), pp. 184-189 (ed. orig., Le Chamanisme et les techniques archaïques de l’extase, 2a ed. accr., Payot, Paris 1968; trad. it., Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Edizioni Mediterranee, Roma 1983). Vedi anche Norman Cohn, Warrant for Genocide: The Myth of the Jewish World-Conspiracy and the Protocols of the Elders of Zion, Scholars Press, Chico, Cal. 1981 (1967).
70. George L. Mosse, War and the Appropriation of Nature, in Germany in the Age of Total War, a cura di Volker R. Berghahn e Martin Kitchen, Barnes & Noble, Totowa, N.J. 1981, p. 107.
71. Alfred Baeumler, cit. in George L. Mosse, Friendship and Nationhood: About the Promise and Failure of German Nationalism, «Journal of Contemporary History», 17 (1981), p. 363.
72. George L. Mosse, Death, Time and History, in Masses and Man: Nationalist and Fascist Perceptions of Reality, Howard Fertig, New York 1980, pp. 71-73.
73. Mary Douglas, Purity and Danger: An Analysis of Concepts of Pollution and Decay, Routledge & Kegan Paul, London 1978 (1966), pp. 5, 13-18, 59 (trad. it. di A. Vatta, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e di tabù, Il Mulino, Bologna 1976).
74. Ibid., pp. 34-35.
75. Ibid., p. 173.
76. Lifton, Broken Connection [4], pp. 305-306.
77. Fritz Stern, Gold and Iron, Bismarck, Bleichröder and the Building of the German Empire, Alfred A. Knopf, New York 1977, p. XVIII.
78. Douglas, Purity [73], p. 29.
79. James J. McRandle, The Track of the Wolf: Essays on National Socialism and Its Leader, Adolf Hitler, Northwestern University Press, Evanston, Illinois, 1965, pp. 134, 137.
80. Mosse, Death, Time [72], p. 72.
81. Hanns Löhr, Über die Stellung und Bedeutung der Heilkunde im nationalsozialistischen Staate (1935), in Nazi Culture: Intellectual, Cultural and Social Life in the Third Reich, a cura di George L. Mosse, Grosset & Dunlap, New York 1966, p. 234.
82. Douglas, Purity [73], p. 69.
83. Ibid., p. 102.
84. Geoffrey W. Conrad e Arthur A. Demarest, Religion and Empire: The Dynamics of Aztec and Inca Expansionism, Cambridge University Press, Cambridge, England 1984, pp. 38, 41. (La citazione che segue è da Miguel León-Portilla.)
85. Ibid., p. 41.
86. Ibid., p. 44.
87. Susanne K. Langer, Mind: An Essay on Human Feeling, vol. III, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1982, p. 193. Vedi anche Jacques Soustelle, The Daily Life of the Aztecs: On the Eve of the Spanish Conquest, Macmillan, New York 1962, pp. 98-99 (ed. orig., La vie quotidienne des Aztèques, Paris 1959; trad. it. di P. Argan, La vita quotidiana degli aztechi, Il Saggiatore, Milano 1965).
88. Joseph de Maistre, The Saint Petersburg Dialogues, in The Work of Joseph de Maistre, a c. di Jack Lively, Macmillan, New York 1965, p. 253 (ed. orig., Les soirées de Saint-Pétersbourg, ou Entretiens sur le gouvernement temporal de la Providence, 1821; trad. it. di L. Fenoglio e A. Rosso Cattabiani, a cura di A. Cattabiani, Le serate di Pietroburgo, o Colloqui sul governo temporale della Provvidenza, Rusconi, Milano 1971).
89. Su questi e altri problemi affini, vedi Hyam Maccoby, The sacred Executioner: Human Sacrifice and the Legacy of Guilt, Thames & Hudson, New York 1982; Norman O. Brown, Closing Time, Random House, New York 1973, pp. 35 ss.; Walter Burkert, Homo Necans: The Anthropology of Ancient Greek Sacrificial Ritual and Myth, University of California Press, Berkeley 1984; è la recensione di Robert Parker, in «Times Literary Supplement», 15 giugno 1984, p. 654.
90. Glaser, Roots [54], p. 79.
91. McRandle, Track of the Wolf [79], p. 135; Eliade, Shamanism [69], p. 99.
92. Nietzsche, Umano, troppo umano, cit. in Gray, Tradition [12], p. 23 (trad. it. di S. Giametta, in Opere di F. Nietzsche, ed it. diretta da G. Colli e M. Montinari, vol. IV, tomi II e III, Adelphi Edizioni, Milano 1965). Vedi Hans Kohn, The Mind of Germany, Charles Scribner, New York 1960, pp. 217-221.
93. Nietzsche, The Will to Power, a cura di Walter Kaufman, Vintage, New York 1968, p. 29.
94. Ibid., p. 135.
95. Il caso Wagner, in Walter Kaufman, ed., Basic Writings of Nietzsche, Modern Library, New York 1968, p. 775 (trad. it. di F. Masini, in Opere di F. Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, vol. VI, tomo III, Adelphi Edizioni, Milano 1970).
96. Nietzsche, Will [93], p. 224.
97. David P. Boder, Nazi Science, in Twentieth Century Psychology, a c. di Philip Lawrence Harriman, Philosophical Library, New York 1946, pp. 11-22.
98. Geoffrey Cocks, Psychotherapy in the Third Reich: The Göring Institute, Oxford University Press, New York 1985, pp. 127-135.
99. Rosenberg, cit. in Hanson, Nazi Aesthetics [8], p. 274.
100. Robert Jay Lifton, Protean Man, «Archives of General Psychiatry», 24 (1971), pp. 298-304; Lifton, Broken Connection [4], pp. 29, 129, 296-297, 393-394; Lifton, Boundaries: Psychological Man in Revolution, Vintage, New York 1971 (1970).
101. Sulla comunità mistica, vedi Glaser, Roots [54], p. 97; Tal, «Political Faith» [38]; McRandle, Track of the Wolf [79], pp. 136-137.
102. Vedi Albert Speer, Inside the Third Reich: Memoirs, Macmillan, New York 1970, pp. 444-460.
103. Cecil, Myth [9], p. 94.
104. Bernward J. Gottlieb e Alexander Berg, Das Antlitz des Germanischen Ärztes in vier Jahrzehnten, Rembrandt-Verlag, Berlin 1942, p. 3.
105. Vedi Lifton, Broken Connection [4], pp. 340-341; Lifton e Richard Falk, Indefensible Weapons: The Political and Psychological Case Against Nuclearism, Basic Books, New York, 1982.
106. George Santayana, cit. in Pinson, Germany [22], p. 4 nota.
107. Susan Sontag, Disease as Political Metaphor, «New York Review of Books», 23 febbraio 1978, pp. 29-35.
108. Un giovane turco attivista, cit. in Kuper, Genocide [2], p. 91.
109. Eric Wolf, cit. in Kuper, Genocide [2], p. 40.
110. Dadrian, Turkish Physicians [19].
111. Avery Weisman e Thomas Hackett, Predilection to Death: Death and Dying as a Psychiatric Problem, «Psychosomatic Medicine», 33 (1961).
112. Rolf Hochhuth, A German Love Story, Little, Brown, Boston 1980 (1978), pp. 157-160.
113. Beyerchen, Scientists [41], pp. 79-167; Cocks, Psychotherapy [98], pp. 127-135.
114. Karl Stern, The Pillar of Fire, Harcourt, Brace, New York 1951, p. 153.
115. Otto Weininger, Sesso e carattere. Una ricerca di base, trad. it. di G. Fenoglio, interamente riveduta e corretta da F. Maccabruni, Feltrinelli/Bocca, Milano 1978, pp. 328-329; vedi cap. 8 (ed. orig., Sex und Charakter. Eine prinzipelle Untersuchung, Wilhelm Braumüller, Wien-Leipzig 1903).
116. Benno Müller-Hill, Tödliche Wissenschaft: Die Aussonderung von Juden, Zigeunern und Geisteskranken 1933-1945, Rowohlt, Reinbek b. Hamburg 1983, p. 90.
117. Boder, Nazi Science [97], pp. 13-22.
118. Walter Schellenberg, The Labyrinth: Memoirs, Harper, New York 1956, p. 170.
119. Himmler, cit. in Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz, Europaverlag, Wien 1974, p. 320.
120. Sull’alcol e l’ottundimento psichico, vedi Langbein, Menschen [119], pp. 337-338.
121. Hilberg, Destruction [65], p. 629.
122. Speer, Inside [102], pp. 212, 524.
123. Jeffrey Herf, Reactionary Modernism: Technology, Culture, and Politics in Weimar and the Third Reich, Cambridge University Press, Cambridge, England 1984, p. 71; Klaus Theweleit, Männerphantasien, 2 voll., Rowohlt, Reinbek b. Hamburg 1980 (1977).
124. William Barrett, The Illusion of Technique: A Search for Meaning in a Technological Civilization, Anchor Press, New York 1978, p. XIV. Vedi anche Jacques Ellul, The Technological Society, Alfred A. Knopf, New York 1964, e The Technological System, Continuum, New York 1980.
125. Robert Jay Lifton, Home from the War: Vietnam Veterans, Neither Victims Nor Executioners, Basic Books, New York 1984 (1973), p. 349.
126. Lifton, Broken Connection [4], pp. 369-387; Lifton e Falk, Indefensible Weapons [105].
127. Per una critica elegante di questi atteggiamenti – dall’interno, per così dire – da parte di tre membri dei Computer Professionals for Social Responsibility, vedi Reid Simmons, Karen Solomon e Dan Carnese, Peril of «Intelligent» Weapons, «Boston Globe», 29 luglio 1984, p. 39.
128. Barrett, Illusion [124], p. 8.
129. Herf, Modernism [123], pp. 71-72.
130. Max Weber, cit. in Martin Green, The von Richthofen Sisters: The Triumphant and the Tragic Modes of Love, Basic Books, New York 1974, p. 152.
131. Irving L. Janis, Group Think: A Psychological Study of Foreign-Policy Decisions and Fiascos, Houghton Mifflin, Boston 1972.
132. Raul Hilberg, Confronting the Moral Implications of the Holocaust, «Social Education», 42 (1978), pp. 272-276; Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, ed. riv. e definitiva, Holmes & Meier, New York 1985, vol. III, pp. 407-416.
133. Alan Rosenberg, The Genocidal Universe: A Framework for Understanding the Holocaust, «European Judaism», 13 (1979), pp. 29-34.
134. Vedi Lifton, Broken Connection [4], p. 38.
135. Michael Basch, The Concept of «Self» in Developmental Approaches to the Self, a cura di Benjamin Lee e Gil Noam, Plenum Press, New York 1983, pp. 7-58, specialmente p. 52.
136. Theodore W. Adorno et al., The Authoritarian Personality, Harper, New York 1952 (trad. it. di V. Gilardoni Jones, La personalità autoritaria, 2 voll., Comunità, Milano 1973). David C. McClelland fa l’osservazione che la sottomissione relativamente grande della Germania all’autorità deriva da «un eccesso dell’accento virtuoso sull’autodisciplina in vista del bene comune» (The United States and Germany: A Comparative study of National Character, in McClelland, The Roots of Consciousness, Van Nostrand, Princeton 1964, pp. 62-92).
137. Harold Orlans, An American Death Camp, «Politics», 5 (1948), pp. 162-167.
138. Elias Canetti, Crowds and Power, Viking, New York 1962, p. 443, vedi pp. 227-230.
139. Lifton, Protean Man [100]; Lifton, Broken Comuction [4]; Lifton, Boundaries [100].
140. Barrett, Illusion [124], pp. 101-106.
1. Erik H. Erikson, Evolutionary and Developmental Considerations, in The Long Darkness: Psychological and Moral Perspectives on Nuclear Winter, a cura di Lester Grinspoon, Yale University Press, New Haven, di prossima pubblicazione.
2. Michael Franz Basch, Empathetic Understanding: A Review of the Concept and Some Theoretical Considerations, «Journal of the American Psychoanalytic Association», 31 (1983), pp. 101-126; e comunicazione personale.
3. Loren Eiseley, Man, the Lethal Factor, manoscritto inedito.
Il mio debito maggiore è quello con i sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti, molti dei quali ho avuto modo di intervistare, anche se qui ne nomino solo alcuni. Sono loro a portare dentro di sé le terribili verità con cui noi tutti dobbiamo fare i conti, e il loro contributo alla mia ricerca, e alla mia vita, è stato inestimabile.
Sono particolarmente grato a Leo Eitinger, che non si risparmiò fatiche e disagi nell’insegnarmi tutto il possibile su Auschwitz e su molte altre cose; a Raul Hilberg, per i costanti consigli, informazioni e punti di vista, oltre che per una lettura attenta e competente del manoscritto, quale ben pochi autori hanno il privilegio di ricevere; e a Elie Wiesel, per il forte sostegno e i saggi consigli che mi largì nel corso di tutto il mio lavoro.
Per preziose discussioni e varie forme di aiuto, con incontri negli Stati Uniti e in varie parti del mondo: Erwin H. Ackerknecht, Leo Alexander (che mise a mia disposizione molti dei suoi primi materiali), Ammon Amir (che mi mandò la sua tesi sull’«eutanasia» nazista), Rudolph Binion (che mi permise di accedere ai suoi materiali di ricerca), Vahakn N. Dadrian (che mi fornì scritti e informazioni sul genocidio degli armeni in Turchia), Lucy Dawidowicz, Peter Demetz, Karl Deutsch, Richard Falk, Leslie Farber, Erich Goldhagen, Michael H. Kater, Robert M.W. Kempner, Heinz Kohut, Ruth Lidz, Theodore Lidz, Franklin H. Littell, Peter Loewenberg, James M. McHaney (che mi fornì materiali dal Processo di Norimberga ai medici), Margaret Mead, Alexander Mitscherlich (che mi comunicò tutto ciò che poté sulla sua importante prima denuncia dei crimini dei medici nazisti), Marguerite Mitscherlich, George Mosse, Fritz Redlich, Fritz Stern, Albert J. Stunkard, Uriel Tal, Telford Taylor, Lionel Tiger e Henry Turner.
Fra i membri del gruppo di psicostoria Wellfleet con cui ho condiviso molta parte della ricerca ci sono Norman Birnbaum, Margaret Brenman-Gibson, Peter Brooks, Harvey Cox, Erik Erikson (che nel corso del nostro dialogo durato trent’anni mi dischiuse nuove dimensioni), Kai Erikson, Robert Holt, Gerald Holton, Hillel Levine, John E. Mack, Charles Strozier, Francis Winters e Danie Yankelovich.
In Germania, Horst von Glasenapp mi fornì importanti materiali e mi largì molte altre forme di aiuto nella fase della ricerca. Paul Matussek mi diede un aiuto determinante nel fissare incontri con i medici ex nazisti e mi procurò un incarico alla Forschungsstelle für Psychopathologie und Psychotherapie alla Max-Planck-Gesellschaft di Monaco di Baviera, da lui diretta. Fritz Friedmann mi fornì una straordinaria ospitalità intellettuale e personale all’Amerika-Institut all’Università di Monaco, da lui allora diretto. Fra le altre persone che mi aiutarono in Gemania ci sono: Walter Ritter von Baeyer, Wanda von Baeyer, Martin Broszat, Helmut Coper, Otto Creutzfeldt, Peter Durr, Elisabeth Fetscher, lring Fetscher, Lothar Gruchmann, Werner Jochmann, Jürgen Habermas, Helmut Handzik, Horst W. Hartwich, Walter Huder, Uwe Henrik Peters, Adalbert Rückerl, Wolfgang Scheffler, Gerhardt Schmidt, Helm P. Stierlin, Satu Stierlin, George Tabori e Carl S. von Weizsäcker.
In Israele: Yehuda Bauer, Shamai Davidson, Sidra Ezrahi, Yaron Ezrahi, Saul Friedländer, Yisrael Gutman, Hillel Klein, Lilli Kopecky, Erich Kulka e Jacob Lorch.
In Polonia: Adam Szymusik, preside del Dipartimento di Psichiatria dell’Accademia di Medicina di Cracovia, mi accolse nel suo dipartimento e mi aiutò in ogni modo. Fra gli altri che mi furono d’aiuto in Polonia sono: Jósef Bogusz, Stanisław Klodzińsky e Maria Orwid.
In Austria mi aiutò molto Friedrich Hacker, direttore dell’Institut für Konfliktforschung di Vienna. Fra gli altri che desidero ricordare in questo paese sono: Alois Hauer (unico per essere stato un ex medico nazista che aiutò il movimento clandestino antinazista in un lager in Norvegia), Friedrich Heer, Rolf Hochhuth, Edith Kramer, Hermann Langbein (che mi fornì molte informazioni e mi presentò a molte persone), Ella Lingens-Reiner, Harald Leupold-Löwenthal, Erich Stern, Josef Toch e Simon Wiesenthal.
In Inghilterra: H.D. Adler, Normann Cohn, Gerald Fleming, John Fox, Albert Friedländer, James Poll, Peter Reddaway, Gitta Sereny e Robert Wistrich.
In Francia: Roger Errera, Arthur Hartman, Donna Hartman, Adelaide Hautval, Socrate Helman, Serge Klarsfeld, Samuel Pisar, Léon Poliakov, Yves Ternon e Georges Wellers.
In Olanda: Jan Bastiaans, Elie Cohen, Louis de Jong ed Eduard de Wind.
In Australia: Ena Hronsky e Issy Pilowsky.
In Italia: Robert A. Graham.
In Svizzera: Erwin Leiser (che proiettò pellicole naziste per me).
Aiuti straordinari nella ricerca di materiali mi sono stati forniti, nel corso dei lunghi anni nei quali si estese questo studio, in parti diverse del mondo e in relazione alle molte fasi del lavoro, dalle seguenti persone, meravigliose nella loro dedizione: Henry Abramovitz, Janet Beizer, Johannes Borger, Andrzej Branny, Christiane Clemm, Rudolph Dolzer, Brigitte Fleischmann, Amy Hackett, Anne Halliwell, Lisa Kaufman, Erich Kramer, Waltraut Lehmann, Annegrette Lösch, Robert Luchs, Rosalyn Manowitz, Eric Markusen, Randi Morrau Markusen, Noel Mathews, Micheline Nilsen, William Patch, Cathrin Pichler, Jean Rainwater, Susannah Rubenstein, Solange Salem, Matthias K. Scheer, Gunther Sommerfeld, Kitty Weinberger, Steven Wolfe e Katharina Zimmer.
Ho ricevuto una preziosa assistenza da molte biblioteche e archivi. Negli Stati Uniti: le biblioteche della Yale University e della Columbia University, la New York Public Library nella 42a Strada e la biblioteca della Academy of Medicine, sempre di New York; l’YIVO Institute for Jewish Research (bibliotecaria Dina Abramowicz), gli archivi del Jewish Labor Bund (Hillel Kempinski) e i National Archives (Robert Wolfe). In Germania: l’Institut für Zeitgeschichte a Monaco di Baviera; la Ludwigsburg Zentralstelle der Landesjustizverwaltungen; e il Centro Documenti di Berlino (Diana K. Kendall e Daniel P. Simon). In Austria: il Dokumentationszentrum des Widerstandes a Vienna (direttore Erwin Steiner). In Israele: il Centro ricerche sull’Olocausto Yad Vashem (Yitzhat Arad, Livia Rothkirchen, Hadassah Modlinger e Danuta Dabrowska); e l’Istituto di documentazione per l’investigazione sui crimini di guerra nazisti di Haifa (direttore Tuvia Friedman). In Polonia: il Comitato principale per l’investigazione sui crimini di guerra nazisti in Polonia (direttore Czeslaw Pilichowski); e il Museo di Auschwitz (che mi fornì preziosi documenti originali di Auschwitz: Kasamierz Smolén, direttore, e Tadeusz Iwaszko). A Londra: la Wiener Library (Gita Johnson).
Lily B. Finn, mia assistente a Yale per ventidue anni, fece molto per coordinare i vari filoni della ricerca e poi batté a macchina l’intero manoscritto e si occupò delle successive correzioni e modifiche con l’aiuto di un word processor. Lucy M. Silva, la mia nuova assistente al John Jay College della City University, si prodigò moltissimo per consentirmi di completare il lavoro.
John J. Simon fece la prima telefonata che mise in moto l’intero progetto, e il dialogo con lui fu molto importante nelle prime fasi della ricerca. Jane Isay, con rara acutezza e generosità, si occupò della revisione redazionale del manoscritto e contribuì a fargli prendere forma. Jo Ann Miller mi fornì utili consigli editoriali e tanto lei quanto Martin Kessler resero possibile lo straordinario sostegno all’impresa da parte della Basic Books. Phoebe Hoss fornì la successiva cura redazionale al manoscritto, dimostrando ricchezza di immaginazione e meticolosità. Linda Carbone guidò con sensibilità il libro nelle varie fasi della sua preparazione.
Questo studio non è stato facile per la mia famiglia. Mia moglie, Betty Jean Lifton, ha faticato su di esso non meno di me, ha fornito equilibrio con la sua ricerca su un medico buono, Janusz Korczak, infondendomi di continuo le necessarie combinazioni di amore e coraggio. I nostri figli, Natasha e Kennet Jay, hanno sopportato la sofferenza del progetto, chiarendomi però al tempo stesso che ne capivano la necessità e il significato.
Questo lavoro fu reso possibile grazie all’assistenza e a una borsa di studio del National Endowment for the Humanities, integrata da altri finanziamenti da parte della Humanities Division della Rockefeller Foundation, della New-Land Foundation, del Foundation’s Fund for Research in Psychiatry, della John Simon Guggenheim Memorial Foundation, della Josiah Macy Jr. Foundation, della Holocaust Survivors Memorial Foundation e del May W. Wise Philanthropic Fund.
Desidero ringraziare anche le fonti seguenti per avere autorizzato la riproduzione di brani:
Amnon Amir, Euthanasia in Nazi Germany, Dissertazione di laurea, State University of New York at Albany, 1977.
Geoffrey Cocks, Psyche und Swastika: «Neue deutsche Seelenheilkunde»
1935-1945, Dissertazione di laurea, University of California at Los Angeles, 1975.
Vahakn N. Dadrian, The Role of Turkish Physicians in the World War I Genocide of Ottoman Armenians, «Holocaust and Genocide Studies», I, n. 2 (settembre 1986).
Loren Eiseley, Man, the Lethal Factor (manoscritto inedito).
John H. Hanson, Psycho-historical Perspectives on the European Avantgarde (manoscritto inedito).
Loet van Duin (pseud.), The Other Side of the Moon: The Life of a Young Physician from Holland in Auschwitz (manoscritto inedito).
Theodore H. von Laue, Adolf Hitler: Expressionist and Counter revolutionary (manoscritto inedito).
Theodore Roethke, In a Dark Time, da The Collected Poems of Theodore Roethke, © 1960 by Beatrice Roethke come curatrice del lascito di Theodore Roethke. Con l’autorizzazione della Doubleday & Company, Inc.
Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz, Europaverlag, Wien 1972 (trad. it. di D. Ambroset, Uomini ad Auschwitz, Mursia, Milano 1984).
Rudolf Höss, Commandant of Auschwitz, The Autobiography of Rudolf Hoess, World, Cleveland 1959. Con l’autorizzazione della George Weydenfeld & Nicholson, Ltd.
Philippe Aziz, Doctors of Death, Ferni Publishers, Geneva 1976.
Olga Lengyel, Five Chimneys: The Story of Auschwitz, Ziff-Davis, Chicago 1947.
Ernst Klee, «Euthanasie» im NS-Staat: Die Vernichtung lebensunwerten Lebens, S. Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1983. Con l’autorizzazione dello S. Fisher Verlag.
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I medici nazisti
di Robert Jay Lifton
Proprietà letteraria riservata
© 1986 by Robert Jay Lifton
Published by arrangement with Basic Books Inc. New York, USA
© 1988 RCS Rizzoli Libri S.p.A., Milano
© 2002 RCS Libri S.p.A., Milano
© 2016 BUR Rizzoli / RCS Libri S.p.A., Milano
Titolo originale dell’opera: The Nazi Doctors
Traduzione di Libero Sosio
Realizzazione editoriale Netphilo, Milano
Pubblicato per Rizzoli da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788831805087
COPERTINA || MEDICO NAZISTA DURANTE UNA VISITA 1937 © SCHERL / SÜDDEUTSCHE ZEITUNG PHOTO / AGF FOTO | ART DIRECTOR: FRANCESCA LEONESCHI | PROGETTO GRAFICO: EMILIO IGNOZZA / THEWORLDOFDOT